Il richiamo patriottico e nazionalista ha conquistato gli elettori, ma non i mercati. Nel 2018 un dollaro valeva 4,5 lire, oggi si cambia a 25 lire. Il tasso di interesse ufficiale è circa 8,5%, ma le banche arrivano a chiedere il 60% per un prestito
L’Occidente, la Nato, l’Unione europea aspettavano di poter tirare un sospiro di sollievo per l’auspicato tramonto di un alleato ingombrante e riottoso come Recep Tayyip Erdoğan, considerato poco disponibile al gioco di squadra e persino imbarazzante nella sua disinvoltura verso le regole della vita democratica come sono intese nell’accezione più diffusa. Ma l’elettorato turco, evidentemente, aveva una visione molto diversa. Per valutare i risultati elettorali in Turchia, insomma, vale la sintesi impietosa firmata da due commentatori di Foreign Policy: la speranza non è analisi.
Il voto presidenziale ha affidato a Erdoğan un altro mandato di altri cinque anni, estendendo così il suo ventennio al potere. Gli ostacoli che sembravano aver messo in discussione il dominio dell’“uomo forte” si sono dimostrati meno significativi dei suoi punti di forza. E molti analisti vedono un elemento decisivo proprio nell’attesa occidentale di un ricambio, troppo esplicita per la sensibilità nazionale dell’elettorato turco.
L’anti-Erdoğan e gli altri candidati
Il candidato dell’opposizione, Kemal Kiliçdaroğlu, non era partito in modo molto convincente e aveva faticato a unire l’opposizione. Il suo stesso partito repubblicano popolare CHP, di centro sinistra, aveva dovuto ricorrere alle primarie per individuare una candidatura, a riprova che il suo nome non incontrava adeguato consenso nemmeno fra i compagni. E perplessità erano arrivate anche all’interno della Alleanza della Nazione, il cartello elettorale formato nel 2018 dal CHP, il Buon Partito IYIP (destra), il Partito Democratico e il Partito della Felicità, per rimuovere Erdoğan.
Proprio sul nome di Kiliçdaroğlu il leader del Buon Partito, Meral Akşener, aveva brevemente abbandonato la coalizione tre mesi prima del voto, sottolineando che c’erano altri possibili candidati. Akşener aveva indicato come esempio i nomi di Ekrem Imamoğlu, sindaco di Istanbul, e di Mansur Yavaş, primo cittadino di Ankara, entrambi del CHP, ma più giovani del 75enne Kiliçdaroğlu e più popolari secondo i sondaggi. In particolare Imamoğlu sembrava avere buone possibilità, ma alla fine il suo nome era stato messo da parte, per timore di un intervento giudiziale. Nel dicembre 2022 Imamoğlu era stato condannato a due anni, sette mesi e 15 giorni di carcere, oltre all’interdizione da cariche politiche, per avere definito “folli” i componenti del Consiglio elettorale supremo. La sentenza era stata sospesa in attesa di una decisione della Corte di Cassazione.
Con un consenso incompleto, la candidatura di Kiliçdaroğlu è sembrata a molti una forzatura. Quello che una parte della stampa internazionale aveva soprannominato “il Gandhi turco” ha dimostrato che alla somiglianza fisica per lo statista indiano non si affiancava altrettanta capacità politica. Il leader repubblicano si è presentato agli elettori più in chiave negativa – cioè come l’anti-Erdoğan – che come alfiere di proposte significative. Su di lui potrebbe aver pesato anche il favore dell’Occidente. Se gli Usa avevano visto con favore il declino dell’“uomo forte”, l’amministrazione Biden ha comunque fatto il possibile per non indicare in modo troppo esplicito le sue preferenze, temendo che una benedizione americana avrebbe avuto un effetto negativo per Kiliçdaroğlu. In altre parole, anche oltre Atlantico era chiaro che nelle scelte dell’elettorato turco un elemento fondamentale è sempre stato il fortissimo senso di identità, tema fra i prediletti da Erdoğan in ogni momento di crisi.
