Sahel, dal disimpegno francese all’ingresso della Russia
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Mariupol, Nikolaev, Leopoli, Bucha, il Donbass. Chi conosceva questi nomi fino a poche settimane fa? Sembravano appartenere a un mondo che molti mai avrebbero incrociato. Luoghi che la guerra della Russia in Ucraina ha reso invece una consuetudine per tutti noi.
Non ci sarà presto una guerra altrettanto clamorosa da rendere nuovi luoghi così familiari al grande pubblico come è stato per l’Ucraina. Ma c’è un’altra regione del mondo che si affaccerà sempre di più nel racconto dei destini italiani ed europei: è il Sahel. La grande fascia di Paesi africani semi-desertici che si stende immediatamente sotto il Nord Africa e che per mille motivi da anni è diventata un confine pericoloso dell’Europa e soprattutto dell’Italia.
Anche questa regione vede un protagonista geopolitico principale che è diventato il primo pericolo per la sicurezza europea, ovvero la Russia di Vladimir Putin con le sue manovre politico-militari. Mosca è entrata nel Sahel ormai da anni, e la sua presenza non è massiccia come quella ai confini dell’ex Urss, ma è profonda, ben costruita nel tempo e soprattutto minacciosa per l’Europa.
Partiamo da quanto i russi e gli europei hanno trovato nel Sahel in questi anni. Negli ultimi mesi la regione è stata definita la “fascia del colpi di Stato”: due golpe militari in Mali in pochi mesi. Uno in Guinea Conakry, poi in Ciad, per non parlare del Sudan (che è ai margini del Sahel) e poi l’ultimo golpe, quello del gennaio 2022 in Burkina Faso. Tutta l’area del Sahel è in evoluzione clamorosa. Con una decisione drammatica e simbolica la Francia è stata costretta a reagire dopo le scelte della giunta militare del Mali: Parigi ha deciso di ritirare la sua missione militare antiterrorismo jihadista quando la giunta guidata dal colonnello Assimi Goita prima ha assoldato i mercenari russi della Wagner per combattere i terroristi, e poi ha espulso l’ambasciatore francese dopo una serie di dichiarazioni aggressive del ministro degli Esteri di Parigi Le Drian. Esce Parigi, entra Mosca.
Iniziamo riassumendo alcuni elementi sotto gli occhi di tutti: nel Sahel (Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad), in tutte le ex colonie francesi da anni sono in crescita sentimenti e movimenti politici antifrancesi. Queste difficoltà sono state l’occasione per la Russia di mettere in piedi un suo progetto di espansione politica costruito con pazienza certosina nel tempo.
Per ragioni dovute alle difficoltà delle operazioni militari contro i jihadisti e alla crescita di una sorta di “populismo africano”, le deboli e corrotte leadership democratiche della regione sono entrate in crisi. Ovunque i militari si sono presentati come la “soluzione”, e così vengono percepiti dalle popolazioni: la risposta possibile alla povertà, alla siccità, alla minaccia terrorista. L’uomo o la giunta forte è la soluzione alternativa a una “risposta della democrazia” che ha portato al potere gruppi corrotti ma soprattutto incapaci.
Ovunque, ma soprattutto in Mali, i denominatori comuni sono questi. Primo elemento: l’insuccesso quasi definitivo dell’opzione militare per sconfiggere il terrorismo/banditismo jihadista. Con la Francia che da anni ha schierato militari nella regione e ha coordinato gli eserciti africani alleati per combattere i terroristi. Ma ha poi perso lucidità nel capire cosa accadeva in quei paesi. Ha perso progressivamente capacità di reagire alle sfide (non bastava una risposta militare, era necessaria una risposta politica alle richieste e alle proteste delle popolazioni). E adesso è costretta a ritirare i suoi soldati dal Mali, lo stato in cui più forte era la presenza militare anti jihadisti.
Secondo elemento: sobillata da una vigorosa penetrazione della Russia, l’insofferenza delle popolazioni è salita a un livello di guardia. Da anni giravano anche in Europa video di manifestazioni di piazza organizzate da gruppi africani filorussi in Niger, in Mali, in Burkina. Le foto di Putin, la bandiera russa, i cartelloni con “viva l’amicizia con la Russia” erano esibiti da manifestanti ben organizzati. Agenti russi, lavorando molto anche su Facebook e sui social, frequentatissimi in tutta la regione, hanno aiutato a consolidare una corrente potente contro il post-colonialismo francese.
