[ROMA] Giornalista, scrive, tra gli altri, su Il Foglio, Libero, La Ragione, Linkiesta, Longitude. Tra le sue pubblicazioni, L’avvocatoe il banchiere, edito da Paesi edizioni.
Inchiesta: la crisi dell’auto elettrica in Europa e Stati Uniti
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Il 2024 è iniziato con l’annuncio che Hertz, una delle più grandi società di noleggio auto senza conducente al mondo, sostituirà un terzo delle sue auto elettriche con veicoli convenzionali. Sono ben 20.000 i veicoli da rivendere, a causa della bassa domanda dei clienti e dei maggiori costi di riparazione, e rimettendoci circa 245 milioni di dollari, a causa del deprezzamento dei veicoli a batteria. Solo un paio di anni fa, con l’acquisto di un gran numero di auto a batteria per il suo mercato negli Stati Uniti Hertz aveva avviato un processo che prevedeva di convertire all’elettrico il 25% della sua flotta entro la fine del 2024. Ma il piano non ha funzionato: non solo perché la domanda dei clienti si è rivelata molto più bassa del previsto, ma anche perchè si sono riscontrati due problemi imprevisti: il maggior numero di incidenti, i costi di riparazione più elevati e i tempi molto lunghi. Da cui una minor redditività delle auto ferme senza funzionare che si è rivelata insostenibile.
A maggio, uno studio della London School of Hygiene & Tropical Medicine ha confermato che le auto elettriche sono più coinvolte in incidenti stradali con pedoni rispetto alle auto tradizionali: 2,4 ogni 100 milioni di miglia percorse in un anno per le auto tradizionali; 5,16 per le auto a funzionamento elettrico. Ipotesi avanzate: di un motore silenzioso ci si accorge di meno; le auto elettriche sono in proporzione più usate da guidatori più giovani e più inesperti. Dalla Francia viene invece lo studio di Que Choisir, che analizzando nel dettaglio 25 modelli di auto elettriche ha evidenziato discrepanze del 30% tra le prestazioni promesse dalle Case e quelle effettive delle vetture alla spina.
Anche altre notizie di maggio sembrano confermare il momento no delle auto elettriche. La stessa Tesla, ad esempio, nell’ultimo suo report ha ammesso che non riuscirà a consegnare 20 milioni di auto elettriche all’anno dal 2030, come preannunciato. In realtà, con diffuso scetticismo degli analisti, dubbiosi su un piano di espansione per cui Tesla sarebbe arrivata a produrre più del doppio della Toyota, primo costruttore automobilistico al mondo. La dichiarazione è stata comunque letta come un ulteriore segnale del fatto che la Casa si stia allontanando sempre di più dalla produzione di automobili per concentrarsi su attività maggiormente redditizie come l’intelligenza artificiale, la guida autonoma e, proprio in relazione a queste due, il Robotaxi. Anche Lucid Group, casa automobilistica statunitense fondata nel 2007 e specializzata in vetture a batterie, ha deciso a maggio di ridurre la propria forza lavoro del 6%, vale a dire circa 400 dipendenti, per una crescita più lenta del previsto. Ma già nel 2023, Volkswagen aveva tagliato 269 posti di lavoro presso la sua fabbrica di Zwickau, in Germania, a causa della “situazione del mercato”. A febbraio Polestar ha annunciato il taglio di 450 posti di lavoro, pari al 15% del totale. A marzo 2024 Stellantis ha ufficializzato un mese di stop allo stabilimento di Mirafiori, dove si produce anche la 500 elettrica. A sua volta, la Ford ha ridotto la produzione del suo F-150 Lightning, il pick-up elettrico lanciato due anni fa.
Resta il dubbio se effettivamente Tesla abbia previsto un vero e proprio stop, o non piuttosto una saturazione del mercato per eccesso di concorrenza, da compensare con lo spostarsi su settori dove invece di competizione ce ne sia di meno. In realtà, la scelta strategica dell’Unione Europea di arrivare alla sostituzione piena dell’elettrico a benzina e diesel entro il 2035 per il momento resta. Anche un governo composto da forze politiche in teoria critiche verso questa scelta come quello di Giorgia Meloni, dal 3 giugno ha fatto partire nuovi incentivi sulle auto elettriche, con un Eurobonus che prevede sconti fino a 13.750 euro. È stato dunque stanziato un miliardo: sia con l’obiettivo generale di rilanciare il settore dell’industria automobilistica; sia per colmare il distacco nella transizione verso l’elettrico che al momento separa l’Italia dalle altre grandi economie europee. Anche Stellantis ha comunicato ufficialmente un proprio sistema di incentivi che vanno aggiungersi a quelli statali.
L’Agenzia Internazionale dell’Energia ha comunque stimato che entro la fine del 2024 il numero di auto elettriche presenti nel mondo raggiungerà i 17 milioni. “Più di un’auto su cinque venduta in tutto il mondo quest’anno sarà elettrica”. Ma la regione in cui le automobili elettriche si svilupperanno più rapidamente è la Cina, dove quasi un’auto su tre, entro il 2030, sarà elettrica. In Cina, secondo la Iea, sarà venduto il 45% di tutte le vetture a zero emissioni che saranno presenti sulle strade entro la fine dell’anno. 10 milioni di auto elettriche. In Europa e negli Stati Uniti il rapporto sarà invece di una vettura elettrica ogni cinque veicoli venduti: a meno che effettivamente gli impegni presi dai governi per il 2035 vengano rispettati, nel qual caso si dovrebbe salire a due vetture elettriche ogni tre auto vendute. Ma a fine 2024 per le strade dell’Europa ci saranno solamente il 25% delle automobili elettriche di tutto il mondo, e negli Stati Uniti solo l’11%. Nei primi tre mesi del 2024, le vendite di veicoli elettrici nei Paesi Ue sono cresciute solo del 3,8%, contro un 25% mondiale.
Risale ad aprile, in effetti, un’analisi in cui la Commissione europea, attraverso i funzionari della direzione generale Mercato interno e industria guidata dal commissario francese Thierry Breton, ha ammesso i ritardi dell’industria e delle infrastrutture nell’Ue. “Il Green Deal non sarà raggiunto con la bacchetta magica o con un ordine esecutivo di Bruxelles”, ha detto Breton al quotidiano Politico. “Tutte le condizioni abilitanti devono essere soddisfatte”, ha aggiunto. Nel 2023, secondo questo documento, nella Ue sono stati venduti circa 1,5 milioni di veicoli a batteria. Sono 400.000 in più rispetto al 2022, ma a questo ritmo difficilmente l’Europa raggiungerà l’obiettivo dei 10 milioni per il 2035. Si ricorda poi come nel 2023 il 20% delle auto a zero emissioni vendute nel blocco siano state costruite in Cina. Una quota che potrebbe aumentare esponenzialmente: le vetture cinesi sono meno care, e dei sei modelli di elettrica con un prezzo medio inferiore ai 30.000 euro, la metà proveniva da Pechino. Finora nessun modello venduto in Europa costa meno di 20.000, da cui un problema di accessibilità dei nuovi veicoli per chi non ha un reddito alto. C’è poi carenza di infrastrutture: nell’Ue ci sono attualmente circa 600.0000 punti di ricarica, ma al 61% sono concentrati in Germania, Francia e Olanda. Entro il 2035 ne serviranno almeno 3 milioni.
Inoltre, mancano dati sulla capacità della rete elettrica di sostenere il carico della transizione ai veicoli a zero emissioni. E c’è il nodo occupazione, con i lavoratori dell’automotive Ue che sono diminuiti negli ultimi anni, soprattutto nell’indotto. Il passaggio all’elettrico e l’abbandono del motore a combustione richiederanno invece nuove tipologie di operai specializzati, e molti potrebbero trovarsi con competenze ormai fuori mercato. Per questo, è necessario puntare sulla formazione degli attuali occupati, con iniziative come quella Automotive skills alliance, network di costruttori, università e autorità locali, che ha lanciato un piano per la riqualificazione professionale di 700.000 dipendenti entro il 2027. Infine, si prevede che se da qui al 2026, la domanda di batterie continuerà a superare l’offerta delle gigafactory europee, entro il 2035 gli investimenti dovrebbero consentire di coprire adeguatamente il mercato interno. Ma a quel punto ci sarà il problema di reperire le materie prime necessarie.
Il documento è importante perchè in realtà la legge che introduce il divieto di auto a benzina e diesel dal 2035 contiene una sorta di freno di emergenza in base al quale la Commissione può rinviare lo stop. Entro il 2026, Bruxelles dovrà realizzare un rapporto di valutazione sui progressi nella transizione. Se tali progressi saranno considerati insufficienti, la vita del motore a combustione per i veicoli leggeri potrebbe essere allungata.
Proprio queste difficoltà hanno portato all’idea di affrontare la concorrenza con dazi, e la Commissione Europea sta portando avanti un’indagine anti-dumping sulle auto elettriche prodotte in Cina. Lo stesso Musk, però, dopo averli invocati a gennaio si è poi detto a maggio contrario ai dazi imposti da Biden. “Né Tesla né io abbiamo chiesto queste tariffe, anzi sono rimasto sorpreso quando sono state annunciate. Le cose che inibiscono la libertà di scambio o distorcono il mercato non sono buone”, ha detto alla conferenza Viva Technology di Parigi in collegamento video. “Tesla compete abbastanza bene nel mercato cinese senza tariffe e senza supporto. Sono favorevole all’assenza di dazi”. Stessa linea di Volkswagen, per cui i dazi possono rappresentare solamente una soluzione a breve termine, e sarebbe meglio sfruttare i prossimi due-tre anni per diventare più competitivi sul fronte dei costi.
Proprio questo quadro sembra indurre a un ripensamento generale, che non rinuncerebbe tanto alla transizione ecologica, ma sfumerebbe il ruolo dell’auto elettrica, per invece diversificare le risposte. Una, ad esempio, potrebbe essere l’auto ibrida. Un’altra, il rilancio del nucleare. Una terza, l’idrogeno verde. Una quarta, le tecnologie di “cattura del carbone” e geo-ingegneria. Una quinta, una rivalutazione dei biocarburanti. Gilberto Pichetto Fratin, ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica nel governo Meloni, al G7 dedicato a Clima, Energia e Ambiente che si è tenuto a Torino il 29 e 30 aprile, e che ha raggiunto un accordo sull’addio al carbone, ha spinto in particolare su quest’ultimo fronte. “L’auto elettrica? Farà la parte del leone. Il gas naturale? Per i prossimi trent’anni sarà fondamentale. I biocarburanti? La loro presenza nel testo finale di questo G7 sono un nostro successo”, è il titolo con cui è stato sintetizzato il senso di una sua intervista di commento.
Lanciati ai tempi di George W. Bush come alternativa a una dipendenza dal petrolio sempre più geopoliticamente rischiosa, i biocarburanti finirono nell’occhio del ciclone con l’accusa di mettere a rischio la sicurezza alimentare. Ma nuove generazioni di biocarburanti sono arrivate, che si basano sui prodotti di scarto, la proiezione è che dai 119,68 miliardi di litri nel 2023 il mercato globale dei biocarburanti potrebbe raggiungere i 279,88 miliardi di litri entro il 2028, e i produttori italiani fanno ora sapere addirittura che solo col recupero degli oli da cucina usati l’Italia potrebbe essere autosufficiente dal punto di vista energetico. In Italia ci sono già due bio-raffinerie, più una terza in realizzazione, e le 800 stazioni che già distribuiscono biocarburante al 100% da fonti rinnovabili, dovrebbero diventare 1000 entro fine anno. Deriva da residui, rifiuti e biomasse non alimentari coltivate su terreni degradati non in competizione con l’agricoltura alimentare. Sui biocarburanti in generale, l’Italia vanta una produzione interna che si attesta sul 30%, con una quota del 9,5% derivante direttamente da materie prime nazionali.
