[BONN/MOSCA] Giornalista e saggista. Si occupa di spazio post sovietico per media italiani e stranieri.
La storia della neutralità della Germania
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Sono passati i tempi in cui la Germania diceva no agli Stati Uniti e alla Nato. Si parla di quasi vent’anni fa, qualche Governo addietro, prima della quaterna di Angela Merkel al Kanzleramt dal 2005 al 2021. Anche allora c’era un Cancelliere socialdemocratico alla guida del Paese, Gerhard Schröder, oggi considerato una paria nella Spd tedesca guidata da Olaf Scholz e anche dalla gran parte dello spettro politico teutonico, appiattitosi progressivamente sulle posizioni transatlantiche, e non solo dall’invasione russa dell’Ucraina iniziata alla fine di febbraio del 2022.
La Germania di Gerhard Schröder
Ma andiamo con ordine: era appunto il 15 febbraio del 2003 quando Schröder, capo di Governo nell’alleanza con i Verdi, si oppose con un duro discorso al Bundestag alla guerra in Iraq che stava prendendo forma tra Stati Uniti e Nato, con la cosiddetta Coalizione dei volenterosi capeggiata da George Walker Bush, sull’onda delle prove false sulle armi di distruzione di massa possedute da Saddam Hussein. Il 5 febbraio il generale statunitense Colin Powell aveva mostrato al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite le ampolle d’antrace e i piani dei laboratori iracheni che aprirono la via del conflitto cominciato il venti marzo e terminato da Bush il primo maggio con le storiche due parole “mission accomplished”. L’occupazione dell’Iraq sarebbe durata sino al 2011, il totale stimato di vittime civili in quel periodo varia sino al milione.
La Germania di Schröder se ne stette fuori, provocando più di un mormorio a Washington, dove da un partner importante come Berlino ci si aspettava ben altro. Lo stesso Schröder, del resto, già nel 2001 si era schierato con gli Usa e la Nato nella guerra in Afghanistan, con l’allora Ministro della Difesa Peter Struck che coniò il mantra per cui la sicurezza tedesca si difendeva anche sull’Hindukush, e ancora prima, nel 1998, pur senza il mandato dell’Onu, il Governo di socialdemocratici e Verdi aveva appoggiato l’intervento nella ex Yugoslavia e le bombe su Belgrado.
In realtà la rivolta di Schröder sull’Iraq è stata un’eccezione per la Germania che da sempre è stata un fedele alleato degli Stati Uniti e della Nato, sia prima che dopo la Riunificazione, quando comunque Berlino ha iniziato ad allacciare rapporti sempre più stretti con Mosca. Pur solidamente posizionata nell’Alleanza transatlantica e nell’Unione europea, la Germania è stata negli ultimi trent’anni un partner fondamentale per la Russia, non solo dal punto di vista economico e commerciale.
Dall’inizio degli anni Novanta, prima sotto Helmut Kohl da una parte e Mikhail Gorbaciov e Boris Yeltsin dall’altra, poi con Gerhard Schröder e Vladimir Putin, i due Paesi hanno sviluppato solidi rapporti, che inizialmente hanno fatto pensare alla possibilità di una partnership strategica più ampia, dalla “casa comune europea” in cui secondo Gorbaciov doveva trovar posto anche la Russia postcomunista, alla visione di un’Eurasia aperta da Lisbona a Vladivostock prospettata da Putin all’inizio del suo soggiorno al Cremlino.
Il Governo di centro-destra
Erano gli anni Duemila e se da una parte la Russia stava prendendo la sua strada, accompagnata dalla Germania di Schröder, che dopo aver ceduto il posto ad Angela Merkel nel 2005, sarebbe andato a Mosca a fare il lobbysta dell’energia, a Berlino arrivava appunto la protetta di Kohl, la cristiano-democratica venuta dalla Ddr, molto più accondiscendente del suo predecessore nei confronti di Usa e Nato.
Dopo sette anni di Governi rosso-verdi, dal 2005 ritorna quindi il centro-destra, che continua in sostanza a mantenere buone relazioni con il Cremlino e nel 2008 al consiglio Nato di Bucarest blocca, col sostegno francese, l’avvicinamento all’Alleanza di Ucraina e Georgia, sponsorizzato dagli Stati Uniti e dai nuovi entrati, dalla Polonia ai paesi baltici. Che la Germania di Merkel non sia quella di Schröder è però evidente, soprattutto dopo che passato il primo Governo di Grande coalizione con la Spd (2005-2009), al Governo con la Cdu arriva la destra della Fdp, i liberali guidati da Guido Westerwelle, anche loro tradizionalmente filostatunitensi (2009-2013).
