Inviato di guerra e defense correspondent, dagli anni Novanta a oggi segue i conflitti nelle aree di crisi di mezzo mondo: Medio Oriente, Afghanistan, Maghreb, Balcani, Africa subsahariana, Europa dell’est.
I pirati nei mari contemporanei
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Non si vedono rampini d’abbordaggio, ma elicotteri da trasporto di commandos in colori mimetici. Niente uncini, gambe di legno o bende sull’occhio, ma kalashnikov e sistemi di comunicazione satellitare. Il video curatissimo che gli Houthi hanno diffuso nel novembre scorso mostra l’attacco con cui nel mar Rosso i miliziani di Ansar Allah hanno assalito e sequestrato la nave Galaxy Leader, proprietà di una compagnia britannica controllata dal magnate israeliano Abraham Ungar. Ed è stata una sveglia per il pubblico occidentale, in gran parte abbagliato dalle immagini cinematografiche di Johnny Depp e dal pensiero di bandiere nere con teschio e tibie, convinto cioè che la pirateria fosse ormai folklore, confinata al passato e del tutto superata grazie alle tecnologie.
In realtà, scrive l’analista greco Alexandros Sainidis, il fenomeno della pirateria si è sviluppato con il capitalismo e la globalizzazione. Quando si parla di economia capitalistica, il pensiero va subito al processo produttivo, ma la distribuzione dei beni è altrettanto importante. Nel caso delle rotte commerciali marittime, strutturalmente è molto più difficile per gli Stati esercitare la propria potenza in mare, per la sua vastità e la mobilità delle navi. Anche per questo motivo, nel passato i pirati venivano utilizzati dagli Stati anche per protezione, incursioni e saccheggi, come corsari o come mercenari.
Se l’attacco alle navi da trasporto era già una pratica diffusa ai tempi delle polis greche e poi dell’impero romano, l’età dell’oro per la pirateria – quella di personaggi leggendari come Henry Morgan, capitan Kidd ed Edward Teach detto Barbanera – corrisponde all’alba del capitalismo, poco prima della Rivoluzione industriale, nel momento di massimo fulgore dell’impero britannico e quindi con un gran numero di navi commerciali in circolazione, possibili obiettivi. Già nel 17esimo secolo c’era chi pagava i riscatti per gli equipaggi sequestrati, una forma di “garanzia” che avrebbe poi lasciato spazio alle compagnie di assicurazione. L’evolversi delle tecnologie accelerò il processo di globalizzazione, rendendo le distanze meno significative. E le potenze navali riuscirono a soffocare la pirateria, etichettando i pirati come “nemici del genere umano”.
Oggi negli scenari mondiali il ruolo degli attori non statuali è diventato più importante, anche per la disponibilità diffusa di armi leggere. La molla è sempre quella delle disuguaglianze sociali, con la povertà che strangola popoli interi. Sugule Ali, un somalo che nel 2008 partecipò al sequestro della nave ucraina Faina, impegnata nel traffico d’armi in zona di guerra, chiarì al New York Times: “Vogliamo solo denaro per scampare alla fame. Se il mondo smetterà di rubare i nostri beni e di farci del male, lasceremo la pirateria e torneremo al nostro lavoro”.
Come quattro secoli fa, il rischio legato all’attività piratesca è ben remunerato. I pirati somali fermati nei mesi scorsi dalla marina del Puntland si erano appena spartiti il riscatto per la nave MV Abdullah del Bangladesh, catturata assieme all’equipaggio: le compagnie di assicurazione avevano pagato cinque milioni di dollari in contanti.
Secondo una stima della Banca mondiale, fra il 2005 e il 2012 i pirati del Corno d’Africa hanno ottenuto fra i 339 e i 413 milioni di dollari in riscatti per gli equipaggi sequestrati. Insomma, i pirati capitalizzano sulle vie commerciali con l’uso della forza e non sono uno “sgradito residuo della Storia”. Si chiede l’analista greco: sgradito a chi? Alle grandi potenze navali e commerciali, e non “al genere umano” nella sua totalità. Va oltre Isaac Kamola, studioso del Trinity College di Hartford, che propone di guardare ai pirati non come fenomeno marginale dell’economia e problema di sicurezza globale, ma come capitalisti impegnati in quella che Marx chiamava “accumulazione originaria”.
