Giornalista freelance. Si occupa di Germania e geopolitica.
La fine del congelamento merkeliano
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Nell’ultima settimana di onori dedicati alla Kanzlerin uscente Angela Merkel non sono mancati eccessi apologetici. Significativo è notare come, contemporaneamente, il nuovo Governo di Olaf Scholz abbia raccolto particolari entusiasmi e speranze in tutta Europa. Se nell’Ue tanti sono infatti abbastanza soddisfatti di quello che è stato il merkelismo, molti vogliono ora che Berlino proponga qualcosa di diverso: un europeismo con più visione, una qualche forma di coraggio politico e meno tentennamenti calcolati. L’interrogativo è se questa speranza abbia o meno fondamento: la Germania saprà assumere un nuovo ruolo in Europa?
La nuova coalizione Semaforo di Spd, Verdi e Fdp porta insieme tre europeismi diversi tra loro ma capaci di integrarsi. L’europeismo della Spd ha una lunga tradizione e si può immaginare che i socialdemocratici possano ora spingere per un maggiore attivismo europeo rispetto ai tempi dell’ultima Große Koalition. A dir poco significativo, inoltre, è che Olaf Scholz abbia vinto le elezioni nelle vesti del ministro delle Finanze che ha abbandonato temporaneamente il pareggio di bilancio e, soprattutto, ha contribuito al percorso dell’esecutivo Merkel verso il Next Generation EU. Lo slancio europeista dei Verdi è forse ancora più forte di quello della Spd ed è, almeno idealmente, il più deciso in tutto lo scenario politico della Germania. Anche la Fdp si è presentata alle ultime elezioni con un programma fortemente europeista, seppur muovendosi tra l’obiettivo degli Stati Uniti d’Europa e mai sopite prospettive di creare una Ue a due velocità.
Il Governo Scholz ha così formalmente riunito, per ora, tre diverse anime dell’europeismo tedesco (ed europeo): quella socialdemocratica, quella ambientalista e quella liberal-liberista. Il Koalitionsvertrag – il contratto di coalizione del nuovo esecutivo tedesco – conferma innanzitutto che “Gli sconvolgimenti che la Germania deve affrontare non possono essere superati solo a livello nazionale” e dichiara di voler puntare a “un ulteriore sviluppo (dell’Ue) per portare a uno Stato Federale Europeo”.
Bisognerà però vedere come la nuova alleanza tedesca si comporterà alla prova dei fatti. Da tempo il destino del Next Generation EU viene considerato una cartina di tornasole per valutare l’evoluzione di Berlino sul dossier Ue. Nel contratto di coalizione del governo Scholz viene confermata una specifica cautela tedesca rispetto alla mutualizzazione dei destini finanziari europei: “Il Next Generation EU (NGEU) è uno strumento limitato nel tempo e nell’importo, e noi vogliamo che il programma di ricostruzione porti a una ripresa rapida e lungimirante in tutta Europa dopo la crisi. Questo è anche nell’interesse fondamentale della Germania. Gli obiettivi qualitativi e le misure di riforma concordati nel quadro del NGEU devono essere rispettati. Faremo in modo che i rimborsi della NGEU non portino a tagli nei programmi e nei fondi dell’Ue.” La questione resta quindi molto aperta: senza specifiche chiusure ma senza chiare aperture.
Uno dei maggiori rischi per il dossier Ue è che il prossimo Governo tedesco trovi un equilibrio interno per applicare un’agenda di riforme sociali quanto mai necessarie in Germania (si vedano l’aumento del minimo salariale e le nuove politiche abitative) ma non abbia poi la parallela compattezza per perseguire un’europeizzazione degli stessi principi di solidarietà.
In questa dinamica la scelta di Christian Lindner (Fdp) come Ministro delle Finanze acquisisce effettivamente una particolare importanza. Se da un lato è controproducente credere alla vulgata che dipinge Lindner come un semplice falco dell’austerity vecchio stile, dall’altro non è da escludere che il leader dei liberal-liberisti concederà qualcosa di più nelle politiche sociali interne ma vorrà poi frenare eccessive aperture nelle politiche Ue. Una tendenza in parte già confermata dalla scelta da parte del Governo Scholz di Joachim Nagel come successore di Jens Weidmann alla guida della Bundesbank. Nagel è un economista con tessera socialdemocratica, ma è anche espressione della socialdemocrazia più ostile a qualsiasi avventurismo ultra-europeista nelle politiche finanziarie.
Fondamentale in questo scenario diventerebbe l’opera dei Verdi: è nelle loro mani che si trova il solo dossier che davvero potrà cambiare determinati assetti Ue. L’assegnazione al verde Robert Habeck di un superministero di Economia e Clima mostra come e quanto i Verdi avranno spazio per sviluppare la via tedesca agli ambiziosi progetti del Green Deal europeo. Anche qui bisognerà osservare una possibile interazione tra politiche nazionali tedesche ed europee: in Germania gli investimenti per la svolta ecologica ed energetica saranno (più o meno) sottratti allo Schuldenbremse (il freno al debito sospeso per la pandemia, ma che il Governo Semaforo vuole reinserire nel 2023). Fondamentale sarà capire se e con quale impatto questo modello potrà quindi essere applicato anche al Patto di Stabilità Ue.
