[Roma] Analista politico e ricercatore specializzato in sicurezza internazionale e geoeconomia. Si occupa principalmente di Unione europea, Caucaso meridionale e India. Collabora con Il Caffè Geopolitico e New Eastern Europe.
India/Israele: il sostegno di Modi a Netanyahu
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Lo scorso 7 ottobre, poche ore dopo la diffusione delle notizie relative all’attacco condotto da Hamas nel sud di Israele, il Primo Ministro indiano Narendra Modi è stato tra i primi leader mondiali a inviare un messaggio di solidarietà alle famiglie delle vittime e al Paese ancora sotto shock. Pochi minuti dopo, anche il Ministro degli Esteri indiano, Subrahmanyam Jaishankar, ha espresso il suo supporto alla popolazione colpita e a tutto lo Stato di Israele. A dicembre, oltre due mesi dopo l’inizio della campagna militare condotta dalle Forze di difesa israeliane per disarticolare Hamas, Modi ha avuto uno scambio telefonico con l’omologo israeliano Benjamin Netanyahu. Al termine del colloquio, il Premier indiano non ha fatto nessun richiamo espresso alla moderazione, al tema delle colonie o alla soluzione dei due Stati, scelta dal forte valore simbolico che lo ha di fatto differenziato da gran parte dei leader mondiali. Una vicinanza, quella indiana, che si è manifestata in tutti questi mesi anche in sede ONU. In particolare, il 27 ottobre scorso, Nuova Delhi ha optato per l’astensione sulla risoluzione approvata dall’Assemblea Generale nella quale si chiedeva una tregua umanitaria immediata e duratura nella Striscia di Gaza. Con questa serie di prese di posizione la leadership del Bharatiya Janata Party (BJP), il partito nazionalista indù che guida l’India dal 2014, non solo ha voluto mostrare a Israele pieno sostegno, ma ha anche annunciato al mondo che la linea del Paese sul conflitto israelo-palestinese è definitivamente mutata.
Per decenni, infatti, l’India ha mantenuto una posizione essenzialmente filo-palestinese, in linea con quella espressa dal Movimento dei Paesi non allineati, del quale è sempre stata esponente rilevante. Circa tre mesi dopo la dichiarazione di indipendenza indiana dell’agosto 1947, in particolare, Nuova Delhi decise di schierarsi, con altri 12 Stati, contro il Piano di partizione della Palestina presentato alle Nazioni Unite. Nel 1974, la leader del Congresso Nazionale, Indira Gandhi, scelse di riconoscere l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) come unico e legittimo rappresentante del popolo palestinese e, nel 1988, l’India si distinse per essere uno dei primi Paesi uno dei primi Paesi a maggioranza non musulmana a riconoscere lo Stato di Palestina. Parallelamente, le politiche indiane nei confronti di Israele sono state caratterizzate da forte ostilità. Nel 1949, per esempio, pochi mesi prima di procedere al riconoscimento formale dello Stato di Israele, l’India si schierò contro l’ingresso del Paese mediorientale nelle Nazioni Unite, allineandosi in fase di votazione addirittura con il rivale pachistano. Le relazioni tra i due Paesi iniziarono a mutare solo quando, nel 1962, l’allora Primo Ministro israeliano David Ben Gurion decise di inviare armi all’India impegnata a combattere l’esercito cinese lungo i confini himalayani. Il sostegno israeliano venne riproposto anche in seguito, nel corso della seconda e della terza guerra indo-pachistana, ma ciò non impedì all’India di votare a favore della risoluzione ONU che, nel 1975, equiparò il sionismo al razzismo. In quegli stessi anni, tuttavia, si registrarono anche i primi contatti tra il Mossad e la Research and Analysis Wing, l’agenzia di intelligence indiana, che contribuirono a favorire la normalizzazione dei rapporti avviata negli anni Novanta e completata, nel 1992, dal Primo Ministro indiano P.V. Narasimha Rao.