Sainidis invita a valutare gli interessi perseguiti dai pirati e dai gruppi che attaccano le navi. E’ il caso appunto degli Houthi che per interrompere le incursioni chiedono il cessate il fuoco a Gaza e la fine del blocco di Israele sull’enclave palestinese. I miliziani hanno dichiarato di voler restituire la Galaxy Leader quando Hamas lo deciderà e hanno trasferito al gruppo palestinese l’equipaggio catturato, possibile pedina di scambio. L’analista raccomanda scetticismo verso le reali motivazioni dei Paesi che si mobilitano nelle zone dove operano i pirati. Secondo le stime di Oceans Beyond Piracy, già prima degli ultimi sviluppi le missioni militari di protezione del trasporto al largo della Somalia costavano due miliardi di dollari l’anno. In altre parole: in ballo c’è senz’altro il principio della libertà di navigazione, ma è legittimo ipotizzare anche intenzioni ben più prosaiche di egemonia e controllo.
Il sospetto viene anche da notizie dall’apparenza innocua: l’ultima vede la Marina statunitense testare al largo dell’Africa occidentale “per aiutare le nazioni della zona impegnate a combattere la pirateria” il Triton della Ocean Aero, un drone che può navigare in superficie o in immersione, con compiti di sorveglianza e sminamento. Secondo il contrammiraglio Michael Mattis, direttore strategico al comando USA per Europa e Africa, è l’ideale per Paesi con risorse limitate come Ghana, Gabon e Camerun. Più che il sostegno ai governi locali, la proposta sembra volta a consolidare la presenza americana nella zona. Proprio da queste parti il colpo di Stato in Niger ha costretto il Pentagono a sgomberare in fretta la base aeronautica 201 di Agadez, costata 110 milioni di dollari e costruita appena cinque anni fa, un gigantesco hub dei droni a disposizione del comando Africom. Il golpe nigerino ha privato i comandi statunitensi del punto di riferimento sul territorio, tanto che per i test del drone marino è stata impegnata una base mobile di spedizione, la nave USS Herschel “Woody” Williams.
Ma quest’anno il golfo di Guinea appare relativamente tranquillo, rispetto all’Oceano Indiano. La cartina degli assalti di pirati pubblicata dal Piracy Reporting Centre per la prima parte del 2024 segnala un affollamento di episodi al largo del golfo di Aden, in prevalenza attribuiti a gruppi armati non politicizzati. L’aumento degli abbordaggi in alto mare è legato al divergere dell’attenzione internazionale verso gli attacchi di Ansar Allah, nel mar Rosso ma a volte anche nelle acque di Aden. Secondo Raj Mohabeer, funzionario della Commissione per l’Oceano Indiano, gli attacchi Houthi hanno creato un vuoto di sicurezza nell’area, di fatto incoraggiando i gruppi dei pirati. La gran parte delle azioni di Ansar Allah non viene considerata pirateria secondo la Convenzione Onu per la legge del mare, perché non coinvolge imbarcazioni o aerei, ma viene condotta con mezzi navali a pilotaggio remoto, droni e missili. In più, lo scopo delle azioni è politico e non di guadagno diretto.
L’offensiva dei miliziani, sostenuti, armati e addestrati dall’Iran, non appare destinata a finire in tempi rapidi. Secondo funzionari del gruppo yemenita, la Repubblica islamica avrebbe fornito al gruppo armato anche missili ipersonici, capaci di mettere in difficoltà ogni sistema di difesa. I portavoce Houthi parlano di ordigni che raggiungono Mach 8, cioè otto volte la velocità del suono, ma Teheran ha mostrato già missili come il “Fattah”, capace secondo i costruttori di volare a Mach 15. Per non lasciar dubbi, Abdul Malik al-Houthi, leader di Ansar Allah, ha sottolineato che i suoi combattenti “continuano ad espandere l’efficacia e la portata delle operazioni in aree e luoghi che il nemico non si aspetta”. Il capo degli Houthi ha aggiunto che i suoi miliziani avrebbero impedito alle navi “collegate a Israele anche di attraversare l’Oceano Indiano dirigendosi verso il Capo di Buona Speranza”.
