Intervista a John Carlin: da Trump a Brexit in era Covid
Come hanno gestito la pandemia i Governi? La Scozia uscirà dal Regno Unito? Con la Brexit perdono tutti? Continuerà il trumpismo senza Trump? Come gestiremo la prossima pandemia?
Come hanno gestito la pandemia i Governi? La Scozia uscirà dal Regno Unito? Con la Brexit perdono tutti? Continuerà il trumpismo senza Trump? Come gestiremo la prossima pandemia?
John Carlin è un giornalista e scritttore. Già corrispondente e collaboratore di diverse testate internazionali – tra cui The New York Times, The Independent, The Times, El País – è autore del libro “Playing the Enemy”(2008), da cui nel 2009 fu tratto il film “Invictus”, diretto da Clint Eastwood e interpretato da Morgan Freeman. Nato a Londra nel 1956, dove ha trascorso appena un quarto della propria vita, rivendica di essere britannico: “Mio padre era scozzese, mia madre spagnola. Ma il mio migliore amico in Argentina, che è uno psicoanalista, dice che io sono per il 50% britannico, per il 50% spagnolo e per il 50% argentino, perché ho vissuto a Buenos Aires tra i 3 e i 10 anni e poi vi sono tornato una volta finita l’università”. Due fasi molto importanti nella crescita di una persona, una permanenza molto formativa anche “perché capitai nel mezzo della dittatura militare e dopo avere vissuto una vita comoda e distante dai grandi drammi politici, d’improvviso mi trovai immischiato in questo paese, che sotto la dittatura era un luogo molto sinistro, molto più del Sudafrica dell’apartheid, e lì cominciai a lavorare nel giornalismo”. Ha vissuto in Sudafrica dall’89 al ’95, “il periodo più interessante che ho attraversato come giornalista, e per una volta con un finale felice”. Da un anno vive a Barcellona; per un periodo, prima di andare a Londra, ha vissuto a Sitges, la cittadina capitale del modernismo catalano sulla Costa Dorada, dove ha una casa e un appartamento “per la vecchiaia”. Di Maradona, all’indomani della sua morte, ha scritto su La Vanguardia che era “larger than life”, più grande della vita stessa.
Che ne pensa dell’accordo raggiunto sul Brexit?
Quello che mi sfugge è cosa ci guadagnino i britannici. Tutto questo putiferio per quattro anni e mezzo per ritrovarsi in una condizione peggiore da un punto di vista economico e commerciale. Perdono libertà di movimento, a me dà molta tristezza la situazione dei giovani britannici che non votarono per il Brexit e non avranno la possibilità che io ho avuto in tutta la mia vita come britannico, di vivere, studiare, lavorare in qualunque luogo dell’Europa. Per vincere poi cosa? Un’idea mitica di sovranità, di recupero del controllo, tutto piuttosto assurdo in un mondo globalizzato. Il Regno Unito ne esce complessivamente indebolito: fuori dall’Unione Europea è meno forte, meno influente.
Che pensa quando Boris Johnson dice: “Abbiamo recuperato il controllo del nostro destino”?
Gli inglesi non hanno una propria gastronomia, mangiano cibo di altre cucine seduti su mobili svedesi, guardano serie straniere su televisori coreani o giapponesi, vedono il calcio dove gli idoli sono spagnoli, francesi, tedeschi, italiani, guidano macchine tedesche o francesi, fuggono ogni anno dal loro Paese per andare in Spagna o in Italia, sognano di avere una casa in Toscana. Sono così, ma cosa li definisce? La sfiducia verso gli stranieri, molti di loro disprezzano gli altri europei perché pensano che sono dei codardi, che solo i britannici furono i salvatori nella Seconda guerra mondiale e faticano ad accettare che il tempo dell’impero è finito. È su questo sentimento che Johnson ha fatto leva per vincere il referendum del 2016 e fa ora uscire il Regno Unito dall’Unione europea. Con il Brexit tutti perdono, con l’accordo l’Unione europea è riuscita a limitare il danno che quest’uscita le provoca.
L’epoca di Trump volge al termine, che ne pensa di come sta gestendo la sua uscita?
Trump si sta convertendo in un personaggio da surrealismo magico di Gabriel García Marquez, mi ricorda “L’autunno del patriarca”, il dittatore solo asserragliato nel palazzo con orde di gente fuori a gridargli di andarsene e lui chiuso lì dentro, sempre più pazzo, con un gruppo di fedelissimi ogni volta più ridotto. Trump è una persona con un ego molto grande ma molto fragile, che non sopporta l’idea di perdere, di essere un loser.
L’ha mai preoccupata sul serio l’insistenza di Trump sulla frode elettorale?
