[MILANO] Giornalista freelance, si occupa di temi legati alla difesa e alla tecnologia con particolare attenzione per l’Asia- Pacifico.
Asia/Pacifico: politica estera in vendita
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Wollongong, Okinawa, Seul, Manila. Quattro luoghi molto lontani l’uno dall’altro ma con qualcosa in comune. Sono tutti sulla mutevole mappa delle dinamiche di sicurezza nell’Indo-Pacifico. È questo il teatro della vera contesa tra potenze.
Se la guerra in Ucraina è uno tsunami, la competizione tra Stati Uniti e Cina è il cambiamento climatico. L’invasione della Russia sta portando diversi governi dell’area a intensificare la cooperazione in materia di difesa con Washington. L’Australia ha incentivato la già ovvia inclinazione filoamericana. Giappone e Corea del Sud stanno abbandonando la tradizionale cautela, diventando molto più assertivi nei confronti di Pechino. Persino le Filippine, che con Rodrigo Duterte sembravano essere in grande avvicinamento alla Repubblica Popolare, hanno completamente svoltato con Ferdinand Marcos Junior, che ha aperto quattro basi militari alla disponibilità delle forze armate statunitensi. E anche paesi con una storica autonomia in politica estera vacillano, come Vietnam e India. Hanoi e Nuova Delhi hanno sempre giocato sulle asimmetrie del rapporto tra Cina e Russia a loro vantaggio, mantenendo relazioni commerciali proficue con Pechino ma allo stesso tempo godendo della tutela difensiva di Mosca. A partire dalle importazioni di armi, diventate sempre più complesse a causa del conflitto che ha prosciugato le possibilità del Cremlino. Il crescente allineamento tra Russia e Cina, forse più presunto che reale ma di certo percepito e temuto, sta facendo sì che anche India e Vietnam cerchino un rapporto più approfondito con gli Stati Uniti. Alimentando, all’interno di un pericoloso circolo vizioso, una maggiore aggressività della Cina sui territori contesi.
In Australia si protesta contro la corsa al riarmo
All’interno di questo schema che sta provocando un’insidiosa corsa al riarmo, c’è però qualcuno che non è d’accordo. Si tratta in alcuni casi delle opposizioni politiche dei governi al potere e quasi sempre dei privati cittadini che non raramente sono scesi anche in strada per protestare. È il caso di Wollongong, cittadina a poco meno di 100 chilometri a sud di Sydney. Il dipartimento di difesa del governo australiano, quando era in carica ancora l’ex premier Scott Morrison, ha individuato il sobborgo di Port Kembla come sito per una base militare. Non una base qualunque, ma la “casa” dei sottomarini a propulsione nucleare nell’ambito del patto di difesa Aukus con Stati Uniti e Regno Unito. I residenti della zona non condividono. Tra marzo e maggio ci sono state diverse manifestazioni per protestare contro la base. Non è bastato il fatto che il Primo Ministro Anthony Albanese abbia garantito che le vaste spese previste dall’accordo di Aukus (245 miliardi di dollari entro il 2055) contribuiranno a creare almeno 20 mila posti di lavoro. “Wollongong è contro la guerra e le testate nucleari”, recitavano decine di striscioni. Dopo le prime proteste di marzo, a maggio anche diversi membri del partito laburista locale si sono uniti a sindacalisti e cittadini per manifestare e sollecitare il governo Albanese a escludere la zona come futura base per i sottomarini. Chi è andato in piazza sostiene che la vicenda rischia di trascinare l’Australia in una “battaglia per procura” e avvertono che il ritardo nel prendere una decisione scoraggerà solo gli investimenti in energie rinnovabili a Port Kembla. Il tutto in un Paese dove c’è una foltissima presenza della diaspora cinese.