Che la crisi del mar Rosso per ora non veda vie d’uscita a breve termine è convinzione diffusa. Secondo un sondaggio proposto dal sito The International Intrigue, il 57% degli intervistati crede che l’accesso in sicurezza alla rotta di Suez non è vicino: ci vorranno mesi perché siano abbandonate le nuove rotte che non utilizzano il canale, con due settimane di navigazione in più e costi molto più elevati. Meno di un intervistato su tre crede che per tornare al percorso breve basterà il ritiro di Israele da Gaza, appena nove su cento confidano nella prospettiva che gli Houthi siano superati con la forza militare. L’unico a nutrire ottimismo è il generale Alexus Grynkewich, del comando aeronautico USA, secondo cui la frequenza degli attacchi alle navi è diminuita perché i miliziani yemeniti stanno esaurendo rapidamente le riserve di missili e droni. Una parziale smentita è arrivata pochi giorni dopo dal comandante della missione Ue Aspides, il contrammiraglio Vasilios Gryparis, che vuole aumentare la presenza navale europea nel mar Rosso, oggi limitata a quattro fregate fra cui una italiana (la Fasan, con la Martinengo ancora impegnata nell’operazione Atalanta contro i pirati somali).
Ma se si considera che due decenni di presenza internazionale sono riusciti solo in parte a tenere sotto controllo la pirateria somala, sembra difficile che basti uno schieramento navale più robusto per fermare gli Houthi, a meno di voler innescare rischiose escalation con l’Iran, sponsor degli yemeniti. Tanto più quando alla base dell’offensiva non ci sono solo progetti di guadagno, ma motivazioni ideologiche e religiose, con un forte sostegno diffuso nel mondo islamico.
Erdoğan ha vinto, i Turchi no
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L’Occidente, la Nato, l’Unione europea aspettavano di poter tirare un sospiro di sollievo per l’auspicato tramonto di un alleato ingombrante e riottoso come Recep Tayyip Erdoğan, considerato poco disponibile al gioco di squadra e persino imbarazzante nella sua disinvoltura verso le regole della vita democratica come sono intese nell’accezione più diffusa. Ma l’elettorato turco, evidentemente, aveva una visione molto diversa. Per valutare i risultati elettorali in Turchia, insomma, vale la sintesi impietosa firmata da due commentatori di Foreign Policy: la speranza non è analisi.
Il voto presidenziale ha affidato a Erdoğan un altro mandato di altri cinque anni, estendendo così il suo ventennio al potere. Gli ostacoli che sembravano aver messo in discussione il dominio dell’“uomo forte” si sono dimostrati meno significativi dei suoi punti di forza. E molti analisti vedono un elemento decisivo proprio nell’attesa occidentale di un ricambio, troppo esplicita per la sensibilità nazionale dell’elettorato turco.
L’anti-Erdoğan e gli altri candidati
Il candidato dell’opposizione, Kemal Kiliçdaroğlu, non era partito in modo molto convincente e aveva faticato a unire l’opposizione. Il suo stesso partito repubblicano popolare CHP, di centro sinistra, aveva dovuto ricorrere alle primarie per individuare una candidatura, a riprova che il suo nome non incontrava adeguato consenso nemmeno fra i compagni. E perplessità erano arrivate anche all’interno della Alleanza della Nazione, il cartello elettorale formato nel 2018 dal CHP, il Buon Partito IYIP (destra), il Partito Democratico e il Partito della Felicità, per rimuovere Erdoğan.
Proprio sul nome di Kiliçdaroğlu il leader del Buon Partito, Meral Akşener, aveva brevemente abbandonato la coalizione tre mesi prima del voto, sottolineando che c’erano altri possibili candidati. Akşener aveva indicato come esempio i nomi di Ekrem Imamoğlu, sindaco di Istanbul, e di Mansur Yavaş, primo cittadino di Ankara, entrambi del CHP, ma più giovani del 75enne Kiliçdaroğlu e più popolari secondo i sondaggi. In particolare Imamoğlu sembrava avere buone possibilità, ma alla fine il suo nome era stato messo da parte, per timore di un intervento giudiziale. Nel dicembre 2022 Imamoğlu era stato condannato a due anni, sette mesi e 15 giorni di carcere, oltre all’interdizione da cariche politiche, per avere definito “folli” i componenti del Consiglio elettorale supremo. La sentenza era stata sospesa in attesa di una decisione della Corte di Cassazione.
Con un consenso incompleto, la candidatura di Kiliçdaroğlu è sembrata a molti una forzatura. Quello che una parte della stampa internazionale aveva soprannominato “il Gandhi turco” ha dimostrato che alla somiglianza fisica per lo statista indiano non si affiancava altrettanta capacità politica. Il leader repubblicano si è presentato agli elettori più in chiave negativa – cioè come l’anti-Erdoğan – che come alfiere di proposte significative. Su di lui potrebbe aver pesato anche il favore dell’Occidente. Se gli Usa avevano visto con favore il declino dell’“uomo forte”, l’amministrazione Biden ha comunque fatto il possibile per non indicare in modo troppo esplicito le sue preferenze, temendo che una benedizione americana avrebbe avuto un effetto negativo per Kiliçdaroğlu. In altre parole, anche oltre Atlantico era chiaro che nelle scelte dell’elettorato turco un elemento fondamentale è sempre stato il fortissimo senso di identità, tema fra i prediletti da Erdoğan in ogni momento di crisi.
