Ex Ambasciatore d’Italia a Baghdad. Ex Inviato speciale per il Medio Oriente e la Siria.
Israele: quando omertà e passività non aiutano a capire
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Alcune reazioni dei massimi vertici dell’Ue all’ennesima recrudescenza di violenza tra israeliani e palestinesi offrono lo spunto per una riflessione più ampia su questo rinnovato conflitto e portano, purtroppo, ad alcune conclusioni amare sulla loro capacità di ispirare e di leadership.
Il 12 maggio, l’Alto Rappresentante per la politica estera, Josep Borrell, ha emesso una dichiarazione di quelle standard che l’Ue emette in questi casi, attenta e calibrata nell’uso delle parole e nell’esprimere preoccupazione per la violenza, intenta a non urtare le forti suscettibilità dei contendenti e a far sentire un forte appello per la cessazione delle ostilità. Nella dichiarazione non manca, comprensibilmente, la condanna nei confronti di Hamas e del suo uso indiscriminato di missili lanciati verso Israele. Dall’Ue, tuttavia, era lecito aspettarsi qualcosa di più. E questo è puntualmente avvenuto con un ulteriore comunicato, assai più articolato, che Borrell ha diramato il 15 Maggio.
Tuttavia, questo non è riuscito a dissipare il disappunto generato il giorno precedente dalla Presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, che aveva pensato bene di affidare a Twitter la seguente dichiarazione: “Très inquiète de la situation en Israël et à Gaza. Je condamne les attaques indiscriminées du Hamas contre Israël. Il faut protéger les civils de part et d’autre. La violence doit cesser”. Essa esprime inquietudine per la situazione in Israele e a Gaza, condanna gli attacchi indiscriminati di Hamas contro Israele e afferma la necessità di proteggere i civili da ambo le parti e che la violenza cessi. Il dramma è che non osa dire altro.
La dichiarazione della von der Leyen manca di ogni riferimento al contesto che accompagna questi drammatici eventi e di un minimo accenno alla loro sequenza. Presenta grossolane e inaccettabili omissioni che, purtroppo, suonano anche come lesive per la credibilità dell’Ue sulla vicenda. Né vale come consolazione che le reazioni, o le pavide omissioni, di Washington e di alcune cancellerie europee siano state decisamente peggiori.
La von der Leyen si dichiara preoccupata per la situazione in Israele e a Gaza; la menzione degli altri Territori Occupati dove si è innescata la scintilla di questa nuova violenza, in particolare Gerusalemme est e il sobborgo di Sheik Jarrah, è incomprensibilmente assente. Spiegare a una distratta e ignara opinione pubblica europea questo nuovo sanguinoso conflitto come il risultato di una controversia sui titoli di proprietà di alcuni immobili a Gerusalemme est sarebbe un’impresa titanica per chiunque. Ma lo sarebbe assai meno se tale spiegazione venisse offerta in un contesto di pluriennali sfatti, confische e vessazioni compiute dalle Autorità israeliane ai danni della popolazione palestinese a Gerusalemme est e nella Cisgiordania per soddisfare i disegni di coloni e formazione ebraiche di estrema destra che puntano a sradicare la presenza palestinese dalla parte orientale della città santa e ad annettere buona parte, se non tutta, la Cisgiordania.
L’escalation delle violenze
Sheik Jarrah è la classica goccia che fa traboccare un vaso colmo di ingiustizie e sulla quale si è innescata un’escalation sicuramente alimentata da ambo le parti che si estesa alla spianata delle Moschee durante il sacro mese del Ramadan. In queste circostanze, il compito primario delle forze di sicurezza israeliana avrebbe dovuto essere quello di evitare azioni che potessero ulteriormente attizzare un clima già incandescente. Al contrario, manifestazioni di formazioni di estrema destra e di coloni che gridavano “morte agli arabi” sono state consentite e incursioni all’interno delle due sacre Moschee durante l’ora dalla preghiera sono state condotte offrendo ad Hamas un irresistibile assist per ergersi come “difensore” di uno dei più importanti luoghi santi dell’Islam.