Da quel momento, i rapporti bilaterali si sono sviluppati con estrema rapidità, come dimostra la crescita dell’interscambio commerciale complessivo, passato dai circa 200 milioni di dollari del 1992, ai circa 10,1 miliardi dell’anno fiscale 2022-23, cui vanno sommati almeno altri 2 miliardi relativi al settore Difesa. Proprio quest’ultima dimensione è divenuta centrale nel rapporto tra i due Paesi, con Israele che in tempi recenti si è affermato come secondo fornitore di sistemi d’arma e tecnologie militari per l’India. In particolare, il SIPRI di Stoccolma segnala come, tra il 2018 e il 2022, circa il 37% delle esportazioni di armi di Israele, tra cui missili, droni, sensoristica, radar e altri sistemi di difesa aerea, siano state destinate proprio al mercato indiano. Il partenariato bilaterale nel settore Difesa è così profondo che, lo scorso dicembre, i vertici militari indiani hanno espresso preoccupazione per l’impatto che uno sforzo bellico israeliano prolungato potrebbe avere sulle Forze Armate di Nuova Delhi. Il solido legame bilaterale indo-israeliano è stato poi rafforzato, in maniera decisa, dalla salita al potere di Modi nel 2014. Tre anni più tardi, infatti, il leader del BJP fu il primo Premier indiano a recarsi in Israele in visita ufficiale e, in quell’occasione, i due Paesi decisero di elevare le relazioni a partenariato strategico. L’anno successivo, Netanyahu decise di ricambiare la cortesia recandosi in India, dove vennero siglati accordi di cooperazione nei settori dell’energia, delle infrastrutture e delle nuove tecnologie. Il partenariato è andato espandendosi grazie anche alla creazione di joint venture nel settore Difesa e attraverso scelte di investimento mirate nei rispettivi asset strategici, come nel caso dello sviluppo del porto in acque profonde di Haifa sul quale sta lavorando il conglomerato indiano Adani Group.
Tuttavia, nel contesto del lungo conflitto a Gaza, questo forte legame con Israele potrebbe creare problemi all’India, tanto sul piano della credibilità internazionale, quanto sul fronte interno. Nuova Delhi, infatti, si è apertamente candidata nel corso del 2023 a guidare il cosiddetto “Global South”, concetto ingannevole ed essenzialmente politico con il quale si identifica l’eterogeneo gruppo di Paesi a medio e basso reddito che contestano l’assetto unipolare. A riprova del suo impegno sul tema, l’India ha anche scelto di organizzare i primi due summit virtuali del raggruppamento denominati “Voice of Global South”, tenutisi nel gennaio e nel novembre 2023, rivendicandone pubblicamente il successo. Proprio sulla questione del conflitto in Medio Oriente, però, si registra un forte disallineamento tra l’India e i suoi partner del Sud globale. Gran parte dei pesi massimi che compongono questo schieramento, ossia Cina, Brasile, Indonesia e Sudafrica, ma anche la stragrande maggioranza dei Paesi arabi, africani e latino-americani, hanno mantenuto un atteggiamento di distacco, se non apertamente critico, nei confronti di Israele in questi mesi, soprattutto in sede ONU. Il pieno allineamento indiano con Israele, inoltre, isola parzialmente Nuova Delhi anche nel contesto della Shanghai Cooperation Organization (SCO) e dei BRICS+, altro raggruppamento quest’ultimo in cui il Paese di Modi ambisce a ricoprire un ruolo di rilievo. Nel corso della votazione in Assemblea Generale dello scorso ottobre, ad esempio, l’Etiopia è stata il solo membro dei BRICS allargati ad astenersi insieme all’India sulla questione della cessazione delle ostilità e il rispetto del diritto umanitario internazionale a Gaza. In questo contesto, il Ministro Jaishankar è stato in qualche modo costretto a spiegare all’opinione pubblica internazionale la presa di posizione indiana legandola alla lotta, condivisa con Israele, contro ogni forma di terrorismo islamico. Consapevoli di ciò, le autorità israeliane hanno simbolicamente ricambiato il supporto ricevuto nell’arena internazionale inserendo l’organizzazione Lashkar-e-Taiba, realtà jihadista accusata di essere dietro gli attacchi di Mumbai del 2008, nella lista dei gruppi terroristici. Di contro, la posizione indiana è stata accolta con disappunto dai vertici politici di molti Paesi a maggioranza musulmana costantemente sotto attacco da parte di realtà quali lo Stato Islamico, tanto in Asia quanto in Africa. Il rischio principale relativo all’assenza di un consenso politico in seno ai raggruppamenti e alle organizzazioni di cui l’India è parte integrante, riguarda la capacità stessa di tali entità di produrre risultati concreti. Proprio il mancato allineamento sulle grandi questioni geopolitiche e geoeconomiche, infatti, ha minato nel tempo la capacità di realtà come SCO e BRICS+ di affermarsi, rafforzarsi e incidere nell’arena internazionale.