Seul “svende” la politica estera a Washington e a Tokyo
Se si viaggia a Seul, non è certo raro trovarsi di fronte a manifestazioni di cittadini per le ragioni più disparate. E all’interno di queste manifestazioni non è raro di trovare proteste contro l’eccessivo allineamento operato dall’amministrazione di Yoon Suk-yeol. Da quando si è insediato, nel maggio 2022, il Presidente conservatore ha rapidamente cambiato i connotati della politica estera del predecessore progressista Moon Jae-in. Yoon ha operato un grande riavvicinamento a Washington e il riavvio dei rapporti col Giappone. Anche a costo di forti polemiche interne, soprattutto per la rinuncia ai risarcimenti per gli abusi del periodo coloniale. Dopo aver aperto per la prima volta ufficialmente all’invio di aiuti militari a Kiev, il Presidente sudcoreano ha definitivamente abbandonato la neutralità con un discorso molto deciso al Congresso americano durante la sua visita di Stato ad aprile, durante la quale ha ottenuto l’estensione dell’ombrello nucleare. Ora sembra pronto anche a un dispiegamento totale del Terminal High Altitude Area Defense (Thaad), il sistema di radar anti missile made in Usa il cui acquisto nel 2016 aveva provocato una gravissima crisi diplomatica e commerciale con la Cina. Anche in Corea del Sud, l’opposizione protesta. Il leader del Partito democratico Lee Jae-myung, soprannominato “Bernie Sanders coreano”, ha incontrato l’ambasciatore cinese a Seul, Xing Haiming, scaricando la responsabilità delle tensioni bilaterali completamente sull’amministrazione Yoon. I gruppi civili sudcoreani si radunano spesso per protestare contro quella che ritengono una “svendita” della politica estera non solo agli Usa (che detiene ancora 28 mila e 500 truppe su suolo sudcoreano, nonché il comando dell’esercito di Seul in tempo di guerra) ma anche al rivale storico giapponese. Di recente si sono tenute manifestazioni contro l’estensione delle esercitazioni trilaterali con Washington e Tokyo, nel timore che invece di aumentare la deterrenza crescano i rischi di un confronto.
A Okinawa, i cittadini scendono in piazza cantando “Ridateci la nostra vita pacifica!”
In Giappone, il fronte più teso è quello di Okinawa. Non lontano dalle acque della catena di isole più meridionali dell’arcipelago nipponico, nell’agosto del 2022 sono caduti dei missili cinesi durante le vaste esercitazioni militari in risposta alla visita di Nancy Pelosi a Taiwan. Difficile aspettarsi che in caso di contingenza militare su Taiwan possa restare escluso il Giappone, ancora di più Okinawa, che si trova a un’ora di volo a est di Taipei. L’esercito americano ha avuto una vasta presenza sull’isola dal 1945 e l’ha occupata fino al 1972, quando è stata restituita alla sovranità giapponese. La contaminazione chimica nelle aree vicine alle basi, l’inquinamento acustico e alcuni episodi di crimini commessi dai militari statunitensi in passato, incluse alcune vicende di stupro, hanno spesso fatto infuriare la popolazione e scatenato massicce proteste.
Il movimento contro le basi non è riuscito a rimuovere nessuna delle principali basi statunitensi da Okinawa. Nonostante ciò, ha attirato l’attenzione sulla violenza di genere, in particolare la violenza sessuale e l’omicidio, perpetrati in più occasioni dal personale della base militare e civile statunitense contro donne e ragazze di Okinawa, insieme ai danni ambientali associati alle basi. Il movimento è però riuscito a bloccare la creazione di una nuova base, con il sostegno di diversi politici locali. La Okinawa Women Act Against Military Violence (OWAAMV), un’organizzazione non governativa femminista che fa parte del movimento anti-basi, ha condotto per decenni proteste in risposta a casi di violenza da parte del personale statunitense contro donne e ragazze di Okinawa. Secondo l’organizzazione, dal 1945 al 2011, 350 crimini, compresa la violenza sessuale, sono stati commessi dal personale statunitense contro le donne di Okinawa. Negli scorsi mesi, ci sono state diverse manifestazioni nei pressi della base aerea di Kadena per chiedere la chiusura delle basi militari statunitensi. Praticamente un rito annuale. I manifestanti sentono di essere stati a lungo costretti a sopportare un peso sproporzionato dell’alleanza militare Usa-Giappone. Okinawa costituisce meno dell’1% della superficie totale del Giappone, ma ospita oltre il 70% di tutte le strutture militari statunitensi in Giappone. A maggio, i manifestanti hanno cantato “Ridateci la nostra vita pacifica!” e “Osprey vattene!” – un riferimento agli elicotteri militari spesso visti nei cieli dell’isola.
