Secondo una dichiarazione del segretario di Stato Blinken, l’alleanza tra i due Paesi “non deve solo rafforzare gli strumenti” in suo possesso, “ma anche svilupparne di nuovi” nell’ambito della difesa
Il dialogo “due più due” tra Stati Uniti e Giappone che si è svolto ieri, ovvero il vertice a quattro tra i rispettivi Ministri di Esteri e Difesa, ha prodotto tre risultati.
Risolvere i contrasti
Innanzitutto, c’è un accordo quinquennale sulla ripartizione delle spese per la presenza militare americana in territorio giapponese: è la più numerosa tra quelle nel mondo, all’incirca 55mila truppe con tanto di contingente navale.
L’intesa va a chiudere la disputa aperta dalla precedente amministrazione di Donald Trump, che guardava ai rapporti tra Washington e gli alleati in termini economicisti, finendo col creare crepe nei rapporti e nella fiducia. Il Governo di Joe Biden, al contrario, vuole recuperare e rinsaldare quelle partnership: nei primi mesi dell’anno scorso aveva già risolto la contesa con la Corea del Sud sui costi di mantenimento dei soldati statunitensi.
Sviluppare strumenti nuovi
Il secondo risultato dell’incontro è ben introdotto da una dichiarazione di Antony Blinken, il segretario di Stato americano, secondo cui l’alleanza tra Stati Uniti e Giappone “non deve solo rafforzare gli strumenti” in suo possesso, “ma anche svilupparne di nuovi”.
E infatti si è detto che le parti collaboreranno a più stretto contatto sulla ricerca e lo sviluppo di tecnologie per la difesa, e in particolare di sistemi per il contrasto delle armi ipersoniche: sono missili velocissimi e ad alta manovrabilità, che viaggiano per l’atmosfera e sono capaci di superare la contraerea moderna. Gli Stati Uniti, la Cina e la Russia, e pare anche la Corea del Nord, se ne stanno dotando. Tokyo, preoccupata per l’assertività di Pechino e per i test di Pyongyang, vuole allora migliorare le proprie capacità di difesa e ha approvato un bilancio record per il comparto. Il paese sta lavorando allo sviluppo di un cannone a rotaia elettromagnetico (railgun), un’arma capace di sparare proiettili a grandi velocità, per colpire i missili ipersonici.
Estremamente significativo è l’accordo di cooperazione sulla difesa che Giappone e Australia hanno siglato giovedì: si chiama RAA, o Accordo di accesso reciproco, e punta all’interoperabilità tra i due eserciti. È il primo patto di questo tipo mai firmato da Tokyo con una nazione diversa dall’America. Ed è la manifestazione concreta dei timori – ormai diffusi, nella regione dell’Indo-Pacifico – per l’ascesa della Cina: Tokyo e Canberra vogliono tenerla a bada attraverso delle partnership militari che tengono conto, ma superano, i legami commerciali con Pechino. L’aspetto economico rimane presente nei calcoli dei governi giapponese e australiano, ma la competizione strategica con la Repubblica popolare, e le critiche alle sue azioni, sembra essere diventata la questione dominante. Lo si è visto anche con l’accordo AUKUS.
Agire per Taiwan
Il terzo e ultimo risultato del vertice riguarda Taiwan, il Paese che la Cina considera parte del suo territorio e che vorrebbe portare sotto il suo controllo. Come gli Stati Uniti, anche il Giappone non riconosce ufficialmente Taipei ma Pechino, socio commerciale più voluminoso. Nonostante questo, negli ultimi mesi Tokyo ha iniziato a tenere una postura filo-taiwanese più marcata: a fine novembre Shinzo Abe, e Primo Ministro ancora influente, disse per esempio che giapponesi e americani non dovrebbero restare inerti davanti a un attacco cinese contro Taiwan.
Di recente l’agenzia di stampa Kyodo News ha scritto che le forze armate di Washington e Tokyo hanno elaborato un piano per un’operazione congiunta in caso di emergenza a Taipei. Tutti gli elementi fanno pensare a un allineamento sempre maggiore tra Giappone e Stati Uniti. Anche perché la sopravvivenza di Taiwan si lega strettamente all’interesse nazionale del Sol Levante: oltre all’affinità sistematica (i due paesi sono delle democrazie), ci sono questioni energetiche (mantenere libere le rotte di navigazione del gas) e di sovranità. Se cioè la Cina dovesse decidere, un giorno, di modificare lo status quo e prendersi Taiwan con la forza, potrebbe in seguito fare con lo stesso con le isole Senkaku, giapponesi ma rivendicate da Pechino.