Non è un caso che uno dei più grandi scandali del Dopoguerra tra Berlino e Washington, quello dello spionaggio diretto della Nsa nei confronti della Cancelliera e di altri politici tedeschi, emerso nel 2013, venga fatto scivolare via in fretta dal governo, con Merkel che rimprovera a Barack Obama solo il fatto che “tra amici non ci si dovrebbe spiare”. La vicenda, venuta alla luce grazie ai documenti resi pubblici da Edward Snowden, poi riparato in Russia, non è tanto diversa da quella di un paio di anni prima, con le rivelazioni di Wikileaks sulla condotta della coalizione occidentale in Afghanistan, tedeschi compresi, che invece di servire ad aggiustare le misure in quella guerra che continuerà sino al disastroso ritiro nel 2021 con il Paese di nuovo in mano ai Talebani, servono per far diventare un criminale Juliane Assange che, con l’estradizione negli Stati Uniti concessa dalla Gran Bretagna, rischia di passare il resto della vita in galera. Merkel, sollecitata da più parti nel corso dei suoi Governi a ingaggiarsi per Assange, non muoverà mai un dito.
La politica estera dal 2013
Nel 2013 emerge anche con evidenza come la politica estera tedesca si faccia sempre meno indipendente e si accodi sempre più alle linee dettate da Washington. Mentre in Turchia, paese membro della Nato, il presidente Recep Tayyp Erdogan smorza le proteste a Gezi Park e in tutto il paese con il pugno di ferro, tra una decina di morti e migliaia di arresti, senza che nessuno in Europa o altrove muova un dito, a Kiev le manifestazioni contro il capo di Stato Victor Yanukovic si trasformano in una questione internazionale con gli Stati Uniti e vari paesi dell’Alleanza atlantica in piazza a fianco dell’opposizione, guidata da Arseni Yatseniuk, ex governatore della Banca centrale e vicino a Washington, Oleg Tiahnybok, leader del partito della destra radicale Svoboda, e Vitaly Klitschko, ex campione del mondo di box cresciuto politicamente alla corte della Konrad Adenauer Stiftung, la fondazione della Cdu.
Angela Merkel governa adesso (2013-2017) di nuovo con la Spd, il Ministro degli Esteri è il socialdemocratico Frank Walter Steinmeier. Sarà lui, insieme ai colleghi francese e polacco, a controfirmare il compromesso tra Yanukovich e l’opposizione dopo il bagno di sangue di Maidan nel febbraio del 2014. Diventerà carta straccia dopo la fuga del Presidente e l’insediamento di un Governo filoatlantico guidato da Yatseniuk e con la nuova Ministra delle Finanze Natalie Yaresko arrivata direttamente da Washington. La Germania riceve dagli Stati Uniti il compito di preoccuparsi della mediazione nel conflitto che si apre nel Donbass, dopo l’annessione della Crimea da parte della Russia. Merkel e Steinmeier tentano di stare in equilibrio tra le esigenze europee e soprattutto tedesche, che consigliano il dialogo con Mosca, e le istanze degli Usa e della Nato, che spingono per tenere Kiev lontano da Mosca.