Terzo elemento, l’ingresso intelligente ed efficace della Russia, con i contractors della Wagner, ma anche con diplomatici raffinatissimi che arrivano direttamente da Mosca nelle capitali della regione. Il tutto all’interno di un disegno politico apparentemente ardito, ma che Mosca finora ha seguito con efficacia.
La Francia non ha capito che l’operazione militare contro i jihadisti aveva costi crescenti fra la popolazione, per le famiglie dei militari degli eserciti locali vittime dei terroristi. La Russia è stata abile nel fomentare in quelle popolazioni (innanzitutto di Mali e Burkina) un sentimento antifrancese e anticoloniale sempre più potente. Un sentimento che porta la folla in strada ad esultare dopo ogni colpo di Stato militare. “Via la Francia, viva la Russia” scrivono sui loro cartelli a Bamako o Ouagadougou.
Da quando nell’agosto del 2021 i militari in Mali hanno messo in piedi un secondo colpo di Stato dopo quello dell’agosto 2020 che aveva lasciato in piedi alcune strutture democratiche, la giunta militare ha stretto in maniera totale i legami con la Russia. Di recente un evento drammatico ha visto Mali e Russia diventare di fatto complici in quella che è stata la peggiore strage di civili nel paese da quando una decina di anni fa è partita la sfida dei jihadisti. Nella cittadina di Moura, 10 mila abitanti al centro del paese, le Forze armate del Mali (Fama) e i miliziani della Wagner russa per 3 giorni hanno circondato case e capanne e hanno condotto rastrellamenti e uccisioni sommarie che avrebbero fatto fra i 300 e i 500 morti.
La Francia ha portato immediatamente il caso di Moura al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, chiedendo l’apertura di una inchiesta indipendente. Ma Russia e Cina hanno messo il veto a una decisione del Consiglio. Confermando che anche in Africa l’alleanza fra Mosca e Pechino è molto solida e minaccia di fare molta strada. Un diplomatico dell’Unione europea nella regione fa notare che “proprio nel Sahel, e in generale in Africa, Mosca e Pechino si completano in maniera efficace. I cinesi arrivano con soldi e finanziamenti pronta cassa, comprano tutto. I russi arrivano col sostegno militare: insieme i due paesi lavoreranno efficacemente.”
Le dinamiche interne alla enorme regione del Sahel assumono una dimensione ancora più rilevante se torniamo a metterle in relazione con quanto è accaduto in Ucraina. L’invasione russa in Ucraina è stata un’accelerazione, in un senso e nell’altro: da una parte i paesi europei si sono uniti sempre di più all’America, agli altri Stati “occidentali” nel mondo (Australia, Giappone, Taiwan) contro le politiche di Putin. Ma dall’altro la guerra ha fatto emergere ancora di più il sentimento antifrancese nel Sahel che diventa antieuropeo e antioccidentale, e che si diffonde velocemente in molti paesi e fra molti leader politici in tutta l’Africa.
C’è un famoso politico radicale di sinistra in Sudafrica, Julius Malema, un militante che arringa i suoi sostenitori con il basco rosso da combattente antioccidentale. “Noi diciamo agli americani che non siamo più con loro e con la Nato. Noi siamo con la Russia e vogliamo ringraziare la Russia. Date una lezione alla Nato! Noi abbiamo bisogno di un nuovo ordine mondiale, siamo stanchi di ricevere ordini dagli americani”. Kemi Seba, un altro militante panafricano franco-beniniano, dice che “Putin vuole recuperare il terreno perduto. Sulle sue mani non c’è il sangue della schiavitù e neppure quello della colonizzazione. Io preferisco Putin, anche se non è il mio messia, a tutti i presidenti occidentali e a tutti i maledetti, corrotti presidenti africani”.
Ovunque su YouTube si moltiplicano canali che non fanno altro che colpire la Francia, l’America, l’Occidente. E l’influenza russa in Mali, in Burkina Faso, in tutto il Sahel è in espansione. L’Africa guarda con benevolenza alla Russia di Putin. Tutti capiamo che anche per questo il Sahel sarà più importante che mai. Impareremo i nomi di nuovi luoghi sulle carte della geopolitica.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
Libia, la guerra nascosta
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
È trascorso quasi un anno da quando in Libia la milizia del generale in pensione Khalifa Haftar ha iniziato il suo assedio a Tripoli. Per mesi le parti sono rimaste sostanzialmente in stallo, con Haftar che provava a bombardare le milizie che difendono Tripoli. E la coalizione che difende il Presidente Fayez Serraj impegnata a proteggere la città. Lo scopo dichiarato di Haftar era entrare nella capitale, per portare al collasso il “Governo di accordo nazionale”. Gli assediati, ovvero il debole esercito ufficiale libico ma soprattutto le potenti milizie di Tripoli, impegnati a difendere la città e i centri del potere tripolino.