L’Italia dovrebbe però promuovere una legislazione adeguata a livello europeo, dal momento che i biocarburanti devono possedere determinate caratteristiche per essere riconosciuti tali. Un impegno politico rivolto all’innovazione e alle tecnologie sostenibili made in Italy, dovrebbe riconoscere il potenziale strategico di questi carburanti per la space economy, l’aviazione e il mondo navale, coinvolgendo di più i piccoli produttori del biodiesel e valorizzando il ruolo del mondo agricolo. Con le guerre in corso che ostacolano sia l’importazione di gas che di petrolio, e con i problemi dell’elettrico, anche valorizzare i biocarburanti può diventare strategico.
La guerra dei cavi sottomarini
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Al momento in cui il governo degli Stati Uniti ha iniziato la sua offensiva contro Hmn Tech (il colosso cinese dei cavi sottomarini), SubCom aveva già richiesto con successo prestiti a una istituzione federale come la Export-Import Bank of the United States per sostenere la sua offerta. Si è inoltre assicurata di avere l’appoggio del Dipartimento del Commercio, che ha rapidamente mobilitato le ambasciate Usa in tutto il mondo. Secondo persone coinvolte, gli ambasciatori Usa hanno scritto lettere agli operatori di telecomunicazioni locali partecipanti all’accordo. Tra questi Paesi ci sono sicuramente Singapore, Bangladesh e Sri Lanka. Una di queste lettere, vista da Reuters, afferma che la scelta di SubCom è “un’importante opportunità per rafforzare la cooperazione commerciale e di sicurezza con gli Stati Uniti”.
A parte, ambasciatori e diplomatici hanno poi incontrato dirigenti di società di telecomunicazioni straniere in almeno 5 paesi. Il loro avvertimento: Hmn Tech potrebbe essere soggetta a sanzioni Usa nel prossimo futuro. Un alto dirigente asiatico delle telecomunicazioni ha ricordato un incontro di metà 2020 con un importante diplomatico statunitense e un addetto Usa al commercio digitale. I due funzionari gli hanno spiegato come le sanzioni contro Hmn Tech avrebbero reso il cavo inutile, fornendogli anche un foglio di calcolo stampato con un’analisi economica che lo dimostrava. “Hanno detto che saremmo andati in bancarotta. È stato un argomento convincente”, ha detto il dirigente a Reuters.
Le mosse cinesi
Anche i cinesi, in realtà, hanno provato a muoversi. Altri due dirigenti delle telecomunicazioni asiatiche nel consorzio hanno detto a Reuters di aver incontrato diplomatici cinesi e statunitensi, che li hanno esortati a sostenere rispettivamente Hmn Tech e SubCom. Ma evidentemente la minaccia Usa era più forte, e entro la fine del 2020 diversi membri del consorzio hanno detto ai loro partner che stavano ripensando alla scelta di Hmn Tech come fornitore, proprio per paura delle sanzioni. Tra di esse la Bangladesh Submarine Cable Company Limited, la indiana Bharti Airtel in India, la Sri Lanka Telecom, la francese Orange e Telecom Egypt.
Nel febbraio 2021, con i partner del consorzio ormai ai ferri corti, il gruppo ha dato sia a SubCom che a Hmn Tech la possibilità di presentare una “offerta migliore e definitiva”. SubCom ha abbassato la sua offerta a quasi 600 milioni di dollari, e Hmn Tech si è offerta di costruire il cavo per soli 475 milioni di dollari. Diversi membri del consorzio hanno sostenuto che, tenendo conto del rischio di sanzioni nelle offerte, SubCom offriva un accordo migliore. Tra di essi Microsoft, Singapore Telecommunications Limited (Singtel) e Orange. Le tre società cinesi di proprietà statale si sono invece dette fortemente in disaccordo. In una tesa videochiamata a fine 2021, un dirigente di Singtel, presidente del comitato via cavo, ha esortato le società a votare una decisione finale prima che l’intero accordo fallisse. China Telecom e China Mobile hanno allora minacciato di abbandonare il progetto, portando via con sé decine di milioni di dollari di investimenti. Ma la maggioranza del consorzio ha scelto comunque SubCom. Al posto delle due aziende statali cinesi che se ne sono andate si sono uniti due nuovi investitori: Telekom Malaysia Berhad e PT Telekomunikasi Indonesia International (Telin). Inoltre secondo le stesse fonti, alcuni dei membri originali hanno aumentato la loro quota, per colmare il deficit che si era creato.
Strategie Usa
Oltre alla campagna di successo per escludere Hmn Tech dal cavo Singapore-Francia, c’è stato un secondo caso in cui per lasciar fuori i cinesi da un progetto, la Casa Bianca si è coordinata con i team dei dipartimenti di Stato e del Commercio Usa e l’Ufficio del Rappresentante per il Commercio Usa, che è il membro dell’ufficio esecutivo del Presidente, incaricato di consigliare e agire per conto del Presidente sulle questioni di commercio internazionale. Questa volta, stando a due testimonianze, si trattava di un cavo per collegare le tre nazioni insulari del Pacifico di Nauru, Stati Federati di Micronesia e Kiribati. Stati Uniti, Australia e Giappone hanno infatti annunciato nel dicembre 2021 che avrebbero finanziato congiuntamente un cavo su questa tratta, noto come East Micronesia Cable.
Interpellato da Reuters, il consulente in cavi sottomarini con sede a Sydney Paul McCann commentò che un tale scenario rischiava di mettere in crisi una industria che invece si era sempre basata sulla più ampia collaborazione tra le parti possibile. “Non ho mai visto una tale influenza geopolitica sui cavi sottomarini negli oltre 40 anni in cui sono stato coinvolto nel business. È senza precedenti”. Una situazione innescata dal Team Telecom: nome informale del comitato inter-agenzia istituito tramite un ordine esecutivo firmato da Trump nell’aprile 2020, con l’obiettivo di salvaguardare le reti di telecomunicazioni Usa da spie e attacchi informatici. Team Telecom è gestito dalla Divisione di Sicurezza Nazionale del Dipartimento di Giustizia (Doj), al cui vertice nel maggio 2021 Biden ha nominato il viceprocuratore generale Matthew Olsen. Personaggio con una lunga esperienza nel campo dell’intelligence, essendo già stato dal 2011 al 2014 direttore del Centro nazionale antiterrorismo sotto Barack Obama, e prima ancora consigliere generale della National Security Agency, il centro nevralgico dello spionaggio Usa.
Evitare Hong Kong
Mentre il Dipartimento di Stato e i suoi partner hanno operato per impedire alla Cina di ottenere nuovi contratti sottomarini in luoghi considerati di interesse strategico, Team Telecom si è concentrata a impedire a qualsiasi cavo di collegare direttamente il territorio Usa con la Cina continentale o Hong Kong, per paura dello spionaggio cinese. A tal fine, il Team formula raccomandazioni sulle licenze via cavo all’autorità di regolamentazione delle telecomunicazioni Usa, la Federal Communications Commission (Fcc). Dal 2020, è stato così determinante nella cancellazione di 4 cavi che avrebbero collegato Usa e Hong Kong, secondo quanto detto a Reuters in un’intervista da Devin DeBacker: funzionario del Dipartimento di Giustizia e membro senior del Team Telecom. Hong Kong “fornisce un punto di accesso fisico in quello che è effettivamente territorio cinese”, ha spiegato DeBacker. “Il modo in cui la Cina ha eroso l’autonomia di Hong Kong ha consentito al governo cinese di avervi un percorso diretto e di accesso completo, che di fatto è una piattaforma di raccolta dei dati e delle comunicazioni dei cittadini statunitensi”.
Questa decisione di Washington di far saltare qualsiasi capolinea a Hong Kong per i quattro accordi di cavi sottomarini previsti non è stata senza conseguenze per le Major del settore come Google, Meta o Amazon. Negli ultimi 10 anni, erano stati appunto questi titani della tecnologia i maggiori investitori in nuovi cavi per cercare di collegare una rete di data center negli Usa e in Asia, per sostenere le loro attività di cloud computing in rapida crescita.
Il primo di questi progetti è il Pacific Light Cable Network. Di proprietà di Google e Meta, ora trasmetterà solo dati da Usa a Taiwan e alle Filippine, dopo che il Team Telecom ha raccomandato alla Fcc di respingere la tappa di Hong Kong. Secondo la testimonianza di due persone che ci avevano lavorato, una sezione di cavo lunga centinaia di km che avrebbe dovuto portare a Hong Kong, giace oggi abbandonata sul fondo dell’oceano. In un appello infruttuoso alla Fcc, Google e Meta avevano provato a spiegare che l’argomentazione del Team Telecom secondo cui la Cina potrebbe intercettare i dati sul cavo era “non supportata e speculativa” e che la sua decisione andava considerata “un referendum sulla Cina, piuttosto che l’affermazione di qualsiasi reale preoccupazione specifica”. Ciò risulta in un documento presentato dalle società il 20 agosto 2020, e disponibile sul sito Web della Fcc.
Il ruolo di Amazon, Meta e China Mobile
Un secondo progetto è il sistema via cavo Bay to Bay Express, sviluppato in origine da Amazon, Meta e China Mobile, e che non funzionerà come previsto da Singapore a Hong Kong e alla California. Nell’ambito di un accordo raggiunto tra Amazon, Meta e Team Telecom, China Mobile ha lasciato il consorzio e il cavo è stato rinominato Cap-1, con una nuova rotta da Grover Beach, California, alle Filippine. Secondo gli addetti il cavo era già stato posato quasi interamente lungo il percorso originale, e la sezione verso Hong Kong ora giace inutilizzata nelle profondità.
Secondo Reuters, ci sono prove che la campagna Usa avrebbe rallentato il colosso cinese dei cavi sottomarini. Hmn Tech aveva infatti fornito il 18% dei cavi sottomarini messi in linea negli ultimi 4 anni, ma secondo TeleGeography l’azienda cinese sarebbe ormai scesa a solo il 7% dei cavi attualmente in fase di sviluppo in tutto il mondo: cifre che si basano sulla lunghezza totale del cavo posato, non sul numero di progetti.
Ovviamente, la cosa non è stata senza conseguenze. Secondo due consulenti della materia con conoscenza diretta del progetto, la Cina avrebbe creato un ostacolo su un cavo in cui Meta è investitore proprio con una manovra “occhio per occhio”. Quel cavo, noto come Southeast Asia-Japan 2 cable, avrebbe dovuto andare da Singapore attraverso il Sud-Est asiatico e toccare Hong Kong e la Cina continentale prima di proseguire verso la Corea del Sud e il Giappone. La Cina ha però ritardato la concessione della licenza per il passaggio del cavo attraverso il Mar Cinese Meridionale, citando preoccupazioni sulla possibilità che la giapponese Nec, produttrice del cavo, inserisse nella linea apparecchiature spia.
Negli ultimi anni, il governo degli Stati Uniti ha anche impedito alle aziende americane di utilizzare apparecchiature di telecomunicazione di aziende cinesi che Washington considerava una minaccia alla sicurezza nazionale, e ha vietato a diverse società di telecomunicazioni statali cinesi di operare nel territorio Usa. Tra questi c’è la stessa China Telecom, che in precedenza aveva ottenuto l’autorizzazione a fornire servizi negli Usa. La Fcc ha revocato tale autorizzazione nel 2021, affermando che la filiale Usa di China Telecom “è soggetta a sfruttamento, influenza e controllo da parte del governo cinese”. L’agenzia ha citato esempi di società che utilizzano il proprio accesso alle reti statunitensi per reindirizzare erroneamente il traffico internazionale ai server cinesi, e China Telecom non è riuscita a convincere un tribunale statunitense a revocare tale decisione. Nel 2022 l’ambasciata cinese a Washington ha affermato che la Fcc ha “abusato del potere statale e attaccato maliziosamente gli operatori di telecomunicazioni cinesi” senza alcuna base fattuale. DeBacker, del Team Telecom, ha affermato che la Cina utilizza tattiche simili sui cavi sottomarini, pur senza volerne dare esempi specifici. “Il rischio è reale”, ha detto DeBacker. “Si è materializzato in passato e ciò che stiamo cercando di fare è impedire che si materializzi in futuro”.