Attraverso l’eccezionalità della svolta green, Berlino potrà eventualmente muoversi verso un’Ue più solidale, ma è chiaro che lo farà solo a patto di uno sforzo reale di tutti i partner europei per accelerare il Green Deal. Vale a dire per accelerare la strutturazione di una nuova rete e filiera di valore europea improntata sull’eco-produttivismo: un’accelerazione che permetta alla Germania (e all’Ue) di continuare a competere con i player extra-occidentali. Ovviamente, perché Berlino (e Francoforte) possano chiedere a tutti i partner europei di impegnarsi nel Green Deal, è necessario che innanzitutto la Germania stessa sappia dimostrare come le sue eccellenze industriali possano trasformarsi, rinnovarsi e valorizzarsi all’interno della grande svolta verde. Come ha riassunto la neo-ministra degli Esteri, la verde Annalena Baerbock: “È chiaro che il percorso verso gli 1,5 gradi (su cui limitare aumento temperature, nda) può essere raggiunto solo se i partner europei e internazionali si uniscono. Ecco perché abbiamo bisogno di un elemento attivo di politica estera per affrontare il cambiamento climatico. Le tecnologie che sviluppiamo in Germania nei prossimi anni devono essere esportate nel mondo.”
Tra i molteplici dettagli dell’accordo di Governo Spd-Verdi-Fdp c’è anche la dichiarata volontà di vincolare il Next Generation EU al rispetto dello stato di diritto. Dettaglio che porta sul tavolo le relazioni di Berlino con Ungheria e Polonia. Sul piano della realpolitik la tendenza del nuovo governo tedesco è intuibile: non preoccuparsi eccessivamente di Budapest ma cercare di trovare un nuovo dialogo con Varsavia. Oltre alla Francia, la Polonia è del resto il solo partner Ue apertamente citato nel Koalitionsvertrag del governo tedesco. Appena entrata in carica, Annalena Baerbock ha fatto un consueto primo viaggio a Parigi e si è poi subito diretta a Varsavia, con una simbolica visita al monumento al Milite Ignoto polacco. Traiettoria che non conferma solo l’irrinunciabile asse franco-tedesco, ma anche la volontà di rilanciare il Triangolo di Weimar. Anche il neo-Cancelliere Scholz si è recato prima in Francia e in Polonia, per poi raggiungere Roma e incontrare il premier italiano Draghi. Se Berlino saprà anche guardare di più verso sud, oltre che verso ovest ed est, l’Ue non potrà che beneficiarne.
L’attenzione di Berlino per Varsavia è intanto certamente legata alle nuove tensioni sul fronte orientale dell’Ue e della Nato. L’uso e abuso dei corpi e delle speranze di persone migranti da parte di Alexander Lukashenko è un’operazione con cui Minsk (e Mosca) vogliono incuneare discordia nell’asse tedesco-polacco e negli equilibri interni all’Ue. Più complessivamente, l’escalation in Europa orientale − in Bielorussia ma ora, soprattutto, in Ucraina − rende chiaro al governo tedesco quanto debba subito occuparsi di specifiche e complesse urgenze geopolitiche. In questo caso bisogna notare come sul dossier Russia si sia già intravista una potenziale differenza tra la cancelleria Scholz e il duo Baerbock-Habeck. I due ministri verdi sono infatti portatori di un’impostazione molto più neo-atlantista verso Mosca: impostazione non solo più combattiva rispetto al metodo merkeliano, ma anche rispetto alle cautele dello stesso Scholz. La domanda è se queste contraddizioni nel nuovo governo tedesco si svilupperanno in una dialettica propulsiva o se bloccheranno le posizioni di Berlino di fronte a un’escalation in cui l’intrecciarsi tra politica estera Ue e razionalità strategica Nato sta raggiungendo una nuova intensità.
Se il dossier Russia resta un’incognita per il ruolo della Germania in Europa, altrettanto aperto resta quello − forse ancora più decisivo − dei rapporti di Berlino con Pechino. La Cina è da 5 anni il primo partner nell’aggregato import-export della Germania. Più di 1/3 del volume di scambio Ue-Cina appartiene alla Germania. Come verrà gestito il futuro tedesco di questo equilibrio/squilibrio economico sempre più complesso? Sarà possibile anche qui un disallineamento tra una cancelleria Spd più conciliante e un ministero degli esteri (e dell’economia) verdi più combattivi? E quale ruolo potrà avere la Fdp, che è un partito molto critico con Pechino ma, al tempo stesso, anche molto attento agli interessi materiali del mondo industriale tedesco?
A questi interrogativi non ci sono ancora risposte pratiche, ma una cosa è certa: con la fine del congelamento geopolitico merkeliano, la direzione che la Germania sceglierà su questi dossier sarà sempre più importante per definire la politica estera dell’Ue. La ripetizione nel Koalitionsvertrag del Semaforo dell’introduzione della tanto agognata maggioranza qualificata per le decisioni Ue in politica estera è un ulteriore passaggio in questa direzione. Le prossime elezioni francesi, i rapporti tra Berlino-Varsavia e la stabilizzazione (o meno) dello scenario politico italiano definiranno un primo quadro dell’Ue del prossimo anno. Gli stimoli esterni − geopolitici e geoeconomici − che l’Unione Europea e la stessa Germania dovranno affrontare nel futuro prossimo saranno tali da rendere irrinunciabile una nuova visione politica dal respiro strategico. L’alternativa sarà invece un declino infine definitivo e irrecuperabile della capacità dell’Ue di essere un player credibile e globale. Al di là di quello che saprà fare internamente alla Germania, il successo o il fallimento del nuovo Governo Scholz dipenderà in ultima analisi dalla capacità di rispondere a una sfida che si svolgerà ben oltre i confini nazionali tedeschi.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
Germania, inizia il post-merkelismo
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Il post-merkelismo è iniziato con una nuova e decisiva frammentazione politica. Quello che prima la Cancelliera Merkel teneva e raccoglieva insieme nel suo centrismo, si è ora diviso. Il risultato sarà molto probabilmente un Governo tedesco formato per la prima volta da una coalizione a tre. Con la vittoria di misura della Spd (25,7%, +5,2 punti % rispetto al 2017) sulla Union Cdu-Csu (24,1%, -8,8 punti % rispetto al 2017) ci sarebbero ancora i numeri per un’ennesima Große Koalition. Ma nessuno vuole più questa opzione e tutto si sta muovendo verso una coalizione Ampel (Semaforo) di Spd, Verdi e liberali Fdp, con il socialdemocratico Olaf Scholz Cancelliere.
