[PARIGI] Inviato ed editorialista da Parigi, autore di romanzi e saggi, l’ultimo la biografia di Angela Merkel per l’editore Rizzoli.
Roma-Parigi e i flussi migratori
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Si potrebbe definire il gioco delle M.
M, innanzi tutto, come malintesi, poichè, fra Francia e Italia, le parole e l’attribuzione del loro significato politico variano a seconda delle circostanze e degli umori delle rispettive opinioni pubbliche. M, come Macron e Meloni, ovvero i protagonisti delle polemiche, interessati a corrente alternata a spegnerle o a rinfocolarle, secondo necessità di rassicurare elettori e proprie famiglie politiche. M, come Mattarella, costretto, suo malgrado, a metterci ogni volta una pezza, facendo valere il proprio carisma, i rapporti solidi e cordialissimi con Macron e con l’opinione pubblica francese. E mettiamoci anche M come Mussolini, il fantasma della Storia che aleggia fuori posto, ma che si rivela il perfetto alibi per quanti, a ragione o a sproposito, sono interessati a gettare ombre strumentali sul governo di Giorgia Meloni, la quale potrà essere anche a giusto titolo criticata per certi scivoloni ideologici e culturali del suo cerchio magico (il Presidente del Senato, La Russa, in testa alla classifica), ma non può essere accusata di non avere fatto sforzi e conti con il passato e con la Storia.
M, come migranti o migrazioni
In questo gioco, l’unica M che dovrebbe avere un significato concreto e condiviso sarebbe M come migranti o migrazioni, ma questa M sfugge alla logica, si perde nel battibecco politico, resta funzionale soltanto a interessi di parte e di bottega, non diventa mai fino in fondo il titolo del fondamentale capitolo degli impegni comuni, della solidarietà fra Stati, della sfida europea, della coscienza collettiva. Battibecco politico che rischia inevitabilmente di ampliarsi nell’imminente campagna per le elezioni europee, nonostante i propositi di tregua.
Eppure la materia del contendere, il problema dei flussi migratori, dell’accoglienza e del controllo delle frontiere, sarebbe semplicissima da comprendere e dovrebbe essere al riparo dalle polemiche, pur considerando l’oggettiva complessità del fenomeno e delle soluzioni possibili. Si tratta di affrontare, nell’immediato, l’emergenza degli sbarchi, nel breve periodo, il ricollocamento e il riconoscimento o meno di diritti di accoglienza e soggiorno, e infine nel medio termine, la questione delle frontiere continentali e della responsabilità dell’Europa nei confronti dei Paesi di provenienza.
Sotto questo profilo, come si dice, il Re è nudo, ma come talvolta avviene, l’evidenza e la buona volontà non sono categorie della politica. Così, strumentalità e pregiudizio finiscono per prevalere. In realtà, Macron e Meloni giocano a carte scoperte, ma dietro le quinte si muovono altri attori, peraltro non di secondo piano, interessati appunto a rinfocolare polemiche e riattizzare il fuoco che la narrazione ufficiale tende invece a spegnere.
Emblematica, in proposito, l’intervista al Corriere della Sera della ministra degli Esteri, Catherine Colonna, vecchia amica dell’Italia (è stata ambasciatrice a Roma), ovviamente mossa da sinceri intenti di riconciliazione. Ha glissato sui giudizi sprezzanti espressi dal ministro degli Interni, Gerard Darmanin, sulla gestione dei migranti da parte italiana, e ha ribadito : “La Francia ha una sola linea: l’Italia è un Paese amico, al quale ci legano molte cose, tra cui l’affetto reciproco. E quando ci sono questioni delicate, dobbiamo parlarne apertamente e amichevolmente. Le due cose vanno di pari passo e tutti i membri del governo francese, ognuno con le proprie parole, sanno che affronteremo meglio qualsiasi difficoltà con una maggiore cooperazione franco-italiana, a partire dalla questione migratoria (….) Oggi la maggior parte della pressione migratoria proviene dalla Tunisia piuttosto che dalla Libia. Dobbiamo aumentare la nostra cooperazione con la Tunisia attraverso il canale europeo, ovviamente, e anche attraverso i reciproci rapporti bilaterali con la Tunisia, che abbiamo interesse a coordinare bene (…) Abbiamo bisogno di rafforzare la lotta ai traffici irregolari di esseri umani alle frontiere tra Francia e Italia e di una riforma del sistema di Dublino, oltre a migliorare il database delle impronte digitali Eurodac e le procedure di richiesta di asilo nei Paesi di primo ingresso. È un tema eterno, ma voglio essere positiva perché abbiamo fatto progressi. (…). Non ci sono soluzioni nazionali. La soluzione sta nella cooperazione tra noi”.