Le autorità israeliane non potevano non sapere che l’incursione nelle Moschee avrebbe innescato una tensione al calore bianco. È facile immaginare chi possa aver avuto un interesse spregiudicato a speculare su una crescente e violenta contrapposizione tra arabi e israeliani, specialmente se spera di andare al voto per la quinta volta e, sull’onda dell’emozione, ottenere quella vittoria chiara che ha mancato negli ultimi due anni per salvarsi da un processo e una condanna per corruzione.
Dal canto suo, il Presidente di Israele Rivlin avrebbe dovuto chiedersi come mai i cittadini arabi del suo Paese – rimasti tranquilli per 74 anni – negli ultimi giorni hanno iniziato a protestare in modo violento e deprecabile? Non è forse questa la spia di un malessere profondo ignorato finora? Ed era proprio necessario, da parte della massima autorità istituzionale del Paese, commentare queste proteste con la parola “pogrom” evocando un tragico passato e attizzando ulteriormente le animosità quando il senso di responsabilità avrebbe dovuto indurlo a un atteggiamento diametralmente opposto? Da Hamas non ci si può attendere alcun senso di responsabilità, mentre dalla massima autorità istituzionale dell’unica democrazia del Medio Oriente, invece, la si deve pretendere.
La narrativa israeliana secondo cui l’ennesima insurrezione palestinese non ha nulla a che fare con gli sfratti a Sheik Jarrah – ma è solo una lotta di potere tra Hamas e l’Autorità nazionale palestinese determinata dall’ennesimo rinvio delle elezioni palestinesi da parte di quest’ultima – è in parte corretta. Se fossero state indette le elezioni, Hamas le avrebbe probabilmente vinte come accaduto nel 2006. Tuttavia, questa narrativa omette un particolare cruciale, ovvero che è stato lo stesso Governo Netanyahu a offrire al Presidente palestinese Abbas un assist provvidenziale con il quale giustificare il rinvio della consultazione. Le Autorità israeliane hanno infatti vietato che gli oltre 300.000 palestinesi residenti a Gerusalemme est potessero partecipare al voto, se indetto. Una simile misura si spiega solo con l’intento di non creare alcun precedente che possa pregiudicare il disegno israeliano di consolidare l’annessione di Gerusalemme est e di azzerare qualsiasi possibilità che la parte orientale della città santa possa divenire un giorno la capitale di quello che appare un sempre più improbabile Stato palestinese.
I civili come scudi umani
Un altro aspetto della narrativa israeliana a proposito dell’elevato numero di vittime civili risultante dai raid aerei su Gaza è quello che poggia sulla tendenza criminale di Hamas a utilizzare i civili come scudi umani. Anche questa è parzialmente vera, ma sconta anch’essa una gigantesca omissione. Non viene fatto presente che Gaza è uno dei posti a maggior densità abitativa di tutto il pianeta. Di conseguenza, non è solo la bieca prassi degli scudi umani di Hamas che genera tragedie umane come quelle cui stiamo assistendo da giorni, ma il semplice fatto che i civili palestinesi non sanno dove trovare un rifugio sicuro, e con centinaia di edifici distrutti finiscono per vivere accatastati gli uni sugli altri in quelli che restano. Per quanto i raid israeliani ufficialmente ambiscano a essere ammirevolmente chirurgici non sempre riescono ad evitare quelli che con una certa ipocrisia, ormai pienamente sdoganata, vengono definiti come danni collaterali.
I massimi vertici a Bruxelles, e con essi quelli a Washington e nelle altre cancellerie europee, avrebbero il dovere di spiegare, per quanto possibile, alle loro opinioni pubbliche il contesto storico e la sequenza di certi eventi e avere il coraggio di prendere delle posizioni chiare al riguardo, senza fare sconti a nessuno, evitando di trincerarsi dietro dichiarazioni di circostanza che brillano solo per la loro banale e distorsiva omertà.