I socialdemocratici tedeschi, che fino a qualche mese prima delle urne erano dati terzi intorno al 15%, sono i veri vincitori delle elezioni tedesche. A loro si aggiungono, con motivazioni diverse, i Verdi e i liberali FDP.
Approfittando dei limiti del Cdu Armin Laschet e della verde Annalena Baerbock, quest’estate Scholz è riuscito a recuperare l’impensabile. Scholz si è di fatto posizionato come il candidato capace di essere contemporaneamente sia l’erede di Angela Merkel sia il rappresentante di un’agenda sociale di rilancio del Paese dopo la crisi Covid-19.
Con un ruolo tattico post-elettorale fondamentale e +5,9 punti % rispetto al 2017, il 26 settembre i Verdi hanno raccolto il 14,8% e non possono parlare di una sconfitta. Ma considerando l’hype mediatico nazionale e internazionale che aveva accompagnato la candidatura di Baerbock nella scorsa primavera, le elezioni hanno per i Grünen anche il sapore di un fallimento. Il veloce affiancamento a Baerbock del suo co-leader Habeck nei giorni successivi al voto dimostra un dibattito sulla leadership interno al partito. Dibattito che, però, non è praticamente visibile all’esterno, nel pieno stile pragmatico, funzionalista e quasi manageriale che da qualche anno hanno scelto i Grünen.
Come quarta forza, con l’11,5% dei voti, si è affermata Fdp. Il partito guidato da Christian Lindner ha sostanzialmente mantenuto le percentuali del 2017 (+ 0,8 punti %). Il risultato era però tutt’altro che scontato e i liberali si trovano ora nella condizione molto favorevole (ma carica di responsabilità) di diventare forse la sola forza di centro-destra nel prossimo Governo di Berlino.
Nelle tantissime analisi fatte in questi mesi sul lascito di Merkel ci sono stati toni talvolta celebrativi e altre volte più critici. Su un punto, tuttavia, è difficile discutere: le pessime condizioni in cui Merkel ha lasciato la Cdu. Un’analisi storica può affermare che, qualche anno fa, Merkel abbia attivamente deciso di sacrificare il successo del proprio partito per poter invece garantire stabilità a tutto il Paese, optando per un’impostazione ultra-istituzionale e post-partitica.
Non ci sono dubbi che la Cdu, con il peggior risultato dal 1949 a oggi, sia la grande sconfitta di queste elezioni. Nei giorni successivi al voto, il Kanzlerkandidat Laschet ha tentato di camuffare il disastro, provando disperatamente a spingere una coalizione Jamaika Union-Verdi-FDP. Presto è però riemersa la forte conflittualità interna ai cristiano-democratici e la posizione di Laschet si è mostrata in tutta la sua debolezza. Anche il partito sorella bavarese della Cdu, la Csu di Markus Söder, ha visto un risultato deludente: è ancora prima forza in Baviera, ma con il 31,7% (il peggior valore dal 1953).
L’opzione di una Cdu-Csu che vada ora all’opposizione rispetto a un Governo Ampel è carica di significato. Se da un lato c’è chi ritiene che quattro anni lontano dal Governo siano necessari per riorganizzare l’Union, dall’altro la sua assenza dalle istituzioni di Berlino potrà essere uno shock sistemico. L’interrogativo decisivo, inoltre, è se il futuro del partito sarà rinascere come centro-destra liberale o come qualcosa di più conservatore se non tendenzialmente identitario. La crisi in corso dell’egemonia Ppe in Europa rende questo interrogativo ancora più cruciale. Se il prossimo governo tedesco sarà una coalizione Spd-Verdi-Fdp, la Cdu-Csu si troverà nella complessa e scomoda posizione di dover fare opposizione accanto alla destra radicale AfD.
La seppur difficile tenuta della Csu in Baviera e della Cdu nel Land Baden-Württemberg e (in parte) in Nordreno-Vestfalia sono stati gli elementi che hanno permesso alla Union di non subire una sconfitta ancora più grave. Per il resto, se si guarda la mappa del voto tedesco, la Spd è stata in grado di ritornare primo partito in gran parte del centro, del nord e del nord-est del Paese. Un’affermazione che ricorda gli scenari di inizio anni 2000, cioè prima dell’arrivo di Angela Merkel.
Una differenza tra la mappa del voto di 15-20 anni fa e quella attuale è però certamente l’affermazione come primo partito di AfD negli stati centro-orientali Sassonia e Turingia. Privata della piattaforma retorica sul tema immigrazione, Alternative für Deutschland ha questa volta raccolto qualcosa di meno rispetto al 2017 (il 10,3%, -2,3 punti %), ma ha comunque conquistato il 19,1% dei voti nei cinque Land orientali (contro il solo 8,2% nel resto del paese). La territorializzazione in parte dell’Est tedesco di AfD è un dato di fatto ed è espressione di contraddizioni socio-culturali, politiche e geopolitiche con cui la Germania avrà ancora a che fare nei prossimi anni.