La Francia e Giorgia Meloni
Parole che hanno fatto ripensare alla sincera cordialità del primo incontro, nell’ottobre scorso, fra il Presidente Macron e Giorgia Meloni appena insediatasi a Palazzo Chigi. Eppure, già allora, si poteva cogliere un messaggio sotterraneo, allorché diversi esponenti della sinistra francese avevano pesantemente criticato proprio i toni cordiali di quell’incontro. Il Presidente del gruppo socialista all’Assemblea nazionale, Boris Vallaud, disse : “Non dobbiamo essere ingenui o compiacenti con (…) un governo di estrema destra, con un Primo Ministro che proviene da una famiglia politica che ammira Mussolini”. E Sandrine Rousseau, europarlamentare di Europe Ecologie-Les Verts (EELV), criticò “l’incredibile compiacenza nei confronti del fascismo e dell’estrema destra”. L’eurodeputato dei Verdi Benjamin Lucas ha addirittura paragonato l’incontro alla stretta di mano tra Philippe Pétain e Adolf Hitler.
“Come europei, come Paesi vicini, come popoli amici, con l’Italia dobbiamo continuare tutto il lavoro che abbiamo iniziato. Le relazioni tra Italia e Francia sono più importanti di quelle dei loro leader”, è stato il commento ufficiale dell’Eliseo.
Il contesto politico francese
Occorre tenere presente il contesto. Nei mesi scorsi – la questione è tutt’altro che risolta – il Presidente Macron era alle prese con la riforma delle pensioni, provvedimento contestato sia dall’estrema destra di Marine Le Pen, sia dall’estrema sinistra di Jean Luc Mélenchon. Ecco altre due M che hanno dato filo da torcere al Presidente, peraltro privo di una maggioranza all’Assemblea Nazionale e quindi costretto a far passare la riforma senza il voto parlamentare.
Questo contesto politico spiega i messaggi trasversali di personalità vicine a Macron contro la destra italiana. Un modo per recuperare consenso a sinistra e rintuzzare gli attacchi dell’estrema destra della Le Pen e le critiche dei Repubblicani/gollisti sulla questione dei migranti. In soldoni, le responsabilità della situazione non sono del governo francese, ma degli italiani incapaci di gestirla. Messaggi trasversali, ad uso e consumo dell’opinione pubblica francese, che tuttavia, paradossalmente, non dispiacciono al governo italiano perchè consentono di organizzare la difesa d’ufficio, non senza argomenti a favore: l’Italia è in prima linea, nessuno in Europa ci aiuta, la Francia pensi a risolvere i problemi e non accusi l’Italia di incapacità. Tanto più – altro argomento a favore – che la Francia, alle sue frontiere, non può certo vantare un modello di accoglienza in guanti bianchi.
Per non parlare di quanto accade in territori francesi fuori dai radar, come ad esempio sull’isola di Mayotte. A maggio, in meno di 24 ore, è stata rasa al suolo la baraccopoli di Talus 2 a Mayotte. Una dozzina di scavatori e camion con a bordo agenti di polizia hanno demolito decine di abitazioni di fortuna della zona. Secondo quanto riferito, le autorità intendono espellere tra i 10.000 e i 20.000 immigrati privi di documenti (Mayotte ha una popolazione di 310.000 abitanti, metà dei quali si ritiene siano stranieri) e distruggere 10.000 bangas, o squallide baracche, nelle baraccopoli dove vive il 40% degli abitanti dell’isola. Gli immigrati saranno rimandati alle Comore, nelle tre isole dell’arcipelago, da cui provengono senza documenti. Per i cittadini dell’isola si tratta di un’intensificazione della “caccia agli immigrati irregolari” che va avanti da decenni.
