[MILANO] Giornalista professionista. Si occupa di esteri e sicurezza su Formiche.net.
Usa verso le elezioni di midterm: cosa aspettarsi
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Dopo l’assalto del 6 gennaio dell’anno scorso al Campidoglio di Washington DC, dieci eletti alla Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti nelle file del Partito repubblicano hanno votato per l’impeachment dell’ex Presidente Donald Trump. Quattro di questi hanno deciso di non ricandidarsi. Altrettanti hanno perso le primarie, sconfitti da candidati trumpiani. Soltanto due hanno superato le primarie e correranno alle elezioni generali di novembre per mantenere il loro seggio.
Il caso più eclatante è quello di Liz Cheney, figlia di Dick, ex vicepresidente di George W. Bush. Ha perso le primarie repubblicane nel Wyoming contro Harriet Hageman, sostenuta da Trump. L’ex presidente, lasciata la Casa Bianca e in vista di una possibile ricandidatura nel 2024, ha investito la maggior parte delle sue energie per sostenere uomini e donne che si sono candidati per scalzare i membri di Camera e Senato che considera sleali nei suoi confronti. Come Cheney. Che però non sembra voler cedere. “Farò tutto il necessario per garantire che Donald Trump non si avvicini mai più allo Studio Ovale, e dico sul serio”, ha dichiarato dopo la sconfitta definendo l’ex Presidente “una minaccia e un rischio molto grave per la nostra Repubblica”. Per sconfiggerlo sarà necessario “un fronte ampio e unito di repubblicani, democratici e indipendenti, ed è quello di cui intendo far parte”, ha spiegato rifiutandosi però di dire se si candiderà alla presidenza. Ha però ammesso che è “qualcosa a cui sto pensando”. “Il nostro lavoro è lungi dall’essere finito”, ha detto, evocando l’ex Presidente Abraham Lincoln, che perse le elezioni del Congresso prima di salire alla presidenza e difendere l’Unione.
I repubblicani dopo le primarie
Ma il suo risultato alle primarie – e il margine di oltre 35 punti della sua sconfitta, che sembrava impensabile soltanto due anni fa (figlia di un ex vicepresidente, esponente di una delle famiglie politiche più importanti del Wyoming e la numero tre dei repubblicani alla Camera) – sembrano confermare il rapido spostamento a destra del Partito repubblicano. Un tempo era dominato da conservatori interessati alla sicurezza nazionale e aperti agli affari, come suo padre, ma ora è nelle mani del fronte populista trumpiano che nega la sconfitta alle elezioni presidenziali del 2020. Davanti a questo scenario, Cheney è diventata la voce più chiara e forte contro Trump all’interno del Partito repubblicano. Inevitabile il giubilo dell’ex Presidente. “Presumo che con la pesante sconfitta” della Cheney, “molto più grande di quanto fosse stato previsto”, la Commissione sul 6 gennaio “inizierà rapidamente il bellissimo processo di dissoluzione”, ha scritto Trump su Truth, il suo – nel senso che è stato creato dal Trump Media & Technology Group – nuovo social preferito dopo la cacciata da Twitter. “Questo è stato un referendum sulla caccia alle streghe infinita. La gente ha parlato”, ha aggiunto.
Se il Partito repubblicano otterrà la maggioranza della Camera e del Senato alle elezioni di novembre, il nuovo Congresso potrebbe essere fatto a immagine e somiglianza di Trump. Ma la sua influenza presenta un rischio, quello di rendere il Partito repubblicano una sorte di club di Trump: può permettergli di riconquistare la Camera costandogli in termini di appeal alle presidenziali del 2024.
L’onda rossa in cui i repubblicani trumpiani sperano e confidano potrebbe non essere travolgente come previsto fino a poco fa. Per i democratici, infatti, la tornata elettorale potrebbe non essere catastrofica come le precedenti elezioni di metà mandato con un democratico alla Casa Bianca. Un indicatore statale ritenuto affidabile per i risultati federali nell’ultimo decennio è lo Stato di Washington. Quest’anno, il voto democratico aggregato nelle primarie per la Camera dello Stato è stato peggiore di oltre 5 punti percentuali rispetto alla performance nell’anno della cosiddetta onda blu del 2018. Ma è stato superiore di altrettanti punti rispetto ai risultati ottenuti nel 2010 e nel 2014, due anni di onda rossa.