E la carta del nazionalismo in Turchia si è rivelata ancora una volta la più preziosa, soprattutto perché il Presidente in carica da un ventennio l’ha giocata assieme all’uso spregiudicato della posizione dominante e al controllo quasi totale dei mezzi di comunicazione. Dopo che negli anni scorsi Erdoğan aveva messo a tacere le voci più aggressive dell’opposizione, spesso lanciando in maniera disinvolta accuse di complicità con il terrorismo ai giornalisti meno condiscendenti, in campagna elettorale la strada è stata facile. Al primo round di voto la tv nazionale TRT ha dato alla campagna di Kiliçdaroğlu meno di 35 minuti di copertura, mentre le attività del Presidente hanno potuto godere di attenzione per oltre 32 ore. In un contesto così sbilanciato, per il candidato dell’opposizione era difficile controbattere alle insinuazioni, più o meno esplicite, su una posizione troppo morbida se non addirittura di una complicità con il PKK, il partito curdo dei lavoratori che Ankara considera organizzazione terrorista.
“Continua nel cammino con l’uomo giusto”
Ma se la formazione del consenso è stata viziata, è facile comunque vedere nei fatti che il consenso c’era. Apparentemente lo slogan “Continua nel cammino con l’uomo giusto” ha convinto una larga fetta della popolazione. Chi si aspettava un giudizio severo da parte delle regioni maggiormente colpite dal terremoto del 6 febbraio, che aveva causato oltre cinquantamila vittime in Turchia, è rimasto deluso. Nonostante i ritardi nelle operazioni di soccorso e di assistenza, la popolazione coinvolta sembra aver reagito con fatalismo, e qualche osservatore ha persino rilevato che le responsabilità dei costruttori privati apparivano più gravi di quelle governative.
Più ancora che le misure populiste varate da Erdoğan poco prima del voto, compreso l’aumento degli stipendi per i dipendenti pubblici, a far irrobustire il consenso sono stati probabilmente gli appelli all’orgoglio nazionale, i richiami all’identità, e l’eterna allusione all’“assedio” delle culture straniere, che nella visione più nazionalista vogliono imporre una corruzione dei valori tradizionali islamici attraverso le immissioni della “decadente” cultura LGBT o l’influenza dell’imperialismo Usa. Va ricordato che i militanti del partito conservatore per la giustizia e lo sviluppo AKP, seguaci di Erdoğan, continuano a considerare gli Stati Uniti corresponsabili per il tentato golpe del 15 luglio 2016, in complicità con l’ex alleato e oggi arcinemico di Erdoğan, il predicatore Fehtullah Gülen, in passato considerato “molto sostenuto” dall’allora segretario di Stato Hillary Clinton.
L’efficacia del richiamo nazionalista era talmente evidente che persino Kemal Kiliçdaroğlu ha cercato di rivolgersi all’elettorato più sensibile sul tema con un’inattesa svolta nella sua campagna elettorale. In maggio, a pochi giorni dal secondo voto, il candidato dell’opposizione ha puntato il dito contro il Presidente accusandolo di avere permesso l’arrivo di dieci milioni di “migranti illegali”, promettendo che se fosse stato eletto avrebbe provveduto a espellerli. Si riferiva in modo poco generoso ai profughi della Siria, gonfiando in modo disinvolto le stime sulla presenza dei rifugiati in Turchia, che secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite sono 3,9 milioni. Ma nemmeno l’approccio xenofobo ha favorito Kiliçdaroğlu.
La mediazione nel conflitto russo-ucraino e la Nato
La conferma di Erdoğan potrebbe essere una buona notizia per chi confida nella capacità di mediazione di Ankara nel conflitto fra Russia e Ucraina. Il Presidente turco ha condiviso solo in parte lo schieramento deciso della Nato accanto a Kiev e nei mesi prima dell’appuntamento elettorale ha comunque coltivato i rapporti con Mosca, al punto che Vladimir Putin aveva persino proposto di affidare alla Turchia il compito di costruire un hub per la distribuzione del gas in Europa. Apparentemente l’offerta non è mai stata ritirata, e nei fatti il Cremlino sembra non dare troppa importanza alla robusta fornitura di droni che l’industria militare turca garantisce all’Ucraina.
Restano i problemi per la Nato. L’atteggiamento di chiusura di Erdoğan verso l’allargamento dell’Alleanza a Finlandia e Svezia era in buona misura strumentale, serviva cioè a confermare un’immagine nazionalista per scopi elettorali. Ma già prima del voto il Presidente turco aveva dato via libera all’accesso di Helsinki, e al vertice di Vilnius dell’11-12 luglio la svolta è diventata ufficiale. A sbloccare la procedura per l’ammissione della Svezia hanno sicuramente contribuito le nuove leggi antiterrorismo introdotte di recente dal governo di Stoccolma, e potrebbe essere servita anche la visita ad Ankara di Jens Stoltenberg subito dopo la conferma di Erdoğan.