Ma il Presidente Macron deve anche rintuzzare le critiche dei Républicains, i quali da tempo sembrano affetti da strabismo politico. Da un lato incalzano Macron sulla questione migranti, con l’obiettivo di recuperare l’elettorato moderato sempre più sedotto da Marine Le Pen. Dall’altro sono tentati di fare da ruota di scorta del governo per differenziarsi dall’estrema destra e non correre il rischio di scomparire. Il partito ha presentato una propria proposta di legge e il ministro degli Interni, Darmanin, si è detto disposto a discutere alcune delle misure proposte, fra cui tuttavia spicca un’irricevibile revisione della Costituzione. Il “capitano” Éric Ciotti è determinato a indicare la rotta del suo partito e a condurlo fuori dalle acque agitate. Ciò richiederà una “cooperazione intransigente” con l’esecutivo. “Senza di noi non si può fare nulla, con noi tutto è aperto”, ha detto l’ex ministro degli Interni Brice Hortefeux, vicino a Sarkozy. L’obiettivo è incalzare il governo, dimostrare, come ha scritto Le Figarò, che “continuare a ripetere che l’immigrazione è un’opportunità per la Francia quando la realtà mette a nudo i fallimenti quotidiani dell’integrazione è una menzogna colpevole”.
Ma la questione migranti agita anche la compagine “macronista”. Uno degli uomini più determinanti, il ministro dell’Economia Bruno Le Maire, sollecita Macron a un’azione più ferma e determinata. E anche questo pungolo spiega il poco elegante scaricabarile sull’Italia “inadeguata”. “I nostri connazionali si aspettano fermezza, fermezza e fermezza”, ha detto il numero due di un governo che non trova la quadratura del cerchio sui propositi di regolarizzazione/espulsione. “Fermezza – dice ancora Le Maire – significa: un immigrato clandestino deve andarsene, un immigrato deve parlare francese se vuole venire in Francia. Non facciamoci accusare di essere lassisti o angelici. Siamo fermi, senza parole eccessive, senza populismo, senza essere contrari alla nostra identità”.
Differenze fra le sensibilità di destra
Per chiarezza, allo stato attuale e al di là della polemica politica, le differenze fra le sensibilità di destra, in Francia e in Italia, non sono di poco conto e le rispettive situazioni interne (oltre alla diversa collocazione, all’opposizione e al governo) vanno tenute presente. Marine Le Pen, candidata sconfitta nella battaglia per l’Eliseo, ha ottenuto uno storico successo alle legislative. Anche questa erede di un partito xenofobo, anti europeo, con al suo interno simpatizzanti neofascisti e antisemiti, ha fatto molta pulizia morale e un po’ di correzioni di rotta, ma resta molto critica verso Bruxelles. Il suo messaggio, che ha prodotto valanghe di voti nella Francia popolare e un tempo di sinistra, è quello della solidarietà sociale minacciata dalla globalizzazione, dalla tecnocrazia, dalla criminalità e ovviamente dalle orde di stranieri.
C’è contiguità con Giorgia Meloni? Fino a un certo punto. Fratelli d’Italia ottenne meno del 4% alle elezioni europee del 2014. Otto anni dopo, Giorgia Meloni guida il primo partito italiano ed è primo ministro. Nel 2017 sostenne la campagna elettorale della Le Pen, nel 2022 non si è schierata. Marine Le Pen in più occasioni è sembrata più vicina al leader della Lega, Matteo Salvini. Come ha scritto Le Monde, sarebbe il rapporto di fedeltà e amicizia con Matteo Salvini a giustificare l’assenza di rapporti con Fratelli d’Italia. “La conosco da molto tempo, ma non ho più contatti politici con lei (….). Il nostro alleato storico è la Lega, ma questo non significa che un domani non potremmo lavorare insieme”, ha detto Marine Le Pen.