E la carta del nazionalismo in Turchia si è rivelata ancora una volta la più preziosa, soprattutto perché il Presidente in carica da un ventennio l’ha giocata assieme all’uso spregiudicato della posizione dominante e al controllo quasi totale dei mezzi di comunicazione. Dopo che negli anni scorsi Erdoğan aveva messo a tacere le voci più aggressive dell’opposizione, spesso lanciando in maniera disinvolta accuse di complicità con il terrorismo ai giornalisti meno condiscendenti, in campagna elettorale la strada è stata facile. Al primo round di voto la tv nazionale TRT ha dato alla campagna di Kiliçdaroğlu meno di 35 minuti di copertura, mentre le attività del Presidente hanno potuto godere di attenzione per oltre 32 ore. In un contesto così sbilanciato, per il candidato dell’opposizione era difficile controbattere alle insinuazioni, più o meno esplicite, su una posizione troppo morbida se non addirittura di una complicità con il PKK, il partito curdo dei lavoratori che Ankara considera organizzazione terrorista.
“Continua nel cammino con l’uomo giusto”
Ma se la formazione del consenso è stata viziata, è facile comunque vedere nei fatti che il consenso c’era. Apparentemente lo slogan “Continua nel cammino con l’uomo giusto” ha convinto una larga fetta della popolazione. Chi si aspettava un giudizio severo da parte delle regioni maggiormente colpite dal terremoto del 6 febbraio, che aveva causato oltre cinquantamila vittime in Turchia, è rimasto deluso. Nonostante i ritardi nelle operazioni di soccorso e di assistenza, la popolazione coinvolta sembra aver reagito con fatalismo, e qualche osservatore ha persino rilevato che le responsabilità dei costruttori privati apparivano più gravi di quelle governative.
Più ancora che le misure populiste varate da Erdoğan poco prima del voto, compreso l’aumento degli stipendi per i dipendenti pubblici, a far irrobustire il consenso sono stati probabilmente gli appelli all’orgoglio nazionale, i richiami all’identità, e l’eterna allusione all’“assedio” delle culture straniere, che nella visione più nazionalista vogliono imporre una corruzione dei valori tradizionali islamici attraverso le immissioni della “decadente” cultura LGBT o l’influenza dell’imperialismo Usa. Va ricordato che i militanti del partito conservatore per la giustizia e lo sviluppo AKP, seguaci di Erdoğan, continuano a considerare gli Stati Uniti corresponsabili per il tentato golpe del 15 luglio 2016, in complicità con l’ex alleato e oggi arcinemico di Erdoğan, il predicatore Fehtullah Gülen, in passato considerato “molto sostenuto” dall’allora segretario di Stato Hillary Clinton.
L’efficacia del richiamo nazionalista era talmente evidente che persino Kemal Kiliçdaroğlu ha cercato di rivolgersi all’elettorato più sensibile sul tema con un’inattesa svolta nella sua campagna elettorale. In maggio, a pochi giorni dal secondo voto, il candidato dell’opposizione ha puntato il dito contro il Presidente accusandolo di avere permesso l’arrivo di dieci milioni di “migranti illegali”, promettendo che se fosse stato eletto avrebbe provveduto a espellerli. Si riferiva in modo poco generoso ai profughi della Siria, gonfiando in modo disinvolto le stime sulla presenza dei rifugiati in Turchia, che secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite sono 3,9 milioni. Ma nemmeno l’approccio xenofobo ha favorito Kiliçdaroğlu.
La mediazione nel conflitto russo-ucraino e la Nato
La conferma di Erdoğan potrebbe essere una buona notizia per chi confida nella capacità di mediazione di Ankara nel conflitto fra Russia e Ucraina. Il Presidente turco ha condiviso solo in parte lo schieramento deciso della Nato accanto a Kiev e nei mesi prima dell’appuntamento elettorale ha comunque coltivato i rapporti con Mosca, al punto che Vladimir Putin aveva persino proposto di affidare alla Turchia il compito di costruire un hub per la distribuzione del gas in Europa. Apparentemente l’offerta non è mai stata ritirata, e nei fatti il Cremlino sembra non dare troppa importanza alla robusta fornitura di droni che l’industria militare turca garantisce all’Ucraina.
