La Nuova Zelanda si tiene stretta la Cina, senza lasciare i Five Eyes
Dopo le recenti parole sul gruppo Five Eyes, la Ministra neozelandese ha specificato di volere una relazione più matura con la Cina, pur con le divergenze sui valori democratici e sui diritti umani
Dopo le recenti parole sul gruppo Five Eyes, la Ministra neozelandese ha specificato di volere una relazione più matura con la Cina, pur con le divergenze sui valori democratici e sui diritti umani
La Ministra degli Esteri neozelandese Nanaia Mahuta durante un’intervista a Wellington, Nuova Zelanda, 15 dicembre 2020. REUTERS/Jonathon Molloy
Per capire la geopolitica delle nazioni bisogna guardare al quadro generale, non alle singole dichiarazioni dei politici. Che possono sì essere rilevanti o addirittura avvisaglie di grandi cambiamenti, ma più spesso risultano esercizi di equilibrismo retorico. Qualunque sia il caso, ogni frase va sempre contestualizzata: il rischio, altrimenti, è inseguire l’affermazione d’impatto – quella cioè che lascia immaginare la “svolta” strategica, quasi mai esistente – e perdere di vista la realtà.
Questa cattiva pratica di analisi – estrapolare una frase dal contesto più ampio e utilizzarla per ricostruzioni golose ma traballanti – emerge spesso in quegli scenari effettivamente complessi da riassumere, come quello asiatico-oceanico.
Cosa ha detto la Nuova Zelanda sui Five Eyes, e perché
Di recente alcune parole pronunciate dalla Ministra degli Esteri della Nuova Zelanda, Nanaia Mahuta, hanno fatto ipotizzare un presunto smarcamento del Paese rispetto agli alleati di riferimento. Mahuta ha detto infatti che Wellington non condivide l’espansione dei Five Eyes – l’alleanza di intelligence che include anche Australia, Canada, Regno Unito e Stati Uniti – in ambiti diversi da quello di immediata competenza: la condivisione di intelligence, appunto. I membri dei Five Eyes in realtà hanno iniziato a discutere anche di collaborazione sulle tecnologie critiche, sulle filiere, sulla gestione della pandemia e sulla situazione ad Hong Kong; quello che Mahuta voleva dire è che si oppone alla trasformazione dell’alleanza in un’organizzazione anticinese.
A smentire immediatamente chi parlava di rottura, Mahuta stessa è tornata sulle sue parole per spiegare che considera i Five Eyes una “partnership vitale di sicurezza e di intelligence”, di cui la Nuova Zelanda fa parte e continuerà a farlo, ma anche che ci sono alcuni temi – “i diritti umani, per esempio” – che Wellington preferisce affrontare in altre sedi.
Il motivo di questa distinzione di competenze è che la Nuova Zelanda vuole evitare di inimicarsi la Cina, suo primo socio commerciale, che guarda con sempre meno favore ai Five Eyes.
Differenze “più difficili da conciliare”
Lo scorso 3 maggio la Prima Ministra della Nuova Zelanda, Jacinda Ardern, ha tenuto un discorso significativo per i rapporti tra Wellington e Pechino. Riferendosi alla repressione della minoranzauigura nella regione dello Xinjiang, Arden ha detto che “a mano a mano che il ruolo della Cina nel mondo cresce e cambia, le differenze tra i nostri sistemi – e gli interessi e i valori che modellano tali sistemi – stanno diventando più difficili da conciliare”.
La Nuova Zelanda è una democrazia, la Cina uno Stato a partito unico che considera i diritti umani una questione interna e non internazionale. La Cina è una potenza economica e autoritaria in ascesa, con la quale tutti gli altri sono chiamati a confrontarsi; a cominciare dalla Nuova Zelanda, che ne è commercialmente dipendente.
Ancora più significativa è stata la scelta del Parlamento neozelandese di condannare le “gravi violazioni dei diritti umani” commessi dalle autorità cinesi contro gli uiguri, senza usare però la parola “genocidio” come fatto da America, Regno Unito e Canada. La parola più importante, insomma, è quella che non è stata detta. E non tanto per rispetto del significato, ma perché Wellington sa bene che il termine – dato il peso morale che porta con sé – avrebbe fatto precipitare le relazioni con Pechino, riproponendo la parabola australiana. Dalla Cina hanno comunque protestato e criticato l’ingerenza, ma la reazione è stata appunto limitata.
Tirare le somme
Prima di tirare le somme, è utile sottolineare un’ultima dichiarazione della Ministra Nanaia Mahuta, rilasciata ieri. La Nuova Zelanda, ha detto, vuole una relazione più matura con la Cina che – come tutti i lunghi rapporti di convivenza – lasci degli spazi per le divergenze: cioè sui valori democratici, sui diritti umani.
Per concludere, la politica della Nuova Zelanda verso la Cina può sembrare confusionaria e contraddittoria. In realtà, Wellington declina un concetto comune in Asia e nel Pacifico: il bilanciamento tra i rapporti commerciali con Pechino e la necessità di rispondere a una potenza assertiva dentro e fuori i propri confini, che non solo flette i muscoli ma agisce concretamente. Lo fanno anche – ciascuna a suo modo – l’Australia, il Giappone e le Filippine, ad esempio.
La Nuova Zelanda non lascerà dunque i Five Eyes perché ne ha bisogno e perché l’Australia e gli Stati Uniti sono suoi alleati. Allo stesso tempo, non troncherà i legami economici con la Cina perché il mercato cinese assorbe il 30% delle sue esportazioni. Wellington cerca insomma di mettere insieme le due cose senza dover scegliere l’una o l’altra parte: obiettivo non facile, ma non è la sola a perseguirlo nella regione.
Storicamente la Nuova Zelanda ha avuto rapporti molto buoni con la Cina. Ma il confronto con il decennio scorso può non sempre essere d’aiuto a capire l’oggi, considerato quanto è cresciuta e cambiata Pechino negli ultimi anni.
Dopo le recenti parole sul gruppo Five Eyes, la Ministra neozelandese ha specificato di volere una relazione più matura con la Cina, pur con le divergenze sui valori democratici e sui diritti umani
Per capire la geopolitica delle nazioni bisogna guardare al quadro generale, non alle singole dichiarazioni dei politici. Che possono sì essere rilevanti o addirittura avvisaglie di grandi cambiamenti, ma più spesso risultano esercizi di equilibrismo retorico. Qualunque sia il caso, ogni frase va sempre contestualizzata: il rischio, altrimenti, è inseguire l’affermazione d’impatto – quella cioè che lascia immaginare la “svolta” strategica, quasi mai esistente – e perdere di vista la realtà.
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