Da segnalare, infine, c’è anche il declino della sinistra radicale Linke, che ha perso metà dei propri voti rispetto a quattro anni fa. Grazie al premio legato alla conquista di tre mandati diretti, il partito è riuscito a entrare nel Bundestag nonostante non abbia, con il 4,9%, raggiunto la soglia di sbarramento del 5%. Nei Land orientali la Linke raccoglie ancora il 10% (rispetto al 3,6% nei Land occidentali), ma anche il tradizionale legame della Linke con l’Est della Germania sembra sempre più debole.
Oltre alle faglie territoriali, le elezioni tedesche hanno mostrato trend di voto generazionali molto specifici. Spd e Cdu sono state votate principalmente dalle fasce più anziane dell’elettorato. I giovani e i giovanissimi hanno invece votato soprattutto i Verdi e la Fdp. Due partiti che spesso sono in forte contrasto, ma che evidentemente condividono il sostegno di una nuova generazione che richiede l’abbandono definitivo del bipolarismo tedesco. La condivisione di questa responsabilità sta sicuramente convincendo le due leadership della necessità di un accordo. È sulla riuscita concreta di questa specie di kleine Koalition (piccola coalizione) verde-gialla che si basa la costruzione di un Governo Ampel. La SPD sembra al momento più che disposta a fare da socio di maggioranza che guidi un’intesa tra Verdi e Fdp.
I punti di contrasto tra i due (o tre) partiti restano: sulla politica fiscale, sull’accelerazione o meno della Energiewende (svolta energetica), sulla riforma del sistema di welfare Agenda 2010, sul finanziamento della digitalizzazione. Ma, vista la comune ambizione di andare al Governo, c’è ampio potenziale di compromesso. In un possibile esecutivo Ampel la Schuldenbremse (il freno al debito temporaneamente sospeso per la crisi Covid-19) verrà probabilmente reinserita, ma le spese green verranno comunque sostenute; il salario minimo (cavallo di battaglia della Spd) verrà alzato a €12, ma non verranno decise nuove tasse (come chiede la Fdp). L’interrogativo, a un certo punto, sarà però quanto siano materialmente sostenibili compromessi del genere.
Una cosa è certa: dossier epocali e decisivi come Ue, condivisione del debito in eurozona, Nato e difesa europea verranno invece inizialmente rinviati, in pieno stile merkeliano. Ma, diversamente che nell’era di Angela Merkel, il prossimo Governo di Berlino non potrà sottrarsi più ai molteplici e crescenti input da parte di partner e player internazionali.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di novembre/dicembre di eastwest.
Svezia, come è cambiato lo scenario politico
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Lo scorso 7 luglio Stefan Löfven, leader dei Socialdemokraterna (Socialdemocratici) svedesi, è riuscito a farsi nuovamente confermare premier con un margine di soli 3 voti nel Riksdag, il Parlamento unicamerale del Regno di Svezia. Löfven è così subito tornato al potere dopo che, due settimane prima, il Vänsterpartiet (Partito della Sinistra, sostenitore esterno del governo) aveva fatto scattare un voto di sfiducia per contrastare le politiche abitative dell’esecutivo. Il 22 agosto, però, il premier svedese ha annunciato ugualmente che da novembre si dimetterà dalla guida dei Socialdemocratici e, anche, dalla carica di Primo Ministro. Per l’11 settembre 2022 sono previste le nuove elezioni parlamentari svedesi e Löfven ha certamente ceduto a pressioni interne per tentare un nuovo corso socialdemocratico in vista delle consultazioni.
Si è così dimostrata decisiva la debolezza fisiologica degli ultimi Governi di Stoccolma, frutto fin dal 2014 di coalizioni di minoranza tra Socialdemokraterna e Miljöpartiet (Partito Verde). Löfven avrebbe dovuto affrontare nuovamente acque proibitive a dicembre, con l’approvazione del budget per il 2022. A inizio novembre il suo compito dovrebbe passare invece a un nuovo leader del partito che, se non ci sarà un’opposizione della maggioranza del Parlamento svedese, dovrebbe diventare anche il nuovo Primo Ministro. Tra i potenziali successori di Löfven si segnalano la Ministra delle Finanze Magdalena Andersson e la Ministra della Salute Lena Hallengren (ma anche il Ministro dell’Energia Anders Ygeman, il Ministro della Giustizia Morgan Johansson e il Ministro per l’Impresa Ibrahim Baylan).
Il primo esecutivo di Löfven
L’esecutivo rosso-verde di Löfven è stato fin dall’inizio il frutto di una costellazione politica frammentata e spogliata dei suoi assetti tradizionali. Storica espressione del cosiddetto “modello svedese”, alle ultime elezioni del 2018 i Socialdemocratici si sono affermati come maggior partito del Paese, ma hanno raccolto solo il 28,3% dei voti, cioè il loro peggior risultato fin dall’anno 1911. Complessivamente, un’ipotetica alleanza di centro-sinistra con il Partito Verde e con il Partito della Sinistra ha così raggiunto solo il 40,7% dei consensi. Sul fronte del centro-destra, i Moderaterna (i Moderati, liberal-conservatori e seconda forza del Paese) si sono invece presentati all’interno della loro tradizionale Alliansen (l’Alleanza) con il Centerpartiet (Partito di Centro liberal-agrario), i Kristdemokraterna (cristiano-democratici) e i Liberalerna (Partito dei Liberali), raccogliendo in tutto il 40,3% dei voti. Percentuali che mostrano perfettamente uno stallo da bipolarismo bloccato o, meglio, superato.