Durante il 2019 la battaglia militare e quella politica si sono evolute in maniera anche molto decisa. Ma l’opinione pubblica, gli osservatori distratti della crisi libica hanno come l’idea che tutto sia un continuum, senza nessuna vera evoluzione, senza cambiamenti. Uno stallo fastidioso, che quindi può essere tranquillamente trascurato.
Non è assolutamente così: nella sua apparente ripetitività, la guerra civile di Libia è cambiata di settimana in settimana. E oggi è qualcosa di profondamente diverso. E più pericoloso.
Partiamo da una domanda che per lungo tempo molti si sono posti: come è possibile che non si siano schierate più massicciamente in battaglia le potenti milizie di Misurata, il nucleo fondante di “Bunian al Marsus”? Perché la potente coalizione che sconfisse l’Isis e lo scacciò da Sirte nell’estate del 2016 non è impegnata al 100%?
E come è possibile che gli Stati che appoggiarono pesantemente quell’offensiva anti-terrorista (Stati Uniti in testa) non siano stati così decisi nel respingere l’assalto a Tripoli e a quelle stesse milizie che combattono il terrorismo jihadista in Libia?
Non c’è una risposta chiara, ci sono mille interpretazioni. La mobilitazione parziale della città di Misurata potrebbe essere dovuta a due fattori. Innanzitutto, la necessità di preservare le forze, gli armamenti e anche i finanziamenti necessari a condurre una nuova guerra. La lunga battaglia di Sirte è costata almeno 2.000 morti a Misurata e alcune migliaia di feriti. Misurata combatterà al 100% soltanto quando gli attacchi saranno portati direttamente alla città, ai suoi interessi diretti.
Ma un secondo livello di interpretazione è quello delle differenze fra il Governo di Tripoli e le varie milizie di Misurata (a loro volta divise al loro interno). Durante le lunghe fasi di quest’ultima guerra civile di Libia più volte, quando Haftar sembrava in difficoltà, molti avevano previsto un regolamento di conti fra le milizie di Misurata e il Governo di Tripoli. Uno scontro della città guerriera con le altre milizie tripoline a cui Serraj è costretto ad appoggiarsi. Tutto questo rende quindi la coalizione che difende Tripoli e combatte Haftar molto incerta: è la minaccia comune di Haftar a tenerli uniti. Il giorno stesso in cui Haftar dovesse scomparire, lo scontro probabilmente si aprirebbe fra le fazioni di Misurata e quelle di Tripoli, e all’interno degli stessi due campi, che non sono affatto omogenei.
Dal 4 aprile in poi, dal giorno in cui Haftar iniziò a cannoneggiare la periferia di Tripoli, la terza guerra civile di Libia ha cambiato volto. La “terminologia” libica considera “prima” guerra civile la rivolta che nel 2011 portò alla rimozione e all’uccisione di Muhammar Gheddafi. La “seconda” è invece quella del 2014, quando una serie di milizie islamiste di fatto presero il potere a Tripoli, costrinsero il Parlamento a rifugiarsi all’est e in qualche modo posero le premesse per la comparsa in Libia del generale Haftar.
L’ex compagno d’armi di Muhammar Gheddafi, catturato in Ciad nel 1987 durante l’offensiva libica che i ciadiani fermarono con l’aiuto di francesi e americani, fu “acquisito” dalla Cia e per 30 anni ha vissuto negli Stati Uniti. Nel 2011 decise di rientrare in Libia per conquistarsi un ruolo, cosa che è riuscito a fare proprio dal 2014, quando ha preso in mano la bandiera della lotta contro le formazioni islamiste.
Nei mesi, Haftar è riuscito a prendere il controllo di Tobruk, Bengasi e delle principali aree della Cirenaica. Per mesi ha attaccato, devastandoli, i quartieri islamisti di Bengasi ed è riuscito a conquistare anche il controllo di Derna, che era stata controllata da forze islamiste fra loro rivali (l’Isis contro la “shura” dei mujahiddin della città).
Avendo completato le sue battaglie nell’est, durante tutto il 2018 Haftar si è dedicato a una progressione verso sud. In questo è stato appoggiato militarmente in maniera molto aperta non solo dall’Egitto e dagli Emirati, ma anche dalla Francia. La manovra verso sud e poi verso ovest è servita ad Haftar a fare quello che ha fatto il 3 aprile: annunciare l’assalto a Tripoli per liberarla dai “terroristi”.