Agli inizi di maggio, i soggetti sopra evocati, riunitisi nel formato del G7, hanno riaffermato la loro ambizione di rilanciare e tutelare il cosiddetto rule-based world order. Ebbene, in un mostruoso comunicato di ben 12.400 parole non sono riusciti a dedicare una riga (una!) alla questione israelo-palestinese che stava già montando; quando quest’ultima è poi esplosa si sono distinti per pavidità e passività se non, addirittura, in alcuni casi, per complicità per omissione. Non ci si può esimere dal domandarsi con quale credibilità essi possano rivendicare tale ruolo.
L’Eurasia accelera: la competizione globale con la Cina è solo agli inizi
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Le ultime settimane sono state piuttosto dense di sviluppi politici afferenti alla regione eurasiatica. Sono addirittura affiorati alcuni segnali che lascerebbero presagire un potenziale mutamento di assunti e assetti geopolitici immutati da almeno un secolo.
L’accordo Cina-Iran
Innanzitutto, Pechino e Teheran hanno annunciato un programma di cooperazione pluriennale del valore stimato di 400 miliardi di dollari che sarebbe una corposa boccata di ossigeno per l’economia iraniana gravata dalle sanzioni unilaterali statunitensi e dalla riluttanza di molti Paesi a sfidarle. All’annuncio, ha fatto poi seguito la visita a Teheran del Ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov, che ha confermato la perdurante concertazione triangolare tra Teheran, Mosca e Pechino.
L’accordo cino-iraniano si presta a molteplici interpretazioni. Da un lato rafforza l’impressione che la Cina, che nel primo trimestre di quest’anno ha registrato una crescita record del Pil del 18% ed è reduce da un esordio battagliero con l’amministrazione Biden nel bilaterale svoltosi recentemente ad Anchorage, voglia rilanciare – anche con questo accordo e dopo la pausa indotta dalla pandemia – il suo grande progetto infrastrutturale della Belt and Road Initiative (BRI). L’obiettivo di Pechino è un grande spazio economico-commerciale euro-asiatico contraddistinto da massicci progetti infrastrutturali sia nei trasporti che digitali del valore di 1000 miliardi di dollari, il più grande programma di questo genere di cui si abbia memoria, al cui confronto il Piano Marshall americano del 1948, a parità di potere d’acquisto, impallidisce: 148 miliardi di dollari rispetto al trilione cinese. L’Iran, con la sua posizione strategica, potrebbe quindi configurarsi come il segmento meridionale più importante di questo progetto propiziando il suo consolidamento verso Iraq, Siria, Turchia, Mediterraneo e Europa meridionale. La BRI si avvale anche dell’Asian Infrastructure and Investment Bank (AIIB), varata dalla Cina nel 2017, cui hanno aderito disinvoltamente quasi tutti gli alleati europei e asiatici di Washington; questo organismo, naturalmente, coltiva anche il fin troppo evidente intento di affrancare la BRI dalla Banca mondiale, tradizionalmente controllata dagli Stati Uniti.