Cruciale per questo scenario è infatti divenuto un terzo attore politico: gli Sverigedemokraterna (Democratici Svedesi), partito della destra nazionalista, capace di veicolare l’opposizione a immigrazione e multiculturalismo di specifici segmenti della società svedese. Una formazione con cui, almeno fino alle elezioni del 2018, nessuno ha mai voluto collaborare. Con il loro miglior risultato elettorale di sempre, tre anni fa i Sverigedemokraterna sono diventati il terzo partito svedese, raggiungendo il 17,6% dei voti.
Nei mesi successivi alle elezioni del settembre 2018 sono state tentate molteplici opzioni per formare un Governo. Passaggio decisivo è stata d’un tratto la spregiudicata mossa di Ulf Kristersson, leader dei Moderati, che ha provato a formare un governo contando sul consenso esterno proprio dei Sverigedemokraterna, sfondando così il muro simbolico verso destra. L’operazione di Kristersson è stata però fallimentare e ha soltanto condotto alla rottura della coalizione di centro-destra Alliansen, a causa del rifiuto del Partito di Centro e dei Liberali di collaborare coi nazionalisti. Proprio il Partito di Centro e i Liberali hanno invece scelto nelle settimane successive un accordo con Löfven, affiancandosi al Partito della Sinistra in una posizione di non opposizione rispetto a un nuovo esecutivo di minoranza di Socialdemocratici e Partito Verde.
Il secondo esecutivo di Löfven
Nel gennaio 2019 è così nato il secondo esecutivo di Stefan Löfven. Per costruire la geometria necessaria a governare, il premier svedese ha tuttavia dovuto promettere molto al Partito di Centro e ai Liberali, con diverse concessioni sulle politiche di lavoro e, ad esempio, sulle regolamentazioni degli affitti. Concessioni che hanno reso fin da subito molto fragile il supporto esterno al Governo del Partito della Sinistra. La sfiducia del giugno 2021 non è stata quindi un evento inaspettato: come aveva promesso da tempo, la sinistra ha infatti reagito quando l’esecutivo ha infine cercato di modificare l’attuale sistema svedese di regolamentazione-contrattazione dei prezzi degli affitti delle abitazioni. Il tema abitativo, così come le tematiche sociali, le politiche del lavoro e quelle previdenziali, sono destinate a rendere complesse future formule di centro-sinistra.
Altre contraddizioni nel corpo politico svedese potranno emergere sulla questione ecologica, ad esempio in merito alla gestione delle foreste. La Svezia è ricoperta per il 67% da boschi e l’industria del legname resta un settore di primo piano (alla base della produzione di combustibili, prodotti cartacei, mobili, materiali da costruzione). La gestione delle aree forestali è però sempre più oggetto di dibattito politico. Il Partito Verde ha ad esempio accolto con favore la nuova strategia forestale dell’Ue (la EU forest strategy for 2030, volta a favorire la biodiversità, ridurre l’uso di legname, proteggere di più le aree boschive). Di diverso tenore è stata però la reazione del Partito di Centro, che è una forza politica da sempre legata all’agrarianismo e alle rivendicazioni delle aziende agricole-forestali. Il partito centrista-agrario si è così opposto apertamente alle nuove politiche forestali dell’Ue. Anche il tema delle foreste sarà quindi rilevante per le elezioni del 2022. Questo accadrà nonostante il Partito Verde non sia (e non sia mai stato) particolarmente forte in Svezia. I temi ecologici sono infatti da tempo trasversali nella costellazione politica del Paese.
Gli attuali sondaggi politici in Svezia sembrano di fatto confermare i risultati del 2018, con i Socialdemocratici seguiti dai Moderati e dai Sverigedemokraterna. L’interrogativo sarà se i Socialdemocratici, i Moderati o altri potranno trovare nuove formule di coalizione per governare il paese. La potenziale mutazione del mondo politico svedese è ancora più significativa se letta attraverso la lente geopolitica.
Dossier geopolitici
Paese europeo ma mai davvero europeista, esterno all’eurozona ma formalmente destinato a farne parte, la Svezia dovrà nei prossimi anni confrontarsi con dossier molto complessi. Territorialmente da sempre preoccupata per il potenziale straripare del colosso russo, Stoccolma ha iniziato ad analizzare con crescente attenzione gli sviluppi internazionali, soprattutto dopo la guerra in Ucraina. Il lungo e tortuoso iter dell’infrastruttura russo-tedesca Nord Stream è stato un altro snodo emblematico per gli interrogativi svedesi sul proprio ruolo transnazionale. Anche l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea ha creato per l’hard power politico-economico svedese una potenziale lacerazione di fronte a quelli che rimangono i due partner politico-commerciali decisivi: Londra e Berlino.