La paura dei sabotaggi
Non sono solo gli Usa a preoccuparsi, peraltro. A inizio dello scorso dicembre le marine di Regno Unito, Estonia e Finlandia hanno tenuto un’esercitazione congiunta nel Mar Baltico, il loro obiettivo non era quello di affinare le capacità di combattimento. Invece, le forze si stavano addestrando per proteggere da possibili sabotaggi non solo dei gasdotti sottomarini, ma anche dei cavi per Internet. A ottobre quelli della regione erano stati infatti danneggiati, e il presidente finlandese Sauli Niinisto si era polemicamente chiesto se la nave cinese accusata del danno avesse trascinato l’ancora sul fondo “intenzionalmente o a causa di una pessima abilità marinara”.
Nel riferirne, The Economist ha ricordato come “i tubi dati sottomarini trasportano quasi il 99% del traffico Internet intercontinentale”. TeleGeography, una società di ricerca, stima che ci siano 550 cavi sottomarini attivi o pianificati che attualmente si estendono per oltre 1,4 milioni di chilometri. Ogni cavo, che in genere è un fascio di 12-16 fili di fibra ottica e largo quanto un tubo da giardino, corre lungo il fondale marino a una profondità media di 3.600 metri. Quasi la metà è stata aggiunta negli ultimi dieci anni. Quelli più recenti sono in grado di trasferire 250 terabit di dati al secondo. I dati possono essere archiviati nel cloud, ma scorrono sotto l’oceano. Sempre TeleGeography stima che dal 2019 la domanda di larghezza di banda Internet internazionale è triplicata, arrivando a oltre 3.800 terabit al secondo. Il boom dell’intelligenza artificiale affamata di dati potrebbe rafforzare questa tendenza. Synergy Research Group, una società di dati, prevede un aumento di quasi tre volte della capacità dei data center dei grandi fornitori di servizi cloud nei prossimi sei anni. Per connettere questi data center a Internet, tra il 2020 e il 2025 l’industria dei cavi dati installerà 440.000 km di nuove linee sottomarine.
I cavi supportati dalle Big Tech rappresentano quasi un quinto dei 12$ mld di investimenti pianificati in nuovi sistemi nei prossimi 4 anni. Amazon e Microsoft possiedono rispettivamente una e quattro reti. Meta possiede un sistema di cavi ed è investitore in altri 14. Google è il più aggressivo: possiede direttamente 12 dei suoi 26 cavi. Quest’anno ha completato Firmina: un progetto da 360$ mln che si estende per oltre 14.000 km dalla costa orientale del Nord America attraverso il Brasile fino all’Argentina.
La ricerca del litio
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
L’America Latina è uno dei luoghi dove l’Unione Europea va a cercare il litio. Nel giugno 2019, ad esempio, il viceministro per il Commercio Estero svedese Niklas Johansson andò in Perù a inaugurare un forum, “Industria estrattiva per il futuro”, e a luglio in un’intervista a Reuters confermò che lo scopo del viaggio era stato cercare materia prima per quella che sarebbe diventata la più grande fabbrica di batterie al litio d’Europa, la cui partenza era annunciata per l’agosto successivo a Skelleftea, nel nord della Svezia. Un progetto destinato a partire subito, con una capacità da 16GWh, che ha raccolto un miliardo di dollari per la realizzazione, che conta Volkswagen e Bmw tra gli investitori, e che nel 2030 prevede di produrre 150 GWh, per un valore di 13 miliardi.
Il progetto, spiegò Johansson, ha valenza strategica proprio per sottrarre l’Europa a un possibile monopolio cinese, che in quel momento produceva i due terzi di tutte le batterie al litio fabbricate al mondo, e aveva un ruolo predominante come utilizzatore del litio latino-americano. Proprio l’anno prima, la canadese Plateau Energy Metals aveva trovato nel sud del Perù un giacimento da 2,5 milioni di tonnellate, che sarebbe diventato la miniera più grande del mondo. Da notare che i soldi per Skelleftea sono venuti da società tedesche e non dalla Volvo: tradizionale fiore all’occhiello dell’industria svedese, che però, attraverso la Geely, dal 2010 è controllata dalla Cina. “Se la Cina è capace di controllare un mercato, ciò rappresenterà un problema”, aveva spiegato Johansson nell’intervista.
Il dato curioso è che il litio si estrae in gran parte in Sudamerica ed è oggi processato in gran parte in Cina, ma è in Svezia che fu individuato per la prima volta, nel 1817, da Johan August Arfwedson in un campione di minerale che, nel 1800, era stato trovato nell’isola svedese di Uto dal chimico e statista brasiliano José Bonifácio de Andrada e Silva. Quindi, in principio fu un sudamericano che andò a cercare il litio in Svezia!
La ricerca del litio in America Latina per l’industria europea è stata anche una chiave del viaggio di Olaf Scholz nel Cono Sur a gennaio scorso. Dopo la prima tappa in Brasile, il cancelliere tedesco, il 28 gennaio, è arrivato a Buenos Aires. Col presidente argentino Alberto Fernández, ha non solo ribadito l’importanza di concludere presto un accordo tra Ue e Mercosur, ma ha anche firmato un memorandum di intesa sulla transizione all’energia pulita e una lettera di intenti per rafforzare la cooperazione, nell’area, delle startup e dell’economia della conoscenza. E Fernández ha ricordato che “l’Argentina vuole convertirsi in un fornitore sicuro di gas per il mondo, e anche di litio e di idrogeno verde”. Il 29 gennaio, Scholz è arrivato a Santiago del Cile, da Gabriel Boric. Anche lì, si è parlato del progetto cileno di diventare leader mondiale nella produzione di idrogeno verde; si sono firmati accordi di cooperazione in tecnologia e innovazione, miniera, economia circolare e energia; e Scholz ha ribadito l’interesse tedesco per il litio cileno. Boric si è detto determinato a riorganizzare l’industria del litio nel suo paese, sottolineando che vuole creare una società nazionale del litio e che il Cile ha il diritto e il dovere di partecipare a questo settore.
Il litio, però, non sta solo in America Latina. Secondo i dati della U.S. Geological Survey, il primo produttore sarebbe oggi l’Australia, con 55.000 tonnellate. Il paese ospita il progetto di litio Greenbushes, gestito da Talison Lithium, una consociata di proprietà congiunta di Tianqi Lithium e Albemarle. Tianqi Lithium Corp –precedentemente Sichuan Tianqi Lithium Industries, Inc. – è una società manifatturiera cinese con sede nel Sichuan. A partire dal 2018, la società controlla più del 46% della produzione globale di litio. Tianqi ha acquisito una partecipazione del 24% in SQM (Sociedad Química y Minera de Chile) nel 2018 per circa $ 4,1 miliardi e detiene una quota del 51% nella miniera di Greenbushes. Tianqi ha anche annunciato che avrebbe investito 600 milioni di dollari per costruire un impianto di lavorazione del litio a Kwinana, nell’Australia occidentale. Per quanto riguarda Greenbushes, il progetto è noto come l’area mineraria più duratura, essendo in funzione da oltre 25 anni.
Dopo le 26.000 tonnellate del Cile, terza è la Cina, con 14.000. Seguono l’Argentina con 6200 e il Brasile con 1500, e vengono poi lo Zimbabwe con 1200 e il Portogallo con 900. Vero è che il 56% degli 89 milioni di tonnellate di riserve individuate si trova nel “triangolo”: Bolivia con 21 milioni, Argentina con 19 milioni, Cile con 9,8 milioni. Se si aggiungono 1,7 milioni di tonnellate di riserve certificate in Messico, 880.000 in Perù e 470.000 in Brasile, l’America Latina arriva al 59%.
Una differenza importante è che mentre il litio australiano si ricava dalla roccia, quello latino-americano sta sotto ai letti di laghi secchi diventati deserti di sale. L’uno e l’altro richiedono, per estrarlo, energia e acqua. Estrarre litio da rocce, all’australiana, richiede l’emissione di 15 tonnellate di C02 per ogni tonnellata tirata fuori, senza contare le cicatrici nel paesaggio e il consumo di grandi quantità di acqua. Estrarre litio da sotto i laghi secchi, alla sudamericana, probabilmente inquina meno, ma richiede ancora più acqua in aree dove ce n’è poca.
In Cile, Sqm e Albemarle estraggono grandi quantità di salamoia da sotto una salina situata nel deserto nel nord del paese, e la immagazzinano in enormi bacini di evaporazione per un anno o più. Il concentrato risultante viene convertito in idrossido e carbonato di litio negli stabilimenti vicini e spedito ai produttori di batterie in Cina e Corea. Ciò significa che miliardi di litri di salamoia vengono estratti e poi vaporizzati in uno dei luoghi più aridi della Terra, che secondo alcuni è una minaccia per la fauna selvatica. Mentre il Cile e l’Australia rappresentano la maggior parte dell’estrazione mondiale di litio, la Cina ha più della metà di tutta la capacità di raffinazione per trasformarlo in prodotti chimici speciali per batterie perché è al momento il luogo meno costoso per la lavorazione del litio. In Australia e negli Usa, il costo di costruzione della capacità di raffinazione è doppio, in Sud America è una via di mezzo.
Ma nuove fonti di litio vengono trovate in continuazione. A marzo, ad esempio, in Iran è stata annunciata la scoperta di quello che sarebbe il secondo più grande giacimento di litio al mondo, a Hamedan: 8,5 milioni di tonnellate. Si tratta di una zona a ridosso dei monti Zagros, nel Nord Ovest dell’Iran, storicamente ricca di materie prime come piombo, zinco e ferro, a meno di 200 km da Teheran. Come ha affermato Hadi Ahmadi, funzionario del Ministero dell’industria, delle miniere e del commercio, è la prima volta che in Iran viene scoperto un deposito di litio. È probabile, però, che questa risorsa finirà ai cinesi, visti i pessimi rapporti tra Iran e Occidente. Le prime operazioni sul sito dovrebbero partire entro due anni.
A febbraio anche l’India aveva annunciato la scoperta di un giacimento di litio tale da poter a sua volta diventare il terzo fornitore mondiale: 5,9 milioni di tonnellate nell’area di Salal-Haimana nel distretto di Reasi del Jammu & Kashmir. E qui, visti i pessimi rapporti tra Pechino e New Delhi, sarebbe difficile per i cinesi mettervi le mani sopra. Ma l’India ha un’importante industria automobilistica propria, un mercato tra quelli più in salute al mondo, e il programma, entro il 2030, di elettrificare il 30% dei nuovi veicoli messi in vendita.
Si sta cercando il litio anche in Africa. Ad esempio, la Lepidico australiana sta sviluppando in Namibia una miniera di litio da 63 milioni di dollari e un impianto di lavorazione nei vecchi giacimenti di Helikon e Rubikon, vicino a Karibib, nella regione centrale di Erongo, che realizzerà litio concentrato per l’esportazione in un nuovo impianto di conversione chimica da 203 milioni di dollari ad Abu Dhabi. A tale proposito, la Commissione anticorruzione indipendente ha aperto un’indagine su come un’azienda cinese sconosciuta, la Xinfeng Investments, sia riuscita ad acquisire una licenza al litio namibiano. Lo scorso agosto a questa società è stata infatti concessa una licenza mineraria fino al 2042 per metalli di base, e gli addetti ai lavori affermano che i funzionari locali sono sospettati di corruzione per concedere i diritti di esplorazione in aree con depositi minerari di alto valore, specialmente a investitori cinesi e altri stranieri.