Altro fronte di difficile gestione per la diplomazia indiana nel contesto del conflitto a Gaza è quello dei rapporti con l’Iran. La Repubblica Islamica, infatti, si è mostrata da subito in prima linea al fianco dei gruppi palestinesi attivi nella Striscia e in Cisgiordania, con i quali ha sviluppato nel tempo forme di coordinamento e ai quali ha spesso fornito supporto logistico-addestrativo. A metà gennaio, a seguito di un incontro tra i rispettivi Ministri degli Esteri, il forte disallineamento tra India e Iran è emerso in tutta la sua forza al momento della stesura dei comunicati ufficiali, i cui testi appaiono profondamente diversi. Questa distanza tra i due Paesi rischia di mettere a repentaglio il già complesso piano di sviluppo di progetti congiunti come l’International North-South Transport Corridor (INSTC), il corridoio multimodale che mira collegare le coste occidentali dell’India alla Russia e all’Asia Centrale, attraverso il porto iraniano di Chabahar. A fronte di un conflitto prolungato, prospettiva più volte espressa dalla leadership israeliana, l’allineamento con Israele potrebbe raffreddare parzialmente anche le relazioni tra l’India e gli storici partner del Golfo, centrali nello sviluppo dell’India-Middle East-Europe Economic Corridor (IMEC), presentato al G20 di Nuova Delhi lo scorso settembre e ora sostanzialmente “congelato”. L’India, in particolare, potrebbe trovarsi in forte imbarazzo di fronte ai propri partner arabi (soprattutto Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti) qualora Israele insistesse sulla proposta di un piano di ricollocazione forzata dei palestinesi lontano da Gaza.
Ma il supporto a Israele potrebbe creare all’India anche problemi sul fronte interno, soprattutto in vista delle imminenti elezioni politiche che chiameranno alle urne anche l’ampia comunità musulmana del Paese, pari a circa 200 milioni di persone. Già nelle prime settimane dopo l’inizio della massiccia operazione militare israeliana a Gaza, ampi settori della popolazione di fede islamica hanno deciso di scendere in piazza per mostrare solidarietà al popolo palestinese. Manifestazioni particolarmente partecipate si sono registrate, tra gli altri, nello Stato federale meridionale del Kerala, dove vive un’ampia comunità musulmana di circa 9 milioni di persone. Anche il Chief Minister dello Stato, Pinarayi Vijayan, ha utilizzato in questi mesi il tema del supporto indiano a Israele per attaccare il governo Modi. Ma la situazione che preoccupa maggiormente i vertici politici indiani è senza dubbio quello del Kashmir. Nei territori kashmiri sotto controllo indiano, in particolare, le autorità di Nuova Delhi hanno introdotto restrizioni alle manifestazioni in supporto della popolazione di Gaza e ampie pressioni sono state fatta sui vertici delle comunità islamiche locali affinché evitino sermoni incendiari.
Consapevole degli elevati rischi che un supporto incondizionato a Israele potrebbe comportare, l’India ha deciso di ricalibrare parzialmente la propria strategia. Già lo scorso 12 dicembre, infatti, Nuova Delhi ha votato a favore di una risoluzione dell’Assemblea Generale ONU, sostanzialmente uguale a quella dell’ottobre precedente, con la quale si chiede a Israele un cessate il fuoco immediato e maggiori garanzie per i civili. In un estremo sforzo utile a non irritare Tel Aviv, i delegati indiani hanno tuttavia appoggiato tutti gli emendamenti proposti dagli israeliani, poi rigettati dall’Assemblea. Nel contesto attuale, dunque, l’India appare costretta nuovamente a fare i conti con i limiti insiti nella propria strategia nazionale, il cui pragmatismo quasi radicale rischia spesso di essere percepito dai partner internazionali come vera e propria ambiguità.
India-Usa, alleati per scelta o per necessità?
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Nel 2006, l’ex ambasciatore statunitense in India Robert Blackwill affermò che nei successivi 10-15 anni, ossia non appena l’azione esterna di Pechino fosse diventata più aggressiva, avremmo assistito a un “naturale avvicinamento” tra Delhi e Washington. Tale previsione, all’epoca considerata azzardata, appare oggi, al contrario, estremamente accurata. In effetti, i recenti avvenimenti internazionali sembrano favorire l’apertura di un nuovo capitolo delle complesse relazioni indo-americane. In particolare, la crescente minaccia posta dall’ascesa del comune “nemico” cinese pare in grado di appianare le divergenze, comprese quelle emerse sull’Ucraina, che hanno frenato nel tempo il consolidamento del partenariato strategico voluto da G.W. Bush e A.B. Vajpayee, nei primi anni duemila.