La Svezia osserva intanto con molta più attenzione di altri l’evoluzione russa nell’Artico e assorbe inevitabilmente le aspre conflittualità tra i tre Paesi baltici e Mosca. Pur non essendo membro della Nato, Stoccolma getta così sempre più spesso lo sguardo verso Washington, proponendosi e percependosi come player cruciale nel contenimento della Russia. Gli interrogativi per il prossimo Governo svedese non saranno quindi legati solo alla gestione di un mutato scenario politico interno, ma anche intrecciati a un equilibrio geopolitico in accelerata metamorfosi.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
Covid, salute senza frontiere con il Green Pass
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Nei corridoi dell’Unione europea c’è la preoccupazione che questo autunno si possa riaffacciare una disordinata sospensione della libera circolazione tra Paesi europei. Il worst case scenario, infatti, è che con il crescente diffondersi della variante delta, singoli paesi possano nuovamente ripiegare sulla chiusura dei confini. Il best case scenario, invece, è che nei mesi a venire funzioni in maniera ottimale lo strumento adottato anche per non interrompere più la libera circolazione europea: l’EUDCC – EU Digital COVID Certificate, noto soprattutto in Italia come Green Pass. Formalmente soluzione molto pratica, la certificazione verde si sta applicando tra molteplici complessità in termini di ritmo vaccinale, applicazioni nazionali, incognite mediche e risvolti geopolitici.
L’EUDCC – EU Digital COVID Certificate è stato introdotto ufficialmente nell’Unione europea lo scorso 1 luglio, anche per favorire al più presto il turismo interno all’Unione. La certificazione ha due effetti principali: permette maggior libertà nella vita quotidiana all’interno delle singole nazioni e permette facili spostamenti anche tra i vari Paesi Ue. Ai Paesi dell’Unione si aggiungono anche Norvegia, Islanda, Liechtenstein e Svizzera.
La certificazione segue quella che nei Paesi in lingua tedesca viene chiamata formula delle “3 G”: Geimpft (vaccinati), Getestet (testati) o Genesen (guariti). Il ruolo principale della certificazione, tuttavia, è progressivamente quello di attestare la prima “G”, cioè la vaccinazione con uno dei 4 vaccini approvati dall’EMA (European Medicines Agency): Vaxzevria (Oxford-AstraZeneca), Comirnaty (Pfizer-BioNTech), Spikevax (Moderna) o Janssen (Johnson & Johnson). I QR code della certificazione vengono generati dai singoli servizi sanitari nazionali e si basano su applicazioni con nomi diversi in ogni Paese, ma sono riconosciuti in tutta l’Ue. La centralizzazione dei dati sulle avvenute vaccinazioni non è completa, come dimostrano le difficoltà riscontrate dai cittadini che abbiano fatto prima e seconda dose in due Paesi Ue differenti. Particolarmente complessa è stata anche la trattazione di chi si è trovato tra la condizione di guarito e, quindi, vaccinato con una sola dose. In ciascun Paese sono emerse problematiche fisiologicamente legate alla gestione burocratica di un sistema complesso creato in tempi molto brevi.
Un’applicazione molto eterogenea
L’uso della certificazione verde nella regolamentazione della vita quotidiana nelle singole nazioni resta molto eterogeneo.
In Francia, Emmanuel Macron ha cercato di rendere il Paese avanguardia nella regolamentazione tramite il passe sanitaire, ma ha inizialmente incontrato molte resistenze da parte di una minoranza molto rumorosa di novax e gruppi contrari alla certificazione. Da agosto il passe è ora necessario per accedere a spazi pubblici (musei, cinema, teatri e luoghi con più di 50 persone), bar e ristoranti (anche all’aperto) e per poter viaggiare in treni a lunga percorrenza o voli aerei interni. Altri Paesi che stanno applicando estensivamente la richiesta della certificazione per accedere soprattutto a bar e ristoranti, palestre, musei, centri estetici e altri spazi comuni sono Austria, Danimarca, Portogallo, Grecia e Irlanda. In Italia, Lettonia e Lituania non c’è ancora obbligatorietà di Green Pass nei ristoranti e nei bar all’aperto. Molto meno rigorose sono per ora le regole in stati come Paesi Bassi, Ungheria, Cipro, Malta, Svezia, Bulgaria, Croazia. In Germania la certificazione è stata inizialmente applicata con la classica cautela federale, ma la regola delle “3G” è ora obbligatoria su scala nazionale. Qualcosa di simile è accaduto in Spagna, dove le iniziative sono state in principio dei Governi regionali. Lo scenario qui descritto è tuttavia in continua e frammentata mutazione e i singoli Stati europei stanno aggiornando spesso le proprie decisioni.
L’applicazione molto eterogenea dell’uso dei certificati nei vari Paesi è rilevante nella dimensione in cui regole differenti potrebbero eventualmente favorire in alcune aree il diffondersi dei contagi di una terza/quarta ondata, rendendo ancora più disorganico l’andamento dell’epidemia all’interno dell’Unione. Ancora più decisiva in questo senso potrà essere anche la persistente disomogeneità nei ritmi di vaccinazione all’interno dell’Ue. Secondo i dati ECDC, nella penultima settimana di agosto il tasso di vaccinazione totale tra tutti gli abitanti adulti (18+) dei paesi EU-EEA è del 75% (almeno una dose) e del 65% (due dosi). Le differenze tra i vari Paesi sono però significative, e non solo perché alcuni Paesi hanno attivamente scelto di concentrarsi più sulle prime dosi che sulle seconde. Paesi come Malta (95% abitanti 18+ completamente vaccinati), Belgio (82%) e Portogallo (81%) sono molto avanti nelle campagne vaccinali. Paesi come Italia, Francia e Germania hanno comunque vaccinato a ritmi molto elevati (e sono tutti nei pressi della soglia del 70% di completa vaccinazione dei cittadini adulti). Ci sono però Paesi Ue come Slovenia, Slovacchia, Croazia, Lettonia, Romania e Bulgaria che sono parzialmente o profondamente indietro nelle campagne di vaccinazione (tutti sotto al 50% di popolazione 18+ vaccinata completa, in Romania solo il 31% ha ricevuto due dosi e in Bulgaria meno del 20%).