Il resto è storia più recente: dopo l’ultimo Governo Merkel (2017-2021) arriva quello semaforo, composto da Spd (rosso), Grünen (verde) e Fdp (giallo), ma il prodotto non cambia, anzi. La linea dettata da Washington, le pressioni per l’abbandono del gasdotto Nord Stream 2, quelle per le forniture di armi a Kiev dopo l’inizio dell’invasione russa, diventano le parole d’ordine soprattutto dei vecchi atlantisti liberali e di quelli nuovi, cioè i Verdi, passati dal pacifismo antiamericano degli anni Ottanta al militarismo antirusso del giorno d’oggi. Gli Stati Uniti, la Nato, sono diventati i direttori della politica estera tedesca, nonostante le resistenze, deboli, del Cancelliere Olaf Scholz. Quel minimo di autonomia che aveva mostrato Gerhard Schöder ai tempi dell’Iraq è ora impossibile nel caso ucraino, anche se Berlino non ha chiuso totalmente i canali con Mosca, non solo quelli del gas, ben sapendo comunque che la Russia non è solo Vladimir Putin e prima o poi anche questa guerra finirà.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
Il trentennio di Vladimir Putin
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Fra due anni ci saranno le elezioni presidenziali. La domanda, non scontata, è se Vladimir Putin rimarrà ancora al Cremlino. Non è tanto una questione di democrazia, visto che la Russia nemmeno ai tempi di Boris Yeltsin, che dopo due mandati pianificò la sua successione a tavolino, annunciandola il 31 dicembre del 1999 in diretta televisiva, è mai stato un Paese in cui la volontà popolare è stata decisiva; piuttosto si dovrà attendere di sapere se l’attuale capo di Stato sceglierà di rimanere altri sei anni al vertice della Federazione. Dopo la nomina di Yeltsin e l’elezione nel marzo 2000, Putin è stato sempre al Cremlino, fatta eccezione dei quattro anni in cui ha lasciato il posto al delfino Dmitri Medvedev. Una staffetta che allora scatenò le maggiori proteste di piazza dell’ultimo ventennio. Putin nel 2024 compirà 74 anni e ne avrebbe davanti ancora sei alla guida del Paese. Salvo imprevisti.
Negli ultimi due incarichi (2012-2018, 2018-oggi) è stato evidente l’accentramento del potere nelle mani del Presidente, attraverso il prolungamento del mandato da quattro a sei anni e altre modifiche costituzionali che hanno in sostanza emarginato la Duma e il Governo: il sistema Putin, inteso non solo in riferimento alla “democratura” (democrazia+dittatura) e all’egemonia presidenziale, ma all’intera architettura che comprende i vari bracci dello Stato, dall’amministrazione ai servizi, si è rafforzato progressivamente a spese degli elementi democratici della politica e della società, con la conseguente riduzione degli spazi, tra l’altro, per l’opposizione non sistemica, cioè quella non funzionale al mantenimento dell’ordinamento attuale, e la libertà di stampa. Tutto questo non fa che confermare che qualsiasi cosa succederà nel 2024, non saranno certo gli elettori russi a determinarlo e saranno più che altro chiamati a ratificare decisioni prese nei corridoi del Cremlino.
La Russia post Putin
Gli aspetti da considerare sull’eventuale post Putin sono però due: se è vero che il Presidente deciderà da solo se ricandidarsi o meno, è altrettanto vero che il suo possibile successore avrà sicuramente più padri e sarà scelto anche e soprattutto dai poteri forti alle spalle del Presidente, che in questi anni da una parte l’hanno sostenuto e dall’altra si sono talvolta fatti la guerra. Immaginare il Cremlino come un blocco monolitico vuol dire non vedere tutte le torri che lo proteggono. Considerati gli sviluppi più recenti e l’involuzione autoritaria interna, in parallelo all’aggressivo ritorno sulla scacchiera internazionale, in primo luogo con l’operazione militare iniziata in Ucraina, ma non solo, dall’Asia centrale al Mediterraneo e all’Africa, sembra che i gruppi più conservatori abbiano avuto la meglio, almeno al momento, su quelli più liberali e il loro peso si farà sentire maggiormente nella scelta del successore.
Nomi? Ancora nessuno, anche perché la partita non è davvero cominciata e, se Putin decidesse di passare il testimone, lo farebbe in ogni caso nel corso del prossimo anno, probabilmente a pochi mesi dal voto, come fece Yeltsin con lui e lui stesso poi con Medvedev. Tanto più che il capo dello Stato è impegnato nel duello con l’Occidente, dal cui esito potrebbe dipendere proprio la decisione di rimanere direttamente nella stanza dei bottoni. Teoricamente sono possibili anche altre soluzioni, come quella adottata inizialmente in Kazakistan, dove il leader storico Nursultan Nazarbayev si è prima fatto da parte abbandonando la presidenza, ma tenendo le redini del paese dal Consiglio di sicurezza, per poi cedere definitivamente di fronte alla lotta interna tra le fazioni. Una tecnica però, alla luce dei recenti avvenimenti nella repubblica centroasiatica, molto rischiosa. L’operazione successione, indipendentemente dal momento in cui avverrà, terrà conto soprattutto del ruolo che avrà la Russia nel nuovo mondo multipolare, dove gli Stati Uniti non sono più i soli a determinare gli equilibri.