Nello Zimbabwe, al contrario, il 21 dicembre scorso, con l’adozione del Base Minerals Export Control (Unbeneficiated Lithium Bearing Ores) Order, 2022, il governo ha imposto pesanti restrizioni all’esportazione di litio grezzo, dalle quali sono state, però, esentate le tre importanti compagnie minerarie cinesi Huayou Cobalt, Sinomine e Chengxin Lithium, che nell’ultimo anno hanno investito 678 milioni di dollari in miniere di litio e in impianti di lavorazione nello Zimbabwe. Le autorità locali stimano che i 12 miliardi di dollari persi a causa del commercio illegale di litio, che coinvolge sia attività su piccola scala che multinazionali minerarie, sarebbero stati sufficienti per cancellare l’intero debito nazionale dello Zimbabwe.
In Europa, la ricerca del litio è resa più difficile dalla diffusione delle varie proteste Nimby (Not In My Back Yard) che, ad esempio, in Serbia hanno bloccato un progetto sul nascere. Sia per motivi strategici che per ragioni ambientali si sta dunque cercando una terza fonte di litio geotermico direttamente in acqua, abbattendo non solo i costi, ma anche l’effetto contaminante. Un primo annuncio fu fatto a fine 2020 da Cornish Lithium: società creata nel 2016 dall’ex-banchiere di investimento inglese Jeremy Wrathall, per estrarre il litio dalle acque salmastre delle miniere di Redruth, in Cornovaglia. Il luogo esatto si chiamava Wheal Clifford, vi si estraeva rame, e nel 1864 vi fu scoperta una fonte termale da 50°C, a 450 metri sotto terra. Analizzata, mostrò un contenuto di litio 8-10 volte maggiore di ogni altra fonte fino ad allora analizzata.
A Wheal Clifford il litio si presenta già in soluzione concentrata e calda. L’energia deriva naturalmente dal processo geotermico, e i 260 milligrammi di litio, che vi scorrono a una velocità tra i 50 e i 60 litri a secondo, già basterebbero per fabbricare la batteria di uno smartphone tipico.
Il progetto di Cornish Lithium prevede anche la produzione di calore e energia senza carbonio a partire dalla stessa acqua calda in cui il litio è contenuto, a 5,2 Km sotto terra. Nella “salamoia” la quantità di sodio e magnesio sembra bassa, il che renderebbe l’estrazione ancora più facile. Il governo britannico ha offerto 5,3 milioni di dollari di finanziamento per realizzare un impianto pilota di produzione del litio entro due anni.
Una Lithium Valley che potrebbe produrre abbastanza litio geotermico da soddisfare i due quinti della domanda mondiale è stata anche individuata in California, nel Mar de Salton. Un lago salato che potrebbe fornire 600.000 tonnellate di litio all’anno, per un valore da 7,2 miliardi. E anche nella Valle del Reno, in Germania, si troverebbero risorse di litio geotermico promettenti.
Ma anche in Italia, Enel e la tedesca Vulcan hanno annunciato un progetto che parte da Cesano, all’estremo nord del Comune di Roma. A fine 2021, Vulcan ha siglato con Stellantis un primo contratto di fornitura per 81-99.000 tonnellate di idrossido di litio geotermico provenienti dall’Alta Renania in cinque anni, in cambio di un investimento azionario da 50 milioni di euro. Un altro progetto, a Viterbo, è della Energia Minerals Italia, gruppo australiano Altamin.
Il colosso metal-chimico Imerys ha poi annunciato l’avvio nel 2028 di un nuovo sito d’estrazione dell’oro bianco in Francia: la seconda miniera che diventerà operativa in Europa. È il progetto Emili (Imerys Lithiniferous Mica Mining), nel sito di Beauvoir, a Echassières. La scoperta di litio nel sito risale agli anni ‘60, mentre le attività estrattive nell’area circostante hanno caratterizzato l’economia della regione sin dall’’800. Nel 2015, Imerys ha ottenuto un permesso di esplorazione e ricerca, rinnovato nel 2021. L’istituto geologico e di ricerca mineraria francese (Brgm) aveva stimato la presenza di circa 1 milione di tonnellate contenenti tra lo 0,9% e l’1% di idrossido di litio, cifre convalidate dall’azienda che a fine 2022 ha concluso una serie di studi di fattibilità, per una spesa complessiva di 30 milioni di euro.
Il deposito avrà una capacità produttiva annuale di 34.000 tonnellate di idrossido di litio (più di un terzo della produzione globale del 2021, seppur la domanda globale al 2030 crescerà vertiginosamente) sufficienti per supportare la fabbricazione di 700.000 veicoli elettrici all’anno. Con 25 anni di vita e un potenziale di espansione, il sito estrattivo potrà così coprire la domanda europea a ridosso del 2050 e richiederà un investimento iniziale da 1 miliardo di euro.
Secondo le stime della Commissione europea, per raggiungere la neutralità climatica, la domanda dell’Ue di litio al 2030 crescerà di 18 volte rispetto ai consumi del 2019 e di circa 60 volte entro il 2050. Attualmente l’Europa conta una sola miniera attiva, in Portogallo, e importa la maggior parte del fabbisogno da Cile (78%), Stati Uniti (8%) e Russia (4%).
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di aprile/giugno di eastwest
Puoi acquistare la rivista sul sito o abbonarti
La contesa dell’oro bianco
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Dalle nevrosi dei Nirvana al discorso sullo stato dell’Unione di Ursula von der Leyen: così potrebbe essere riassunto il percorso del litio nell’ultima trentina di anni. “Il litio e le terre rare saranno presto più importanti di petrolio e gas”, ha infatti ricordato il 15 settembre a Strasburgo al Parlamento Europeo la Presidente della Commissione Ue. “Oggi quasi il 90% delle terre rare e il 60% del litio vengono lavorati in Cina. Identificheremo progetti strategici lungo tutta la filiera, dall’estrazione alla raffinazione, dalla lavorazione al riciclo. E creeremo riserve strategiche dove l’offerta è a rischio”.
Un discorso per annunciare una “legge europea sulle materie prime critiche”, che assieme agli altri incentivi decisi da Joe Biden negli Stati Uniti porta dunque a rilanciare lo slogan sul litio come “oro bianco” e “petrolio del futuro”. Nel 1991 Lithium fu una hit scritta da Kurt Cobain per i Nirvana. Il litio del titolo, nella canzone, è uno stabilizzatore dell’umore per prevenire il comportamento maniacale acuto nei pazienti con disturbo bipolare, ed è quindi una metafora per indicare l’instabilità mentale.
Il litio compie cento anni
Quest’anno il litio compie cent’anni dal suo ingresso nel commercio, anche se fu scoperto nel 1817, dallo svedese Johan August Arfwedson. Numero atomico 3, il litio è il metallo più leggero, anche se il suo nome in greco significa “pietra”. Fu utilizzato la prima volta come lubrificante da alte temperature per motori aeronautici: in particolare durante la Seconda guerra mondiale. In seguito, durante la Guerra fredda, la domanda di litio aumentò con la produzione di armi a fusione nucleare, poiché sia il litio-6 che il litio-7 irradiati da neutroni producono trizio. Tra la fine degli anni Cinquanta e la metà degli anni Ottanta, gli Stati Uniti divennero il primo produttore di litio, fino ad accumularne scorte per circa 42.000 tonnellate. Con la fine della Guerra fredda, fino alla metà degli anni Novanta, il litio è invece stato utilizzato soprattutto per abbassare la temperatura di fusione del vetro, e anche per migliorare il comportamento alla fusione dell’ossido di alluminio quando si utilizza il processo Hall-Héroult. E in medicina, come testimoniato dalle canzoni citate. Ma già nel 1972 la prima batteria al litio era stata sviluppata dall’allora appena 31enne Stanley Whittingham, che avrebbe poi ricevuto nel 2019 il Premio Nobel per la Chimica. Col nuovo millennio la domanda di litio per batterie e batterie agli ioni di litio è aumentata. Dal 2007, un anno dopo un altro brano musicale sul litio degli Evanescence, è diventato questo l’uso dominante. Per ora, sopratuttto nei Pc.
Ma la grande scommessa è che le batterie agli ioni di litio possano dare maggiore potenza e densità energetica alle auto elettriche, che necessitano di un lungo tempo di ricarica. Quindi o si utilizzano per viaggi brevi e urbani, o si crea un sistema di cambio batterie con batterie già cariche, un po’ come si faceva con i cavalli alle stazioni di posta al tempo delle diligenze, oppure è necessario disporre di un motore ibrido. Ma il litio sta migliorando notevolmente queste prestazioni, e molto presto potremmo disporre di una batteria agli ioni di litio ricaricabile in pochi minuti come un pieno di benzina. Il litio è dunque il sogno della fine del petrolio.
Il petrolio del futuro
Ma come il petrolio ha rivestito un enorme ruolo nella geopolitica del Medio Oriente, così il litio potrebbe assurgere a un ruolo altrettanto importante nel triangolo sudamericano composto da Cile, Argentina e Bolivia, seppure, in realtà, esso si trovi in grandi quantità in altri paesi della regione. Secondo la U.S. Geological Survey, tra il 2016 e il 2021 la produzione mondiale di litio è quasi triplicata: da 35.000 a 100.000 tonnellate. Il primo produttore è l’Australia con 55.000 tonnellate, seguita dal Cile con 26.000, dalla Cina con 14.000, dall’Argentina con 6.200, dal Brasile con 1.500, dallo Zimbabwe con 1.200 e dal Portogallo con 900. Ma il 56% degli 89 milioni di tonnellate di riserve individuate, si trova nel triangolo sudamericano: in Bolivia con 21 milioni di tonnellate, in Argentina con 19 milioni, in Cile con 9,8 milioni. Se si aggiungono 1,7 milioni di tonnellate di riserve certificate in Messico, 880.000 in Perù e 470.000 in Brasile, l’America Latina raggiunge il 59% nella produzione mondiale.
Oro bianco e politica: lo scandalo Mosqueira
Lo scorso giugno, un allarme mediatico rivelava che nell’area del triangolo latinoamericano Russia e Cina stavano per metterci le mani. Più nel dettaglio: l’impresa cinese Ganfeng in Argentina e in Messico, e la Byd in Cile; la russa Uranium One, in Cile. Proprio nel momento in cui Mosca e Pechino avrebbero dovuto essere state marginalizzate, l’una per l’aggressione all’Ucraina e l’altra per la sua opacità nella questione Covid, le loro imprese apparivano invece in prima linea in un settore cruciale approfittando anche del noto risentimento che da sempre l’America Latina nutre contro gli Usa e in parte contro l’Europa. Un indizio è lo scandalo che ha tirato in ballo il figlio del presidente boliviano Luis Arce, durante un programma pilota, tramite il quale la società di stato Yacimientos de Litio Boliviano (Ylb) doveva selezionare, tra otto multinazionali, quella che impiegasse la tecnologia più pulita ed efficiente per sfruttare le risorse locali. In quel frangente, sui canali social, era stata diffusa una foto che ritraeva il figlio del Presidente, Luis Marcelo Arce Mosqueira, con due dirigenti della compagnia russa Uranium One, una delle otto società in concorso. Inoltre, Ylb, in quel momento, aveva licenziato dipendenti di alto livello e amministratori specializzati, per sostituirli con persone prive di esperienza nel settore ma legate al governo. Stampa e opposizione hanno insinuato degli accordi sotto banco, accusando Arce Mosqueira di aver lavorato con la compagnia statale Yacimientos Petroliferos Fiscales Bolivianos (Ypfbche) senza avere avuto alcun incarico specifico e senza alcuna competenza. Una preferenza per la Russia la conferma anche il viaggio che il ministro degli Esteri Rogelio Mayta aveva compiuto a Mosca nell’ottobre 2021, per un incontro che avrebbe avuto il litio tra i temi principali.