Per questa differenza ci sono diverse motivazioni, tra cui un forte scetticismo e una maggiore avversione sociale verso i vaccini nei Paesi dell’Europa centro-orientale. Non va però ignorato come i due paesi in coda alla classifica dei vaccini siano anche tra quelli meno ricchi di tutta l’Unione. Mentre alcuni Paesi europei già parlano di terza dose, altri non hanno quindi ancora completato le prime fasi della campagna. Se a questo scenario si sovrappone l’incognita oggettiva di varianti Covid che non sono completamente contenute dalle vaccinazioni, lo strumento della certificazione unica europea necessiterà inevitabilmente di ulteriori aggiornamenti e sforzi di management.
La certificazione nel resto del mondo
Continuano inoltre a essere argomento di dibattito le laceranti differenze tra le certificazioni europee e lo status di altri continenti di fronte alla pandemia. Se Paesi come Giappone, Stati Uniti, Regno Unito, Israele e Australia hanno forme (più o meno elaborate) di certificazione e sarà eventualmente possibile creare dei coordinamenti futuri, un’ampia parte del resto del globo non possiede alcun Green Pass.
L’Oms − Organizzazione mondiale della sanità − mantiene significativamente una posizione ambigua sulle certificazioni anti-Covid e sul loro uso per gli spostamenti internazionali. Già a marzo, nel documento “Interim guidance for developing a Smart Vaccination Certificate”, l’Oms ha sottolineato che i certificati dovrebbero rispettare anche standard di equità e accessibilità. Come mostra un’infografica continuamente aggiornata del New York Times, l’82% delle dosi di vaccino finora somministrate sono andate ai Paesi ad alto e medio-alto reddito, mentre solo lo 0,3% delle dosi sono state somministrate a paesi a basso reddito. Nazioni capaci di far sentire la propria voce come l’India stanno da tempo spingendo per il riconoscimento da parte delle dogane Ue delle vaccinazioni con i vaccini indiani Covaxin e Covishield (quest’ultimo ora accettato da una parte dei paesi Ue). Simili richieste vengono fatte da altri paesi, ad esempio in merito al vaccino russo Sputnik. Ma il continente africano, che ha attualmente una copertura vaccinale inferiore al 7% della popolazione, si è invece espresso tramite l’African Union, dichiarando tout court che i certificati digitali anti-Covid favoriscono le diseguaglianze a lungo termine.
Contando che la pandemia resta fenomeno globale che pone sfide proibitive a tutta la popolazione umana, il Green Pass europeo si dimostra quindi strumento tanto necessario in termini di realpolitik sociale ed economica quanto complesso sul piano diplomatico e geopolitico.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
Ue e terre rare: il riciclo come via geopolitica
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Pochi dossier più di quello delle materie prime dimostrano l’attuale rilevanza della geopolitica, soprattutto se intesa come vincolo originario tra territorio e nazioni (o unioni di nazioni). La capacità di estrazione – lavorazione o di raccolta delle materie prime lega profondamente ogni player dell’economia mondiale al proprio territorio o alla propria agilità nel muoversi in altri territori. Com’è noto da tempo, l’esempio delle cosiddette terre rare e dei critical raw materials (CRM) è sempre più emblematico. Nei sogni di autonomia strategica e profondità geopolitica dell’Unione europea, il ruolo di terre rare e materiali critici è oggi diventato tanto simbolico quanto potenzialmente strutturante.
Autonomia strategica significa anche avere accesso sicuro e garantito a materiali decisivi ed essenziali nel campo dell’industria elettronica, aerospaziale, militare, robotica, così come a materiali irrinunciabili nella transizione elettronica dell’automotive e nella transizione energetica verso il fotovoltaico e l’eolico. Dalle batterie agli ioni di litio per le auto elettriche ai magneti per le turbine, i materiali critici saranno sempre più richiesti in Europa, con una crescita della domanda in accelerazione esponenziale.
Il monopolio cinese sulle terre rare
Il problema, fin troppo noto, è che l’ampia maggioranza di terre rare e CRM è però nelle mani del monopolio estrattivo e produttivo della Cina. Data l’incertezza del futuro geopolitico globale, questo scenario espone gli importatori Ue a una profonda volatilità e a una altrettanto profonda ricattabilità. La transizione ecologica su cui l’Ue ha scommesso per mantenere in futuro un ruolo primario nella competizione globale dipende da una nuova geometria produttiva inevitabilmente legata a terre rare e CRM.
Le cosiddette terre rare, di fatto 17 elementi chimici, non sono notoriamente troppo “rare”. Il problema è però la difficoltà dei relativi processi di estrazione e lavorazione. Alla prima fase di estrazione dal sottosuolo di circa 200 minerali che contengono le terre rare in quantità molto limitata, segue una fase ancora più complessa di isolamento ed estrazione delle terre rare dagli stessi minerali. Si tratta di un processo di vera e propria produzione delle terre rare verso la forma infine necessaria all’industria. Procedimento estremamente inquinante, che si svolge con modalità complesse, in cui si ricorre all’uso di acidi e solventi organici. Processo che, appunto, è da tempo nelle mani di Pechino, che si è strategicamente applicata per diventare leader nel settore grazie a una pianificazione pensata e programmata fin dagli anni ‘80.