Il consenso interno
Per quel che riguarda le questioni interne invece la strada per il futuro a breve termine è tracciata e non prevede ostacoli insormontabili. Tutto sommato infatti al momento il consenso di Putin nel Paese è rimasto buono, in risalita negli ultimi mesi verso il 70% (69% a gennaio 2022 secondo il Levada Center), dopo i due scivoloni che, nel 2018 a causa della riforma delle pensioni e nel 2020 con la pandemia, lo avevano fatto crollare dall’80% al 60%. È il politico che gode maggior fiducia (33%), seguito dal Ministro della Difesa Sergei Shoigu (12%) e quello degli Esteri Sergei Lavrov (11%) insieme con il premier Mikhail Mishustin (11%). Insomma, non ha rivali e i più popolari sono due vecchie volpi che non saranno certo candidati alla successione. L’oppositore Alexey Navalny gode della fiducia del 3% dei russi ed è in carcere, escluso in partenza in una gara che non avrebbe in ogni caso potuto vincere. C’è un grande punto di domanda però su quale effetto avrà l’invasione dell’Ucraina su questi numeri. Il nome comunque andrà cercato tra coloro che negli ultimi anni si sono conquistati la fedeltà di Putin e probabilmente hanno avuto o hanno ruoli chiave nell’amministrazione presidenziale, la vera macchina del potere all’interno del Cremlino, o negli immediati dintorni.
La posizione di Vladimir Putin appare quindi solida, al di là di quello che succede nei palazzi moscoviti e al posizionamento dei vari gruppi. Si potrebbe però indebolire con il peggioramento della situazione economica e le nuove sanzioni occidentali che potrebbero incidere in maniera pesante sull’economia proprio nella fase pre-elettorale. Per il momento però a Mosca si pensa di avere il coltello ancora dalla parte del manico e in ogni caso non si temono gravi sconvolgimenti a livello interno. Anche le elezioni della Duma lo scorso autunno, benché tenute nella solita cornice “democraturiale”, hanno visto la partecipazione di oltre il 51% dell’elettorato e la consueta distribuzione dei seggi tra i partiti dell’opposizione sistemica che ormai da quattro lustri sostengono, approfittandone, il sistema Putin.
Così i comunisti di Gennady Zyuganov, i liberaldemocratici di Vladimir Zhirinovsky, i socialdemocratici di Sergei Mironov e i nuovi arrivati, la Nuova gente di Alexey Nachayev, costituiscono la base e la garanzia per l’esercizio, formale, della democrazia in Russia. La maggioranza è detenuta dalla formazione del Presidente, Russia Unita, definita da Navalny “il partito dei ladri”, ma che anche i sondaggi indipendenti del Levada Center danno sempre in testa (27% nel dicembre 2021, seguito dal Partito comunista con il 15%). Che la maggioranza dei russi sia dalla parte delle istituzioni, nazionali e locali, controllate in larga parte da Russia Unita, lo confermano sempre i numeri: quelli che valutano positivamente l’operato di Mishustin (59% nel gennaio 2022) e dei governatori regionali (59%). Non pare esserci quindi nella Russia putiniana di oggi un’aria anti-presidenziale o anti-governativa, nella tradizione di un elettorato abituato a prediligere la stabilità piuttosto che i cambiamenti. Questo vale naturalmente per quella parte dell’elettorato che ha vissuto come uno shock il primo decennio della transizione postcomunista sotto Yeltsin, quando la Russia ha rischiato di collassare tra colpi di stato, guerre e default economici. Le giovani generazioni, che conoscono solo Putin, aspirano a un cambiamento che però sanno essere difficile da ottenere, anche perché ai piani alti dei palazzi il cambio generazionale è comunque già cominciato con la cooptazione di chi è fedele al sistema.