Questioni scottanti in Bolivia
La questione in Bolivia è scottante per vari motivi. Carlos Mesa è del Movimento per il Socialismo (Mas), il partito di Evo Morales, che a fine 2019, dopo 13 anni al potere, fu rimosso dalla presidenza per una sommossa da lui stesso definita un golpe, pilotato da chi voleva mettere le mani sul litio boliviano; la sommossa, in realtà, era stata innescata da accuse di brogli dopo l’auto-ricandidatura di Morales con la violazione della Costituzione. È vero però che il litio in Bolivia è stato a lungo non valorizzato per un vuoto legislativo, ufficialmente motivato da preoccupazioni ambientali. Morales si era in effetti aggiudicato un contratto di sfruttamento del litio con la società tedesca Acisa, ma poi era stato sospeso poco prima della sua deposizione, per resistenze delle comunità locali che avevano spaccato il Mas. Tuttora, il partito appare molto diviso sul disegno di legge con cui Luis Arce vorrebbe consentire anche ad aziende private di sfruttare la risorsa. Per ora, lo può fare solo lo Stato. Va ricordato che nei mesi successivi il divario nel partito, tra i sostenitori di Arce e quelli di Morales, si è allargato fino ad arrivare ad accuse, insulti e violenze fisiche. Già Ministro dell’Economia, Luis Arce è stato candidato alle elezioni indette dal governo provvisorio, in seguito alla deposizione di Morales, e le ha vinte. Invece che da prestanome e delfino dell’ex presidente, ha agito per conto proprio e subito dopo anche Morales ha iniziato a rilanciare le accuse contro il figlio di Mesa.
L’onnipresenza della Cina e il progetto Mariana
In Argentina, i governi locali hanno il potere di allocare risorse a società private in cambio di entrate, mentre in Cile, il governo di Gabriel Boric ha puntato alla nazionalizzazione del litio, così come in Messico ha fatto Andrés Manuel López Obrador. In tutti questi paesi, la Cina era comunque presente. Peraltro, anche in Bolivia, quattro delle società in lizza erano cinesi: Contemporary Amperex Technology, Fusion Enertech, Citic Guoan Group e Tbea Group. A parte l’impresa russa Uranium One, c’erano poi la argentina Tecpetrol e le statunitensi Lilac Solutions y EnergyX. Quest’ultima ha promesso di investire in loco 100.000 dollari per educazione e salute. Sempre sul litio sono stati firmati protocolli d’intesa con la Spagna, la Corea del Sud e la Cina.
Nel nord-ovest dell’Argentina, in particolare, la Ganfeng di Xinyu, primo produttore di litio cinese, con la sua filiale locale Litio Minera Argentina ha iniziato la costruzione del progetto Mariana, da 600 milioni di dollari. È in quel salar (=lago salato) de Llullaillaco, a 140 km a sud del salar de Atacama, che si trova il primo sito di estrazione di litio in salamoia del mondo. La riserva boliviana è invece nel salar di Uyuni. Al progetto Mariana prende parte la Provincia di Salta, assieme al governo federale. Con 4.140.000 tonnellate di carbonato di litio, sarebbe uno dei maggiori depositi di litio del mondo, in una zona in cui l’aridità rende il processo di estrazione particolarmente facile.
Una preferenza per i governi di sinistra?
Quella per russi e cinesi può sembrare una preferenza dei governi di sinistra, ma anche il governo di destra di Sebastián Piñera, poco prima della fine del suo mandato in Cile, aveva annunciato l’assegnazione di due quote di produzione da 80.000 tonnellate alla cilena Operaciones Mineras del Norte S.a. e alla Bid Chile SpA, filiale locale della società di Shenzhen. Solo che il nuovo presidente di sinistra Gabriel Boric ha vinto le elezioni con un programma in cui era prevista anche la creazione di un’impresa nazionale del litio, e dopo un ricorso, la corte di appello ha sospeso i due contratti. Si attendeva la nuova Costituzione, poichè quella ereditata da Pinochet vieta questo tipo di nazionalizzazioni. Ma al plebiscito costituzionale del 4 settembre il progetto di nuova Carta è stato bocciato, per cui si è imposto un nuovo rinvio.
Anche in Messico, che ha riserve da 1,7 milioni di tonnellate, il presidente di sinistra Andrés Manuel López Obrador, il 20 aprile ha fatto approvare una legge per nazionalizzare il litio attraverso la società di Stato LitioMx, creata ad agosto. Principale vittima è stata la Bacanora Lithium, che operava a Sonora: in teoria anglo-canadese, ma comprata nel 2021, per 264 milioni di dollari, a sua volta dalla cinese Gangfen. Ma il 15 novembre Lóper Obrador ha fatto un discorso in cui ha spiegato che ora è importante attrarre capitali stranieri, in modo da poter avviare la produzione per la seconda metà del 2024.
Di sinistra, ma più moderato, era il presidente del Perù Pedro Castillo, che chiedeva che il minerale fosse esportato con valore aggiunto, per creare più lavoro. In Perù il contratto è con la canadese American Lithium.
Una “Opec” del litio
Nel frattempo il 20 luglio scorso i governi di Cile e Argentina, in un summit bilaterale, avevano avviato il dialogo per un coordinamento della gestione del litio, con l’intenzione di coinvolgervi anche la Bolivia. I due paesi avevano parlato anche della nascita di una “Opec del litio”. Ma il 14 dicembre il sottosegretario agli Esteri cileno, José Miguel Ahumada, pur riconoscendo la creazione di un “tavolo di lavoro” sul tema col governo argentino, ha smentito formalmente ogni ipotesi di creare un cartello. “L’obiettivo è solo compartire esperienze e forme di produzione relative al litio”, ha dichiarato. Sicuramente esiste l’obiettivo di scalare una “catena di valore” e in proposito si sono tenute due riunioni, una in Cile a giugno e un’altra in Argentina ad agosto, ma la Bolivia non è stata ancora coinvolta.
L’accordo Cile – Ue
Il 9 dicembre è stata firmata la “modernizzazione” di un accordo di associazione tra Cile e Unione Europea. Ancora da ratificare sia da parte del Parlamento Europeo che del Congresso cileno, l’accordo garantisce al Cile la possibilità di esportare più salmone, pollo, cereali e cioccolato, in cambio di un maggiore accesso della Ue alle sue materie prime e di una miglior tutela degli investimenti, il tutto in un accordo quadro che parla anche di diritti sociali e del lavoro, di tutela dell’ambiente, di controllo della società civile. Nei commenti, il litio a un prezzo preferenziale viene appunto indicato come uno dei maggiori guadagni dell’Europa.
In effetti, anche se superficialmente dall’esterno si parla di asse tra governi di sinistra latino-americani, in realtà ci sono forti divaricazioni. A parte la Bolivia, che mantiene una rivendicazione irredentista su uno sbocco al mare perso a favore del Cile con l’ottocentesca Guerra del Pacifico, è netta la contrapposizione tra la linea filo-russa tenuta dalla Bolivia sulla guerra ucraina e il fermo appoggio più volte espresso da Boric a Zelensky. C’è divergenza anche sulla deposizione di Castillo. Argentina, Bolivia, Messico e Colombia hanno diffuso una nota in cui dicono che Castillo è stato deposto da un colpo di Stato. Invece, il Cile di Boric dichiara che Castillo è stato deposto perché lui stesso ha provato a fare un colpo di Stato.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/marzo di eastwest
La Travel Medicine e il controllo delle pandemie
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Leggi la seconda parte dell’inchiesta “Oms a rischio fallimento”.
Epidemiologo, il riminese Walter Pasini ha creato addirittura una branca specifica della Medicina dedicata alle malattie dei viaggiatori: la “Travel Medicine”. Consultore medico-scientifico presso il Museo di Storia della Medicina della Scuola Grande di San Marco a Venezia, curatore nel 2015 presso lo stesso Museo di una mostra “La malattia che viaggia, dalla peste all’ebola, storia e attualità delle epidemie”, che dopo il Covid suona purtroppo preveggente, proprio in base a questa sua competenza fu prescelto nel 1988 a dirigere il primo Centro Collaboratore dell’Oms per la Travel Medicine: un incarico che mantenne fino al 2008.
Per questo suo ruolo, hanno fatto scalpore alcune critiche da lui mosse alla stessa Oms per la gestione della pandemia di Covid.
Sì, il mio è stato il primo centro collaboratore della Oms sulla Travel Medicine ad essere designato, nel 1988. Poi se ne sono aggiunti altri tre nel mondo: uno a Londra, uno a Zurigo, uno negli Stati Uniti. L’Oms mi aveva cercato per le mie competenze nel settore: nel 1981 avevo dato vita alla Medicina del Turismo per poi fondare nel 1983 la Società Italiana di Medicina del Turismo. Oggetto: il rapporto tra viaggio e salute. Nel febbraio 1988 avevamo organizzato con l’Oms, nell’ufficio regionale di Copenaghen, un grande convegno sulla prevenzione e sul controllo delle malattie infettive nell’area del Mediterraneo. Da lì è nata questa collaborazione con l’ufficio regionale di Copenaghen, che è continuata nel tempo. Fu a giugno dello stesso anno che mi venne assegnata la direzione del Centro Collaboratore dell’Oms per la Travel Medicine, un incarico che ho ricoperto per cinque mandati quadriennali.
Una cosa che è diventata centrale con la pandemia…
È vero, ma in realtà era centrale anche prima. I siti ufficiali del Ministero della Salute e dell’Oms dedicano infatti ampio spazio alla Travel Medicine. All’Oms si deve anche la pubblicazione di un libro intitolato International travel and health che io ho tradotto a beneficio della sanità pubblica italiana. Se ne pubblicavano varie migliaia di copie e veniva distribuito agli igienisti. Il fatto che fosse una pubblicazione ufficiale dell’Oms mostra già un’attenzione, ma d’altronde tutta la storia dell’Oms è legata anche al controllo delle pandemie, da cui nasce l’idea della necessità di una collaborazione tra gli Stati. Quando a fine ‘800 infieriscono sette grandi pandemie, gli Stati si rendono conto che è necessario collaborare, perché è un problema che riguarda tutti. Quindi nasce l’idea che sia opportuno realizzare un’organizzazione sovranazionale che coordini la salute comune.
Però in questo momento ci sono molti segnali di crisi di questa Organizzazione. Da una parte, il secondo finanziatore, che non è uno Stato, ma il privato Bill Gates. Dall’altra, un direttore generale che viene confermato per un secondo mandato contro la volontà del suo stesso Paese.