L’incognita Biden
Ma l’incognita per i democratici potrebbe rivelarsi il loro leader, cioè il Presidente Joe Biden. Niente di nuovo: le elezioni di metà mandato sono da sempre un referendum sull’inquilino della Casa Bianca. Tuttavia, un tempo Biden era uno dei più richiesti nel partito in occasione delle campagne elettorali. Oggi si ritrova in una posizione a lui poco familiare. Viene attaccato più spesso negli spot televisivi di quanto non lo fossero Barack Obama nel 2010 e Trump nel 2018. Nella discussione online delle campagne democratiche non viene nominato. Secondo un sondaggio del Washington Post, i candidati negli Stati in bilico cercano di evitarlo.
La media dell’indice di gradimento del Presidente Biden è al di sotto del 40%, il che fa presagire una sconfitta pesante. I democratici sperano che i numeri migliorino, ma quasi mai i presidenti vedono i loro indici di gradimento crescere in maniera sensibile nell’anno delle elezioni di metà mandato. Il gradimento dell’inquilino della Casa Bianca è generalmente l’indicatore più seguito in questi periodi. Dopo c’è l’economia con i numeri dell’occupazione.
Tuttavia, quest’anno i timori per l’inflazione sembrano prevalere e il Presidente sta cercando di correre ai ripari. Dopo un sofferto percorso al Congresso, il piano cardine dell’amministrazione su clima, salute e inflazione è diventato legge a metà agosto. Sono previsti investimenti energetici, una limitazione dei prezzi dei farmaci prescritti e una nuova tassa minima alle grandi multinazionali. “Con questa legge, i cittadini americani hanno vinto, mentre gli interessi particolari hanno perso”, ha dichiarato il Presidente. I democratici sono da sempre sostenitori della riduzione del deficit per contenere l’inflazione. E così hanno messo in piedi questo pacchetto che dovrebbe ridurlo di circa 275 miliardi nei prossimi dieci anni. Soltanto il tempo dirà se il piano avrà effetti soltanto a breve termine o anche nel medio.
Le ripercussioni internazionali
Nonostante il dibattito sull’invasione russa dell’Ucraina, le elezioni di metà mandato sono e saranno dominate da questioni sociali, con i repubblicani impegnati su temi interni come l’economia, il bilancio, l’immigrazione e la sicurezza delle frontiere.
Ma l’esito delle elezioni di metà mandato potrà avere ripercussioni geopolitiche importanti. Infatti, se i repubblicani conquistassero la maggioranza alla Camera o al Senato, Biden sarà costretto a concentrarsi maggiormente su questioni “esecutive” e mettere fine alla fase “legislativa” della sua amministrazione, come ha scritto William A. Galston, editorialista del Wall Street Journal, evidenziando le sfide che il presidente dovrà affrontare – soprattutto da parte di Iran, Russia e Cina – e che richiederanno la sua attenzione costante.
Il ritorno all’accordo nucleare JCPoA sembra non distante mentre scriviamo. La Russia non sembra decisa a fermare la sua aggressione ai danni dell’Ucraina. Mantenere l’unità europea potrebbe rivelarsi ancora più difficile di quanto non sia stato finora, con l’inverno alle porte e Mosca che non si fa remore a utilizzare le forniture energetiche come arma per indebolire il sostegno del Vecchio continente a Kiev. Infine, la Cina, dove il leader Xi Jinping aspetta il terzo mandato dal Partito comunista cinese. Il confronto su Taiwan è il problema più urgente per la Casa Bianca, come dimostrato dalla recente visita di Nancy Pelosi, Speaker della Camera, a Taipei. Davanti a Pechino che punta a un lento assorbimento dell’isola, gli alleati degli Stati Uniti – in particolare Giappone e Filippine – potrebbero essere chiamati a scelte difficili per timore di essere inghiottiti a loro volta in futuro.