Non mi ha sorpreso l’attitudine di Trump, peraltro aveva già avvisato in campagna elettorale che se avesse perso avrebbe messo in questione i risultati. Il fatto è che lui va sempre oltre… Recentemente incontrai negli Stati Uniti un congressista democratico che mi disse: “Con Trump ti aspetti ogni volta qualcosa di male e ti dà sempre qualcosa che è ancora peggio”. Trump ha chiesto molto danaro ai suoi fan ultimamente, ha accumulato 140 milioni di dollari così. Fino a un po’ di tempo fa m’inviava delle mail chiedendomi soldi, perché compilai un modulo per partecipare a un suo meeting e deve avere pensato che fossi uno dei suoi accoliti: mi arrivavano cinque, sei messaggi al giorno suoi, dicendomi “John, I need you”, come se fossimo amici, colleghi, “È tuo dovere di patriota darmi del denaro, John”. Diceva che questo denaro gli serviva per pagare le cause nei tribunali contro il risultato elettorale, ma magari lo stava conservando tutto per affrontare le sue cause personali di frode fiscale.
Ma lei confidava nel sistema democratico americano?
Il sistema ha retto perché Trump può dire tutte le bugie che vuole sulle reti sociali, ma poi quando la questione arriva ai tribunali s’impone la verità. Il sistema democratico suppone sempre un minimo di onore da parte dei politici e il momento democratico più importante è quando si perdono le elezioni, si ammette la sconfitta e si cede il potere e questo non è avvenuto. Ma il sistema ha tenuto e Biden ha risposto molto bene, con serenità, seguendo le regole e scegliendo la sua squadra.
Cos’è il trumpismo senza Trump?
Il trumpismo continuerà, come il peronismo senza Perón. Il trumpismo è il culto di una personalità, perché la cosa più inquietante di queste elezioni è che il messaggio di Trump in campagna elettorale era solo “Vota per me, perché altrimenti verranno i comunisti, i socialisti al potere”. Il trumpismo è Trump, è assolutamente autoreferenziale e Trump è un demagogo che fa appello ai risentimenti di un settore importante della popolazione, incarnandoli, contro le elite. Qualcosa che era presente già prima e che Trump ha fatto emergere. Trump ha una capacità di empatia nulla, ma allo stesso tempo entra in connessione con una parte importante dell’America. Il risentimento è un’emozione molto potente negli individui e nelle collettività, una sensazione di umiliazione capace di trasformarsi in molta energia. Questa gente che vota per Trump si sente emarginata, disprezzata dall’élite rappresentata da Barack Obama e Hillary Clinton. Negli ultimi cinquanta anni ci sono stati ovunque cambiamenti straordinari per quanto riguarda i diritti di cittadinanza e c’è un settore della popolazione americana che vota democratico sentendosi a proprio agio con tutto questo; un’altra parte invece non si sente comoda, è gente molto conservatrice, puritana, con grande presenza di evangelici. I populisti identificano una paura, la fanno emergere, lievitare e poi ti dicono “Io ti salverò da tutto questo”.
Il voto latino si è diviso su Trump.
Negli Stati Uniti c’è la tendenza a parlare del voto latino, del voto delle donne, del voto dei neri, ma non funziona così. Si è creduto, nella élite democratica, che quanta più popolazione ispanica votante ci fosse negli Stati Uniti tanto meglio sarebbe stato per il partito democratico, ma non necessariamente è così. Il voto latino non è un blocco omogeneo, dipende in che parte del paese si consideri: in Florida il voto latino è molto di destra per il tema cubano e quello venezolano, perché lì ci sono gli esiliati di questi paesi. Sembra che la maggioranza dei messicani abbia votato per Biden, ma pensare che da qui a quattro, otto anni gli americani di origine messicana voteranno sempre democratico è un errore, non è così facile incasellare le persone.
Quanto è intervenuto Trump nei Paesi del Sudamerica?
A Trump non importa nulla dell’America Latina, come non gli importa del resto del mondo. L’ironia è che sarebbe più possibile un intervento militare in qualche parte del mondo con Biden che con Trump. Allo stesso tempo, Biden capisce bene il Sudamerica, ebbe un ruolo importante nel processo di pace in Colombia, per esempio. In un certo qual modo, per quei paesi del Sudamerica che vogliono essere lasciati in pace dagli Stati Uniti forse Trump è un’opzione migliore. Quelli invece che vogliono che gli Stati Uniti giochino un ruolo interventista nell’area, nel senso buono del termine, sono contenti della vittoria di Biden.
Quanto si somigliano Boris Johson e Donald Trump?
Poco, si somigliano poco, hanno entrambi una capigliatura bionda e vistosa, ma per il resto sono molto differenti. Johnson è una persona molto intelligente e colta, ha scritto vari libri, ha un dominio del latino, conosce il greco antico. È vero che non ha molti principi, non penso che personalmente credesse nella Brexit, piuttosto che la utilizzò come strumento per arrivare al potere e diventare Primo Ministro, ma ci sono molti politici nel mondo senza principi saldi… E Johnson non è un pazzo, non manca del tutto di empatia, Trump è un narcisista malato. Johnson non arriverebbe mai a un punto d’irresponsabilità di perdere le elezioni e dire che non le ha perdute. Come persona, come politico, ma anche come democratico è ingiusto confrontare Johnson con Trump e io ho scritto peste e corna di Johnson, non sono un suo estimatore.