Certo. Molti aspetti sono ambigui, e in primo luogo, la lunga predominanza della Cina. Prima, i dieci anni durante i quali fu direttore dell’Oms la cinese Margaret Chan. Poi, Tedros Adhanom Ghebreyesus: un etiope eletto con i voti cinesi, perché i voti dell’Africa sono controllati dalla Cina. Ma tutta la materia dei finanziamenti è un po’ ambigua. A un certo punto il direttore generale annunciò: “Abbiamo creato una fondazione che può raccogliere fondi anche da privati”. È la Fondation de l’Oms, lanciata il 27 maggio del 2020 a Ginevra da Thomas Zeltner, ex capo dell’Ufficio federale svizzero della sanità pubblica, con l’intento di sostenere a lungo termine l’Oms con fondi privati e di cittadini dell’intero pianeta. “Vogliamo completare il finanziamento dell’Oms. Non pensiamo di voler rimpiazzare gli Stati membri o altri donatori”, ha precisato Zeltner, spiegando che l’Oms “ha bisogno del sostegno politico e finanziario di tutti i suoi membri”. Ha aggiunto di poter sostenere gli sforzi dell’Oms con 3 miliardi di dollari in quattro anni, che corrisponderebbero a quasi sei volte il contributo Usa dell’epoca. L’Oms ha detto di essere d’accordo. Però questa è una Fondazione privata, fondata da un signore sicuramente molto intraprendente. Usa il nome dell’Oms, dice che raccoglie fondi per l’Oms ma aggiunge che darà all’Oms solo una parte di quello che raccoglierà. Il resto lo userà a suo piacimento. “Per fare del bene”, puntualizza. Ma se si dona a una Fondazione che si chiama Oms, si intende donare all’Oms. Non a un fondo svizzero! È una cosa che avevo appunto segnalato alla stampa. Allora potrei fare una cosa del genere anche io, e incassare parte dei fondi a mia volta! Il 50% lo dono all’Oms e il restante 50% “lo uso per fare del bene”. È un elemento piuttosto curioso, che suggerisce l’idea di gente un po’ allo sbando.
Intanto Donald Trump voleva tagliare i fondi…
Trump voleva tagliare i fondi e, secondo me, faceva bene perché la politica dell’Oms era troppo asservita e troppo sbilanciata verso la Cina. Non c’era stata una sola parola di critica per il Covid! La Commissione dell’Oms ha aspettato più di un mese dopo l’inizio della pandemia prima di andare a Pechino, quando abitualmente i suoi funzionari si fiondano sul posto a poche ore dal primo annuncio di un’emergenza. Perché hanno tardato? Ma ancora più grave è che la Cina abbia sempre impedito qualsiasi accertamento sull’origine della pandemia. Si è trattato di una presa in giro quando i funzionari dell’Oms sono andati a Pechino con i pullman. Poveretti, a me facevano pena. Li hanno ridicolizzati! Per svolgere indagini di quel genere è necessario rimanere sul campo per almeno sei mesi, o un anno, e lavorare dalla mattina alla sera mettendo in campo una équipe multidisciplinare, con i migliori specialisti dei vari settori. La Cina lo ha impedito, e l’Oms la ha assecondata. Solo in seguito è stata fatta qualche critica, e quella posizione supina e passiva è leggermente mutata. Resta però il fatto che la pandemia non è stata gestita bene: occorreva che l’Oms proclamasse la Travel Restriction, il blocco da o per la Cina di qualsiasi persona o merce, quando l’epidemia si stava diffondendo a Wuhan. Invece è stata dichiarata un’emergenza sanitaria internazionale solo a fine gennaio. E inoltre non c’è stata nessuna disposizione, nessuna raccomandazione di restrizione dei viaggi. L’Oms ha gestito malissimo la pandemia, almeno nella prima fase. Ed è un peccato perché il mondo ha la necessità di avere in campo sanitario una leadership internazionale seria, affidabile e rispettata.
Lei ha criticato anche l’Italia per non aver fatto il piano pandemico che avrebbe dovuto predisporre. Ma l’inefficienza dell’Oms e dell’Italia sono state nella media che hanno dimostrato tutte o quasi tutte le organizzazioni statuali di fronte alla pandemia, oppure è stato qualcosa di peggio?
Il discorso del piano pandemico nasce da un’indicazione dell’Oms del 2005. C’era stata l’influenza aviaria H1N1, e si temeva anche l’influenza aviaria H5N1. L’Oms diceva: sicuramente arriverà una pandemia influenzale, come la Spagnola. Non sappiamo quando ma sicuramente arriverà, perché ogni tanto i virus influenzali mutano radicalmente e di conseguenza si diffondono ceppi che trovano la popolazione mondiale assolutamente impreparata, come è successo per la Spagnola nel 1917-19. Quindi l’Oms aveva messo in allerta gli Stati: “arriverà questa pandemia influenzale, preparatevi! Fate il piano pandemico!”. Poi, di fatto, la pandemia influenzale non è arrivata. Almeno per ora. Però è arrivata questa pandemia da Covid 19. Se noi avessimo avuto un piano pandemico, anche se pensato per una pandemia influenzale − che non è arrivata − sicuramente avremmo avuto molti strumenti in più per fronteggiare il Covid 19. Questo è il punto. Certo, se è vero che non è stato fatto in Italia, non è che altri Stati abbiano brillato. Ricordo quando, come responsabile del Centro Collaboratore dell’Oms, andavo a Roma per studiare il piano pandemico presso il Ministero della Sanità e mi sorprendeva che gli stessi dirigenti del Ministero dessero così poca importanza al piano pandemico. Quindi, sì, è vero, l’Italia non ha fatto niente, e non mi risulta che altri Stati si siano molto adoperati per farlo.
Cioè, ci voleva la tragedia per capire che si era sottovalutato il problema…
Certo.
A questo punto, vedendo quello che è successo, secondo lei, come dovrebbe essere riformata l’Oms?
L’Oms dovrebbe essere indipendente da queste pressioni politiche e dovrebbe mantenere una sua autonomia, io non credo che ciò sia impossibile. Quello che abbiamo visto in occasione della pandemia in Cina non si dovrebbe più ripetere. L’Oms non deve fare da sponda a un Paese potente come la Cina ma deve avere una sua neutralità. Deve essere un organismo sovranazionale. Deve potenziarsi tecnicamente. La strategia dei Centri Collaboratori è una strategia corretta, proprio perché in gran parte l’Oms ha una struttura burocratica. Ha funzionari inviati dai vari ministeri della Sanità, ha la sede centrale a Ginevra e altre sedi sparse nel mondo come sedi regionali. La nostra sede regionale è a Copenaghen; quando ero responsabile della Travel Medicine andavo molto più spesso a Copenaghen che a Ginevra. Bisogna dunque avvalersi di Centri Collaboratori, con singoli esperti che rappresentino istituzioni in grado di fornire anche un supporto tecnico. Tutto ciò deve essere potenziato ulteriormente per acquisire sempre più competenze.
L’altra questione è la trasparenza dei fondi. Insomma, Bill Gates. La critica che faceva Tedros era questa: Bill Gates ci dà i soldi ma non a fondo perduto, decide lui stesso su cosa investire: sulla malaria, per esempio, piuttosto che su altre emergenze. Non va bene: se l’Oms riceve dei finanziamenti è l’Oms stessa che deve decidere dove investirli. Per questo Tedros sosteneva che ci sarebbe dovuta essere una diversificazione anche dei finanziatori privati. Da cui la storia della Fondazione svizzera. Ma anche lì c’è poi il problema della trasparenza dei fondi. È fondamentale che vi sia chiarezza su dove va a finire il denaro. Altrettanto fondamentale è riuscire a venire a capo di malattie che, come il colera, per fare soltanto un esempio, sono frutto della povertà. Sono conseguenza della mancanza di impianti fognari e di acqua potabile. Ci deve essere uno sforzo da parte di tutto il mondo per eliminare quelle malattie che hanno a che fare con la povertà, garantendo, ad esempio, acqua potabile a tutti. Dovrebbe essere anche questo il compito dell’Oms, che resta un organismo in gran parte burocratico, con spinte politiche fortissime. Ci vorrebbe una leadership sanitaria internazionale forte, appunto. Ma per essere forte dovrebbe essere credibile, prestigiosa, indipendente dalle pressioni politiche. La Cina, oggi, conta troppo. È necessario un riequilibrio.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
Oms a rischio fallimento
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
La Oms è una agenzia dell’Onu, ma il suo secondo finanziatore è un privato. E l’apporto di Bill Gates alla Organizzazione mondiale della sanità è anche il più stabile, se si pensa al modo in cui la decisione di Trump di ritirarsi, seppure poi annullata da Biden, è bastata comunque a portare gli Stati Uniti dal primo al terzo posto.
I finanziatori
Stando dunque agli ultimissimi dati resi noti, in questo momento è la Germania prima, con il 17,13% del bilancio. Seguono la Bill & Melinda Gates Foundation, con il 9,49%; gli Stati Uniti, con il 7,15%; la Commissione europea, con il 6,64%; la GAVI Alliance − “ente di cooperazione mondiale tra soggetti pubblici e privati per assicurare l’immunizzazione per tutti” − lanciata nel 2000 per risolvere il problema della sempre minor distribuzione di vaccini ai bambini nelle parti più povere del mondo, con il 6,43%; il Regno Unito con il 5,99%; la Banca mondiale con il 2,54%; il Rotary International con il 2,43%; l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (Unocha) con il 2,25%; il Central Emergency Response Fund dell’Onu con il 2,12%; la Norvegia con il 2,08%. Pertanto, solo quattro Paesi contribuiscono per più del 2%. Alcuni di questi apporti vanno peraltro un po’ rivalutati, considerando ad esempio che la Germania è anche il primo contributore alla Commissione europea. E anche per quanto riguarda la Bill & Melinda Gates Foundation va ricordato che, grazie al suo impegno di 750 milioni di dollari, GAVI Alliance partì.
Sotto un 1,94% di donazioni “miscellanee” e sopra all’1% abbiamo poi l’1,93% del Giappone, primo Paese asiatico; l’1,79% del Canada; l’1,74% del Kuwait e l’1,53% dell’Arabia Saudita, primi Paesi del Medio Oriente petrolifero ma non primi Paesi petroliferi in assoluto, visto il ruolo della Norvegia. Un 1,38% è poi rappresentato dal quel COVID-19 Solidarity Response Fund lanciato il 13 marzo 2020 dalla United Nations Foundation e dalla Swiss Philanthropy Foundation per affrontare la pandemia, e a cui hanno contribuito anche Facebook, H&M e Google. L’1,36% proviene dal Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp). L’1,17% giunge un po’ a sorpresa dal Pakistan, primo Paese “povero” della lista, ma anche un tradizionale destinatario e beneficiario delle politiche della Oms. L’1,08% è finanziato dal Programma alimentare mondiale (Wfp) e l’1% dalla Francia.
Sotto all’1% si posizionano la Corea del Sud con lo 0,88%, l’Iran con lo 0,79%, il Contingency Fund for Emergencies della stessa Oms con lo 0.77% alla pari con la Svezia; seguono gli Emirati Arabi Uniti con lo 0,74%, e con lo 0,73% quel National Philanthropic Trust che è un ente Usa pubblico, ma indipendente. Appena allo 0,69% si colloca la Cina, le cui capacità di influenzare le scelte politiche dell’Oms e di investire in altri campi per proprio tornaconto sembrano molto maggiori rispetto alla propria generosità verso la sanità mondiale. Anche dopo averla gravemente scombussolata per aver contagiato il pianeta con una pandemia provocata anche da alcune scelte politiche quanto meno discutibili.
L’India contribuisce con lo 0.66%, l’Australia con lo 0.56%; l’iniziativa sanitaria globale UNITAID con lo 0.54%; segue la Russia con lo 0.52%, i Paesi Bassi con lo 0.5%, e l’Unicef con lo 0.49% insieme al Pandemic Influenza Preparedness (PIP) Framework, prima di arrivare allo 0,46% dell’Italia che precede Pre-Qualification Fees (0.42%), African Development Bank Group (0.42%). Seguono la Svizzera (0.38%), Bloomberg Family Foundation (0.37%), United Nations Office for Project Services (0.34%), United Nations Population Fund (0.32%), il Lussemburgo (0.32%), lo Yemen (0.3%), Vital Strategies (0.28%), la Danimarca (0.25%). Contribuiscono Joint United Nations Programmeon HIV/AIDS (0.24%), l’Irlanda e il Libano (0.22% a testa), la Nigeria (0.21%), Sanofi-Aventis (0.17%), la Spagna (0.17%).