Restano i problemi per la Nato. L’atteggiamento di chiusura di Erdoğan verso l’allargamento dell’Alleanza a Finlandia e Svezia era in buona misura strumentale, serviva cioè a confermare un’immagine nazionalista per scopi elettorali. Ma già prima del voto il Presidente turco aveva dato via libera all’accesso di Helsinki, e al vertice di Vilnius dell’11-12 luglio la svolta è diventata ufficiale. A sbloccare la procedura per l’ammissione della Svezia hanno sicuramente contribuito le nuove leggi antiterrorismo introdotte di recente dal governo di Stoccolma, e potrebbe essere servita anche la visita ad Ankara di Jens Stoltenberg subito dopo la conferma di Erdoğan.
Nei fatti il risultato del voto turco ha di fatto imposto a tutti un approccio più “morbido”: il governo di Ankara ha accolto con favore le novità legislative svedesi, e il Premier di Stoccolma Ulf Kristersson subito dopo il ballottaggio ha scritto a Erdoğan sottolineando l’importanza di una collaborazione “nel rispetto delle comuni esigenze di sicurezza”. Anche Joe Biden ha telefonato al collega turco dopo il voto per congratularsi, approfittandone per ricordare l’urgenza dell’allargamento atlantico e collegando le esigenze della Nato con la richiesta turca per una fornitura di 40 cacciabombardieri F-16 di ultima generazione e di altrettanti kit di aggiornamento per gli aerei già in possesso di Ankara.
Secondo gli analisti, Erdoğan dopo il voto ha preteso una sorta di resa dei conti con alleati e amici. Non è ancora ben chiaro se il Presidente turco abbia ottenuto da Biden l’impegno ad abbandonare ogni collegamento con le Unità di protezione popolare YPG, le milizie curde che Ankara considera l’ala siriana del PKK, e su Washington ha fatto affidamento per la lotta allo Stato islamico. E non ci sono dichiarazioni ufficiali su un possibile via libera della Svezia all’estradizione di militanti curdi espatriati negli anni ’80 e ’90, su cui pendono pesanti condanne. Ma il fattore decisivo per il “sì” di Erdoğan è stato senz’altro l’impegno svedese a sostenere la riapertura del processo per accogliere la Turchia nell’Unione europea.
Ancora una volta la scommessa nazionalista ha pagato, sia pure portando la Turchia sull’orlo di una crisi con l’Alleanza. Erdoğan può presentarsi alla popolazione turca con risultati concreti, in termini di lotta contro il separatismo curdo e di progresso nel percorso verso l’Unione europea, senza compromessi legislativi. Ma il richiamo patriottico, che ha conquistato gli elettori, ha comunque poca efficacia verso i mercati. Già dal 2021 Erdoğan e i suoi tecnici avevano adottato una politica “poco ortodossa” di diminuzione dei tassi di interesse, con l’intenzione dichiarata di favorire lo sviluppo, inseguendo un modello “alternativo” rispetto a quello capitalista. Questa politica, unita agli effetti perversi della pandemia da Covid-19, ha fatto aumentare l’inflazione in modo inarrestabile.
L’inflazione
La banca centrale turca ha provato a fermare il crollo della moneta, facendo il massimo sforzo prima del voto. Ma una volta esaurita l’ultima manovra possibile – quando l’istituto ha attinto con abbondanza alle riserve di valuta straniera per difendere la lira – adesso la valuta turca appare sempre più debole. Se nel 2018 un dollaro valeva 4,5 lire, oggi la moneta americana si cambia a 25 lire, e gli esperti prevedono un cambio a 28 lire in tempi rapidi. E se il tasso di interesse ufficiale viaggia attorno all’8,5%, le banche arrivano a chiedere per un prestito il 60%, strangolando ogni speranza di crescita economica e spingendo le famiglie a creare riserve occulte in valuta straniera.