C’è infine un’abissale differenza fra la vicinanza mostrata, ancora recentemente, tra il Cremlino e la Le Pen, e il risoluto atlantismo di Giorgia Meloni.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di Luglio/Settembre di eastwest
Lo stallo francese
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Dopo i due intensi round elettorali di primavera (presidenziali e legislative), molti osservatori francesi prevedevano un’estate politicamente caldissima, mentre invece le temperature in rialzo sono state quelle climatiche, con devastanti incendi è altrettanto devastanti piogge, il che ha quantomeno rilanciato l’urgenza della transizione ecologica.
La sconfitta di Macron
Come noto, Emmanuel Macron è stato rieletto con una schiacciante maggioranza e ha sconfitto al ballottaggio la leader dell’estrema destra Marine Le Pen, ma ha subito dopo tre settimane un’umiliazione pesante e senza precedenti, ovvero la perdita della maggioranza all’Assemblea, quando, solitamente, la conquista dell’Eliseo ha un effetto trainante sul partito del Presidente. Macron si è visto dunque costretto a fare i conti con due importanti forze di opposizione, il cartello delle sinistre guidato da Jean Luc Mèlenchon e, appunto, la destra di Marine Le Pen, senza peraltro poter contare sul sostegno esterno degli ex gollisti, ridotti ai minimi termini e in profonda crisi d’identità.
Il Primo Ministro, Elisabeth Borne, ha dovuto fin da subito gestire quella che sarà una cronica mancanza di numeri all’Assemblea, il che comporta la ricerca ossessiva di compromessi al ribasso in alternativa alla paralisi, con una variante di cui già si comincia a vociferare: la dissoluzione dell’Assemblea e nuove elezioni. Alla maggioranza, mancano una trentina di deputati. E, a differenza che in passato, l’estrema destra e l’estrema sinistra hanno ottenuto una fortissima rappresentanza. Nupes, il cartello della sinistra, ha ingaggiato una battaglia mediatica per far sentire la propria presenza, e anche con moltissimi emendamenti sui primi provvedimenti in discussione, ma senza risultati significativi. L’unico successo è la presidenza della Commissione Finanze, solitamente offerta all’opposizione. Marine Le Pen ha conquistato due vice presidenze e ha preferito un atteggiamento più istituzionale, cercando di far passare alcune proposte. Quanto ai repubblicani ex gollisti sono rimasti in bilico, in attesa dei corteggiamenti di Macron.
Tuttavia, come detto, la temuta tempesta non è arrivata e alcuni importanti provvedimenti – fine dello stato di emergenza sanitaria, incentivi al potere d’acquisto, correzioni di bilancio – sono passati con qualche correttivo.
La crisi interna
I francesi e il Presidente hanno tirato un sospiro di sollievo, ma l’autunno politico si preannuncia molto più complicato. Il Governo affronterà in aula provvedimenti importanti e in alcuni casi inevitabilmente divisivi, sullo sfondo della crisi energetica, dell’inflazione galoppante, delle tensioni internazionali. Fra questi, gli ammortizzatori sociali contro la disoccupazione, il disegno di legge sul riordino del Ministero dell’Interno, le misure per la transizione energetica, il dibattito sull’immigrazione, l’esame del bilancio 2023, la riforma delle pensioni, tema quest’ultimo altamente conflittuale.
Considerando i rapporti di forze e le prove politiche che lo attendono, ci si chiede se Emmanuel Macron non sia diventato una “anatra zoppa”, secondo un’immagine che ricorre negli Stati Uniti quando il presidente non ha la maggioranza al Congresso.
A priori, la riforma delle pensioni, con estensione dell’età pensionabile legale a 65 anni potrebbe passare con il sostegno dei centristi e dei repubblicani, ma il provvedimento resta un terreno minato e impopolare e Macron non sarebbe il primo dei presidenti a fare retromarcia. Altri temi, come l’autonomia scolastica, il salario degli insegnanti, la riforma delle scuole professionali potrebbero incontrare forti resistenze. Le riforme strutturali che potrebbero consentire alla Francia di ridurre il debito pubblico ed evitare in futuro procedure d’infrazione rischiano di rimanere bloccate fra veti parlamentari e opposizione di piazza.