Nei fatti il risultato del voto turco ha di fatto imposto a tutti un approccio più “morbido”: il governo di Ankara ha accolto con favore le novità legislative svedesi, e il Premier di Stoccolma Ulf Kristersson subito dopo il ballottaggio ha scritto a Erdoğan sottolineando l’importanza di una collaborazione “nel rispetto delle comuni esigenze di sicurezza”. Anche Joe Biden ha telefonato al collega turco dopo il voto per congratularsi, approfittandone per ricordare l’urgenza dell’allargamento atlantico e collegando le esigenze della Nato con la richiesta turca per una fornitura di 40 cacciabombardieri F-16 di ultima generazione e di altrettanti kit di aggiornamento per gli aerei già in possesso di Ankara.
Secondo gli analisti, Erdoğan dopo il voto ha preteso una sorta di resa dei conti con alleati e amici. Non è ancora ben chiaro se il Presidente turco abbia ottenuto da Biden l’impegno ad abbandonare ogni collegamento con le Unità di protezione popolare YPG, le milizie curde che Ankara considera l’ala siriana del PKK, e su Washington ha fatto affidamento per la lotta allo Stato islamico. E non ci sono dichiarazioni ufficiali su un possibile via libera della Svezia all’estradizione di militanti curdi espatriati negli anni ’80 e ’90, su cui pendono pesanti condanne. Ma il fattore decisivo per il “sì” di Erdoğan è stato senz’altro l’impegno svedese a sostenere la riapertura del processo per accogliere la Turchia nell’Unione europea.
Ancora una volta la scommessa nazionalista ha pagato, sia pure portando la Turchia sull’orlo di una crisi con l’Alleanza. Erdoğan può presentarsi alla popolazione turca con risultati concreti, in termini di lotta contro il separatismo curdo e di progresso nel percorso verso l’Unione europea, senza compromessi legislativi. Ma il richiamo patriottico, che ha conquistato gli elettori, ha comunque poca efficacia verso i mercati. Già dal 2021 Erdoğan e i suoi tecnici avevano adottato una politica “poco ortodossa” di diminuzione dei tassi di interesse, con l’intenzione dichiarata di favorire lo sviluppo, inseguendo un modello “alternativo” rispetto a quello capitalista. Questa politica, unita agli effetti perversi della pandemia da Covid-19, ha fatto aumentare l’inflazione in modo inarrestabile.
L’inflazione
La banca centrale turca ha provato a fermare il crollo della moneta, facendo il massimo sforzo prima del voto. Ma una volta esaurita l’ultima manovra possibile – quando l’istituto ha attinto con abbondanza alle riserve di valuta straniera per difendere la lira – adesso la valuta turca appare sempre più debole. Se nel 2018 un dollaro valeva 4,5 lire, oggi la moneta americana si cambia a 25 lire, e gli esperti prevedono un cambio a 28 lire in tempi rapidi. E se il tasso di interesse ufficiale viaggia attorno all’8,5%, le banche arrivano a chiedere per un prestito il 60%, strangolando ogni speranza di crescita economica e spingendo le famiglie a creare riserve occulte in valuta straniera.
Subito dopo la conferma alla presidenza, Erdogan ha cercato di fermare la tendenza inflazionistica nominando ministro delle Finanze Mehmet Şimşek, considerato un tecnico “poco interventista”, e dando la guida della banca centrale a Hafize Gaye Erkan, prima donna a ricoprire questa carica, anch’essa preceduta da fama lusinghiera per la sua carriera precedente, nelle banche Usa. In attesa della decisione più attesa, un ritocco verso l’alto dei tassi di interesse, gli esperti avvertono: per vedere i conti invertire la tendenza, ci vorrà almeno un anno e mezzo.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di Luglio/Settembre di eastwest
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L’Occidente, la Nato, l’Unione europea aspettavano di poter tirare un sospiro di sollievo per l’auspicato tramonto di un alleato ingombrante e riottoso come Recep Tayyip Erdoğan, considerato poco disponibile al gioco di squadra e persino imbarazzante nella sua disinvoltura verso le regole della vita democratica come sono intese nell’accezione più diffusa. Ma l’elettorato turco, evidentemente, aveva una visione molto diversa. Per valutare i risultati elettorali in Turchia, insomma, vale la sintesi impietosa firmata da due commentatori di Foreign Policy: la speranza non è analisi.