Nelle prime settimane di guerra Haftar è riuscito ad arrivare fino alla periferia della città, avendo consolidato due basi molto importanti per la sua avanzata. Innanzitutto, la città di Tarhuna, a sud-est, dove ha trovato l’alleanza con la milizia dei due potenti fratelli Kani. Poi invece, più vicino a Tripoli, la cittadina di Gharyan, in direzione sud, dopo Al Aziziya.
Alla fine di giugno 2019 la riconquista di Gharyan da parte del Governo di Tripoli ha tolto ad Haftar un’importante base logistica per sostenere l’assalto alla capitale. Per settimane si è parlato di un piano per l’assalto di Tripoli anche a Tarhuna, un attacco che non si è mai materializzato. E anzi da luglio in poi, progressivamente, Haftar ha ricevuto quel sostegno logistico-militare che gli ha permesso di arrivare nell’autunno 2019 in una posizione di forza consolidata.
Già da metà aprile Haftar aveva avuto droni e supporto aereo innanzitutto dagli Emirati Arabi Uniti; con aerei senza pilota cinesi, da aeroporti nell’est ma anche nell’ovest della Libia gli Emiratini erano capaci di colpire le truppe di Tripoli e la stessa periferia della città.
Da metà maggio, Tripoli ha risposto schierando droni di fabbricazione turca, manovrati prevedibilmente da personale militare turco fatto arrivare in Libia. Nel frattempo, nella regione della capitale i bombardamenti aerei venivano messi a segno direttamente da caccia F-16 emiratini e forse anche egiziani, confermando l’altissimo livello del coinvolgimento militare degli alleati di Haftar.
Per mesi, nonostante tutto questo, Haftar è riuscito a fare pochi progressi. Con i finanziamenti sauditi ed emiratini, il generale della Cirenaica è riuscito ad ovviare a un problema notevole, la mancanza di soldati “a terra”. La sua milizia ha arruolato mercenari sudanesi e ciadiani, che sono stati la sua carne da cannone al fronte di Tripoli.
Da ottobre però l’equilibrio militare e anche politico è tornato a muoversi a favore del generale in pensione. Sono comparsi sulla scena nuovi personaggi misteriosi, che nessuno ancora ha visto ma che hanno lasciato il segno della loro azione militare. Sono i mercenari russi della “Wagner”, la compagnia privata guidata dal Evgenij Prigozhin, un uomo molto vicino al Presidente russo Vladimir Putin. I “contractor” della Wagner hanno coordinato meglio le azioni militari della milizia di Haftar, i bombardamenti, gli attacchi terrestri. Ma soprattutto hanno rafforzato il sistema di comando e controllo dei droni e hanno schierato i sistemi anti aerei che in 2 giorni a novembre hanno abbattuto un drone italiano e uno americano.
Schierati nell’area di Tripoli a settembre, da metà novembre, secondo molte fonti, i Russi (che sono poi anche Bielorussi, Ucraini e di altre nazionalità ex Urss) erano arrivati addirittura a 1000 unità. Un vero cambio nell’equilibrio militare della guerra civile. Ma da novembre è stata chiara una cosa: l’obiettivo di Haftar non è soltanto militare, ma soprattutto politico. La sua operazione militare non necessariamente punta alla conquista di Tripoli, ma a condurre azioni (come bombardamenti di Ministeri, dell’aeroporto cittadino di Mitiga) che portino alla destabilizzazione e al crollo politico del Governo Serraj.
L’abbattimento del drone italiano non ha provocato una reazione adeguata del Governo di Roma. Nonostante la milizia di Haftar abbia rivendicato il colpo, sbeffeggiando come al solito l’Italia, il Governo Conte ha provato a nascondere la questione, attendendo i risultati di una “commissione di inchiesta” istituita dalla Difesa. Ma l’abbattimento del drone americano ha provocato una reazione furiosa degli americani, che chiedono conto dell’operazione militare. Il problema è che ancora a dicembre gli Stati Uniti erano divisi sul come affrontare il tema Haftar. Mentre Pentagono e Dipartimento di Stato vedono il generale della Cirenaica come una testa di legno degli Egiziani e soprattutto dei Russi, la presidenza (e Donald Trump in persona) considera Haftar un protetto del Presidente egiziano Sisi, quello che Trump chiama “il mio dittatore preferito”.