Subito dopo la conferma alla presidenza, Erdogan ha cercato di fermare la tendenza inflazionistica nominando ministro delle Finanze Mehmet Şimşek, considerato un tecnico “poco interventista”, e dando la guida della banca centrale a Hafize Gaye Erkan, prima donna a ricoprire questa carica, anch’essa preceduta da fama lusinghiera per la sua carriera precedente, nelle banche Usa. In attesa della decisione più attesa, un ritocco verso l’alto dei tassi di interesse, gli esperti avvertono: per vedere i conti invertire la tendenza, ci vorrà almeno un anno e mezzo.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di Luglio/Settembre di eastwest
Turchia: elezioni storiche e ruolo nella Nato
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La Turchia può e vuole ancora stare a pieno titolo nella Nato? Di primo acchito, a una domanda del genere gli analisti dell’Alleanza risponderebbero “sì, senza dubbio”. L’avanguardia militare atlantica in posizione vicina al “ventre molle” della Russia dovrebbe essere talmente preziosa per gli equilibri strategici dell’Occidente da spazzare via ogni critica sulla cultura democratica applicata da Ankara. Ma negli ultimi anni qualcosa è cambiato, e non in modo insignificante. E l’“operazione speciale” lanciata dalla Russia contro l’Ucraina ha messo in rilievo questi cambiamenti in maniera brutale. A fare il punto in questo senso è intervenuto con energia James Stavridis III, ammiraglio a 4 stelle in pensione ma soprattutto ex comandante militare supremo delle forze Nato. Stavridis ha alzato la voce per bacchettare la leadership turca: secondo l’ammiraglio nessuno dovrebbe essere costretto a decidere se avere come alleati Svezia e Finlandia da una parte o Turchia dall’altra. Ma toccherà a Recep Tayyip Erdogan fare in modo che non ci sia bisogno di scegliere.
In un commento scritto per l’agenzia Bloomberg e pubblicato anche dal Washington Post, l’ammiraglio esamina come la Turchia stia assumendo la posizione “controproducente” di ostacolare l’adesione delle nazioni nordiche all’alleanza, vincolando il via libera di Ankara a quello che la leadership turca vede come un “sostegno a gruppi terroristici” della minoranza curda. In particolare, Erdogan vorrebbe strappare a Svezia e Finlandia un accordo per estradare in Turchia almeno 130 curdi ricercati che considera terroristi.
In passato Ankara aveva ottenuto che l’Ue inserisse nella lista delle organizzazioni terroriste il PKK, il partito curdo dei lavoratori. Ma al di là delle indicazioni giuridiche, la valutazione dell’opinione pubblica si è in parte evoluta: in Europa ha suscitato molte perplessità la repressione lanciata da Erdogan sui dissidenti dopo il tentato colpo di Stato del luglio 2016. Dopo quell’episodio Ankara attribuisce con disinvoltura a molte voci critiche l’etichetta di “gülenisti”, cioè seguaci del predicatore ex alleato e oggi arcinemico di Erdogan, Fethullah Gülen, in esilio negli Usa ma considerato l’ispiratore se non il regista del tentato golpe. In più, l’impegno e il sacrificio dei miliziani curdi – compresi quelli del PKK – nella lotta al Califfato hanno suscitato solidarietà per la causa del Kurdistan. E questo, com’è ovvio, ha rinforzato la tradizionale apertura del nord Europa verso i rifugiati politici.
In altre parole, la pressione esercitata da Erdogan su Helsinki e Stoccolma appare all’opinione pubblica europea molto vicina a un ricatto, tanto più se esercitata da un governo che ha usato in modo spregiudicato la disponibilità a frenare le ondate di profughi siriani, facendola pagare salata all’Unione.
Ma adesso l’attenzione degli alleati si è spostata. Come sottolinea Stavridis, “la grande sfida per l’alleanza adesso non è il terrorismo: è l’irresponsabile invasione dell’Ucraina da parte della Russia”. “A un certo punto”, scrive l’ammiraglio, “alcuni membri della Nato inizieranno a chiedersi: se è una scelta tra Svezia/Finlandia e Turchia, forse dovremmo considerare le nostre opzioni”. Porsi questa ipotetica alternativa e dunque prendere in esame l’espulsione di Ankara, argomenta Stavridis, sarebbe un errore: “La Turchia vanta il secondo esercito più grande della Nato, dispone di strutture importanti tra cui la base aerea di Incirlik e ospita il comando alleato di terra a Smirne”.
Insomma, secondo l’ammiraglio la Nato ha sempre bisogno di Ankara. “La Turchia ha sempre fornito truppe, aerei e navi per anni a ogni missione Nato”, ricorda l’alto ufficiale. La sua è un’opinione importante, sia per il suo ruolo passato che per la sua storia personale. James Stavridis, di nazionalità americana, discende da una famiglia greca: suo nonno era stato espulso negli anni ’20 dall’Anatolia durante le operazioni di pulizia etnica per mano turca, fuggendo ad Atene dopo una avventurosa traversata del mar Egeo e poi emigrando negli Usa. L’ammiraglio ha raccontato la sua storia in un’autobiografia, nella quale ha definito “la più stupefacente ironia della Storia” il fatto che lui, in grado di parlare appena qualche parola di greco, sia tornato al comando di un incrociatore da un miliardo di dollari nella stessa città da cui il nonno era fuggito su una zattera tanti anni prima.