Per esempio, davanti a questo scenario l’amministrazione Biden dovrà dimostrare la determinazione di impostare una strategia per potenziare le capacità difensive di Taiwan, rafforzare la fiducia dei suoi alleati e migliorare la deterrenza nel Pacifico. Cose difficili da realizzare senza il sostegno del Congresso. In ballo c’è la politica estera degli Stati Uniti nei prossimi due anni almeno. Potrebbe apparire incerta, persino contraddittoria, agli occhi degli alleati.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
Quanto costa vincere le elezioni americane
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Chi paga la politica statunitense? Una domanda fondamentale, visto anche che i dati della Federal Election Commission raccontano una tendenza all’incremento finanziario costante nelle recenti elezioni presidenziali, che però nell’ultima tornata è stato esponenziale. Infatti, la corsa alla Casa Bianca che ha visto affrontarsi il Presidente uscente Donald Trump per il Partito repubblicano e l’ex vicepresidente Joe Biden per il Partito democratico è stata la più costosa di sempre con 14,4 miliardi di dollari spesi, più del doppio rispetto a quella di quattro anni prima che ha visto l’ex segretario di Stato Hillary Clinton sconfitta.
Per rispondere alla domanda di partenza può essere utile spulciare il sito di OpenSecrets, organizzazione senza scopo di lucro che si dedica ai finanziamenti e alle attività di lobbying nelle campagne elettorali statunitensi.
A che cosa è dovuto questo boom dei finanziamenti? Le analisi di OpenSecrets sui dati forniti dalla Federal Election Commission, che evidentemente pubblica soltanto i contribuiti dichiarati, lo spiegano: è legato a un mix tra una quantità senza precedenti di piccoli donatori che contribuiscono alle campagne elettorali online e miliardari che da un decennio esercitano un’enorme influenza politica.
La campagna presidenziale del 2020 era stata definita da entrambe le parti la più importante della storia. Per il Partito repubblicano una vittoria rappresentava la consacrazione della svolta trumpiana (e non è dunque un caso che molti esponenti abbiano preso le distanze dall’allora Presidente). Per il Partito democratico, invece, battere Trump significava il tentativo di riportare la politica statunitense su binari meno conflittuali e più bipartisan dopo i quattro difficili anni di duro confronto.
In questo clima la campagna di Biden è stata la prima a raccogliere oltre 1 miliardo di dollari dai donatori, incassando più sostegno del rivale dai Super Pac (cioè i gruppi che non possono dirottare i fondi a candidati specifici ma hanno la libertà di spendere illimitatamente in pubblicità e operazioni di marketing collaterali) e dai gruppi cosiddetti “dark money” (cioè organizzazioni no profit che non rivelano l’origine del denaro, come può essere una società a responsabilità limitata che opera come società di comodo).
La campagna di Trump, invece, ha raccolto 774 milioni di dollari, più della metà da piccoli donatori con contribuiti inferiori a 200 dollari. E ha continuato a incassare anche molto tempo dopo che i media avevano assegnato la vittoria a Biden, accumulando denaro che potrebbe essere utilizzato per influenzare il futuro del Partito repubblicano.
La corsa alla Casa Bianca ha attirato finanziamenti per una cifra record di 5,7 miliardi di dollari. Ma sono state da record anche le elezioni per il Congresso, con 8,7 miliardi di dollari di spesa totale. OpenSecrets sottolinea che prima della tornata del 2018, nessuna corsa per il Senato aveva superato i 200 milioni di dollari. Appena quattro anni prima era stata superata la quota di 100 milioni di dollari. E in questo scenario il 2020 ha visto realizzarsi nove delle dieci corse al Senato più costose di sempre e cinque delle dieci per la Camera.
L’aumento delle spese per le elezioni al Congresso è iniziata nel ciclo del 2018, quello delle midterm in cui il Partito repubblicano aveva mantenuto il controllo del Senato ma perso la maggioranza alla Camera. Infatti, tutte le elezioni più costose di Camera e Senato si sono tenute in uno degli ultimi due cicli elettorali.