Emmanuel Macron aveva chiesto agli elettori di “non aggiungere un disordine francese al disordine mondiale”. Ma da quando ha perso la maggioranza parlamentare, la Francia è diventata un rischio politico per l’Europa. In relazione alla guerra in Ucraina, che appare oggi senza sbocco, gli elettori hanno mandato all’Assemblea Nazionale partiti che non hanno nascosto simpatie per la Russia: il Rassemblement National di Marine Le Pen non ha nemmeno mai nascosto di avere ricevuto finanziamenti. I candidati euroscettici e anti-Nato hanno ottenuto circa il 57% dei voti. Il mantenimento della linea europea di fermezza al fianco di Kiev diventa incerto.
Il contesto europeo
Emmanuel Macron, assediato dai partiti euroscettici, vede dunque ridursi la sua capacità d’iniziativa in Europa. Nel momento in cui, dopo le promesse fatte all’Ucraina, si pone la questione dell’allargamento dell’Unione, il Presidente rischia di perdere l’occasione di conquistare quella leadership continentale che era alla sua portata dopo l’uscita di scena di Angela Merkel. Una Francia in stallo è tanto più preoccupante in rapporto all’altra metà del tradizionale motore europeo, la Germania. Il Paese è costretto dalla crisi ucraina a una revisione totale della propria politica energetica e della propria strategia economica in relazione alla Russia e alla Cina.
La Germania è stata storicamente il primo importatore europeo di gas russo, che rappresenta ben oltre la metà del suo fabbisogno totale. Ora, le importazioni di gas in Germania sono in calo e le famiglie si trovano ad affrontare sovrapprezzi energetici di centinaia di euro all’anno. Molte fabbriche tedesche stanno già rallentando la produzione, ma se la Russia dovesse interrompere completamente le sue forniture di gas, la Germania dovrebbe ridurre il consumo nazionale del 30%. Inoltre, il gigante energetico russo Gazprom ha annunciato che le forniture di gas attraverso il gasdotto originale Nord Stream sarebbero state completamente interrotte per alcuni giorni a partire dal 31 agosto per “manutenzione”, facendo schizzare i prezzi del gas europeo alle stelle.
Se le conseguenze negative del momento sono ingenerosamente messe sul conto della precedente leadership di Angela Merkel (non si dimentichino le tre legislature di grande coalizione con la SPD), anche il cancelliere socialdemocratico Olaf Scholz non gode di grande popolarità, in quanto la “revisione” della politica tedesca appare comunque indecisa è contraddittoria. “Merkel” in Germania è diventato un sinomino di prudenza e lentezza. “Scholz” sta diventando qualche cosa di peggio, sinonimo di tentenna. Intanto il Paese è sull’orlo della recessione.
Cinque anni fa, la Gran Bretagna aveva appena votato per la Brexit. L’Italia, dopo le dimissioni di Draghi, vive una complicata campagna elettorale che si tradurrà molto probabilmente in un successo di partiti populisti, euroscettici e – per quanto riguarda la Lega di Matteo Salvini – con simpatie e amicizie a Mosca.