Se tale processo di consolidamento e concertazione politica, economica e commerciale euroasiatica dovesse procedere, potrebbe profilarsi quell’incubo strategico sul quale i maggiori studiosi di geopolitica anglo-americani, da Sir Halford Mackinder a Nicholas Spykman, da Zbigniew Brzezinsky a George Friedman, hanno costantemente ammonito nell’ultimo secolo: un blocco euroasiatico, Heartland secondo la definizione di Mackinder, estraneo all’influenza degli Stati Uniti d’America e delle altre potenze occidentali. Infatti, sia pur nelle loro diverse argomentazioni, i quattro predetti studiosi hanno manifestato una convergenza di fondo sulla tesi che chiunque controlli l’Eurasia controlli anche il mondo. La Cina più pragmaticamente sembra interessata a tutelare la propria supply chain, oggi basata prevalentemente sul traffico navale, e, consapevole di non poter ancora competere con gli Stati Uniti nel controllo degli oceani, punta a sottrarsi il più possibile da pericolosi colli di bottiglia marittimi come Suez, Bab al Mendeb, Hormuz e Malacca sviluppando contestualmente una gigantesca supply chain terrestre attraverso l’Eurasia che resterebbe immune alle interferenze statunitensi. Per questo gli Usa hanno fin dall’inizio sistematicamente avversato, con magra fortuna finora, sia BRI che AIIB.
Il JCPoA e il sabotaggio di Natanz
Nel frattempo, dopo svariate gesticolazioni da ambo le parti, i negoziati per salvare l’accordo nucleare con l’Iran (JCPoA) sono ripresi a Vienna, con l’Ue impegnata a fare la spola tra le delegazioni americana e iraniana, poiché quest’ultima si rifiuta ancora di confrontarsi direttamente con la prima fino a quando non verranno rimosse le sanzioni addizionali varate dall’amministrazione Trump quando si è ritirata dal predetto accordo nel 2018.
Mentre le indiscrezioni sull’atmosfera dei colloqui lasciavano filtrare un certo ottimismo, è arrivato con una puntualità millimetrica un tentativo di siluramento israeliano dei colloqui con il sabotaggio dell’impianto nucleare iraniano di Natanz. L’iniziativa, secondo lo spinning mediatico israelo-americano, avrebbe fatto arretrare di diversi mesi la tabella di marcia dell’arricchimento dell’uranio da parte di Teheran; resta il fatto che quest’ultima, a poche ore dal sabotaggio ha annunciato un ulteriore salto di qualità del processo di arricchimento, che passa ora al 60%, pericolosamente prossimo alla critica soglia militare del 90%. Indiscrezioni filtrate sia da Gerusalemme che da Washington hanno lasciato intendere, compiaciute, che questo sabotaggio potrebbe aver indebolito la forza contrattuale iraniana; conoscendo tuttavia i precedenti e le attitudini iraniane in questo ambito, sarebbe prudente nutrire un certo scetticismo. Solo le prossime fasi del negoziato, nonché le rilevazioni periodiche dell’Aiea sull’uranio arricchito detenuto da Teheran, potranno fare chiarezza su chi abbia veramente perduto il proprio potere contrattuale.
Su questo sfondo, già preoccupante di per sé, si innesta l’inquietante prospettiva della guerra navale clandestina che da mesi, se non addirittura da anni come è recentemente emerso, che Israele è impegnata a condurre contro l’Iran per ostacolare i rifornimenti di quest’ultimo diretti verso la Siria; la circostanza che Teheran ultimamente abbia iniziato a reagire bersagliando navi israeliane nel Golfo Persico offre ulteriori motivi di preoccupazione con il rischio di un’escalation incontrollata. A completare un quadro già teso e complesso, ci ha pensato l’Ue la quale, dopo essersi brillantemente ritagliata un nuovo ruolo di mediazione tra americani e iraniani, ha pensato bene di varare sanzioni contro esponenti del regime iraniano responsabili della cruenta repressione delle manifestazioni svoltesi nel Paese nel 2019. Partendo dal presupposto che Bruxelles non possa essere così autolesionista da compromettere le sue credenziali di mediatore sanzionando Teheran all’indomani dell’ennesimo tentativo israeliano di silurare il negoziato, azione dalla quale la stessa Washington è sembrata voler prendere le distanze, è plausibile che quella europea sia stata l’applicazione di una decisione presa da tempo e della quale le autorità iraniane erano state preventivamente informate, come emerso da autorevoli fonti Ue. Certo è che se Bruxelles avesse aspettato qualche settimana non sarebbe cambiato alcunché. L’Iran, ovviamente, ha reagito negativamente, mentre la Russia non si è certamente lasciata sfuggire l’occasione per randellare l’apparente goffaggine europea.