Le elezioni congressuali hanno visto ribaltarsi la dinamica dei donor rispetto a quelle presidenziali con una sorta di ritorno alle origini: i piccoli donatori che avevano fatto la fortuna di Barack Obama e del Partito democratico negli anni precedenti hanno rappresentato il 37% dei contributi, pari a 1,8 miliardi di dollari. Si tratta di una cifra di 700 milioni di dollari inferiore a quella raccolta dai candidati del Partito repubblicano, la maggior parte dei quali ha sostenuto la propria campagna sui contribuiti dei loro donor tradizionali. Ma anche nel Grand Old Party i piccoli donatori stanno aumentando: nel 2016 rappresentavano meno del 6% dei contribuiti ai candidati alla Camera, nel 2020 quasi quattro volte di più, il 22%. E a dimostrazione di quanto sia stata cruciale la fase Trump si pensi che alcuni fedelissimi dell’ex Presidente, come i deputati Jim Jordan e Matt Gaetz, figurano tra gli eletti con la percentuale più alta di fondi ricevuti dai piccoli donatori.
Ma chi sono i cosiddetti mega donor? In tre parole: i soliti noti.
Dal database di OpenSecrets spuntano due nomi su tutti per il Partito democratico. Quello di George Soros, imprenditore e filantropo americano ma di origini ungheresi, con un patrimonio stimato di circa 9 miliardi di dollari, promotore dell’ideale della “società aperta” ripreso da Karl Popper, accusato spesso dall’ultradestra di essere tra i burattinai di ogni complotto globale, ultimo sarebbe quello dei vaccini Covid-19. Dal 2004 a oggi, Soros figura tra i primi 20 donatori delle campagne elettorali del Partito democratico. Nel 2018 ha donato 16 milioni di dollari, nel 2020 si è fermato a 7. Il tutto, però, a titolo personale, senza contare cioè le donazioni indirette tramite organizzazioni no profit o fondazioni filantropiche. Secondo il giornale Politico, Soros avrebbe destinato 28 milioni di dollari a diversi comitati elettorali soltanto nel primo trimestre del 2020, l’anno delle elezioni.
L’altro nome è quello di Michael Bloomberg, un patrimonio stimato di 58 miliardi di dollari, ex sindaco di New York dalle alterne fortune elettorali. Dopo essersi candidato alle primarie del Partito democratico con la promessa di fare “tutto il necessario” per fermare Trump, ha proseguito l’impegno al fianco di Biden, lasciata la contesa a seguito dei magri risultati nei primi Stati chiamati al voto. Cento i milioni di dollari messi sul piatto per conquistare Stati tradizionalmente rossi, cioè repubblicani, come Florida, Texas e Ohio. I democratici davano la Florida per scontata alle presidenziali, così la sconfitta ha alimentato nuove voci sui fondi – eccessivi e soprattutto inutili? – di Bloomberg, intanto già concentratosi su una nuova campagna, quella ambientale in vista della Cop26 di novembre, con 10 milioni donati alle Nazioni Unite di cui è stato nominato inviato speciale.
La questione mega donor per il Partito repubblicano è piuttosto delicata. Sugli storici ci sono grossi punti interrogativi. La famiglia Koch, un vero e propri impero, ha iniziato a prendere le distanze dal Grand Old Party aprendo a donazioni non più su base partitica bensì in base alle cause. Dopo l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio in Campidoglio, l’organizzazione Americans for Prosperity, nella rete Koch, ha spiegato di voler sostenere soltanto “quei politici che rifiutano la politica divisiva e lavorano insieme per portare avanti il nostro Paese”. La lobby delle armi, la National Rifle Association, che ha investito la maggior parte della sua spesa totale di 29,1 milioni di dollari nel ciclo elettorale del 2020 per sostenere Trump, ha recentemente presentato istanza di fallimento. A questo si deve aggiungere la morte del magnate dei casinò Sheldon Adelson, che con sua moglie Miriam ha donato oltre mezzo miliardo di dollari alle cause repubblicane.
Considerate queste perdite, Trump potrebbe aver portato il Partito repubblicano lì dove un decennio prima Obama aveva già portato il Partito democratico. Verso, cioè, una nuova forma di partecipazione politica. Basta dare un’occhiata ai numeri: nel 2012 la popolazione adulta che ha donato più di 200 dollari era pari allo 0,5%, nel 2016 lo 0,7%, nel 2020 l’1,8%. Un aumento trainato dalla crescita della partecipazione femminile. Nel complesso, i piccoli donatori hanno rappresentato il 23% della raccolta fondi totale nel ciclo del 2020, in sensibile aumento rispetto al 15% del 2016. Parallelamente all’aumento dell’influenza dei donatori singoli, i comitati tradizionali stanno perdendo forza.