Un riallineamento tra Delhi e Washington innescato dall’assertività di Pechino confermerebbe, peraltro, un dato storico dei rapporti tra i due Paesi, plasmati dalla diversa percezione della minaccia cinese nel corso del tempo. Non per caso, gli anni di maggiore intesa tra India e Stati Uniti furono quelli a cavallo tra i ‘50 e i ’60 quando la pressione cinese sui confini indiani portò allo scoppio del conflitto sull’Himalaya, nel 1962. Per il subcontinente le relazioni con gli Usa e, di conseguenza, quelle con i russi, sono state spesso legate alla ricerca di supporto nel confronto permanente con il regime cinese, alleato storico del Pakistan. Lo stesso trattato di amicizia indo-sovietico, la cui firma fu ritardata anche per timore della reazione americana, fu siglato solo nell’agosto 1971, poche settimane dopo la visita segreta di Kissinger a Pechino, via Islamabad, che segnava il disgelo delle relazioni Usa-Cina e la conseguente fine del sostegno a Delhi nelle guerre indo-pakistane. Da allora, in risposta all’isolamento, Delhi ha consolidato i rapporti con Mosca che si è imposta come partner indispensabile per la fornitura di tecnologie in settori strategici, come il nucleare, a lungo negate dagli Stati Uniti.
Tuttavia, oggi qualcosa sembra essere cambiato. Anzitutto, in nome della priorità assoluta accordata alle dinamiche di sicurezza nell’Indo-Pacifico, Washington sembra disposta a sorvolare sulla mancata condanna indiana dell’invasione dell’Ucraina e proseguire il percorso di riallineamento con Delhi. In questo quadro, va inserita la votazione della Camera statunitense sull’estensione della deroga alle sanzioni contro l’India relative all’acquisto dei sistemi missilistici di difesa aerea russi S-400. Tale decisione, dimostra una rinnovata attenzione nei confronti delle esigenze del partner indiano che mira a dispiegare gli S-400 sul fronte himalayano, dove si registrano ripetute incursioni aeree cinesi lungo la linea di controllo effettivo che delimita il confine tra i due Stati.
Nel complesso, la strategia statunitense mira a inserire Delhi nello schieramento anticinese che va delineandosi in Asia. Tuttavia, la forte dipendenza indiana dall’export militare e dalla tecnologia russa, fattore che rende impossibile per Delhi sanzionare Mosca, complica la realizzazione dei piani statunitensi. Anche per questo, Washington sta cercando di trasformare le contraddizioni sollevate dal conflitto in Europa in opportunità. In quest’ottica, il pragmatismo della politica estera indiana, guidata dal Ministro degli Esteri Jaishankar, ex ambasciatore negli Usa, lascia ampi margini di manovra agli americani. Come dimostra l’aumento esponenziale delle importazioni di petrolio russo a prezzo scontato, utili al governo Modi per controllare l’inflazione, realismo e perseguimento dell’interesse nazionale dominano le scelte indiane. Di conseguenza, posta di fronte a solide garanzie di sicurezza e partenariati alternativi, Delhi non dovrebbe avere molta difficoltà a riorientare la sua politica estera, come già accaduto in passato. Questo aspetto non è sfuggito all’influente Sottosegretario di Stato Victoria Nuland la quale, lo scorso marzo, ha annunciato ai media indiani l’intenzione di rimpiazzare la tecnologia russa, anche in ambito militare, con quella occidentale.
In questa fase, gli Stati Uniti, già saldamente sul podio dei principali fornitori di armamenti dell’India, premono anche sul tema dell’inaffidabilità russa per consolidare il partenariato con la difesa indiana. Lo sforzo bellico delle forze di Mosca, più oneroso del previsto in termini di uomini e mezzi, e le sanzioni internazionali, infatti, potrebbero impattare negativamente sull’export militare russo, da cui le forze armate indiane dipendono anche per effettuare le manutenzioni. I possibili contraccolpi derivanti dal conflitto in Ucraina animano anche il dibattito interno alla comunità strategica indiana che teme, soprattutto, lo scivolamento di una Russia indebolita nell’orbita cinese. Altrettanto preoccupante è anche la questione delle prestazioni non esaltanti dei sistemi d’arma russi, abbondantemente presenti nei magazzini delle forze armate indiane.
In questo contesto, l’India rischia di essere più vulnerabile sul campo e di vedere indebolita la propria posizione negoziale nella disputa in corso con la Cina sul Ladakh. Per evitare questo scenario, Delhi vorrebbe accelerare i processi di diversificazione e indigenizzazione del settore difesa rilanciando le iniziative Make in India e Atmanirbhar Bharat (India autosufficiente), cavalli di battaglia del governo nazionalista di Modi. Tuttavia, per riuscire in questa sfida, Delhi ha bisogno di sostegno e Washington, già primo partner commerciale e principale fonte di investimenti per il subcontinente, sarebbe il candidato ideale. In effetti, con la recente approvazione del National Defense Authorization Act per il 2023, gli Usa hanno dichiarato di voler rafforzare la cooperazione di difesa con l’India in tutti i settori chiave: ricerca e sviluppo, intelligence, caccia di nuova generazione e dimensione cyber.