Il ritiro Usa dall’Afghanistan
Le novità più importanti, tuttavia, emergerebbero dagli Stati Uniti. La nuova amministrazione sembrerebbe intenta a voler imprimere un’accelerazione, e forse anche un salto di qualità, nella propria strategia sul versante euro-asiatico. Il Presidente Biden ha annunciato il ritiro delle forze statunitensi dall’Afghanistan, che dovrebbe essere completato l’11 settembre prossimo, e ha proposto al Presidente Putin un summit in un Paese terzo per esaminare i vari dossier sul tappeto, a partire dalla delicata questione ucraina che ha registrato forti tensioni nelle ultime settimane. Biden ha fatto questa apertura facendola tuttavia seguire da ulteriori sanzioni verso Mosca nel possibile assunto, la cui validità resta tutta da dimostrare, che queste possano influire sul calcolo politico russo; anche in tale caso sarebbe lecito nutrire qualche dubbio, per il momento la Russia ha espulso una decina di diplomatici Usa e sanzionato alcune personalità politiche statunitensi. Anche a questo riguardo sarà il tempo ad offrire un responso più attendibile.
Anche la doppia iniziativa del Presidente americano si presta tuttavia a una lettura composita, sempre nel contesto del concomitante negoziato con l’Iran che la Casa Bianca sembra voler portare avanti nonostante l’azione di disturbo israeliana, di alcuni Paesi arabi e dei loro sostenitori nel Congresso americano. Da una parte il tentativo di allentare la tensione con Mosca attraverso il summit potrebbe corrispondere ad una necessità della quale – si spera vivamente – Washington sia finalmente divenuta consapevole, ovvero di non poter ingaggiare contemporaneamente e assertivamente Russia, Cina e Iran. Il fatto che Biden abbia proposto un summit a Putin e non al leader cinese Xi Jinping sembrerebbe confermare inequivocabilmente quale sia la maggiore minaccia percepita a Washington in questo momento.
Il disimpegno dall’Afghanistan potrebbe invece segnare, da un lato il tramonto delle guerre senza fine statunitensi in Asia occidentale, ma anche, e soprattutto, una possibile presa d’atto che la BRI cinese è ormai una realtà incontrovertibile per la quale la protratta permanenza in Afghanistan come potenziale fattore di disturbo non è più necessaria né, tantomeno, sostenibile. Immaginare infatti che gli Usa siano rimasti in Afghanistan per 20 anni solo in funzione antiterroristica e per il benessere della popolazione afgana rasenta l’ingenuità. Il disimpegno dal Paese potrebbe essere anche un ulteriore segnale verso Teheran; anche se è lecito domandarsi quanto quest’ultima potrebbe esserne compiaciuta se questo dovesse lasciare nuovamente campo libero ai Talebani.
Prospettive future
Sarebbe forse azzardato concludere, sulla base di questi preliminari elementi, che la strategia Usa verso l’Eurasia si stia avviando verso una possibile revisione; tuttavia i tempi e lo spostamento di alcuni equilibri strategici militerebbero a favore di una seria revisione delle opzioni statunitensi. Washington potrebbe valutare e forse trovare più conveniente un nuovo approccio minimalista che potrebbero tradursi in: 1) serrare le file con l’Europa per provare a neutralizzare la BRI nella sua, assai proficua, appendice terminale occidentale, rinunciando ad ostacolarla nel suo percorso intermedio in Asia centrale, oggettivamente assai più arduo; 2) fare altrettanto in Asia orientale, nell’Indo-Pacifico se vogliamo adeguarci alla terminologia ormai in voga, rafforzando il Quad (Usa, Giappone, India e Australia) che al momento non appare un formato propriamente collaudato.