L’Europa rimane divisa sulla portata e sulla velocità del suo allargamento; e non sa ancora se l’audace intervento fiscale effettuato durante la crisi Covid-19 sia stato il primo passo di un federalismo fiscale o se sia stato un caso isolato. I trattati europei ostacolano la definizione di approcci comuni in settori critici come l’energia, la sanità, la politica fiscale e la difesa. Macron ha entusiasmato il pubblico con una retorica pro-europea che non si è tradotta in avanzamenti politici concreti. I suoi discorsi hanno scosso gli altri leader, ma non hanno creato una coalizione per agire. Il quadro è decisamente preoccupante, tanto più che chi si sta fregando le mani per le debolezze europee è un certo Vladimir Putin.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
Francia, lo statalismo inceppato
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Sisifo fu condannato per l’eternità a riportare un masso sulla cima della montagna. Ma non dovette affrontare la riforma delle pensioni in Francia. Il problema è vecchio quanto la Quinta Repubblica. Dall’epoca di Chirac in poi è sempre stato sul tavolo dell’Eliseo senza che una soluzione organica venisse prospettata. In verità alcuni disegni di legge hanno fatto il loro bel percorso in Assemblea, ma si è sempre trattato di piccoli correttivi all’impianto complessivo, senza che fossero modificati i criteri di fondo: innalzamento dell’età pensionabile e armonizzazione di una quarantina di regimi diversi a seconda di categorie di lavoratori del pubblico e del privato. L’ultimo a provare a sollevare il macigno è stato Emmanuel Macron, durante il primo quinquennato, ma il progetto di riforma, peraltro non rivoluzionario, si è arenato dopo la rivolta dei gilet gialli. Lo ha rilanciato in campagna elettorale, ma visti i sondaggi che davano in crescita l’estrema destra e l’estrema sinistra – ferocemente contrarie all’innalzamento dell’età pensionabile – ha fatto retromarcia. L’ultima battuta, dopo la vittoria elettorale, è l’idea di un referendum. Ma occorre ricordare che Jean-Paul Delevoye, il responsabile del progetto di riforma, aveva già chiarito che il nuovo sistema non avrebbe ridotto la spesa pensionistica, circa il 14% del Pil.
I francesi per ora continueranno ad andare in pensione tre o quattro o cinque anni prima degli altri cittadini dell’OCSE. Ed essendo una nazione benestante in media e longeva, potrebbero passare circa un quarto di secolo in poltrona. La punta dell’iceberg sono i ferrovieri, protagonisti di giganteschi scioperi, a volte oggetto di caricature, ma risoluti a difendere il loro status. Per alcuni, la pensione può arrivare a 52 anni e questo non è considerato un privilegio, bensì un diritto speciale, come l’indennità carbone nell’epoca del TGV.
Il nodo della riforma delle pensioni
La riforma delle pensioni, e le lotte sociali per bloccarla, sono l’esempio illuminante, la parte per il tutto, della infernale dialettica politica e sociale che blocca la Francia. L’analisi potrebbe estendersi al mercato del lavoro, all’assistenza pubblica, alla sanità, alla rete amministrativa, al rapporto fra realtà locali e capitale, più in generale alla forma stessa dello Stato francese, così come si è formato in epoca napoleonica e si è strutturato dal dopoguerra nella concezione del generale de Gaulle. Uno stato centralizzato, che dispensa servizi di buon livello, che protegge dalla culla alla tomba, in cui si sono conciliate per decenni la cultura della destra sociale e la cultura della sinistra marxista e socialdemocratica. Il tutto avvolto nel mito egualitario della Rivoluzione e garantito da una spesa pubblica fuori controllo. Ma anche uno Stato con qualche sacca d’inefficienza, lento, impossibilitato a garantire tutti, perchè tagli di spesa e tentativi di razionalizzazione si sono imposti anche in Francia. Il risultato è paradossale: da un lato i francesi difendono con le unghie lo Stato protettore, dall’altro se ne lamentano perché in effetti non arriva dappertutto. In molti villaggi delle periferie, dove sono arrivate le pale eoliche e il TGV, sono spariti il medico condotto, l’ufficio postale, la scuola elementare. L’altro paradosso francese è il confronto fra pubblico e privato, laddove il privato tiene il Paese al passo con la competitività internazionale senza venire meno a criteri di tutela sindacale e diritti, salvo l’estendersi del precariato a fasce di giovani e di immigrati di ultima generazione.