Stavridis, insomma, è un osservatore d’eccezione. Ma al di là del suo segnale, più un moderato richiamo a Erdogan che un vero allarme, sono molti gli osservatori che sottolineano i numerosi punti di attrito fra la Turchia e gli alleati. L’atteggiamento di chiusura verso l’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato è stato presentato dal presidente turco con enfasi nazionalista e in toni poco diplomatici. Parlando dei rifugiati politici curdi che vorrebbe fossero estradati in Turchia, Erdogan ha detto, rivolgendosi alla leadership svedese e finlandese: “Se amate così tanto e proteggete membri di organizzazioni terroriste e nemici dell’Islam, allora vi suggeriamo di cercare il loro sostegno per la sicurezza delle vostre nazioni”.
Dell’irritazione suscitata ha approfittato a Stoccolma un politico svedese-danese di estrema destra, Rasmus Paludan, fondatore del partito danese Stram Kurs (Linea dura), che il 21 gennaio ha dato alle fiamme una copia del Corano davanti alla rappresentanza diplomatica turca. L’episodio ha suscitato rabbia ad Ankara, anche perché l’ambasciata aveva chiesto alle autorità svedesi di vietare la riunione davanti alla sede. La settimana prima, durante una manifestazione di esuli curdi, un’immagine di Erdogan era stata simbolicamente impiccata. La dinamica dei fatti mostra ancora parecchie ombre e anzi suscita sospetti, se è vero come scrive la stampa svedese che il permesso per la manifestazione di Paludan era stato pagato da un giornalista della tv russa RT.
Nel marzo scorso il governo turco ha lasciato capire che la Finlandia “ha fatto passi concreti” per soddisfare le richieste di Ankara dando un via libera definitivo per la sua adesione alla NATO. Ma restano i problemi con la Svezia. Opinione diffusa è che Erdogan terrà duro con il veto almeno fino alle elezioni, previste il 14 maggio. Dopo il terremoto che ha stravolto parte del territorio turco, (con oltre 40.000 morti, più altri 5.000 oltre il confine siriano), il governo di Ankara sembrava propenso a utilizzare lo stato di emergenza dichiarato per tre mesi nelle regioni colpite dal sisma come pretesto per rinviare la consultazione elettorale. Poi però lo stesso Erdogan ha confermato che la consultazione si terrà alla scadenza prevista.
Analisti politici occidentali rilevano che in questo momento il Presidente non sembra favorito, perché la popolazione gli attribuisce pesanti responsabilità nei problemi economici del Paese e adesso anche nella scala di devastazione provocata dal terremoto, visto che – dice l’opposizione – in 20 anni di governo il partito della Giustizia e dello Sviluppo AKP non ha fatto nulla per mettere in sicurezza gli edifici delle zone ad alto rischio e adesso addirittura è accusato di rallentare i soccorsi gestiti dal partito a maggioranza curda. Per ora un segnale significativo della scarsa popolarità di Erdogan viene dall’unione dei partiti di opposizione, in via di accordo per formare un cartello dietro la candidatura di Kemal Kilicdaroglu, leader del partito repubblicano CHP. I critici sostengono che senza il rinvio del voto, per l’“uomo forte” della Turchia sarà difficile mantenere la guida del Paese.
Il declino in patria si affianca dunque alla crisi con la Nato. Le tensioni fra Ankara e Bruxelles non nascono con il braccio di ferro su Svezia e Finlandia. Negli anni scorsi Erdogan ha suscitato irritazione nei Paesi alleati per la scarsa flessibilità dimostrata in altri dossier, primo fra tutti quello delle forniture militari. In particolare i rapporti con gli Usa sono precipitati nel 2017 a un livello di crisi mai raggiunto prima, perché la Turchia ha voluto acquistare i sistemi antiaerei di produzione russa S-400. Per tutta risposta l’amministrazione Trump ha deciso di espellere l’alleato dal programma del cacciabombardiere F-35 Joint Strike Fighter. Gli esperti di aviazione sottolineano che i sistemi missilistici russi devono essere impiegati, almeno all’inizio, con l’aiuto di specialisti inviati da Mosca. Questo permetterebbe alla Russia di accumulare informazioni delicate sull’aereo, in particolare sul suo sistema Stealth che ne permette il volo con una traccia radar minima.