Appare inverosimile, invece, che Biden possa ottenere all’inverso da Putin quello che Nixon consegui da Mao mezzo secolo fa, il distacco della Russia dalla Cina, che sarebbe il vero game-changer degli assetti geopolitici euroasiatici. Al momento, con il clima che regna, appare alquanto improbabile che Putin possa essere interessato da tali potenziali lusinghe americane; tuttavia, ammettendo per ipotesi che l’attuale inquilino del Cremlino possa accarezzare tale idea, per Biden perseguirla sarebbe a dir poco temerario. Il Presidente Usa si ritroverebbe contro tutto l’establishment di politica estera e di sicurezza statunitense che ormai appare in preda a una forma di russofobia basata su una fuorviante rappresentazione delle più recenti dinamiche internazionali afferenti alla Russia che poco hanno a che fare con l’effettiva realtà. Una refrain mentale radicato anche per quanto concerne la variante sinofobica.
Un arretramento strategico statunitense che lasciasse il cosiddetto Heartland alle potenze continentali euroasiatiche, incluso il loro problematico ventre molle mediorientale, consentirebbe a Washington di tutelare meglio il cosiddetto Rimland, enfatizzato da Nicholas Spykman, mantenendo la supremazia statunitense laddove è ancora indiscutibile, ovvero sui mari e sulle grandi rotte commerciali navali e nelle periferie estreme dell’Heartland: Europa, Asia Orientale (Giappone, Corea del Sud, Taiwan) e Oceania. Contestualmente, si libererebbero enormi risorse per affrontare quella che è la vera e più impellente minaccia alla sicurezza degli Stati Uniti, il fronte interno. Una necessità ormai coraggiosamente riconosciuta anche dai documenti concettuali sulla strategia di sicurezza Usa come confermato dalla Interim National Security Strategy Guidance pubblicata nel marzo scorso; quest’ultima lascia chiaramente intendere che per stabilizzare il proprio fronte interno gli Stati Uniti abbiano una sorta di atavica necessità di un costante nemico esterno. La storia, anche quella più recente, purtroppo, insegna che quando il nemico necessario stenta a profilarsi si finisce con l’inventarlo.
Gli Stati Uniti, quindi, dovrebbero coraggiosamente trarre le debite lezioni impartite in particolare dalle tumultuose prime due decadi del XXI secolo con le guerre senza fine in Asia occidentale. L’annunciato ritiro dall’Afghanistan, qualora non venga nuovamente sabotato dal cosiddetto MICIMATT (Military Industrial Complex, Intelligence, Media, Academia and Think Tanks), potrebbe essere il primo importante segnale in tal senso che, se poi venisse seguito da un’analoga decisione per quanto riguarda Iraq e Siria, offrirebbe una rassicurazione più solida sull’evoluzione strategica Usa.
Sfide epocali
L’assunto da cui sarebbe opportuno partire è che nel XXI secolo la tesi già illustrata, e sostenuta per decenni dalla geopolitica anglo-americana, ovvero che “chi controlla l’Eurasia controlla il mondo”, possa essere ora rimessa in discussione. Il primo ventennio di questo nuovo secolo offre corpose indicazioni di come il vero potere stia transitando da una dimensione reale e territoriale a una virtuale. Esso sarà appannaggio di coloro che controlleranno i big data, la fintech, i sistemi di comunicazione 5G e 6G, l’Intelligenza Artificiale, l’Internet of Things, i softwares e i servers delle Smart Cities, la computazione, la comunicazione e la criptazione quantistiche e la cybersecurity; in altri termini da chi si metterà più rapidamente al passo con il Grande Reset vaticinato dal World Economic Forum attraverso la Quarta Rivoluzione Industriale e il suo corollario ambientalistico semplificato come Green New Deal. Su questo terreno la competizione globale con la Cina è solo agli inizi e saranno necessarie enormi risorse visto quello che Pechino è stata finora in grado di mobilitare e di conseguire in appena tre decenni: circa 800 milioni di persone sottratte alla povertà, un’economia che si avvia a diventare la prima al mondo con una supremazia tecnologica già consolidata in diversi settori.