Il governatore di Okinawa Denny Tamaki ha fatto pressioni sui governi giapponese e statunitense per ridurre la presenza militare sull’isola. La sua posizione la rende particolarmente strategica. Non a caso, Pentagono e Casa Bianca stanno pensando concretamente di aumentare il dislocamento militare nella zona, dove lo stesso Giappone pianifica di incrementare la presenza di forze difensive. Forse non è un caso che proprio di recente Xi Jinping si sia espresso in modo inedito su Okinawa e dintorni. Parlando in dettaglio della storia delle isole Ryukyu, di cui fa parte Okinawa. Su un articolo del Quotidiano del Popolo del 4 giugno, viene riportata una dichiarazione di Xi: “Quando lavoravo a Fuzhou, sapevo che Fuzhou aveva un museo Ryukyu e una tomba Ryukyu, e che Fuzhou aveva una profonda relazione con i Ryukyu”. Ha continuato, collegando la popolazione dell’arcipelago ai 36 Clan del Popolo Min emigrati durante la dinastia Ming in Cina nel XIV secolo. Ha sottolineato la necessità di raccogliere e ordinare tali documenti storici per ereditare e sviluppare la concezione della civiltà cinese. Uscite che sono state notate con grande interesse, nonché preoccupazione, in Giappone, perché aprono potenzialmente a una futura nuova postura cinese sull’area. D’altronde, quando Xi era l’alto funzionario di Fuzhou, salutava i visitatori di Okinawa che si diceva fossero discendenti delle 36 famiglie originarie di Min.
Gli studenti di Manila si oppongono al ripristino dell’addestramento militare obbligatorio nei Campus
Anche nelle Filippine c’è chi guarda con sospetto alle mosse del governo in materia di difesa. Il Presidente Marcos Junior ha preannunciato il ripristino dell’addestramento militare obbligatorio per gli studenti universitari. Un disegno di legge, all’esame del Senato, prevede un periodo di formazione di due anni. La misura si applicherebbe agli studenti di entrambi i sessi, compresi quelli stranieri che frequentano università filippine. “Il nostro Paese può essere facilmente conquistato se non siamo pronti. Non aspettiamo la guerra prima di fare qualcosa”, ha dichiarato a maggio Ronald Dela Rosa, ex capo della polizia durante la guerra alla droga dell’ex presidente Duterte e tra i principali sostenitori della legge. Le associazioni studentesche si oppongono, temendo una “militarizzazione dei campus”. E parlano di “riforma arcaica” che segna un ritorno ai tempi “della dittatura del padre di Marcos”. La resistenza alla formazione obbligatoria deriva anche da incidenti passati. Nel marzo 2001, il cadetto e studente Mark Welson Chua è stato ucciso pochi giorni dopo aver denunciato la violenza e la corruzione nel programma. La sua morte ha suscitato indignazione nelle Filippine, spingendo il governo a rendere facoltativo l’addestramento militare nelle scuole l’anno successivo. Anche segnalazioni di violenze nelle forze armate sono emerse più recentemente. Nel 2019, uno studente cadetto nell’esercito sarebbe stato picchiato a morte da ufficiali in un rituale di nonnismo. Il piano di rilancio della leva ha un budget triennale pianificato di 1,09 miliardi di dollari e, in base alla legge proposta, le università possono riscuotere tasse di formazione dagli studenti per l’implementazione. Jeann Miranda, presidente nazionale del gruppo giovanile attivista Anakbayan, ha detto che il governo dovrebbe stanziare fondi per l’istruzione. “Invece di migliorare l’istruzione aggiungendo più aule”, ha detto, “si concentrano sull’insegnare ai giovani a reprimere i loro coetanei”.