Attualmente, nonostante le dichiarazioni d’intenti, la presenza dell’Indo-Pacifico in cima all’agenda degli Stati Uniti è la migliore garanzia possibile per l’India di un futuro sviluppo delle relazioni. Nella regione, infatti, i due Paesi condividono visioni e strategie, tra cui la tutela della libera navigazione negli oceani Indiano e Pacifico. Inoltre, l’India ha recentemente aderito all’Indo-Pacific Economic Framework, il braccio economico della strategia regionale statunitense volta a contrastare l’influenza cinese. Tra l’altro, l’asse con Delhi sull’Indo-Pacifico offre a Washington un’ulteriore occasione di mettere in risalto le contraddizioni insite nelle relazioni russo-indiane. Delhi e Mosca, infatti, perseguono obiettivi diversi nell’area e quest’ultima rifiuta la definizione stessa di Indo-Pacifico, considerata poco inclusiva e apertamente anticinese. Inoltre, Mosca non ha mai risolto le dispute territoriali con Tokyo e i rapporti tra i due Paesi si sono ulteriormente deteriorati a causa delle sanzioni applicate dal Governo Kishida dopo l’attacco all’Ucraina. Il Giappone è partner rilevante per l’India e fa parte, insieme con Australia e Usa, del Quadrilateral Security Dialogue (Quad), il forum strategico informale incentrato sulla dimensione marittima dell’Indo-Pacifico che l’amministrazione Biden vuole rendere elemento portante della nuova architettura di sicurezza regionale.
Nel complesso, un rafforzamento dell’asse Delhi-Washington nell’Indo-Pacifico, favorirebbe ulteriori convergenze a partire dal Medio Oriente, dove gli Usa hanno lanciato un “Quad dell’Asia Occidentale”, ancora in fase embrionale, con India, Emirati Arabi e Israele, passando per l’Afghanistan dei talebani, che offre ampi margini di cooperazione in materia di antiterrorismo. Tuttavia, il riallineamento tra India e Stati Uniti, seppur “naturale”, dovrebbe uscire dalla fase della necessità per entrare in quella della scelta politica deliberata. Solo così, tale rapporto potrà esprimere davvero tutto il suo potenziale, nell’Indo-Pacifico e oltre.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
Il filo rosso che unisce l’Ucraina e il Nagorno Karabakh
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L’invasione russa dell’Ucraina sta provocando gravi ripercussioni sulla già precaria stabilità del Caucaso meridionale. Mentre in Georgia è in corso un pesante scontro istituzionale tra Governo e Presidente, divisi sul condannare o meno l’aggressione di Mosca, in Nagorno Karabakh si è ricominciato a sparare. Le tensioni tra armeni e azeri, mai veramente sopite dal cessate-il-fuoco del novembre 2020, sono aumentate pochi giorni dopo l’inizio dell’azione militare russa in Ucraina. A inizio marzo, le autorità armene del Nagorno Karabakh hanno denunciato operazioni militari azere nei villaggi di Norshen e Khramort mirate a intimidire la popolazione e favorirne il volontario allontanamento dalla regione. Lo scontro si è inasprito l’8 marzo quando la popolazione del Nagorno Karabakh è rimasta senza gas a causa di un incidente alla sezione del gasdotto Shushi-Zariflu posta sotto il controllo delle forze armate di Baku. Il blocco delle forniture, durato circa 10 giorni, ha lasciato al freddo buona parte degli oltre 100.000 armeni che ancora popolano la regione e ha scatenato la dura reazione delle autorità armene che hanno parlato apertamente di “azione di sabotaggio“.
Le intenzioni di Baku, a detta degli armeni, sarebbero quelle di spingere le persone a lasciare la regione per poter avanzare e annettere le zone ancora sotto controllo armeno. Ad avvalorare la tesi dell’atto premeditato è stato anche l’Ombudsman del Nagorno Karabakh, il quale ha accusato pubblicamente gli azeri di impedire l’accesso dei tecnici inviati per riparare il gasdotto. Le accuse armene sono state prontamente smentite dall’Azerbaijan che ha negato ci fossero intenti bellicosi dietro l’accaduto. Al blocco delle forniture di gas sono seguiti ripetuti scontri a fuoco tra azeri e forze territoriali di difesa armene accompagnati dalle solite reciproche accuse di voler provocare un’escalation nella regione.