Per affrontare efficacemente questa sfida epocale negli ambiti sopra descritti non occorrono centinaia di migliaia di soldati Usa distribuiti in 800 basi militari sparse in tutto il mondo, ma un massiccio piano di rilancio industriale e di investimenti e ricerca all’interno del Paese che lo mettano in grado di competere efficacemente. Una scelta che, fortunatamente, il Presidente Biden sembra voler percorrere. Questa dovrà necessariamente comportare, se condotta scientemente e con atteggiamento refrattario verso le fin troppo numerose lobby esterne e interne che da sempre vincolano e danneggiano l’America, la razionalizzazione degli interventi e degli impegni su teatri dove probabilmente la partita è stata già persa da tempo e che nulla aggiungono alla sicurezza del Paese nonché l’abbandono di cliché strategici ormai superati e comunque impraticabili come quello di impedire il consolidamento dell’Heartland con la presenza di boots on the ground statunitensi in Eurasia.
La vera scelta strategica sarà fare meno per fare meglio, molto meglio, ovvero, build back differently invece dell’ormai virale build back better. La vera sfida intellettuale-strategica dei prossimi anni sarà quindi quella di far maturare questa consapevolezza/necessità nei fin troppo numerosi “pensatoi” all’interno della Beltway della capitale statunitense.
Renzi in Arabia Saudita: sprovveduto o furbo?
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Nel bel mezzo di una crisi di Governo che potrebbe avere risvolti non indifferenti sulla capacità dell’Italia di beneficiare del Recovery Fund e, quindi, di poter uscire dall’incubo economico generato dalla pandemia, il detonatore della crisi, il Sen. Matteo Renzi, qualche giorno fa ha trovato il tempo per volare in Arabia Saudita e presenziare alla Future Investment Initiative definita anche, con il sommo imbarazzo di Klaus Schwab e del suo World Economic Forum, la Davos del deserto.
La tempistica del viaggio e l’intervista prona che nell’occasione ha effettuato al principe ereditario saudita, Mohammed bin Salman, offrivano già materiale sufficiente per inarcare più di un sopracciglio; quando poi il Senatore della Repubblica ha forse tentato di mettere una toppa alle dichiarazioni rese nel Regno con un’intervista al Corriere della Sera domenica scorsa, questa, come sovente accade, si è rilevata peggio del buco.
Il combinato disposto delle dichiarazioni rese da Renzi in Arabia e al Corriere offre un quadro a dir poco disarmante: “L’Arabia Saudita come luogo per un nuovo Rinascimento” oppure “Soltanto chi non conosce la politica estera ignora il fatto che stiamo parlando di uno dei nostri alleati più importanti, un baluardo contro l’estremismo islamico”; per concludere con “…è grazie a Riad che il mondo islamico non è dominato dagli estremismi.”
Tenut conto che il 28 dicembre scorso, Loujan Al-Hathloul, una delle principali attiviste per i diritti umani in Arabia Saudita, è stata condannata a quasi sei anni di carcere per aver guidato una macchina (sei anni!!!), sorge spontaneo il dubbio su quale sia il Rinascimento vagheggiato dal Sen. Renzi.
Quando poi egli identifica l’Arabia Saudita come un baluardo contro l’estremismo islamico è evidente che non sappia di cosa stia parlando. Il Paese che negli ultimi 40 anni ha maggiormente sostenuto l’estremismo islamico è proprio l’Arabia Saudita, che ha sovvenzionato con decine di miliardi di petrodollari il filone più estremista dell’Islam, quello wahabita; quello che, per intenderci, ha generato Al Qaeda, l’11 settembre e l’Isis.