In mancanza di una chiara reazione americana, il vuoto è stato colmato dalla Turchia di Recep Tayyip Erdogan. Il Presidente turco ha accelerato i tempi, ha firmato un accordo con il Gna che gli permetterà di schierare soldati in Libia a richiesta di Serraj. In questo modo il coinvolgimento diretto, sul terreno, di eserciti stranieri in Libia sarà sempre più evidente e concreto. La Libia ha già tutte le potenzialità per diventare una nuova Siria. Giusto di fronte alle coste della Sicilia.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
La lunga notte
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Potenze regionali e globali misurano in Libia le loro rivalità, ambizioni e incapacità: un campo minato dallo scontro del mondo sunnita diviso e armato
Un’estate di guerra per la Libia che non riesce a ritrovare una sua strada verso la pace. Da quando nella notte del 3 aprile il generale Khalifa Haftar ha lanciato l’attacco della sua milizia alla capitale Tripoli, il Paese che fu di Muhammar Gheddafi vive una nuova fase della sua lunga guerra civile.
Lo scontro vede schierata da una parte la Libyan National Army, la milizia dell’est libico che ormai da 3 anni, con l’appoggio dell’Egitto, degli Emirati e della Francia, si è trasformata in qualcosa di molto simile all’esercito egiziano. Ovvero una forza armata che governa e amministra buona parte del territorio della Cirenaica, provando a replicare quel sistema di Governo egiziano che da qualche anno si è consolidato al Cairo con la successione di Abdel Fatah al Sisi al Governo di Hosni Mubarak.
Dall’altra parte c’è il Governo di Fayez Serraj, un architetto di Tripoli scelto nella riunione Onu di Skirat del dicembre 2015. Un esponente della società civile che grazie alla selezione dell’Onu e alla sua capacità di navigazione di questi ultimi mesi, fra mille difficoltà è riuscito a mandare avanti il Governo basato in Tripolitania. Con il sostegno determinante innanzitutto delle 4 grandi milizie che controllano la capitale, ma poi con l’appoggio politico e militare dei gruppi politici e delle milizie della città di Misurata, la più combattiva fra le città libiche.
Un Governo, quello di Fayez Serraj, che contro la milizia di Haftar è riuscito a mobilitare la popolazione e le milizie che lo appoggiano con un messaggio di fondo: non vogliamo un nuovo dittatore, non accetteremo che Haftar diventi il nuovo “uomo forte” della Libia come il colonnello lo è stato per 41 anni.
Nella notte del 3 aprile il generale della Cirenaica lanciò l’assalto a Tripoli dicendo di avere intenzione di ripulire la città dai “gruppi terroristici”. Un messaggio di propaganda, che però non è del tutto slegato dalla realtà. In Tripolitania il Governo Serraj dalla nascita non solo è stato costretto ad appoggiarsi alle milizie meno politicizzate, quelle interessate soltanto alla spartizione del bottino come può essere considerata la Tripoli Revolutionaries Brigade dell’ex capitano di polizia Hajtam Tajuri. La differenza la fanno le milizie islamiste, gli eredi di gruppi come Ansar Al Sharja o come formazioni che schierano ex combattenti islamici che negli Anni Ottanta volarono in Afghanistan per combattere contro il regime sostenuto dai sovietici.
Gli eredi di quei militanti islamici nei mesi di aprile, maggio e giugno hanno ritrovato spazio a Tripoli: Serraj è stato costretto ad arruolare chiunque fosse pronto a combattere contro le truppe di Haftar. Quando Haftar quindi denunzia il fatto che ci sono estremisti integralisti a difendere Tripoli ha ragione. Ma chi ha reso questi estremisti così decisivi a Tripoli? Chi ha restituito loro centralità, proprio mentre venivano progressivamente marginalizzati dal Ministro dell’Interno Fathi Bishaga? Lo stesso Haftar con il suo attacco a Tripoli.
A metà giugno il Presidente Serraj ha provato a uscire se non altro dal pantano politico in cui il suo Governo si ritrovava. Il solo, debole appoggio formale degli stati delle Nazioni Unite non basta al Governo di Tripoli: Serraj ha bisogno di armi per difendersi (e quelle gliele forniscono la Turchia e il Qatar), ma anche di un appoggio politico più forte per emarginare Haftar e depotenziare il suo tentativo. Il 16 giugno Serraj con un discorso e una conferenza stampa ha riproposto la formula della “grande assemblea” libica per far ripartire il negoziato politico. Un’assemblea, un negoziato a cui però questa volta non vuole vedere il generale Haftar. Per Serraj va convocato un “forum libico” aperto a tutte le parti che si riconoscono nei principi dello Stato di diritto. Serraj parla di “multaqa“, un’assemblea libica, “in coordinamento con la missione dell’Onu, con i rappresentanti di tutti gli attori nazionali e componenti della società libica a favore di una soluzione pacifica e democratica del conflitto”. Mentre ha confermato che non vede nessuno spazio “per chi sostiene tirannia e dittatura”, ovvero Khalifa Haftar, considerato da Tripoli un criminale di guerra.