Dalla battaglia del gas ai morti sul campo
Le forniture di gas in Nagorno Karabakh sono riprese il 19 marzo per poi essere nuovamente sospese due giorni più tardi. La situazione critica delle popolazioni lasciate senza gas, per di più in un periodo dell’anno in cui le temperature sono molto rigide, non è sfuggita alle Ong internazionali come Human Rights Watch e Freedom House. Nei giorni scorsi, anche l’Unione europea, per bocca di Peter Stano portavoce dell’Alto Rappresentante Borrell, ha espresso forti preoccupazioni sulla crisi umanitaria in corso in Nagorno Karabakh e sul rischio che la regione venga nuovamente risucchiata in una spirale di odio e violenza. Parallelamente al blocco del gas, infatti, si sono intensificati anche gli scontri armati lungo tutta la linea di contatto tra i belligeranti, da Karmir Shuka (in azero Qirmizi Bazar) fino a Parukh.
Le continue violazioni del cessate-il-fuoco hanno spinto Francia e Stati Uniti a intervenire esprimendo preoccupazione per l’avanzata delle truppe azere nella regione. All’intervento di Parigi e Washington è seguito quello di Mosca, terzo membro del gruppo di Minsk dell’OSCE e, soprattutto, responsabile della sicurezza nella linea di contatto coi 2000 “peacekeepers” dispiegati all’indomani della fine della guerra nel 2020. Il 26 marzo scorso, dopo giorni di scontri con vittime e feriti nella zona posta sotto controllo dei russi, il Ministero della Difesa di Mosca ha emesso un comunicato di condanna per la violazione del cessate-il-fuoco da parte delle forze armate dell’Azerbaijan e si è impegnato a negoziare il ritiro delle truppe azere nelle posizioni stabilite. La Russia ha anche accusato gli azeri di aver attaccato quattro postazioni occupate dalle forze territoriali armene con gli ormai famigerati droni Bayraktar TB2 di fabbricazione turca che stanno creando non pochi problemi agli stessi russi in Ucraina. La presa di posizione della Russia non è piaciuta all’Azerbaijan che ha prontamente risposto chiedendo ai russi sul campo di costringere gli elementi delle forze armate armene ancora presenti nelle zone azere “riconosciute internazionalmente” a ritirarsi.
Lo scontro tra Mosca e Baku ha prodotto una situazione di incertezza anche sul terreno. L’esercito di Baku, infatti, da un lato ha ceduto alla pressione russa ritirandosi da Parukh, mentre dall’altro ha mantenuto il controllo delle strategiche alture di Karaglukh. Il rifiuto di Baku di rispettare le posizioni stabilite dal cessate il fuoco del 2020, sommato all’indisponibilità a trattare sul destino delle regioni ancora popolate dagli armeni, crea una situazione esplosiva il cui sviluppo sembra essere in parte legato anche alla guerra in Ucraina. Pare evidente, infatti, la volontà dell’Azerbaijan di provare a sfruttare la distrazione e l’isolamento internazionale della Russia per ottenere quanto non riuscì nel novembre 2020 proprio a causa della mediazione di Vladimir Putin. Baku rimane, quindi, in attesa di capire l’evoluzione della guerra in Ucraina pronta a sfruttare un eventuale ritiro dei contingenti russi dispiegati nel Caucaso meridionale.
La guerra dell’informazione
Lo scontro in Nagorno Karabakh rappresenta un caso paradigmatico di information warfare. Da tempo azeri e armeni affiancano alle operazioni sul campo, vere e proprie campagne di disinformazione tese a diffondere o smentire notizie false create ad arte per screditare il fronte avversario. Tale scontro ha raggiunto il suo apice durante i 44 giorni di guerra nel 2020 quando la disinformazione era tale da impedire la comprensione di cosa stesse realmente accadendo sul terreno. Con lo scoppio della guerra in Ucraina e il riaccendersi delle tensioni nella regione, sono ricominciate anche le feroci campagne mediatiche mirate stavolta a sfruttare la tragedia in corso per attaccare o isolare il nemico.