Nonostante negli ultimi otto anni, dopo la crisi ucraina e le sanzioni occidentali che inizialmente, anche in concomitanza con il ribasso dei prezzi degli idrocarburi, si sono fatte sentire sull’economia del Paese, il consenso nei confronti di Putin è rimasto buono, superiore ai livelli del primo biennio del terzo mandato (2012-2014), prima che schizzasse all’80% dopo l’annessione della Crimea. Come inciderà l’attacco in Ucraina è ancora tutto da vedere. La mancanza di alternative reali, però, al di là del wishful thinking occidentale intorno alla figura di Alexey Navalny, rendono la questione della successione riservata come sempre alle élite dominanti, tra le quali Vladimir Putin ha avuto sempre la funzione di mediatore e con le quali si accorderà sia per le garanzie per la propria uscita di scena che per il nome del prossimo inquilino del Cremlino.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
Russia, le prossime elezioni per la Duma
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Le elezioni per la Duma non sono mai state molto significative. Non durante il decennio di Boris Yeltsin (1991-2000), quando il pluralismo era più accentuato, e sempre meno nel corso del ventennio putiniano (2000-oggi), in cui l’irrigidimento della “democratura” russa, con la marginalizzazione del Parlamento e l’opposizione sistemica a fare sempre più il gioco dei poteri forti e di Russia Unita, il partito di Vladimir Putin, ha contribuito alla perdita di importanza del voto nazionale per l’assemblea legislativa. Ciò nonostante hanno rappresentato almeno una volta, nel 2011, il punto di partenza per le forti proteste della variegata parte dell’elettorato anti sistemico: in quell’occasione le elezioni e le grandi manifestazioni di piazza hanno coinciso con il ritorno di Putin al Cremlino dopo la staffetta con Dimitry Medvedev (2008-2012), fattore determinante per l’accensione della miccia di quella era stata definita da alcuni come una primavera russa e poi si era dissolta ovviamente nel nulla.
Le possibilità che dieci anni dopo la storia si ripeta sono tutto sommato remote, in primo luogo perché la Russia negli ultimi anni ha adottato un modello più autoritario dove lo Stato si sta impegnando per il controllo e la repressione, più stringente della “democrazia sovrana” teorizzata da Vladislav Surkov tre lustri fa; in secondo luogo perché non si scorge ora come possa brillare una scintilla in grado di avviare un cambiamento radicale. La vicenda di Alexey Navalny, figura di riferimento di un lembo dell’opposizione extraparlamentare, elevato a rivale numero uno di Putin dalla stampa occidentale e finito nelle patrie galere, è solo l’esempio di come i poteri forti, al e nei dintorni del Cremlino, trattano gli avversari scomodi e rumorosi, non certo però la rappresentazione di una realtà manichea di un paese diviso in buoni e cattivi, dove il principe del Male è Vladimir Putin e l’eroe del Bene appunto Alexey Navalny.
La Russia è molto più complessa di come viene descritta in Occidente e il Cremlino ha più torri e corridoi di quanti non se ne vedano: la struttura di potere non è monolitica e non guardare sotto la punta dell’iceberg serve solo alla propaganda. I russi stessi sono i primi testimoni di tutto questo, partendo dal fatto che la stragrande maggioranza di loro (il 62% secondo i dati di un’indagine del Levada Center di luglio), disapprova le attività di Navalny, mentre il 14% è a favore. I valori negativi sono addirittura quasi raddoppiati dal 2013. Le cifre, a cui se ne possono aggiungere altre dello stesso tono, stridono con l’immagine diffusa all’estero di un popolo russo soffocato da Putin e bisognoso dell’aria fresca di Navalny. Non solo: i rating del Presidente sono stabilmente al di sopra del 60%, dopo il tonfo, si fa per dire, di un anno fa, quando erano scesi al 59%. In aggiunta, per sottolineare la fiducia dell’elettorato nel sistema Putin, va detto che dal gennaio 2020, da quando cioè Mikhail Mishustin ha sostituito al governo Medvedev dopo 8 anni, anche il Primo Ministro è sempre sopra il 50% e ha invertito il rapporto negativo del suo predecessore. L’80% dei russi non ha nessuna intenzione di scendere in piazza per questioni politiche, il 16% è disposto a farlo.