C’è un buco nero, però, avverte OpenSecrets. Per continuare questo processo pensando a una maggiore partecipazione servirebbe mettere regole chiare – e applicarle – sui Super Pac, sempre più legati ai “dark money”.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di novembre/dicembre di eastwest.
L’Irlanda del Nord tra Londra e Dublino
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Si vive meglio nell’Irlanda del Nord o nella Repubblica? Fino a pochi mesi fa questa domanda era un tabù. Basti pensare che gli studi in materia sono pochissimi. Il più delle volte, infatti, l’Irlanda del Nord viene confrontata con il resto del Regno Unito. La Repubblica, invece, con gli altri Stati membri dell’Unione europea.
Che nelle scorse settimane il quesito abbia acceso il dibattito sul Queen’s Policy Engagement, portale della Queen’s University Belfast, racconta quanto le cose siano cambiate. La Brexit ha riacceso le questioni nazionali nel Regno Unito: la Scozia battaglia contro il Governo britannico per poter organizzare un nuovo referendum sull’indipendenza dopo quello del 2014 in cui vinsero i no e in Irlanda si inizia a parlare di un voto su una possibile unità politica dell’isola. E non è un caso che le due nazioni “ribelli” siano le stesse in cui, a differenza di Inghilterra e Galles, nel referendum del 2016 il Remain ebbe la meglio sul Leave.
Il confronto con l’Irlanda “del Sud”
Ad aprire il confronto su chi sta meglio tra i cittadini britannici che vivono in Irlanda del Nord e gli irlandesi “del Sud” è stato Graham Gudgin, professore all’Università di Cambridge e già consigliere dell’ex premier nordirlandese David Trimble. L’accademico ha dedicato al divario un’analisi sul Queen’s Policy Engagement e una lettera sul Financial Times. La sua tesi si può riassumere in un aspetto, quello legato al “vile denaro”: il benessere economico in Irlanda del Nord, maggiore rispetto a quello nella Repubblica (la sanità gioca un ruolo fondamentale), fa sì che la maggior parte delle persone desidera ancora rimanere nel Regno Unito. Le sue conclusioni si basano sui consumi, visto il prodotto interno lordo irlandese è “distorto” dalle multinazionali attratte dalla bassa tassazione.
Reddito, tasso di povertà, istruzione, mercato del lavoro, mobilità sociale, servizi sanitari e aspettativa di vita. Tanti indicatori della qualità della vita sono stati presentati per confutare il saggio del professor Gudgin. Il quotidiano The Irish Times, con sede a Dublino, si è spinto a collegare le affermazioni dell’accademico al suo sostegno alla Brexit.
Chi abbia ragione non è il fulcro della questione. Lo è il dato storico: oggi, a distanza di un secolo dalla nascita dell’Irlanda del Nord su richiesta della maggioranza protestante locale, si fanno comparazioni tra questa e la Repubblica (a prevalenza cattolica). Ma “Norn Iron”, come la chiamano da quelle parti, inizia a temere i fantasmi del suo passato.
Malcontento e criminalità
Sono già state ribattezzate “le notti di Belfast”, quelle che a inizio aprile hanno visto i quartieri a maggioranza protestante della capitale nordirlandese diventare teatro di rivolte con autovetture incendiate, lanci di bottiglie molotov e sassaiole contro le forze dell’ordine. La miccia degli scontri pare essere stato un funerale, quello di Bobby Storey, l’ex membro dell’Ira. Si è svolto nel giugno dell’anno scorso, in violazione delle norme anti Covid-19, con una grande partecipazione popolare, oltre 2.000 persone. Presenti anche alcuni Ministri del Sinn Fein, il partito repubblicano cattolico un tempo contiguo alla milizia indipendentista irlandese. La decisione di non aprire un’inchiesta ha scatenato la rivolta popolare.
Il vicecapo della polizia, Jonathan Roberts, ha parlato di scene alle quali non si assisteva “da anni” e di tumulti organizzati: “Non arrivi con queste quantità di bombe molotov, razzi e petardi senza una pianificazione, quindi c’è stato un certo livello di preparazione e orchestrazione dietro”.
