Sul tavolo, Pil, stimoli economici, nomine e novità normative come l’aggiornamento della legge sul segreto di stato. Grande attenzione ai segnali in arrivo sulla politica estera. Dalle parole di Wang e Xi emergeranno segnali importanti su come Pechino intende porsi a livello globale nei prossimi mesi.
Inizio marzo, tempo di lianghui. Cioè le “due sessioni”, uno dei principali appuntamenti politici dell’anno in Cina e centro nevralgico della sua vita legislativa. Lunedì 4 marzo si aprono le riunioni della Conferenza politica consultiva del popolo cinese. Martedì 5 marzo è invece la volta dell’Assemblea nazionale del popolo.
La prima riunisce grandi personalità cinesi, provenienti da ogni sfera della vita economica, sociale, scientifica e sportiva. E, appunto, ha funzioni consultive. La seconda è invece quanto di più simile a un parlamento esista in Cina. La stragrande maggioranza dei suoi 2980 componenti è iscritta al Partito comunista, ma ci sono anche membri indipendenti e rappresentanti degli altri otto partiti legali (di certo non di opposizione) insieme nel Fronte unito. L’Assemblea nazionale del popolo ha funzioni legislative, anche se nella pratica si limita sostanzialmente a ratificare le decisioni prese dal Consiglio di Stato e dal Partito comunista.
Nel 2023, le “due sessioni” avevano certificato l’inizio del nuovo capitolo dell’era di Xi Jinping, conferendogli il terzo mandato da presidente della Repubblica Popolare Cinese dopo che nell’ottobre 2022 gli era stato già consegnato il terzo mandato da segretario generale del Partito.
Tanto è cambiato da allora. A presentare il suo primo rapporto di lavoro da premier sarà infatti Li Qiang, ex capo del Partito a Shanghai e fedelissimo di Xi. È lui il numero due della gerarchia del Partito e ha preso il posto di Li Keqiang, l’ex premier deceduto improvvisamente qualche mese fa.
Li presenterà i risultati di governo, soprattutto quelli economici, dell’anno appena trascorso. Verrà evidenziato che l’obiettivo fissato di 5% di crescita del prodotto interno lordo è stato raggiunto e anzi superato, visto che Pechino ha registrato un +5,2%. Anche se gli analisti sottolineano che la stima era stata volutamente molto cauta, per evitare che si ripetesse il fallimento dell’obiettivo del 2022, quando i lockdown e le restrizioni della strategia zero Covid avevano abbattuto l’economia.
Un’economia che non si è ancora ripresa del tutto. A zavorrare un completo rilancio è soprattutto il settore immobiliare, dopo che Evergrande ha ricevuto un ordine di liquidazione e anche il primo costruttore privato, Country Garden, si trova in profonda crisi. Previsti diversi annunci con pacchetti di stimolo all’economia, ma chi si aspetta grandi riforme o maxi piani di sostegno resterà probabilmente deluso.
Grande attenzione ovviamente anche ai segnali in arrivo sulla politica estera. Lo scorso anno i toni furono molto foschi. Nel suo discorso alla Conferenza politica consultiva del popolo, Xi fu molto esplicito nel citare il tentativo degli Stati Uniti di fermare l’ascesa cinese. Ma aveva anche prefigurato una postura più proattiva sulla scena internazionale, ritoccando la celebre dottrina di Deng Xiaoping (“osserviamo con calma, nascondiamo i punti di forza e aspettiamo il nostro tempo, non rivendichiamo mai il comando”) in una nuova versione: “Manteniamo la calma e la determinazione, progrediamo nella stabilità, raggiungiamo proattivamente gli obiettivi, stiamo uniti e osiamo combattere“.
Xi sembra aver tenuto fede a quella promessa, visto che dopo aver espresso la propria (ambigua) posizione sulla guerra in Ucraina, Pechino ha commentato in maniera molto più decisa la crisi in Medio Oriente e il conflitto tra Israele e Hamas. Non solo. Ha anche favorito l’allargamento dei Brics con l’adesione di cinque nuovi Paesi. Allo stesso tempo, mentre rafforzava la presa sul cosiddetto Sud globale, la Cina ha anche riannodato alcuni fili dei rapporti con gli Stati Uniti, come dimostra il summit di San Francisco fra Xi e Joe Biden. Interessante sarà dunque osservare i toni di Wang Yi, dopo quelli durissimi del predecessore Qin Gang lo scorso anno.
