India, Corea del Sud, Vietnam e Indonesia vengono coinvolti da Giappone e Stati Uniti con possibili ruoli guida a livello regionale, un rafforzamento dell’architettura asiatica che irrita la Cina
Non solo Ucraina, non solo Russia. In un summit del G7 dominato dalla presenza di Volodymyr Zelensky e dal via libera di Washington all’invio di F-16 da paesi terzi, c’è stata anche tantissima Asia. A partire dalla sede del vertice, ovviamente, Hiroshima. Un messaggio potente, quello arrivato dal Giappone, con la scelta della città simbolo del disastro atomico. “Accogliere Zelensky a Hiroshima è stata un’opportunità per inviare un messaggio urgente: la minaccia delle armi nucleari e il loro uso non devono essere permessi”, ha dichiarato in conclusione del summit il padrone di casa Fumio Kishida, che sembra destinato a utilizzare il successo dell’evento come volano per chiedere elezioni anticipate e cementare il consenso. D’altronde, il Giappone può sostenere di essere riuscito a portare a parlare col blocco occidentale anche esponenti del cosiddetto “sud globale”.
Particolare attenzione all’Asia, con la presenza di diversi paesi tra gli invitati. Si è parlato soprattutto di India e Corea del Sud. Il premier Narendra Modi ha avuto il suo primo incontro con Zelensky dall’inizio della guerra. Colloquio da cui è derivato l’impegno a sforzarsi di arrivare a una soluzione del conflitto, ma senza dettagli o passi avanti significativi. C’è chi spera in una mediazione dell’India, magari in concomitanza del summit del G20 di Nuova Delhi di settembre, visto che il blocco G7 riconosce molto di più (anche per calcoli strategici) la neutralità indiana rispetto a quella cinese. L’India teme l’allineamento tra Cina e Russia, per questo sembra in parte disposta a dare quantomeno segnali formali di maggiore disponibilità agli Usa. Da Hiroshima, Modi ha peraltro annunciato che il prossimo summit del Quad si terrà proprio in India nel 2024, dopo che quello di Sydney è stato cancellato per l’assenza di Joe Biden.
La presenza del presidente sudcoreano Yoon Suk-yeol è invece stata funzionale a suggellare il riavvio dei rapporti tra Tokyo e Seul. Significativo in tal senso che Biden abbia invitato sia Yoon che Kishida alla Casa Bianca per un trilaterale, dopo che i due leader negli scorsi mesi hanno già visitato Washington siglando importanti accordi.
Se n’è parlato meno, ma è molto rilevante anche la presenza di Indonesia e soprattutto Vietnam. Hanoi è uno degli anelli chiave dell’ecosistema strategico dell’Asia-Pacifico. Il Giappone sta puntando molto sul rafforzamento dei rapporti col paese del Sud-Est asiatico, così come gli Stati Uniti. Il premier Pham Minh Chinh ha incontrato i vari leader del G7 e lo stesso Zelensky, mentre si parla con insistenza di un possibile viaggio a Washington del segretario del Partito comunista vietnamita Nguyen Phu Trong.
Ciò ovviamente non vuol dire che i vari paesi presenti al G7 siano improvvisamente disponibili a una sorta di arruolamento anti russo o anti cinese. Ma proprio il rafforzamento di questa architettura asiatica di rapporti regionali può essere uno dei motivi (impliciti) di insoddisfazione della Cina, il vero elefante (o meglio dragone) nella stanza di Hiroshima. Il comunicato congiunto dei leader del G7 critica implicitamente Pechino sulla coercizione economica ed esplicitamente sui dossier politici. Il governo cinese ha denunciato “diffamazioni” sulle varie questioni Tibet, Xinjiang e mar Cinese meridionale. Fastidio anche per il passaggio su Taiwan, in cui il G7 sottolinea che la pace e la stabilità sullo Stretto sono “indispensabili per sicurezza e prosperità della comunità globale”. L’internazionalizzazione della questione è quanto più dà fastidio a Xi Jinping, che il G7 prova comunque a rassicurare sottolineando che “non ci sono cambi di posizione dei paesi membri sulla politica della unica Cina”. Pechino lamenta però la mancata opposizione esplicita all’indipendenza di Taiwan. Lunedì 22 maggio è stato convocato l’ambasciatore giapponese per esprimere proteste.
A margine e a conclusione dei lavori i toni sono stati più concilianti. Sia Europa che Stati Uniti hanno ribadito che l’obiettivo non è contenere l’ascesa cinese, né il disaccoppiamento economico. Francia e Germania sottolineano che Washington condivide la formula di “riduzione del rischio” coniata dall’Unione europea. Aumenteranno dunque controlli e restrizioni, ma solo su tecnologia e i settori più sensibili. Sul resto, si intende mantenere o rafforzare i rapporti. Lo stesso Biden, prima di lasciare il Giappone, ha auspicato un prossimo disgelo tra le due potenze.
Ma i media di stato cinesi denunciano il passaggio da “disaccoppiamento” e “riduzione del rischio” come una sorta di “decoupling mascherato”. Mentre la portavoce del ministro degli Esteri Mao Ning ha messo in dubbio la credibilità degli Usa di voler riavviare i rapporti, visto il perdurare delle sanzioni economiche e commerciali nei confronti di varie entità cinesi. Sulla coercizione economica, la Cina ha peraltro replicato con un lungo documento in cui gira le accuse proprio in direzione degli Stati Uniti, citando i numerosi casi di embargo verso paesi terzi dal Dopoguerra a oggi, nonché le più restrizioni alle esportazioni. Il tutto mentre la stessa Cina ha vietato agli operatori di infrastrutture chiave l’uso di prodotti di Micron, il colosso americano dei microchip.
Sul fronte diplomatico, la Cina sostiene che le proposte del G7 sulla guerra in Ucraina non siano credibili. Nella retorica di Pechino, Usa e occidente non tengono in considerazione le “legittime preoccupazioni di sicurezza di tutti i paesi”, in questo caso della Russia. Il che renderebbe, sempre secondo la Cina, non affidabile qualsiasi proposta di pace in arrivo dalla Casa Bianca o dai suoi alleati più stretti.
Insomma, se davvero sarà disgelo il lavoro da fare per ottenerlo è parecchio.