In questo contesto complesso, un passo falso lo ha fatto proprio il Parlamento dell’Ucraina quando, il 25 marzo scorso, ha pubblicato sulla sua pagina Twitter ufficiale un messaggio di supporto per l’avanzata degli azeri in Nagorno Karabakh. Tale messaggio, subito cancellato a seguito delle proteste dell’ ambasciatore armeno in Ucraina Karapetian, ha dimostrato come il Nagorno Karabakh rischi di diventare solo un altro fronte della guerra in Ucraina mirato a indebolire la Russia. Un pensiero simile è stato espresso nei giorni scorsi anche dal Segretario del Consiglio di sicurezza e difesa ucraino Danilov, il quale ha parlato di come l’apertura di nuovi fronti, dalle Curili al Nagorno Karabakh, potrebbe favorire militarmente il suo paese. In questo scenario instabile, occorre tenere presente anche la posizione della Turchia, negoziatore privilegiato del conflitto in Ucraina, e da sempre vicina politicamente e militarmente sia agli ucraini che agli azeri.
Rimane complicato pensare che Ankara, di solito ben informata sui propositi militari di Baku, non sapesse nulla dell’avanzata di azera di questi giorni. Ciò complica ancora più il quadro e segnala come reale il rischio che anche i civili in Nagorno Karabakh, già spezzati da decenni di violenze e sofferenze, finiscano come pedine nella partita che oppone la Russia all’Ucraina e all’Occidente.
Nagorno Karabakh, la questione è ancora aperta
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Trascorsi ormai otto mesi dal cessate-il-fuoco tra Armenia e Azerbaijan, le tensioni nel Caucaso meridionale non accennano a diminuire. Il difficile negoziato condotto dalla Russia di Putin lo scorso novembre, pur avendo portato alla cessazione delle ostilità, non ha risolto nessuno dei problemi alla base del conflitto. La questione dello status del Nagorno Karabakh è ancora aperta così come la disputa sui confini tra i due Paesi. Nella regione vige la legge del più forte e le schermaglie si susseguono lungo tutta la linea del fronte.
In questi mesi sconfinamenti di truppe azere sono stati denunciati più volte da Yerevan. A maggio la tensione è salita alle stelle quando le forze armate di Baku hanno violato i confini armeni nelle province di Syunik e Gegharkunik. Approfittando della disorganizzazione dell’esercito di Yerevan in questa fase, le truppe di Baku sono avanzate per circa 3 km in territorio armeno nella zona del lago vulcanico di Sev che divide i due Paesi. L’incidente avrebbe potuto tramutarsi in scontro aperto se solo l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO) avesse dato seguito alle richieste di Yerevan. Invece, all’invocazione dell’articolo 2 da parte dell’Armenia che parla della necessità di consultazioni sulle minacce alla sicurezza di uno stato membro, non è seguita l’applicazione dell’articolo 4 che prevedrebbe mutua assistenza militare in caso di aggressione. Così facendo la CSTO ha confermato ancora una volta la sua incapacità di sviluppare e coordinare un’azione comune efficace. D’altronde, le posizioni sul Nagorno Karabakh all’interno della organizzazione sono differenti. Emblematico è il caso della Bielorussia la quale, da membro della CSTO e quindi alleata dell’Armenia, si è imposta come terzo paese esportatore di armi in Azerbaijan nel decennio 2011-2020.
La situazione oggi
Oggi la geografia del potere regionale nel Caucaso meridionale è tutta da riscrivere. Il dominio armeno che durava dal 1994 non esiste più ed è l’Azerbaijan anche grazie alla alleanza con la Turchia di Erdogan a farla da padrone mentre la Russia si cura di non perdere troppo terreno. In questo contesto, l’atteggiamento ostile mostrato dal regime di Aliyev negli ultimi mesi ci racconta come, per paradosso, una vittoria possa essere più complessa da gestire di una sconfitta. Lo scorso 12 aprile a Baku è stato inaugurato un parco per celebrare la vittoria di novembre. Definito “parco dei trofei” somiglia più a un “parco dell’umiliazione” dove manichini di soldati armeni dai tratti volutamente esagerati sono a disposizione di bambini e famiglie. A questo si aggiunge il mancato rilascio di tutti i prigionieri di guerra arrestati durante le sei settimane di operazioni militari lo scorso autunno.
La vittoria dell’Azerbaijan non sarebbe potuta avvenire non fosse stato per il sostegno turco che ora va ricompensato. In effetti, Erdogan garantendo appoggio militare e politico al regime di Aliyev ha facilitato, se non deciso, il successo sul campo. Nel 2020 l’export di sistemi d’arma da Ankara direzione Baku ha subito una forte impennata. Composto principalmente da droni – su tutti i famigerati Bayraktar TB2 – munizioni e lanciarazzi, l’export militare turco insieme a quello israeliano ha permesso all’Azerbaijan di raggiungere il livello di superiorità tecnologica utile a garantire un’offensiva rapida in grado di produrre una vittoria totale. La Turchia in cambio della lealtà e dei mezzi messi a disposizione sogna di ampliare la sua influenza su buona parte delle 5 repubbliche centro-asiatiche ossia Kazakistan, Kirghizistan, Turkmenistan e Uzbekistan. L’idea di Ankara è quella di trovare nuovi mercati per il proprio export così da dare respiro a una bilancia commerciale in sofferenza a causa dell’ampio deficit delle partite correnti (circa 36,7 miliardi di dollari nel 2020) dovuto principalmente alle importazioni di energia e oro, all’elevato tasso di inflazione e al forte deprezzamento della lira.