Il Presidente filippino, ricevuto il 1° maggio alla Casa Bianca da Joe Biden, ha operato un deciso riallineamento con Washington. Dopo aver svolto le più vaste esercitazioni congiunte bilaterali di sempre nel Mar Cinese meridionale ad aprile, nelle scorse settimane è stato annunciato che entro la fine dell’anno cominceranno i pattugliamenti congiunti nel Mar Cinese meridionale, dopo che gli Usa hanno ampliato la tutela difensiva di Manila. Parziale “ricompensa” dopo l’apertura di 4 nuove basi militari filippine alle truppe statunitensi, in un altro quadrante cruciale in caso di conflitto sullo Stretto di Taiwan. Un conflitto che non vuole nessuno e di cui pagherebbero le conseguenze soprattutto le popolazioni dell’Asia-Pacifico.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di Luglio/Settembre di eastwest
Il Giappone torna sulla scena militare
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Talvolta, la storia diventa più veloce. E si è costretti ad accelerare il passo per starle dietro. In Asia orientale si parla tanto di risvegli. Quello della Cina ha potuto essere progressivo, con una lunga fase nella quale Pechino ha potuto “nascondere la propria forza” come richiesto da Deng Xiaoping. Tale lusso non è concesso al Giappone. Al termine di tre “decenni perduti”, Tokyo sta cercando di ridestarsi da un lungo torpore. Quello economico è cominciato negli anni Novanta, quello geopolitico e militare già dal secondo dopoguerra. Negli scorsi anni, Abe Shinzo è stato l’uomo che ha cercato di spingere il Giappone a rimettersi in piedi. In modo più evidente dal punto di vista economico, attraverso l’Abenomics, in maniera più soffusa dal punto di vista geopolitico e strategico, col tentativo di un progressivo superamento di una serie di auto-imposizioni prescritte dalla costituzione pacifista imposta dagli Stati Uniti.
Ma ridestarsi è complesso per la terza economia mondiale che vive ormai stagflazione, deficit e debito pubblico come problemi cronici, con un trend demografico negativo difficilmente reversibile. Eppure, alcuni episodi stanno accelerando il ritorno del Giappone sulla scena. Prima il Covid, che ha convinto Abe e poi i suoi successori a lanciare una campagna di diversificazione economica. Tokyo mantiene forti legami commerciali con Pechino, ma sta anche capitanando il tentativo di costruzione di un’architettura asiatica che possa sperare di assorbire in qualche modo l’impatto della crescita dell’assertività cinese ma anche dell’imprevedibilità statunitense. La morte di Abe e le tensioni sullo Stretto di Taiwan stanno ulteriormente aumentando l’urgenza del risveglio.
La morte di Shinzo Abe
L’omicidio del premier più longevo degli ultimi decenni e ancora deus ex machina della politica nipponica può avere un forte influsso sul Governo di Fumio Kishida. L’attuale leader può cercare di implementare le sue politiche economiche senza l’ingombrante figura del padre dell’Abenomics. Kishida immagina una nuova forma di capitalismo basata non sulla spesa pubblica ma sull’abbattimento del debito e un rafforzamento del welfare. Su difesa e politica estera sembra invece destinato a seguire ancora più rapidamente le orme di Abe, magari completando quello che il predecessore non è riuscito a portare a termine. Grazie alle elezioni per il rinnovo parziale della Camera alta, svoltesi pochi giorni dopo l’omicidio di Abe, il Partito liberaldemocratico ha a disposizione la maggioranza di due terzi necessaria per avviare l’iter di revisione costituzionale. L’obiettivo storico è il superamento dell’articolo 9, che impone al Giappone delle forze di autodifesa al posto di un vero e proprio esercito. Così come gli impedisce di schierare armi offensive.
La questione Taiwan
Tutto questo può cambiare dopo l’inasprirsi delle tensioni intorno a Taiwan. Durante le esercitazioni militari cinesi più vaste di sempre intorno all’isola, 5 degli 11 missili balistici lanciati dall’Esercito popolare di liberazione sono caduti nelle acque della zona economica speciale di Tokyo, non riconosciuta da Pechino che anzi negli scorsi mesi ha solcato sempre più spesso le acque (talvolta insieme a navi russe) intorno alle isole contese Senkaku/Diaoyu. Mossa non casuale, così come quella di utilizzare target giapponesi in alcuni test a fuoco vivo: la Cina ha voluto dire a Tokyo di restare fuori dalla vicenda taiwanese, perché altrimenti non avrebbe problemi a prenderla di mira. D’altronde, poco prima di morire Abe aveva chiesto alla Casa Bianca di abbandonare l’ambiguità strategica su Taiwan, una questione che per Tokyo è strettamente correlata alla sua sicurezza nazionale. Il Partito comunista è stato molto infastidito anche dalla visita giapponese di William Lai, attuale vicepresidente taiwanese e probabile candidato del partito di maggioranza alle elezioni del 2024. Una figura ben più radicale dell’attuale leader Tsai Ing-wen. Kishida, al contrario del Presidente sudcoreano Yoon Suk-yeol, non ha avuto problemi a ricevere Nancy Pelosi due giorni dopo la sua visita a Taipei, condannando duramente le esercitazioni cinesi. E il nuovo Ministro della Difesa, Hamada Yasukazu, fa parte della fazione delle colombe guidata un tempo dal Ministro degli Esteri Hayashi Yoshimasa, ma ha incontrato Tsai a Taipei solo un paio di settimane prima della nomina.