Seguono ancora la Repubblica Democratica del Congo, l’Azerbaijan e l’Afghanistan (alla pari con lo 0.15%); Carter Center e il Bangladesh (0.14%); l’Ucraina, East African Community, Southern African Development Community Secretariat, Kobe Group e la Somalia (0.13%); partecipano tra gli altri la Nuova Zelanda, Wellcome Trust, il Belgio, St.Jude Children’s ResearchHospital (0.12%); il Gabon e United Nations Environment Programme (0.1%). Sotto lo 0,1% stanno altri 128 soggetti, tra cui merita forse di essere segnalato lo 0,02% del Qatar, altro Paese petrolifero e gassifero, spesso munifico in altri contesti, ma che in questo si rivela sorprendentemente avaro, specie in confronto al Kuwait, all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti.
Leggi la prima parte dell’inchiesta.
Le liste di nomi seguite da numeri in genere sono aride, ma in questo caso particolare crediamo possano essere interessanti. I 6,121 miliardi di dollari del bilancio approvato per il 2022-23 possono ad esempio essere confrontati ai 5,6 del 2019, ultimo anno prima del Covid. Allora erano primi contributori gli Usa con 893 milioni: un 15,94%, il doppio dell’apporto attuale. Al secondo posto c’era sempre la Fondazione Bill & Melinda Gates, con 600 milioni che rappresentavano un 9,8%, più o meno in linea con l’ultimo dato. Insomma, il fondatore di Microsoft contribuisce stabilmente a circa un decimo del budget della Organizzazione. Seguiva il Regno Unito con 400 milioni: un 6,5%, lievemente al di sopra dell’attuale. Poi la Gavi Alliance con 370 milioni: un 6% lievemente al di sotto. E la Germania con 300 milioni: un 4,9% ora più che triplicato. Con 85,8 milioni la Cina contribuiva per l’1,4%: era relativamente poco rispetto alle sue pretese, ma ora è addirittura dimezzata. Già da allora i 4,3 miliardi arrivati in forma volontaria, in gran parte da privati e legati a progetti specifici, rappresentavano l’80% del totale. Cioè, alla vigilia della pandemia la Oms poteva gestire in piena autonomia solo un quinto dei fondi a sua disposizione. E nel 2018, l’80% dei fondi volontari andavano ad appena il 10% dei programmi dell’Organizzazione.
È esattamente il contrario rispetto al 1970, quando il bilancio dell’Organizzazione era per un 80% proveniente dagli Stati membri e solo per il 20% da donatori privati. E con il Covid e la minaccia di ritiro di Trump, il ruolo di Gates è diventato sempre più strategico, se si pensa che nel gennaio 2020 fu lui a offrire la prima elargizione di emergenza con 5 milioni di dollari alla Cina e altri 5 milioni all’Africa. Ovvio che ciò abbia suscitato sospetti di ogni tipo: complottismo galoppante sui social a proposito di un supposto piano del magnate per “resettare” la popolazione mondiale di cui sarebbe stato strumento lo stesso Covid; ci sono state anche interrogazioni al Parlamento europeo sul punto.
Questo è ad esempio il testo di quella presentata dalla eurodeputata leghista Stefania Zambelli. “Oggetto: Finanziamenti privati all’Oms. L’Oms ha un ruolo centrale nella pianificazione delle strategie vaccinali anche in Europa e ha dettato le linee guida per il riconoscimento dei danni da vaccinazione che anche qui si sono verificati. Ciò detto, da qualche anno, l’Oms vede tra i suoi maggiori finanziatori non gli Stati membri bensì enti privati, i cui finanziamenti costituiscono i tre quarti del patrimonio dell’Oms. Tra essi spiccano le principali case farmaceutiche produttrici di vaccini e organizzazioni quali, ad esempio, la Fondazione Gates e GAVI Alliance, che hanno come oggetto sociale la diffusione dei vaccini. Ciò premesso, prescindendo da valutazioni sull’utilità o meno dei vaccini raccomandati o obbligatori e dal rapporto costi-benefici di alcuni di essi, l’interrogante ritiene che avere tra i propri finanziatori soggetti privati in evidente conflitto di interesse vada a minare la terzietà della stessa Oms e ne metta in discussione l’autorevolezza. Ciò considerato, può la Commissione rispondere al seguente quesito: quali iniziative intende eventualmente prendere l’Europa per risolvere questo conflitto di interessi e consentire all’Oms di sostituire i finanziamenti, diretti o indiretti, da parte di soggetti collegati o comunque riconducibili ai produttori di vaccini, garantendole, nell’adozione delle necessarie decisioni, anche in materia vaccinale, quel ruolo super partes che attualmente non ha?”.
Forse la crescita del ruolo della Commissione europea e della Germania come finanziatori può essere considerata anche una risposta implicita, per comportamento concreto. In particolare, il contributo della Commissione europea finanzia, per il 68% del totale, il programma che mira a rafforzare la leadership, il coordinamento e il supporto operativo e ad aumentare l’accesso ai servizi sanitari e nutrizionali essenziali nelle situazioni di emergenza sanitaria. Un finanziamento che si è concentrato in particolar modo nell’area est del Mediterraneo, e in particolare su Libano (32%), Sudan (15%), Afghanistan (14%), Giordania (9%) e Iraq (6%). La donazione della Commissione Europea si espande anche in altre 15 aree di intervento, che vanno dalla prevenzione delle epidemie e pandemie (11%), all’eradicazione della poliomielite (4,5%), dalla preparazione dei Paesi per affrontare le emergenze sanitarie alla promozione di politiche sanitarie.
Anche molti Governi sono inquieti all’idea che Bill Gates possa utilizzare la sua munificenza per farsi attribuire poteri decisionali equivalenti a quelli di un capo di Stato: salvo poi la riluttanza e spesso l’impossibilità di dare di più loro stessi. Da una parte, dunque, Gates è stato il primo privato a partecipare all’assemblea generale dei paesi membri dell’Oms. Ma peraltro i rappresentanti della sua Fondazione riconoscono che una tale situazione rappresenti “una grave vulnerabilità”. Dall’altra, fra gli anni ’80 e ’90 diversi Paesi hanno interrotto più volte il regolare pagamento delle quote obbligatorie, che dovrebbero essere in proporzione al Pil. Così, in certe annate l’Oms è riuscita a mettere assieme solo il 70% dei finanziamenti previsti. D’altra parte, i Paesi che abbiamo visto nella zona alta della classifica lo sono grazie al fatto che hanno deciso di offrire di più rispetto a quanto dovrebbero. Dal 2000 le entrate dell’Oms sono comunque sì raddoppiate, ma solo grazie alla crescita esponenziale dei fondi volontari.
Il taglio dei fondi Usa era stato annunciato da Trump nell’aprile del 2020 per poi rendere effettiva la scelta il 6 luglio del 2021. Motivo: le critiche dell’Oms al bando imposto da Trump all’ingresso negli Usa di viaggiatori dalla Cina, critiche alle quali il Presidente aveva reagito accusando l’Organizzazione di essere “troppo filo-cinese” e di aver gestito la pandemia in modo disastroso. Ma anche i media anti-Trump avevano condiviso una certa antipatia per l’Oms, deplorando sia il mese di ritardo con cui aveva dichiarato la pandemia; sia il modo in cui il direttore generale Tedros Adhanom Ghebreyesus si era recato a Pechino ad omaggiare Xi Jinping, tacendo sui silenzi e le censure iniziali con cui il governo cinese nascose al mondo l’epidemia.
Joe Biden aveva promesso in campagna elettorale di tornare nella Oms ed effettivamente una volta insediato ha revocato il ritiro deciso da Trump pur non nascondendo di avere lui stesso qualche perplessità. “Gli Stati Uniti cercano di capire meglio gli attuali meccanismi di finanziamento, le efficienze e il processo decisionale prima di considerare un aumento dei contributi valutati”, ha detto all’agenzia di stampa Mara Burr, funzionario sanitario statunitense. A sua volta Tedros Adhanom Ghebreyesus ha iniziato il 2022 denunciando un rischio di fallimento, se gli Stati membri e i donatori non acconsentissero a una proposta di aumento dei finanziamenti che dia all’organismo sanitario internazionale maggiore autonomia per combattere possibili e future pandemie. “Se l’attuale modello di finanziamento continua, l’Oms è destinata a fallire”, sono state le testuali parole del direttore generale durante un incontro con i delegati a Ginevra. E ha chiesto agli Stati membri e ai donatori, ulteriori 480 milioni di dollari per il prossimo periodo di bilancio, ovvero più di 420 milioni di euro per i prossimi due anni, più 430 milioni di dollari per un programma di emergenza destinato a coordinare la risposta globale al Covid-19.
Come si ricordava nella prima parte dell’inchiesta, pubblicata nel numero scorso, poco prima di candidare Tedros per la riconferma, il primo settembre 2021 la Germania lo aveva invitato a Berlino perchè inaugurasse il nuovo WHO Hub for Pandemic and Epidemic Intelligence. Una cerimonia dove a tagliare il nastro con lui era presente anche la Cancelliera Angela Merkel a fine mandato, ma quasi con l’intenzione di lasciare questa istituzione come sua eredità. Tutto è stato letto da vari osservatori come una sorta di Opa su una Oms che per rilanciarsi avrebbe bisogno di uscire dai giochi di influenza che ne hanno travagliato gli ultimi anni, offrendo in cambio nuovi finanziamenti, l’immagine teutonica di efficienza e anche il potenziale economico e scientifico tedesco. Il fatto che la Germania sia diventata nel contempo il primo finanziatore spiega abbastanza questa mossa.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
Oms, un’idea luminosa, una storia disastrosa
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Nato ad Asmara in Eritrea nel 1965 e laureato in Biologia nel 1986 all’Università di Asmara, Tedros Adhanom Ghebreyesus rimane però cittadino etiopico anche dopo l’indipendenza eritrea. Dopo aver iniziato a lavorare per il Ministero della Salute nel 1986, ottiene nel 1992 una laurea specialistica in Immunologia delle Malattie Infettive della Scuola di Igiene e delle Malattie Tropicali dell’Università di Londra, seguita nel 2000 da un dottorato di ricerca all’Università di Nottingham. La tesi − una ricerca sull’effetto delle dighe sulla trasmissione della malaria nella regione del Tigrè − ha una certa eco. È Ministro della Salute tra il 2005 e il 2012, quando la mortalità infantile in Etiopia si riduce da 123 morti ogni 1000 nati del 2006 a 88 del 2011, grazie a una serie di misure come l’assunzione e formazione di circa 40.000 donne nel campo della sanità e l’aumento di assunzioni di ostetriche e di lavoratori altamente qualificati. Tra il 2009 e il 2011 è anche Presidente del Fondo globale per la lotta all’Aids, la tubercolosi e la malaria. La ribalta internazionale favorisce a sua volta un’ulteriore promozione interna a Ministro degli Esteri, tra il 2012 e il 2016. Il 23 maggio del 2017 è eletto Direttore Generale dell’Organizzazione mondiale della sanità.