Chi? Forse le formazioni paramilitari unioniste che sono uscite deluse dalle trattative sulla Brexit e hanno annunciato a marzo il ritiro dai trattati di pace del Venerdì Santo del 1998, che posero fine ai Troubles. O forse gli eredi dell’Ira che dopo la Brexit hanno visto aumentare le reclute che sperano nel sogno di un’Irlanda unita. Impossibile non considerare anche la criminalità comune come parte del problema.
Ma gli scontri “ci ricordano che Brexit non vuol dire solo successo britannico sui vaccini”, ha commentato Antonio Villafranca, ISPI Director of Studies. “Per tenersi stretto il proprio partito – e più libere le mani nelle negoziazioni con il resto del mondo – [Boris] Johnson ha sacrificato l’Irlanda del Nord. Una dogana la separa oggi dal resto del Regno Unito. Ma il premier rischia di pagare per questa decisione. E alle porte ci sono anche le elezioni in una Scozia sempre più indipendentista”, ricorda l’esperto.
Probabilmente non è troppo azzardato parlare di tradimento dell’Irlanda del Nord da parte di Londra. In particolare del Partito unionista democratico, di destra e protestante, che aveva creduto nella Brexit per rafforzare i legami con il resto del Regno Unito oltreché con il Governo britannico.
Le ripercussioni della Brexit
Il tradimento è contenuto nel protocollo sull’Irlanda del Nord previsto dagli accordi sulla Brexit che garantisce la permanenza nordirlandese nel mercato comune e nell’unione doganale europea. Per evitare il ritorno di una frontiera doganale tra l’Irlanda del Nord e la Repubblica, condizione che avrebbe rappresentato una violazione degli accordi di pace, sono stati imposti controlli al confine marittimo tra l’Irlanda e il resto del Regno Unito.
Ma le conseguenze pratiche di quell’intesa sono state evidenti sin da subito. Come ha notato l’Ispi, le merci in arrivo a Belfast dalla madrepatria sono ora soggette a controlli doganali, il che ha causato penurie nei supermercati e difficoltà burocratiche. Ma soprattutto, i lealisti protestanti vedono messa in discussione la loro identità britannica: e temono che l’Irlanda del Nord possa un giorno riunirsi con la Repubblica di Dublino. Non è un caso che “ci sentiamo cittadini di serie B” sia un mantra gridato nelle piazze delle proteste nordirlandesi e che a questa prospettiva guardi con crescente favore il Sinn Féin che, puntando anche sul ribaltamento demografico tra cittadini cattolici e protestanti, spera di chiedere e ottenere un referendum per la riunificazione politica dell’isola.
Vista da Londra, la questione (nord)irlandese non sembra preoccupare troppo a livello elettorale, visto che gli eventi nell’isola non sembrano avere avuto impatti sulle scelte dei cittadini nelle urne né sui sondaggi. Tuttavia, oltre a quelle umane e materiali, il disimpegno del Governo britannico potrebbe avere (almeno) altre due conseguenze: lo scarso interessamento alla questione potrebbe tradursi, agli occhi degli elettori, in mancanza di competenza generale dell’esecutivo; uno stop all’accelerazione delle dinamiche nell’Anglosfera visto il recente rafforzamento degli interessi irlandesi-americani – basti pensare che il Presidente statunitense Joe Biden va fiero delle sue origini irlandese e non ne fa mai mistero, ricordandole anche quando parla di Brexit.
Per questo, diversi commentatori hanno messo in guardia il Governo di Londra dal fare concessioni in risposta agli scontri. Sarebbe un premio ai violenti e rischierebbe di esacerbare le tensioni e gli estremismi mettendo a rischio l’unità del Regno Unito. Meglio dialogare con Belfast, Dublino e Bruxelles per semplificare il protocollo, per esempio su questioni che riguardano animali, piante e generi alimentari.
Ma ciò significherebbe riconoscere che la Brexit non è ancora finita.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
I 5 Stelle e la loro mutazione genetica
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La cultura politica dei 5 Stelle, da forza antisistema a partito di Governo, è ancora confusa. Quale modello proporranno alle prossime elezioni?