“Voglio una Francia che creda nelle sue possibilità, nei suoi rischi, nelle sue speranze. Voglio una Francia giusta, efficiente, intraprendente, dove ognuno sceglie la propria vita e vive del proprio lavoro. È la rivoluzione democratica che dobbiamo riuscire a fare, per conciliare libertà e progresso”, aveva detto Emmanuel Macron all’inizio della sua ascesa. Concetti che ha declinato in varie fasi del suo governo e che ha rilanciato nel programma del prossimo. Le ambizioni si sono scontrate con la rivolta dei gilet gialli e l’emergenza pandemica. La priorità del presidente non è stata più di “ricostruire la Francia”, ma di vaccinarla; non è stata più di “liberare il lavoro e l’imprenditorialità”, ma di costringere le imprese a telelavorare. La crisi dei gilet gialli aveva già rallentato lo slancio riformista che aveva segnato l’inizio del quinquennio, con l’abolizione dell’ISF e della tassa sugli alloggi, la riduzione della tassazione delle imprese, la revisione del codice del lavoro o la riforma delle Ferrovie. I 17 miliardi di euro di misure annunciate nell’aprile 2019 per calmare la rabbia sociale avevano seppellito la promessa di rimettere in sesto le finanze pubbliche e l’eliminazione di 120.000 posizioni di dipendenti pubblici. Macron è diventato “ultra-keynesiano”, “statalista”, “grande protettore”.
Il dibattito interno
La mole di denaro investita, il ricorso al debito e lo scatto della ripresa post pandemia hanno offerto una formidabile arma al Presidente: crescita forte (6,5% nel 2021), disoccupazione al livello più basso da più di dieci anni, un tasso di occupazione record, una povertà contenuta nonostante la crisi. Fra il 2019 e il 2021, il debito pubblico è però aumentato di 17,1 punti. La pandemia ha fatto della Francia il leader mondiale della spesa pubblica (60,1% del Pilnel 2021, contro il 52,3% della Germania e il 44,2% degli Stati Uniti). La Francia è l’unico paese al mondo ad applicare la settimana lavorativa di 35 ore, la Corte dei Conti continua a deplorare lo spreco di denaro, nuove norme e regolamenti amministrativi si accumulano in modo kafkiano. Il debito pubblico è passato dal 20% del Pil nel 1980 al 60% nel 2000 per toccare il 112, 9 nel 2021, pari a 2813 miliardi di euro sulle teste dei francesi, collocando la Francia fra i Paesi più indebitati e meno produttivi della zona euro.
Se avesse vinto Marine Le Pen, le falle nelle casse dello Stato sarebbero diventate voragini. In sintesi, la leader dell’estrema destra proponeva di “proteggere” i francesi con misure per aumentare il potere d’acquisto (abbassamento dell’Iva su energia e carburante e abolizione su beni di prima necessità, pensione a 60 anni). Si trattava di misure che sollevano anche forti dubbi di costituzionalità e che a conti fatti non avrebbero favorito i più poveri, come ha notato l’Istituto Montaigne. È il caso dell’abolizione dell’Iva su un paniere di cento prodotti alimentari e d’igiene, molti dei quali hanno già un’aliquota ridotta del 5,5%.
Allontanato il pericolo Le Pen, il campo della conflittualità sociale è rimasto aperto. E i quasi otto milioni di francesi che hanno votato per il candidato dell’estrema sinistra, Jean Luc Mélenchon, ci dicono quanti ostacoli si frappongano alle riforme. Tanto più che il futuro governo di Emmanuel Macron è appeso al risultato delle elezioni legislative di giugno.
Ma siamo sicuri che il freno alle riforme è tutto nelle mani di sindacati oltranzisti, giovani rissosi, gilet gialli inferociti, politici estremisti e capipopolo visionari? Domanda retorica. Lo Stato francese, per quanto centralizzato ed elitario, appartiene a un’estesa classe di piccoli e grandi funzionari che lo gestiscono, ne fruiscono e talvolta lo esaltano. In vent’anni, i testi di legge sono aumentati del settanta%. La percentuale di impiegati in funzioni amministrative è del 34%, in Germania del 24. Nonostante un’estesa informatizzazione della macchina amministrativa, il taglio di almeno centomila funzionari, proposto dai tempi di Sarkozy, è ancora una chimera.
Infine occorre dire che, al di là dei buoni propositi, le priorità del Presidente rieletto sono al momento altre: guerra in Ucraina, sicurezza interna, immigrazione, transizione ecologica. Priorità che presuppongono ulteriori capitoli di spesa. Priorità che rafforzano collaudati meccanismi decisionali, secondo i quali la cabina di regia dell’Eliseo analizza, consulta, sceglie che cosa è bene per il popolo.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.