La “multaqa” di Serraj nella sostanza sembra essere una riedizione della Grande Assemblea che l’Onu aveva convocato per il 14/15 aprile a Ghadames, e che naturalmente è saltata dopo l’attacco militare di Haftar a Tripoli. Il Presidente libico insiste nel sostenere che la mobilitazione del suo Governo di Accordo Nazionale “ha dissolto le illusioni dell’aggressore” di riuscire a conquistare la capitale in pochi giorni. Ma lo stesso Governo di Tripoli per varie ragioni non riesce a respingere militarmente l’esercito di Haftar verso l’est, verso le postazioni da cui i soldati avversari sono arrivati.
“Io non mi siederò di nuovo a trattare con quella persona perché quello che ha fatto negli ultimi mesi dimostra che non può essere un partner nel processo di pace”, ha detto Serraj a metà giugno, anche dopo aver fatto un’apertura alle formazioni, ai leader della Cirenaica che potrebbero avere interesse a un dialogo con Tripoli. L’ultimo incontro fra Serraj e Haftar era stato quello del febbraio 2019 ad Abu Dhabi, un incontro in cui le potenze straniere che sono dietro i due rivali avevano provato a premere per un accordo di spartizione del potere fra i due leader. “Adesso tutti hanno capito che Haftar voleva solo guadagnare tempo per preparare il suo attacco a tradimento a Tripoli”, ha spiegato poi il Presidente libico.
Molti prevedono che la mossa di Serraj, l’offerta di un nuovo dialogo politico, sia una scelta destinata al fallimento. Con Haftar che sostanzialmente continuerà a cingere d’assedio Tripoli, manovrando forze militari che in ogni caso continueranno ad essere pagate e appoggiate militarmente soprattutto da Egitto ed Emirati. Per cui il Presidente di Tripoli se vorrà vedere un qualche successo nella sua iniziativa “di pace” dovrà rafforzarla con qualche successo militare che allontani le truppe di Haftar da Tripoli. O con nuovo sostegno politico alla sua causa da parte dei Paesi delle Nazioni Unite che sino ad oggi sono rimasti a guardare oppure hanno sostenuto più o meno segretamente Haftar.
Il riferimento è innanzitutto agli Stati Uniti e poi a buona parte degli Stati europei, compresa l’Italia, che pur avendo contribuito a creare il Governo di Accordo Nazionale di Tripoli, nel momento dello scontro militare si sono tenuti da parte.
Dagli Stati Uniti in aprile è arrivata la sorpresa più controversa fra tutte le mosse politiche attorno alla battaglia per Tripoli. Dopo una visita alla Casa Bianca del Presidente egiziano Sisi, il Presidente Trump il 15 aprile alza il telefono, chiama Haftar e gli manifesta sostegno per l’azione “contro il terrorismo” che il leader libico sta mettendo in atto. Un messaggio ambiguo, che viene reso noto in maniera abbastanza confusa, sicuramente da qualcuno dei lobbisti che Haftar ha ingaggiato a Washington per difendere le sue ragioni. La telefonata e le parole di Trump non sono in linea con quanto il Dipartimento di Stato e il Pentagono vanno dicendo dall’inizio della guerra, ovvero che sia necessario un cessate-il-fuoco e che non c’è soluzione militare allo scontro in Libia. Ma da quel momento in poi la parte di Haftar riceve il potente sostegno di una amministrazione che appare sempre più confusa su molti dei dossieri mediorientali, e che nella sua indecisione permette ai player regionali di regolare fra di loro conti che in passato sarebbero stati messi in ordine soltanto da Washington.