Espellere la Turchia dal programma F-35 è costato agli Usa mezzo miliardo di dollari. Il governo di Ankara ne doveva comprare 100 esemplari, e i primi sono già stati prodotti, ma il Senato Usa ne ha bloccato la consegna con un emendamento al decreto sugli interventi esteri. Questa mossa ha bloccato anche la produzione di alcune parti appaltate dalla Lockheed Martin a partner turchi, e la perdita – stavolta per Ankara – ha superato il mezzo miliardo di dollari. Erdogan ha dapprima minacciato di acquistare i cacciabombardieri di quinta generazione proprio dalla Russia, poi ha fatto buon viso a cattivo gioco, proponendo all’amministrazione Biden di ammodernare la sua flotta di caccia F-16 e comprarne altri 40 esemplari. Il piano non è piaciuto alla Grecia: Atene ha fatto pressioni sui parlamentari Usa perché fermino questo affare e allo stesso tempo si è fatta avanti per acquistare un primo lotto di F-35 per la propria aeronautica.
In pieno entusiasmo nazionalista, Ankara ha fatto poco anche per assicurarsi la simpatia dei partner europei, che hanno guardato con molto sospetto le dichiarazioni legate alla “patria blu”, ovvero le rivendicazioni turche su spazi del Mediterraneo orientale che la Convenzione Onu sulla legge del mare (mai ratificata dalla Turchia) attribuisce ad altri Paesi.
Dopo le polemiche sulla condotta ambigua di Ankara verso i volontari sunniti che attraversavano il territorio turco per arruolarsi nello Stato islamico, anche l’invasione del Rojava, entità autonoma fondata dai curdi all’interno dei confini siriani, sembra essere stata poco gradita negli Usa, costretti a evacuare il piccolo contingente che avevano nella zona. Il periodo di gelo è arrivato al punto massimo quando, secondo notizie mai confermate ufficialmente, il Pentagono ha deciso di ritirare dalla base aerea di Incirlik le testate nucleari.
Erdogan ha ottenuto un parziale recupero della tradizionale amicizia con gli Usa grazie alla decisione di fornire droni armati all’Ucraina, ma allo stesso tempo cerca apertamente un ruolo di mediazione nel conflitto grazie ai rapporti con il Cremlino. Questi sono tornati a essere buoni dopo la crisi del 2015, provocata dall’abbattimento di un caccia russo Su-24 che aveva violato lo spazio aereo turco mentre era impegnato in operazioni sulla Siria. È vero che Ankara e Mosca sono schierate su fazioni avverse in Libia, ma la strategia di Putin sembra quella di approfittare delle incomprensioni in sede Nato per allargare la spaccatura fra Ankara e gli alleati.
Il presidente russo ha voluto riconoscere il ruolo di mediazione gestito dal governo di Erdogan ed è arrivato a suggerire che proprio la Turchia diventi un centro di smistamento globale per il commercio del gas sul mercato europeo. Secondo la stampa turca Putin ha anche accettato di posporre al 2024 il pagamento di 20 miliardi di dollari dovuti da Ankara per le forniture di gas. I legami fra i due Paesi sono consolidati anche dalla cooperazione nel campo dell’energia nucleare: secondo il Bollettino degli scienziati atomici, il primo reattore della Turchia, nell’impianto di Akkuyu, riceverà il suo combustibile questo maggio. Le quattro unità del reattore dovrebbero essere operative entro il 2026, di fatto rendendo Ankara del tutto dipendente da Mosca in tema di energia.
Gli analisti economici segnalano poi che molte aziende occidentali hanno individuato nel Paese mediterraneo la “tappa intermedia” necessaria per superare le sanzioni imposte alla Russia e continuare a vendere i loro prodotti. Ne è segno evidente l’aumento del 50% del commercio fra i due Paesi nel 2022. Il meccanismo è semplice: le corporation hanno venduto le loro catene di distribuzione ai partner e ai manager russi e stanno procedendo a esportare le merci prima in Turchia, per farle poi arrivare oltre confine e scavalcare l’embargo. La disinvoltura sul tema è piaciuta così poco oltre Atlantico che gli Usa hanno minacciato nuove misure, ma stavolta contro le aziende di Ankara.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di aprile/giugno di eastwest