Il risultato è che oggi la Cina non possiede solo oltre ⅓ delle risorse naturali di terre rare, ma gestisce anche il 90% della loro produzione finale. Anche impianti come la miniera estrattiva di Mountain Pass in California, fiore all’occhiello della nuova volontà d’indipendenza nel settore degli Stati Uniti, continua a spedire in Cina le sue oltre 50mila tonnellate di materiale estratto, perché solo lì è possibile compiere efficacemente la lavorazione finale. Un destino simile potrebbero avere gli impianti estrattivi previsti in territori (semi)europei come la Groenlandia. Tra le sole isole di raffinazione-produzione di terre rare al di fuori della Cina, si possono oggi citare quella malesiana di Kuantan e quella di Silmet in Estonia.
Lo scenario per i CRM è più diversificato, ma non differente: l’Europa dipende da terzi e la Cina ha ugualmente un ruolo dominante. Anche per questo motivo la Critical Raw Materials Alliance, che coordina fin dal 2008 Commissione Ue e gruppi industriali di settore, aggiorna la lista delle materie prime critiche con sempre maggiore attenzione. La lista è negli anni passata da 14 CRM nel 2011 a 20 nel 2014, da 27 nel 2017 a 30 nel 2020. La lista oggi contiene 30 materiali critici, soprattutto metalli. Proprio la recente aggiunta alla lista del già citato litio, così fondamentale per l’automotive in via di elettrificazione, ha reso più chiara anche al largo pubblico l’urgenza del dossier terre rare.
Gli investimenti in ricerca e sviluppo
Come risolvere la dipendenza europea nell’accesso a terre rare e CRM? Per l’Ue non esistono risposte semplici. Da un punto di vista politico, possono essere fatte tre scelte fondamentali, tutte vincolate alla volontà e disponibilità dell’Unione a investire massicciamente anche in ricerca e sviluppo.
La prima soluzione, già in corso, è la diversificazione delle fonti. Vale a dire il tentativo strategico di coltivare e favorire accordi commerciali più o meno al di fuori del monopolio cinese nel settore. Diversificazione delle fonti significa anche, soltanto dove possibile, investire maggiormente e con più razionalità nel mining sul territorio europeo. Quest’ultima opzione, tuttavia, necessita una particolare innovazione capace di rendere molto più sostenibili (socialmente ed ecologicamente) i processi di estrazione-lavorazione.
La seconda soluzione è interamente legata alla ricerca industriale: il possibile ricorso a materiali (o tecnologie) sostitutivi dell’uso o del ruolo industriale di alcune delle terre rare o CRM. In questo senso non potranno mancare molte sorprese in futuro, ma lo scenario resta fisiologicamente molto incerto.
La terza soluzione è invece l’inserimento delle terre rare e dei CRM nell’economia circolare europea. Vale a dire il riciclo di terre rare e materiali critici tramite la lavorazione di rifiuti elettronici/tecnologici. Si tratta di un’operazione molto complessa e oggi molto dispendiosa, tanto che a livello globale il riciclo da rifiuti delle terre rare è complessivamente fermo all’1% della produzione. Per quanto riguarda i CRM, invece, ci sono materiali come il tungsteno, il cobalto e il platino che hanno un alto tasso di riciclo, mentre altri vengono riciclati molto meno oppure sono praticamente impossibili da riciclare. Quello che è certo è che, al di là dei limiti oggettivi, in Europa c’è oggi un patrimonio di rifiuti elettronici/tecnologici che non viene ancora minimamente sfruttato nel suo potenziale.
L’Ue e il riciclo dei materiali critici
L’Unione Europea è attualmente considerata un laboratorio ottimale per provare a spingere il riciclo dei materiali più critici: l’Ue è infatti realtà sovranazionale abbastanza grande per distribuire su tutto il territorio la complessa filiera necessaria a un riciclo diffuso. Un ecosistema di economia circolare che possa partire da numerosi centri per la raccolta e suddivisione dei rifiuti elettronici e tecnologici, passare per uno strato intermedio di impianti di trattamento primario e disassemblaggio dei rifiuti e giungere infine a pochi ma specifici centri specializzati per l’estrazione finale di ridotti ma preziosi quantitativi di terre rare e CRM.
Una simile struttura sarebbe uno scatto a dir poco vincente per il futuro economico del sistema Ue. Restano però tuttora aperti diversi interrogativi. Il primo è fino a che punto potrà funzionare una legislazione che costringa le aziende a impegnarsi per il riciclo di materiali critici e le disincentivi invece dallo smaltimento dei rifiuti in outsourcing (soluzione a oggi largamente più economica). Il secondo è come coinvolgere al meglio le stesse aziende produttrici dei prodotti contenenti terre rare e CRM, visto che queste hanno spesso l’accesso esclusivo ai dati relativi a quantità e tipologia di materiali contenuti nei loro prodotti. Il terzo interrogativo è quale sia davvero la finestra di perdita economica inizialmente sostenibile a creare una struttura di riciclo che diventi poi progressivamente sempre più conveniente e d’avanguardia sul lungo periodo.
Inserire la fragilità dell’approvvigionamento di terre rare e CRM nel piano per l’economia circolare europea potrebbe essere in futuro un pilastro del Green Deal europeo, un passaggio capace di dare davvero uno spessore geopolitico alla realpolitik dell’Ue. Un fallimento negli attuali tentativi di rendere meno problematico l’accesso a materiali critici, invece, confermerebbe proprio i limiti geopolitici dell’Unione europea di fronte alla frammentazione conflittuale del nuovo mondo multipolare.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di luglio/agosto di eastwest.