Fra le spiegazioni che molti analisti si sono dati a questo supporto di Trump per Haftar c’è innanzitutto il lavoro che egiziani e sauditi hanno compiuto per convincere il capo della Casa Bianca. In questi mesi Trump ha un obiettivo principale in Medio Oriente, quello di far passare il piano “accordo del secolo” (“deal of the century”, DoC) che ha fatto preparare al suo genero Jared Kushner per regolare la questione palestinese, favorendo la stabilizzazione di Israele nella West Bank. Per realizzare il “DoC” Trump avrà bisogno dei fondi sauditi ed emiratini e dell’azione di persuasione dell’intelligence egiziana, che è molto presente fra i palestinesi, sia in Cisgiordania che a Gaza. Ecco un’altra ragione per cui Trump è stato convinto a dare ragione a Sisi e al principe Mohammed bin Zayed, l’uomo forte degli Emirati, quando gli hanno suggerito di sostenere il tentativo di Haftar in Libia.
Per l’Egitto avere Haftar non solo in Cirenaica ma addirittura a Tripoli significa raggiungere un successo notevole: dal punto di vista della sicurezza significa avere un esercito alleato al confine occidentale, una milizia che il Cairo di fatto ha costruito e potrà influenzare nei prossimi anni. Dal punto di vista economico, per un esercito “commerciale” come quello egiziano avere la milizia di Haftar in controllo dei pozzi e dell’economia libica sarebbe un risultato assai importante.
Per gli Emirati, Haftar a Tripoli significa innanzitutto rafforzare l’alleato Egitto, il Paese più popoloso del mondo arabo, il “gendarme” pronto a fornire truppe e capacità militari agli Emirati del Golfo quando fosse necessario. Ma poi significherebbe sconfiggere un progetto politico in un Paese arabo sunnita che vede protagonisti, fra gli altri, movimenti politici che fanno capo alla Fratellanza Musulmana.
Le idee, gli obiettivi politici e militari di Egitto ed Emirati (e della stessa Arabia Saudita) sono speculari a quelli dei Paesi che sostengono e armano Tripoli. Il Qatar dello sceicco Al Thani e la Turchia di Recep Tayyip Erdogan hanno una visione diametralmente opposta del ruolo dell’Islam nella regione mediorientale. Al Thani forse lo fa soltanto per sottrarsi all’omologazione/sottomissione a cui Emirati e Arabia Saudita vorrebbero sottoporlo. Ma il progetto politico della Turchia, quello del partito AKP al potere, è un progetto di potere gestito dall’Islam politico, l’unica vera alternativa al potere delle dinastie familiari (Arabia Saudita, Emirati) oppure delle autocrazie militari (Egitto) che fino ad oggi hanno governato il mondo arabo.
Il percorso di stabilizzazione della Libia si svolgerà, dunque, all’interno di questo campo minato. O se volete di questo campo di battaglia, in cui le forze di un mondo arabo-sunnita diviso e in armi si combatteranno prevedibilmente ancora per anni.
Tutto intorno continueranno ad agire e a scontrarsi potenze regionali o mondiali che in Libia misurano le loro rivalità: Italia e Francia a livello europeo, con i loro interessi innanzitutto economici e securitari. A livello più alto Stati Uniti e Russia, nel grande gioco di un equilibrio mondiale in cui il Medio Oriente da anni è diventato meno strategico per Washington, e quindi fonte di opportunità incredibili per Mosca.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di luglio/agosto di eastwest.
Libia, tre anni dopo, è di nuovo guerra!
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
L’assalto a Tripoli è stato preparato, passo dopo passo, durante tutto il 2018 dal generale Haftar, contando anche sull’ingenuità o incapacità dei Governi europei
Questo articolo è stato pubblicato sul numero di maggio/giugno di eastwest.
Nella serata fra il 3 e il 4 aprile dal cellulare di un Ministro del Governo di Tripoli arriva in Italia un messaggio preoccupante. Un messaggio che all’inizio è poco comprensibile, “estraneo” a quello che sembra essere il contesto del Paese in quelle ore. Mancano pochi giorni alla grande “conferenza nazionale” che l’Onu ha organizzato a Ghadames per il 14 e il 15 aprile. Ci sono mille speculazioni su come sarà formato il nuovo Consiglio presidenziale, come sarà la legge elettorale, sul percorso verso le presidenziali. Il dibattito, l’interesse degli osservatori è tutto per i negoziati politici, anche per i traffici, per le “congiure” che impazzano in quelle ore.
All’inizio di aprile fra mille difficoltà la Libia sembra andare avanti sulla strada della pace. Di un accordo politico: debole, confuso, controverso, ma pacifico. E invece il messaggio del Ministro di Tripoli chiede di diffondere un appello: il Governo di Tripoli sta facendo di tutto per garantire la sicurezza della città, l’unità delle forze di polizia e di quelle militari. Anche di quelle milizie che lo appoggiano e che per mesi sono state accusate di ricattarlo, imponendo la propria “protezione militare” a un Governo civile, per sua natura, senza protezione armata se non quella di una Guardia Presidenziale ancora troppo debole.