Dalle parole di Wang e Xi emergeranno segnali importanti su come Pechino intende porsi a livello globale nei prossimi mesi.
A proposito di Qin, nei giorni scorsi sono state accettate le sue dimissioni da deputato, dopo che lo scorso luglio era stato rimosso da ministro degli Esteri per ragioni mai chiarite. Si è parlato di una relazione extraconiugale con una giornalista televisiva mentre era ancora ambasciatore cinese a Washington.
Anche l’altra grande nomina delle “due sessioni” dell’anno scorso, Li Shangfu, è stata un insuccesso. Il ministro della Difesa è stato rimosso in autunno per uno scandalo legato alle forniture militari, che ha visto peraltro cadere diverse teste anche nell’esercito e in particolare nelle forze missilistiche.
Nei prossimi giorni ci si aspettano dunque nuove nomine, anche se alla Difesa è stato già piazzato Dong Ju a fine anno. Wang potrebbe però cedere il ruolo di ministro degli Esteri, già ricoperto fino all’anno scorso e poi di nuovo dopo la rimozione di Qin, per “limitarsi” a guidare la diplomazia del Partito. Al suo posto potrebbe essere promosso Liu Jianchao, capo del dipartimento internazionale del Partito ed ex guida della commissione disciplinare. Negli scorsi mesi Liu ha effettuato molti viaggi tra Europa, Stati Uniti, Russia e Asia. Evenienza che ha fatto pensare a molti che la sua promozione sia ormai imminente.
Attenzione anche a eventuali segnali su Taiwan e il mar Cinese meridionale. Lo scorso anno, Xi chiese all’Esercito popolare di liberazione, come già fatto a luglio 2021 in occasione del centenario del Partito, di diventare una “grande muraglia d’acciaio” a difesa della sicurezza nazionale. Negli ultimi 12 mesi si sono verificate nuove grandi esercitazioni intorno a Taiwan (lo scorso aprile, in occasione del doppio scalo americano della presidente uscente Tsai Ing-wen) e soprattutto le elezioni presidenziali di gennaio sono state vinte da Lai Ching-te, il più inviso a Pechino.
A cavallo del suo insediamento del prossimo 20 maggio sono possibili nuove manovre, fermo restando che nelle ultime settimane si è già alzata la tensione su Kinmen, mini arcipelago amministrato da Taipei ma a pochi chilometri di distanza dalle coste del Fujian cinese. Visto che siamo nel 75esimo anniversario della fondazione della Repubblica Popolare e della fine della guerra civile, ci si potrebbe aspettare qualche messaggio quantomeno sul fronte retorico.
Di recente, al forum presieduto da Wang Huning (numero tre della gerarchia), il Partito si è impegnato a “combattere” i tentativi di “secessione”, mentre in passato la formula ufficiale era quella della “opposizione risoluta”. Negli ultimi mesi è aumentata in modo esponenziale la tensione con le Filippine sui territori contesi nel mar Cinese meridionale.
Al centro pare destinato comunque a restare il concetto di “sicurezza nazionale”, formula ripetuta più volte da Xi in tutti i discorsi degli ultimi anni, nonché etichetta apposta a una legge entrata in vigore a Hong Kong nel 2020, che potrebbe presto venire ulteriormente inasprita. Sempre in ossequio alla sicurezza nazionale, è stata appena emendata anche la legge sul segreto di Stato.
Altro concetto chiave da seguire è quello dell’autosufficienza tecnologica, che si prevede verrà ulteriormente menzionata durante i lavori della densa settimana delle “due sessioni”.
La prima riunisce grandi personalità cinesi, provenienti da ogni sfera della vita economica, sociale, scientifica e sportiva. E, appunto, ha funzioni consultive. La seconda è invece quanto di più simile a un parlamento esista in Cina. La stragrande maggioranza dei suoi 2980 componenti è iscritta al Partito comunista, ma ci sono anche membri indipendenti e rappresentanti degli altri otto partiti legali (di certo non di opposizione) insieme nel Fronte unito. L’Assemblea nazionale del popolo ha funzioni legislative, anche se nella pratica si limita sostanzialmente a ratificare le decisioni prese dal Consiglio di Stato e dal Partito comunista.