Agenzia delle Nazioni Unite nata nel 1948, con sede a Ginevra, la Oms ha l’obiettivo istituzionale di garantire i più alti livelli possibili di salute alla popolazione mondiale. Attualmente ne fanno parte 194 Stati, per assistere i quali ha al suo servizio 150 uffici sparsi nel mondo con 7000 collaboratori. La sua attività non è solo scientifica, ma anche diplomatica. In piena Guerra fredda, ad esempio, nel 1959, la Oms riesce a combinare l’accordo tra il Center for Disease Control (Cdc) Usa e il suo allora omologo sovietico, grazie al quale con 450 milioni di dosi di vaccino prodotte nell’Urss e il finanziamento statunitense, si lancia la campagna che porterà entro il 1977 a sradicare il vaiolo dal pianeta. La lotta all’Aids riporterà invece insuccessi che alimentano gravi polemiche nei 10 anni in cui è direttore generale il medico giapponese Hiroshi Nakajima, tra il 1988 e il 1998. Per la vaghezza del suo mandato, gran parte della gestione della Oms dipende dal modo in cui il direttore generale interpreta il suo ruolo, così, per superare l’impasse, a Nakajima succede non un altro tecnico, ma un politico di grande spessore: la norvegese Gro Harlem Brundtland, primo ministro nel 1981, poi nel 1986-89 e ancora nel 1990-96. Nel 1983 è stata anche designata dall’Onu presidente della Commissione che nel 1987, col rapporto Our Common Future, ha lanciato il concetto di “sviluppo sostenibile”. La Bruntland insiste su un rapporto capillare tra direzione centrale e presidi sanitari locali. Così, quando nel febbraio del 2003 in Cina emerge il contagio della Sars e il governo di Pechino sembra esitare a riconoscere l’allarme, la Oms interviene subito per convincere il governo cinese ad agire. L’efficacia è tale che le vittime saranno meno di un migliaio, nonostante il contagio arrivi in 26 Paesi.
Dopo la Brundtland, nel 2004 torna un tecnico: il medico sud-coreano Lee Jong-wook. Nel 2005 vengono aggiornate le International Health Regulations: documento legale con cui i Paesi membri aderiscono all’impegno di attrezzarsi per individuare e segnalare eventi di interesse sanitario, seguendo gli standard fissati e consentendo alla Oms di intervenire e dichiarare l’emergenza internazionale. Ma nel 2006 Lee muore all’improvviso, di trombosi. Dopo la breve direzione ad interim dello svedese Anders Nordström, arriva al vertice Margaret Chan, già responsabile del Dipartimento alla Salute di Hong Kong. Il suo non è propriamente un curriculum senza macchia, viste le durissime accuse di inefficienza giunte dal Consiglio Legislativo di Hong Kong per la sua gestione della Sars: 299 vittime nel Territorio, quasi un terzo del bilancio mondiale delle perdite. Ma dopo gli attacchi alle Torri Gemelle l’ossessione degli Stati Uniti per far schierare con forza la Oms sul fronte del terrorismo biologico, anche al costo di trascurare altre emergenze, ha portato a un clima di crescente scontro tra Washington e l’asse Bric (Brasile-Russia-India-Cina). Cinese ma del territorio occidentalizzato di Hong Kong, per quanto contestata, la Chan è un compromesso. Nel suo discorso di insediamento ricorda l’Africa e le donne come emergenze principali del suo mandato.
Purtroppo, le stesse accuse di inefficienza che le erano state mosse a Hong Kong trovano riscontri nelle polemiche sulla sua gestione della Oms, anche se viene confermata per due mandati consecutivi. Nel 2010 è accusata di aver originato un allarme eccessivo sulla pandemia di influenza suina H1N1 dell’anno prima. Sempre nel 2010, durante una visita in Corea del Nord dichiara come il sistema sanitario locale sia “invidiabile” e loda che nel Paese non ci siano problemi di obesità: cosa che, anche alla luce della precedente carestia e delle denunce della Brundtland del 2001, suona di umorismo nero. Nel 2014 e 2015 le si imputa una risposta tardiva all’epidemia di Ebola in Africa Occidentale. I dubbi sulla sua figura sembrano confermati da come nel 2021 elogia le elezioni truffa di Hong Kong. Ma è pur vero che, al di là dei limiti della Chan, nel 2011, per via della crisi economica, il bilancio Oms deve essere tagliato di un miliardo di dollari, e ben 300 posti dello staff sono soppressi. Mancanza di risorse e di leadership contribuiscono a far decadere l’immagine della Oms da strumento di governo a mero organo consultivo e camera di compensazione, tant’è che a un certo punto la gestione dell’emergenza Ebola deve essere assunta direttamente dall’Onu.
Tecnico stimato e al contempo politico, proveniente da un Paese africano in rapida crescita, con stretti contatti con la Cina, e primo Direttore Generale della Oms proveniente dall’Africa, Tedros Adhanom Ghebreyesus nel voto a scrutinio segreto prevale con 133 voti su 185, su cinque candidati, tra cui l’inglese David Nabarro (appoggiato da Usa, Regno Unito e Canada) e la pakistana Sania Nishtar. È il chiaro risultato di una confluenza anti-occidentale in cui la Cina fa un passo indietro dopo la pessima prova della Chan − compensandolo peraltro due anni dopo con l’arrivo a capo della Fao di un suo ex-vice Ministro dell’Agricoltura. E mette appunto un suo cliente che al contempo ha immagine di efficienza e dà agli africani il protagonismo cui credono di avere diritto. Al lancio della candidatura hanno partecipato il Presidente della Commissione dell’Unione africana, Nkosazana Dlamini-Zuma, i Ministri degli Affari Esteri del Ruanda e del Kenya e il Ministro della Salute dell’Algeria. Lo slogan della sua campagna è: “Insieme per un mondo più sano”.
Cinque anni dopo, il 25 gennaio 2022 Tedros Adhanom Ghebreyesus è stato nominato dal comitato esecutivo per la rielezione a maggio senza opposizione, ma lo scenario è tutt’altro che trionfale. Tra i 28 Stati che si sono detti favorevoli a proseguire il suo mandato, per lo più africani, non c’è infatti l’Etiopia. C’è però la Germania, la prima a fare il suo nome il 22 settembre. E tra i 160 che non hanno nominato nessuno ci sono anche la Cina e gli Stati Uniti. La sensazione generale è che con la pandemia di Covid ancora in corso non si sia voluto fare un cambio al vertice tale da compromettere la necessaria continuità di azione. Nel contempo, però, sono emersi vari problemi. Il più clamoroso è quello tra il direttore generale e il suo Governo, perché Tedros Adhanom Ghebreyesus è esponente di quel Fronte Popolare di Liberazione del Tigrè (Fplt) che dopo aver gestito il Paese in seguito alla cacciata di Menghistu, con potere quasi assoluto, ha tentato un segnale di apertura portando a eleggere Primo Ministro Abiy Ahmed Ali, di etnia oromo. Dopo che era stato insignito del Nobel per la Pace, però, Ahmed si è scontrato duramente col Governo locale del Tigrè, ancora espressione del Fplt, e il risultato è stato addirittura una guerra civile nella quale l’ex Ministro della Sanità e degli Esteri, ora direttore generale della Oms, appare come schierato con i ribelli. Il capo di Stato maggiore etiopico lo ha perfino accusato di aver cercato di procurare loro armi, e il 14 gennaio del 2022 il Governo di Addis Abeba ha chiesto formalmente di metterlo sotto indagine.
Tra le molte scelte contestate al suo primo mandato, una delle più imbarazzanti è quella di nominare lo screditatissimo Presidente dello Zimbabwe, Robert Mugabe, ambasciatore di buona volontà della Oms: letta come ringraziamento all’appoggio alla sua candidatura ricevuto dallo stesso Mugabe come presidente dell’Unione africana, una indicazione peraltro dubbiamente revocata di fronte alla valanga di proteste. Ma, soprattutto, a Ghebreyesus è contestata la mancanza di polso verso Pechino sul Covid, a differenza di quanto aveva fatto la Bruntland sulla Sars. Il 14 gennaio 2020 l’Oms accredita la tesi cinese che non ci siano prove della diffusione tra umani. Ancora il 23 gennaio dichiara che non ci sia ancora un livello di emergenza internazionale.
Il 30 gennaio, dopo un incontro a Pechino con Xi Jinping, Tedros spiega che “la Cina sta effettivamente definendo nuovi standard per la lotta alle epidemie”, elogiando la gestione del virus, e raccomandandone il modello. Il 31 gennaio la Oms dichiara che è un’emergenza sanitaria pubblica di rilevanza internazionale, ma Tedros puntualizza che non c’è da limitare il commercio o i viaggi con la Cina e insiste: “lasciatemi essere chiaro, questa dichiarazione non è un voto di sfiducia nei confronti della Cina”. Mentre i comunicati della Oms elogiano “la dedizione delle autorità e la trasparenza dimostrata” dalla Cina, gli Usa sono accusati di alimentare “paura e stigma” per aver bloccato i voli dalla Cina. Anche l’Italia prende critiche del genere. Nella prima settimana di febbraio 2020 Tedros ribadisce che non bisogna “interferire inutilmente con i viaggi e il commercio internazionale”. Ma solo l’8 febbraio la Cina ammette gli osservatori della Oms nel Paese. Questi peraltro dopo il sopralluogo elogiano Pechino per aver “dispiegato il più ambizioso, agile e aggressivo sforzo di contenimento della storia”. Infine, bisogna aspettare l’11 marzo perché il Covid-19 sia dichiarato pandemia.
I leader africani continuano a sostenere Tedros, anche perché il loro è il continente meno colpito. Ma il 7 aprile Trump attacca la Oms in un tweet, e una settimana dopo decide di sospenderle i finanziamenti per un periodo che va dai 60 ai 90 giorni. “La Cina ha il controllo totale sulla Oms nonostante paghino 40mln di dollari l’anno mentre gli Usa ne pagano circa 450mln. Poiché hanno fallito nel fare le riforme necessarie e richieste, oggi terminiamo le nostre relazioni con la Oms dirigendo quei fondi verso altre organizzazioni”, conferma il presidente Usa il 29 maggio. Gli Usa sono il primo finanziatore della Oms con il 15% del bilancio, davanti al 10% della Bill and Melinda Gates Foundation e l’8% del Regno Unito. L’uscita degli Usa dalla Oms, annunciata il 7 luglio del 2020 per il 6 luglio 2021, verrà poi bloccata da Biden non appena si insedia, ma in realtà l’analisi di Trump è largamente condivisa negli Usa, e il dissenso è essenzialmente verso questo gesto unilaterale, un modo anche per distrarre dalle proprie responsabilità.
Fellow for Global Health & Cybersecurity al Council for Foreign Relations e consigliere della Oms, David Fidler dice al Guardian che l’attacco di Trump alla Oms non ha precedenti, e che mai la Oms è stata trattata così male dai suoi membri. Secondo il direttore di The Lancet Richard Horton, le capacità della Oms di leadership e di coordinare una risposta sanitaria mondiale sono ormai inesistenti. Non mancano tuttavia apprezzamenti per il modo in cui Tedros è riuscito a far distribuire i vaccini. A ogni occasione ha reiterato il suo appello per l’abolizione dei brevetti e la condivisione con tutti i Paesi più bisognosi, ritardando i booster finché almeno tutti gli operatori sanitari del mondo avessero ricevuto una dose.
Equilibri mondiali, problemi di bilancio e personalità del direttore generale a parte, la Oms ha comunque il problema che non può imporre linee di azione in modo coattivo, ma solo fare raccomandazioni.
Un dato che ha però suscitato interesse è che poco prima di candidare Tedros per la riconferma, il primo settembre 2021 la Germania lo aveva invitato a Berlino, perché inaugurasse il nuovo WHO Hub for Pandemic and Epidemic Intelligence. Una cerimonia dove a tagliare il nastro con lui era presente anche la Cancelliera Angela Merkel a fine mandato, ma quasi con l’intenzione di lasciare questa istituzione come sua eredità. Il tutto è stato letto da vari osservatori come una Opa su una Oms che per rilanciarsi avrebbe bisogno appunto di uscire dai giochi di influenza che ne hanno travagliato gli ultimi anni, offrendo in cambio nuovi finanziamenti, l’immagine teutonica di efficienza e anche il potenziale economico e scientifico tedesco. La Germania durante la pausa dei finanziamenti Usa sarebbe divenuta la prima fornitrice di fondi, e questa struttura è comunque sostenuta anche dal governo federale, che ha stanziato circa 30 milioni di euro.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.