Non pare insomma che la situazione in Russia nell’estate prima delle elezioni sia esplosiva o la nazione sia in preda a crisi politico-sociali irreversibili. Presidente e governo godono di buona fiducia, l’umore nel Paese risponde alla classica esigenza di stabilità, o paura del cambiamento, che contraddistingue i russi. Navalny in carcere non è certo una spina nel fianco sanguinante del Cremlino e anche se il suo caso, a corrente alternata, continuerà a intralciare simbolicamente i rapporti tra Mosca e Occidente, non influenzerà più di tanto le questioni interne russe, almeno sul breve periodo e finché comunque verrà tenuto fuori dai giochi di potere e non troverà forti alleati anche all’interno del sistema. La cornice internazionale vede Mosca in prima fila tra i player senza i quali non si possono risolvere le crisi, dalla Libia alla Siria, dall’Ucraina all’Iran e ovviamente all’Afghanistan. In più, l’emergenza Covid, sebbene tra luci e ombre nella gestione da parte delle autorità e nel complicato approccio della popolazione, non pare aver inciso molto, né nel rapporto tra stato e società, senza cioè esasperazioni e divisioni, né sul lato economico.
Secondo l’ultimo rapporto della World Bank l’economia russa crescerà nel 2021 e nel 2022 del 3,2%, nel 2023 del 2,3%. Passi piccoli, sufficienti però a recuperare il terreno perduto durante gli ultimi due anni a causa della pandemia e in un contesto mondiale analogo, dove l’economia mondiale ha perso in media il 3,8%, il 5,4% se si guardano solo i paesi avanzati. La ripresa dovrebbe essere sostenuta anche dai prezzi del petrolio in rialzo, dall’aumento dei consumi delle famiglie e degli investimenti pubblici. Per gli analisti della Banca mondiale la buona performance dell’economia russa nel contesto internazionale si deve agli sforzi di stabilizzazione macro economica fatti sotto Putin anche negli ultimi anni, soprattutto da quando il Paese è stato colpito dalle sanzioni occidentali avviate dopo la crisi ucraina del 2014, che hanno portato a migliori risultati di bilancio. Inoltre si è registrata una maggiore regolamentazione e supervisione nel settore bancario, con capitali rafforzati e aumentate riserve di liquidità; i legami più stretti con la Cina, anche a causa del boicottaggio sul fronte occidentale, hanno offerto più slancio e l’ampio settore pubblico ha fatto da tampone contro la disoccupazione. Se i salari medi reali sono aumentati nel biennio 2019-20, il reddito disponibile pro capite è stato invece rosicchiato dalla crisi. Al momento circa il 12% dei russi vive sotto la soglia di povertà (era quasi il 25% nel 2002, oltre il 40% nel 1999), il nuovo piano nazionale prevede di arrivare al 6% nel 2030. Detto in soldoni, la Russia di Putin, pur soffrendo delle solite malattie strutturali, dalla “Dutch disease” alla corruzione dilagante, non sembra essere proprio sull’orlo della catastrofe, almeno per ora.
Il quadro economico, insieme a quello politico, consente dunque all’inquilino del Cremlino di dormire in fondo sonni tranquilli. Benché rigido e invecchiato, il sistema Putin è ancora solido e se da un lato dà segnali di stanchezza, non mancano quelli di rinnovamento, anche se l’impressione di fondo è che il nodo chiave del passaggio di potere dalla vecchia generazione a quella nuova, come accaduto con Yeltsin-Putin tra il 1998 e il 2000, non sia ancora stato risolto. La competizione tra i gruppi di potere nella quale il presidente in questi anni è stato arbitro e mediatore continua ad andare a corrente alternata verso l’appuntamento fondamentale, quello sì, delle elezioni presidenziali del 2024. Il voto alla Duma da questo punto di vista si inserisce nella fase di transizione in cui il Cremlino crede ancora nella vecchia guardia, visto che i due candidati di punta di Russia Unita sono il Ministro degli Esteri Sergei Lavrov e quello della difesa Sergei Shoigu. Accanto alla sorpresa Mishustin, tirato fuori dal cilindro meno di due anni fa, sono comunque le pedine più affidabili per Vladimir Putin nel cementare il consenso in parlamento.
È certo però anche che la fiducia verso il partito del Cremlino non sarà quasi totale come è stato nel passato. Soprattutto nelle metropoli, da Mosca e Pietroburgo, ma anche all’est del paese, la domanda per un ricambio della classe dirigente è cresciuta negli ultimi anni e solo raramente ha trovato soddisfazione. Troppo poco per una rivoluzione, ma abbastanza per fa scattare il campanello d’allarme: Putin, al di là dei compromessi con l’opposizione sistemica di liberaldemocratici, comunisti e socialdemocratici, dovrà trovare in qualche modo un equilibrio con le spinte extraparlamentari che verranno nei prossimi mesi e anni.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.