I rapporti tra Stati Uniti e Cina si sono fatti molto più tesi, per questo il Pentagono sta cercando di aprire una linea di comunicazione con l’Esercito popolare di liberazione per evitare che la competizione degeneri in un conflitto armato
Mercoledì il segretario della Difesa degli Stati Uniti, Lloyd Austin, ha avuto una conversazione telefonica con Wei Fenghe, il Ministro della Difesa nazionale della Cina. È una notizia importante, innanzitutto perché si tratta del primo colloquio tra i due dall’inizio del mandato di Joe Biden, più di un anno fa. E poi perché era da tempo che la Casa Bianca cercava di aprire una linea di comunicazione tra il Pentagono e l’esercito di Pechino, utile a gestire le tensioni e a evitare che la competizione strategica degeneri in un conflitto armato.
Il contenuto della telefonata tra Austin e Wei
Com’era però prevedibile, dalla telefonata – durata pare una quarantina di minuti e concepita da Washington come il seguito del video-vertice tra Biden e Xi di marzo – non è emersa alcuna novità significativa nei rapporti tra le due potenze.
Austin ha detto che la Cina non deve dare sostegno militare alla Russia e Wei ha risposto che l’America non deve usare la “questione ucraina” come strumento di pressione su Pechino (che non ha condannato l’invasione russa e, anzi, ha rilanciato la narrazione anti-Nato del Cremlino). Il generale cinese ha criticato l’ultimo pacchetto di assistenza militare americana a Taiwan – approvato a inizio aprile, valore 95 milioni di dollari, sarebbe il terzo sotto Biden – e ribadito la versione dello Zhongnanhai: cioè che Taiwan non è un paese ma una parte della Cina, che la situazione tra Taipei e Pechino non è paragonabile a quella tra Mosca e Kiev e che il dossier taiwanese, “se non verrà gestito correttamente, avrà un effetto sovvertitore” sulle relazioni con gli Stati Uniti. Il segretario americano ha riportato le preoccupazioni di Washington per le manovre delle forze armate di Pechino nei pressi di Taiwan e nei mari Cinese meridionale e Cinese orientale. Il solito, insomma.
Definire l’interlocutore
Ma l’importanza della telefonata non è nel suo contenuto, ma nel fatto che ci sia stata. Un precedente sotto Biden, in realtà, già esisteva, ma coinvolgeva funzionari di grado inferiore: ad agosto infatti Michael Chase, vice-assistente segretario alla Difesa per la Cina, ha parlato in videoconferenza con Huang Xueping, vicedirettore dell’Ufficio per la cooperazione militare internazionale dell’Esercito popolare di liberazione.
Più che con Wei Fenghe, in realtà, Lloyd Austin avrebbe voluto discutere con il generale Xu Qiliang, l’ufficiale più in alto nella struttura militare del Partito comunista cinese: è vicepresidente della Commissione militare centrale (sopra di lui c’è solo Xi), che controlla le forze armate. Ricapitolando: Xu è gerarchicamente superiore a Wei e più influente di lui; da protocollo, tuttavia, è Wei l’omologo di Austin ed è con lui che si sono interfacciati i predecessori dell’attuale segretario della Difesa.
Rispetto al passato, tuttavia, i rapporti tra Stati Uniti e Cina si sono fatti molto più tesi: Washington pensa che Pechino voglia creare un ordine mondiale diverso – un’alleanza delle autocrazie, magari – e che voglia diventare più forte militarmente per sostituirsi all’America come potenza dominante in Asia. Lo stesso Austin considera la Cina la principale sfida militare di lungo termine per gli Stati Uniti. La possibilità di uno scontro armato, per quanto al momento remota, esiste, dunque, e tocca tanti domini (inclusi lo spazio e il ciberspazio). Ed è per questo che il Pentagono vorrebbe avere un canale con Xu, il cui peso sulle faccende belliche è maggiore di quello di Wei.
Il piano B della Cina su Taiwan
Mercoledì il quotidiano giapponese Nikkei Asia ha pubblicato un articolo – ricco di dichiarazioni di fonti anonime, anche interne al Partito comunista cinese – per spiegare come e perché l’aggressione russa dell’Ucraina abbia indotto la Cina a ripensare il suo eventuale piano per l’invasione (“riunificazione”, secondo la retorica ufficiale) di Taiwan.
Stando alle fonti e agli esperti sentiti dal Nikkei, il piano prediletto di Pechino per la conquista di Taiwan punterebbe su un’offensiva rapida, non troppo diversa da quella che la Russia avrebbe voluto realizzare in Ucraina: la presa della capitale Taipei dovrebbe ipoteticamente completarsi in sette giorni, altrimenti si darebbe il tempo agli Stati Uniti di organizzarsi e inviare nel paese le proprie truppe stazionate a Okinawa, in Giappone, a circa 600 chilometri di distanza.
È una strategia che nel concreto però, considerate le difficoltà incontrate da Mosca, potrebbe non funzionare. Anche perché Taipei ha una popolazione paragonabile a quella di Kiev, ma è molto più densamente popolata: la resistenza dei civili all’invasione, dunque, potrebbe essere forte come quella ucraina. Lo sbarco stesso sull’isola, inoltre, è complicato dal fatto che lo stretto di Formosa, quello che separa Taiwan dalla Cina continentale, è largo più di 100 chilometri ed è attraversato da forti correnti: le condizioni ideali per attraversarlo si presentano giusto un paio di mesi all’anno. Senza contare, infine, che Taiwan dispone di missili Patriot, di costruzione statunitense, molto efficaci.
Secondo Yasuhiro Matsuda, professore all’Università di Tokyo ed esperto di sicurezza cinese, la Cina insisterà sull’ampliamento del proprio arsenale nucleare per disincentivare gli Stati Uniti dall’intervenire nel conflitto. Rira Momma, analita dell’Istituto giapponese per gli studi sulla difesa, pensa che la Cina, più che un attacco su larga scala, potrebbe ripiegare su un’offensiva più contenuta e limitarsi alla conquista delle isole Pratas, nel mar Cinese meridionale, sotto amministrazione taiwanese.
Com’era però prevedibile, dalla telefonata – durata pare una quarantina di minuti e concepita da Washington come il seguito del video-vertice tra Biden e Xi di marzo – non è emersa alcuna novità significativa nei rapporti tra le due potenze.