In un recente viaggio nelle zone definite dagli azeri come “liberate”, Erdogan affiancato da Aliyev ha ribadito l’importanza dell’alleanza strategica tra i due Paesi e tra questi e il Pakistan. Inoltre, i due Presidenti hanno anche annunciato la chiusura di contratti vantaggiosi per le aziende turche le quali, insieme con quelle italiane, saranno impegnate nel processo di ricostruzione post-conflitto. Il fatto che l’Azerbaijan abbia sviluppato una certa superiorità tecnologica militare e che sia stato armato da un membro Nato come la Turchia non è certo passato inosservato a Mosca. La scelta del Cremlino di includere nell’accordo sul cessate il fuoco una presenza militare sul territorio di circa 2000 peacekeepers è stata fatta proprio per bilanciare il crescente ruolo della Turchia. Tuttavia, Mosca ha anche dovuto accettare la creazione di un centro di monitoraggio misto russo-turco sul cessate il fuoco nel Nagorno Karabakh. Se la Russia ha quindi intensificato la sua presenza sul terreno, la Turchia ha messo per la prima volta piede nella regione.
Le tensioni tra Armenia e Russia
Queste novità si intersecano con il clima di crescente distacco esistente tra Armenia e Russia e che perdura dall’arrivo del Primo Ministro Nikol Pashynian il quale ha gradualmente allontanato il suo principale (e unico) alleato regionale. Rieletto a fine giugno con il 54% dei consensi, Pashynian si troverà di fronte un paese spaccato e diviso anzitutto sul suo ruolo come guida dopo la tremenda sconfitta subita. Inoltre, proprio il Primo Ministro armeno, artefice dell’infruttuosa svolta “anti-russa” dovrà ripensare alla sua linea d’azione se vorrà avere una qualche garanzia di protezione in una regione che rischia di esplodere da un momento all’altro. Alla luce di ciò, nel futuro è immaginabile una Russia che svogliatamente continui a guardare le spalle a Yerevan ma solo in funzione anti-turca mentre, e qui andrà il grosso dello sforzo, cercherà di mantenere rapporti di buon vicinato con Baku. Candidato a divenire una potenza regionale in termini economici e militari, l’Azerbaijan è attore sempre più importante dal punto di vista energetico (come competitor) ed economico (come partner) per Mosca. Soprattutto, il regime di Aliyev può essere utile a chiudere la porta dell’Asia centrale in faccia ad Ankara.
Da parte sua Baku, ben consapevole del suo valore, cerca di estrarre il massimo da tutte queste relazioni senza mai scegliere in maniera chiara tra i due “blocchi” russo e turco. Insomma, se Russia e Turchia si dividono la posta in gioco, i grandi sconfitti di questa fase sono il Minsk Group dell’OSCE da un lato e l’Unione europea dall’altro che certificano la loro inefficacia in questo contesto. Spettatore interessato a quanto accade è poi l’Iran del neoeletto leader conservatore Ebrahim Raisi. Caratterizzato da una continua ricerca di equilibrio tra Baku e Yerevan, l’Iran teme principalmente che l’influenza turca si propaghi nell’Asia centrale. Per questo Teheran guarda con sospetto al progetto di sviluppo di un corridoio nella regione di Megri, fortemente osteggiato dagli armeni, che colleghi l’Azerbaijan alla sua exclave, il Nakhigevan, e da lì alla Turchia. L’Iran teme così di perdere influenza su Baku perché il completamento di questa infrastruttura farebbe venire meno la necessità, che persiste dagli anni ’90, di far passare merci azere indirizzate verso il Nakhigevan attraverso l’Iran stesso.
Un cocktail di nazionalismo e odio etnico renderebbe qualsiasi regione al mondo insicura. Tuttavia, se si aggiunge la presenza nella stessa area di Mosca, Ankara e Teheran si comprende bene perché il Caucaso meridionale è una polveriera e pensare che il cessate-il-fuoco di novembre perduri nel tempo sembra davvero una pia illusione.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di luglio/agosto di eastwest.