La mutazione genetica che ha fatto sì che il Movimento 5 Stelle passasse da elemento antisistema e potenzialmente dirompente (come avevano scommesso alcune potenze come Russia e Cina) a “forza moderata, liberale, attenta alle imprese, ai diritti, e che incentra la sua missione sull’ecologia” (per usare le parole di Luigi Di Maio) ha avuto nell’estate del 2019 il suo punto di svolta.
Il passaggio dal Governo Conte I al Governo Conte II con il Movimento 5 Stelle perno dei due esecutivi — prima con la Lega poi con il Partito democratico e Liberi e uguali — ha rappresentato, infatti, un punto di svolta nell’approccio della forza fondata nel 2009 da Beppe Grillo alla cosa pubblica.
A incidere sono stati due elementi su tutti. Il primo è l’esperienza maturata nelle istituzioni. Il caso emblematico è quello di Di Maio, che da più giovane vicepresidente della Camera dei deputati ha sviluppato quella fitta rete di contatti rivelatasi fondamentale una volta che il Movimento 5 stelle è stato chiamato alla prova del Governo. Basti pensare ai cambi di rotta effettuati dall’attuale ministro degli Esteri, una volta preso contatto con la Farnesina e la sua struttura, su pilastri della nostra diplomazia come l’approccio verso l’Unione europea (addio gilet gialli, per fare un esempio) e l’atlantismo (Via della Seta, dove?)
Il secondo è il cambiamento di alleanza: dal Governo gialloverde sovranista si è passati a quello giallorosso europeista. La benedizione dell’allora presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, al presidente del Consiglio Giuseppe Conte con il famoso tweet “Giuseppi” è stata soltanto il coronamento di un percorso già certificato con i sostegni all’ex presidente del Consiglio giunti dai vertici europei, dalla Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen al Presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, dalla Cancelliera tedesca Angela Merkel al Presidente francese Emmanuel Macron durante il G7 di Biarritz (2019).
Ma la scelta di campo era stata fatta poco più di un mese prima, quando il Movimento 5 Stelle, uscito con le ossa rotte dalle elezioni europee (con percentuali dimezzate rispetto alle politiche dell’anno precedente), al Parlamento europeo aveva deciso di votare per Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione europea assieme ai partiti conservatori e progressisti, e anche a un pezzo degli euroscettici più moderati. È stato poi l’assist della Lega, con il leader Matteo Salvini deciso ad aprire una crisi di Governo estiva probabilmente comprendendo troppo tardi il contesto geopolitico all’interno del quale essa si sarebbe inserita, a permettere al Movimento 5 Stelle il completamento di una svolta europeista diventata poi atlantista e (forse) liberale. Il tutto sotto l’occhio vigile del Quirinale, il cui rapporto con gli Stati Uniti è saldissimo per tradizione e il cui segretario generale è quell’Ugo Zampetti conosciuto da Di Maio negli anni di Montecitorio.
A proposito di equilibri geopolitici come contesto della svolta pentastellata torna di grande utilità un’analisi di Dario Cristiani pubblicata prima della nascita del Governo Draghi per l’Istituto affari internazionali e il German Marshall Fund. Il titolo, tradotto in italiano, suona così: “Italia, atlantismo e amministrazione Biden: maggiore convergenza per disinnescare l’ambiguità sulla Cina”. Dopo lo “shock” della firma sul memorandum d’intesa sulla Via della Seta nel marzo 2019, nota l’esperto, “il modo in cui Roma gestirà i suoi rapporti con Pechino rimarrà centrale nella percezione degli Stati Uniti, anche sotto un’amministrazione democratica”. Inizialmente il Partito democratico “sarà ancora più centrale di quanto non sia stato finora nel definire i rapporti con gli Stati Uniti, non solo per le opinioni comuni e una cultura politica condivisa, ma anche per l’intensità dei rapporti personali tra di esso e i democratici americani”, nota l’esperto facendo esplicito riferimento al ministro della Difesa Lorenzo Guerini e a quello degli Affari europei Enzo Amendola (oggi sottosegretario a Palazzo Chigi), i membri del Governo Conte II che più si sono spesi, per esempio, nella protezione delle infrastrutture 5G italiane dalle minacce cinesi.