Le tensioni con la Cina
Le tensioni con la Repubblica popolare si sono molto acuite negli ultimi tempi e le questioni Ucraina e Taiwan stanno ampliando ulteriormente la frattura. Sin dall’inizio della guerra, il Giappone è stato il Paese asiatico più esplicito nel condannare Mosca e si è anzi avvicinato sempre di più a Stati Uniti e Nato, cioè le due entità colpevoli di gettare “benzina sul fuoco” nella retorica applicata da Russia e Cina su Europa orientale e Asia-Pacifico. Dopo l’invasione russa Kishida è stato a più riprese in diversi Paesi del Sud-est asiatico e in India, per cercare di costruire un consenso regionale. È poi stato in Italia e nel Regno Unito, dove ha raggiunto un principio di accordo con Boris Johnson sull’interoperabilità delle rispettive forze armate. L’allineamento è anche sul fronte dell’intelligence. Il Giappone è ormai il “sesto occhio” dei Five Eyes, l’alleanza dei servizi segreti di Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Australia e Nuova Zelanda. A fine maggio, Tokyo ha ospitato il summit del Quad. A giugno Kishida ha partecipato alle riunioni del G7 e, in una prima storica volta per un premier giapponese, al summit della Nato a Madrid. In concomitanza con questi appuntamenti Pechino e Mosca si sono mosse intorno al Giappone con incursioni aeree e navali, spesso congiunte. Mentre Kishida partecipava al summit della Nato, una flottiglia di navi dell’Esercito popolare di liberazione ha completato la circumnavigazione completa dell’arcipelago giapponese passando anche per gli stretti strategici. I mezzi di Mosca sono invece attivi intorno alle isole contese Curili ma anche sullo stretto di Tsugaru.
Nelle scorse settimane c’è stato un incontro durato 7 ore tra il direttore generale del Segretariato per la sicurezza nazionale Akiba Takeo e il capo della diplomazia cinese Yang Jiechi. Segnale che, nonostante le vedute differenti, c’è l’intenzione di tenere un canale aperto di comunicazione. Tanto che non va escluso un incontro (fisico o virtuale) tra Kishida e Xi Jinping in occasione del 50esimo anniversario della normalizzazione delle relazioni diplomatiche che si celebra il 29 settembre. Ma intanto continuano le visite di delegazioni giapponesi a Taipei, mentre Tokyo accelera sul fronte militare per far fronte a un ipotetico confronto con Pechino. Allo Shangri-La Dialogue di Singapore, Kishida è stato esplicito nel parlare di “rischio Ucraina” in Asia-Pacifico, parlando della necessità di Tokyo di “uscire dall’ombra” degli Usa per “migliorare la capacità di deterrenza e risposta”. Il premier giapponese ha promesso di voler raccogliere “l’eredità di Abe” anche sul “drastico” aumento delle spese militari. L’obiettivo è raddoppiare il budget per la difesa entro 5 anni, portandolo al 2% del Pil. Prima del 2023 sarà pubblicata una nuova strategia di sicurezza, in cui saranno citate Corea del Nord, Cina e Russia. E il Governo non esclude più di estendere le capacità di contrattacco delle forze di autodifesa. Si sta valutando lo schieramento di un migliaio di missili da crociera a lungo raggio (che passerebbe da 100 a 1000 chilometri) per aumentare la propria capacità di contrattacco contro la Cina.
Tokyo sta anche cercando di migliorare i rapporti con Seul, dopo le tensioni commerciali e diplomatiche degli ultimi anni. Con l’avvento del conservatore Yoon è ripreso il dialogo e ad agosto si sono svolte le prime esercitazioni congiunte trilaterali tra Giappone, Corea del Sud e Usa dopo 5 anni. Tra Pechino, Mosca e Pyongyang e un’economia che fatica a ripartire dopo il Covid e il conflitto in Ucraina, il Giappone ha fretta di rimettersi in marcia. Sperando che il risveglio non si riveli troppo brusco.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.