Lei che conosce la Scozia e vive a Barcellona: che differenza c’è tra l’indipendentismo scozzese e quello catalano?
La differenza più importante è il contesto politico di Spagna e Regno Unito. Il movimento indipendentista scozzese sta acquisendo molta forza, tutti i sondaggi lo danno avanti rispetto all’unionismo. Il prezzo di quello che Johnson celebra come “il giorno in cui recuperiamo il controllo”, aumenta la possibilità che il Regno Unito si converta in un Paese ancora più piccolo fuori dalla Ue, perché le possibilità che la Scozia si indipendentizzi sono cresciute molto. Questo è dovuto a diversi fattori: Boris Johnson è uno di questi e quello più importante è la Brexit, il fatto che li obblighino a uscire dall’Unione europea quando gli scozzesi votarono in maggioranza per rimanervi. Nella politica britannica si dà per scontato che se lo Scottish National Party vince le prossime elezioni di maggio in Scozia, prima o poi ci sarà un referendum. Perché se l’aspirazione maggioritaria degli scozzesi è celebrare un referendum, la democrazia esige che si faccia. Questa è la grande differenza tra i due Paesi. Inoltre, la Catalogna soffre una perdita netta di risorse economiche rispetto al resto della Spagna, la Scozia dipende invece molto di più dal danaro che viene da Londra. È una differenza importante questa ed è il principale argomento degli scozzesi che vogliono rimanere dentro la Gran Bretagna, che dicono “col Brexit perderemo economicamente, ma forse perderemmo di più separandoci dall’Inghilterra”.
Prima si parlava della paura, quanto incide la paura nella pandemia? La politica utilizza questa paura?
La paura incide molto, perciò prendiamo le misure che prendiamo, perché abbiamo paura della morte. Si potrebbe anche dire però che la politica stia rispondendo alla paura della gente, prendendo le misure che considera adeguate per provare a mitigarla.
Come hanno gestito la pandemia i Governi?
Credo che ci sia stata una sproporzione nella risposta, si è data priorità alla battaglia contro il virus senza tenere conto di altri elementi della vita e altri fattori di rischio della salute. Ma detto questo, simpatizzo abbastanza con i governi a cui è toccato gestirla, è qualcosa di assolutamente nuovo, la scienza si muove ancora in modo confuso, hanno fatto quello che hanno potuto. Supponiamo però di superare questo virus entro la prossima estate e che poi ne venga un altro, un anno dopo. Lo gestiremo nello stesso modo? Spero di no, spero che si trovi la maniera di tener conto dell’economia, dei giovani, delle altre malattie. Spero perciò che si trovi un sistema più equilibrato che non subordini tutto, assolutamente tutto, alla missione di sconfiggere questo particolare virus.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio 2021 di eastwest.
John Carlin è un giornalista e scritttore. Già corrispondente e collaboratore di diverse testate internazionali – tra cui The New York Times, The Independent, The Times, El País – è autore del libro “Playing the Enemy”(2008), da cui nel 2009 fu tratto il film “Invictus”, diretto da Clint Eastwood e interpretato da Morgan Freeman. Nato a Londra nel 1956, dove ha trascorso appena un quarto della propria vita, rivendica di essere britannico: “Mio padre era scozzese, mia madre spagnola. Ma il mio migliore amico in Argentina, che è uno psicoanalista, dice che io sono per il 50% britannico, per il 50% spagnolo e per il 50% argentino, perché ho vissuto a Buenos Aires tra i 3 e i 10 anni e poi vi sono tornato una volta finita l’università”. Due fasi molto importanti nella crescita di una persona, una permanenza molto formativa anche “perché capitai nel mezzo della dittatura militare e dopo avere vissuto una vita comoda e distante dai grandi drammi politici, d’improvviso mi trovai immischiato in questo paese, che sotto la dittatura era un luogo molto sinistro, molto più del Sudafrica dell’apartheid, e lì cominciai a lavorare nel giornalismo”. Ha vissuto in Sudafrica dall’89 al ’95, “il periodo più interessante che ho attraversato come giornalista, e per una volta con un finale felice”. Da un anno vive a Barcellona; per un periodo, prima di andare a Londra, ha vissuto a Sitges, la cittadina capitale del modernismo catalano sulla Costa Dorada, dove ha una casa e un appartamento “per la vecchiaia”. Di Maradona, all’indomani della sua morte, ha scritto su La Vanguardia che era “larger than life”, più grande della vita stessa.
Che ne pensa dell’accordo raggiunto sul Brexit?
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