Il primo a denotare scarsa conoscenza della politica estera sembrerebbe quindi proprio l’ex Presidente del Consiglio, carenza alla quale sembrerebbe aggiungersi anche una visione a dir poco peculiare del Rinascimento, specie per un orgoglioso ex Sindaco di Firenze.
Cosa ha fatto l’Arabia Saudita dal 2015
È certamente vero che l’Arabia Saudita è un partner importante dell’Italia ma forse un personaggio del calibro del Sen. Renzi era perfettamente in grado di far valere questo concetto in un modo in po’ più accorto, articolato e, soprattutto, meno supino, anche alla luce delle imbarazzanti performances inanellate dall’Arabia Saudita a partire dal 2015, quando è giunto alla ribalta il suo controverso principe ereditario:
- l’intensificazione drammatico del conflitto nello Yemen con il tentativo di imporre un’irrealistica soluzione militare e che ha determinato un’immane catastrofe umanitaria e che sta esponendo il Regno e i suoi alleati a crescenti accuse di crimini di guerra a causa di bombardamenti indiscriminati;
- il plateale sequestro del Primo Ministro libanese Saad Hariri con l’estorsione delle sue dimissioni in un’orwelliana dichiarazione televisiva;
- l’uccisione truculenta del giornalista Jamal Khashoggi a Istanbul per il quale la CIA – ora sotto la gestione Biden – potrebbe rendere pubbliche le sue compromettenti risultanze;
- il sequestro a fini intimidatori ed estorsivi di decine di membri della stessa famiglia reale saudita;
- e, infine, l’inutile e dannosa crisi triennale nell’ambito del Consiglio di Cooperazione del Golfo con il fallito tentativo di isolare il Qatar.
Insomma, visto che l’Iran viene costantemente identificato come la principale forza destabilizzatrice e maligna nella regione, il minimo che si possa dire è che certamente si trova in buona compagnia.
Benché il piano di riforme 2030 – ideato da Mohammed bin Salman e parte integrante della Future Investment Initiative – che ha tanto elettrizzato il Sen. Renzi sembri sulla carta piuttosto attraente, il giudizio sulla monarchia saudita dovrebbe tuttavia fondarsi sui fatti e non su visioni, per quanto allettanti, del futuro; e sciaguratamente questi fatti, finora, lasciano molto a desiderare.
Sprovveduto o furbo?
Tutto ciò premesso, in questa vicenda Renzi non va assolutamente considerato uno sprovveduto. Mentre l’Italia restava in preda a diversi dilemmi e presa dai consueti e consunti rituali tipici delle nostre crisi di Governo, il Senatore si accompagnava a una serie di big di altissimo calibro dal suo punto di vista, ben più importanti degli 80.000 euro (una fee, in verità, alquanto modesta per essersi esposto in modo così imbarazzante) che gli sono stati corrisposti dal Governo saudita. Secondo il New York Times, infatti, all’evento saudita hanno preso parte David Rubenstein (Carlyle Group), Ray Dalio (Bridgewater), Larry Fink (BlackRock) David Solomon (Goldman Sachs), Thomas Gottstein (Credit Suisse) James Gorman (Morgan Stanley) Steve Schwarzman (Blackstone), Masa Son (SoftBank), Tom Barrack (Colony Capital) Jeffrey Ubben (Inclusive Capital).
A riprova autorevole del noto motto pecunia non olet, si tratta del gotha dei Fondi di Investimento e delle Banche d’Affari mondiali che ormai – insieme alle Big Tech – hanno più rilievo e influenza degli stessi Stati nazionali e ai quali il nostro Senatore potrebbe aver voluto dimostrare che, per quanto concerne la politica italiana, è sempre lui a dare le carte.
Tutto questo consumatosi nell’assordante, imbarazzato, silenzio di Pd e M5S.