Allo stesso tempo, continua Cristiani, rimane “anche se attenuato, l’ethos anti-establishment del Movimento 5 Stelle”, visto a Washington “come antitetico all’approccio più tradizionalista alla politica estera che probabilmente adotterà l’amministrazione” Biden. “La percezione negli Stati Uniti” è che il ministro degli Esteri Di Maio e l’allora presidente Conte “non siano effettivamente rappresentativi del Movimento”. Piuttosto, “il loro crescente atteggiamento atlantista è visto più come il risultato di scelte personali che come il risultato di uno spostamento strutturato del Movimento 5 Stelle”. Ecco perché “questa convergenza ha dissipato i timori di ambiguità a breve termine, ma non le preoccupazioni per le posizioni più ampie del Movimento 5 Stelle riguardo alla Cina e ad altri dossier”, concludeva l’esperto.
E quanto scrive Cristiani è un ulteriore indizio di come il Movimento 5 Stelle sia passato dall’essere la forza dell’“uno vale uno” all’essere un partito ricco di correnti (per lo più personalistiche) come dimostrato dal dibattito emerso al suo interno dopo la nascita dell’esecutivo guidato dall’ex governatore della Banca centrale europea, Mario Draghi. Cioè uno di quei “tecnocrati” storicamente osteggiati dal Movimento e di cui un esponente pentastellato come Carlo Sibilia, oggi sottosegretario all’Interno, chiedeva l’arresto soltanto quattro anni fa.
L’idea di un rinnovamento del Movimento 5 stelle è emersa con chiarezza nell’autunno scorso, durante la presentazione in Senato del “Dopo il coronavirus. La cultura politica del Movimento cinque stelle” del sociologo Domenico De Masi. A dispetto di quello che spesso si dice, nella formazione c’è una “convergenza fortissima sulle idee di fondo, c’è pieno accordo sulla salute, la finanza, l’ambiente, le migrazioni, l’equilibrio geopolitico globale, la business ethics, l’intelligenza artificiale, la bioetica, la sostenibilità, le questioni di genere e le frontiere della scienza”, diceva il sociologo. Un ritorno alle origini per proiettarsi verso il futuro? Forse nei problemi da affrontare come priorità. Sicuramente non nelle soluzioni offerte, si poteva notare in quello che molti hanno definito un vero e proprio manifesto della mozione Di Maio.
Gli altri? Poco, quasi nulla. Così, è stato recentemente lo stesso De Masi, sulle colonne di Formiche.net, a evidenziare le difficoltà del Movimento 5 Stelle dopo la nascita del Governo Draghi: “L’avanguardia non ha saputo trascinare sulle sue posizioni né tutti gli altri parlamentari, né buona parte della base. Di qui la recente scissione, in perfetta linea e a ennesima dimostrazione della sua natura ‘di sinistra’”, ha scritto il sociologo. Che ha individuato poi tre ragioni dietro il rischio scissione: l’incapacità di elaborare un modello di società da proporre all’elettorato perché “le cinque stelle — acqua, ambiente, trasporti, connettività e sviluppo — dicono tutto e niente” e “non avere un modello concettuale significa non poter distinguere tra destra e sinistra, tra vero e falso, tra buono e cattivo”; il “bisogno inconscio di distruggere la propria creatura così come Saturno divorò i suoi figli”; il vuoto organizzativo dopo la morte di Gianroberto Casaleggio con i principali esponenti del Movimento (Di Maio, Conte e Alessandro Di Battista) su posizioni e con ambizioni diverse.
E dire che con l’amministrazione Biden tornano centrali temi come l’ambiente e l’approccio multilaterale alle questioni globali — aspetti che coincidono con la (presunta) nuova agenda pentastellata. Per l’Italia il 2021 vede una grande occasione di rilanciare il suo legame con l’alleato storico, che non può essere soltanto un rapporto “di difesa” (anche per “recuperare” lo “shock” della Via della Seta). Le opportunità sono il G20 che il nostro Paese ospita e la Cop26(la 26esima conferenza Onu sui cambiamenti climatici che si terrà a Glasgow a novembre 2021) che organizza assieme al Regno Unito (a sua volta presidente del G7).
Opportunità anche per i pentastellati al Governo con Draghi. Ma rimane una domanda, che è il primo punto sollevato da De Masi: che modello proporrà agli elettori il Movimento 5 Stelle?
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.