Cosa è successo? Il messaggio del Ministro è il primo allarme che riceviamo dopo che in Libia è rimbalzato l’annuncio fatto a Bengasi. Il portavoce della milizia di Khalifa Haftar, il “Libyan National Army”, avverte che il generale ha deciso di lanciare un attacco a Tripoli per entrare in città e liberarla “dai terroristi che l’hanno occupata”. Haftar presenta alla Libia e al mondo l’operazione che ha pianificato da mesi e che con attenzione quasi “sovietica” ai dettagli (non è un caso questo termine) lo stato maggiore della sua milizia ha messo a punto passo dopo passo.
Una operazione culminata in un assalto miliare a Tripoli, proveniente da varie direttrici, in particolare lungo le principali strade di accesso alla capitale da sud e da ovest. Con una particolarità: da ovest, ovvero dalla direzione del confine tunisino, Haftar ha avuto il supporto di milizie locali con cui ha costruito nei mesi alleanze e patti foraggiati con centinaia di migliaia di dollari e la promessa di una fetta ancora più grossa della ricca torta petrolifera libica.
L’assalto a Tripoli dell’aprile 2019 ha un lungo prologo. Durante tutto il 2018 la LNA aveva messo in piedi, passo dopo passo, questo progetto di espansione: da Bengasi si è spostata verso Occidente lungo la costa, poco alla volta ha preso quasi pacificamente (negoziando con tribù e milizie) il controllo dei terminal nella “mezzaluna petrolifera”, ovvero dei punti di imbarco del petrolio che proviene dal sud della Libia.
Sono i terminali di attracco per le petroliere, situati lungo la costa, nella parte centro-orientale del Paese. Di lì viene imbarcato il petrolio che viene estratto nel centro e nel sud della Libia: chi controlla i terminal possiede la chiave della ricchezza del Paese. Molto meglio che controllare le centinaia di singoli pozzi.
Le esportazioni e il bilancio della Libia si tengono in piedi al 95% grazie al petrolio. Gli idrocarburi sono l’unica cosa che la Libia produce e vende. Chi controlla i terminal di imbarco controlla le casse della Libia, anche se non gestisce direttamente il flusso di danaro generato dal passaggio del petrolio attraverso quei terminali.
Nel 2018 l’espansione della LNA verso i terminal non ha generato grande contesa, grandi battaglie militari. Perché Tripoli e Misurata non avevano percepito qual era il vero piano di Haftar. Ovvero procedere a una avanzata progressiva, discreta, in parallelo ai negoziati politici, trattative in cui poco alla volta il generale si rafforzava agli occhi del mondo.
E poi perché per le milizie, gli eserciti di Tripoli e Misurata, mobilitare le loro armate militari, mandarle avanti per centinaia di chilometri per bloccare la lenta avanzata di Haftar non sembrava essere così strategico. Era economicamente e politicamente poco sostenibile. Anche perché Haftar nel frattempo continuava appunto a trattare, a negoziare, a parlare, rilasciare interviste. Tutto per accrescere politicamente il suo status.
Un esempio di questo “negozia e conquista” di Haftar è stata la sceneggiata con cui alla fine ha accettato di partecipare alla conferenza di Palermo nel novembre 2018. Alternando il suo “si” a un viaggio a Palermo al “non voglio sedermi a quel tavolo”. Ancora una volta Haftar alza il prezzo del suo assenso, alza il livello dell’aspettativa per le sue decisioni, persino lo standing della sua figura politica.
Si chiude la riunione di Palermo, e il premier italiano Giuseppe Conte tira un sospiro di sollievo perché Haftar è arrivato, non gli ha fatto fallire la conferenza. L’Italia è grata ad Haftar, invece del contrario (un capo milizia invitato ai tavoli con Ministri e Presidenti).
Apriamo una parentesi importante per noi italiani. Il 2018 è stato l’anno del grande cambiamento: le elezioni che portano al Governo Lega e 5 Stelle sono una profonda novità se non per le linee strategiche della politica italiana verso la Libia, di sicuro per la tattica adottata e per i protagonisti che la interpretano. Finisce fuori gioco la coppia Gentiloni-Minniti che nei due anni dell’ultimo Governo di centrosinistra aveva gestito con forza il dossier Libia.
Comunque possiate pensarla politicamente, qualunque sia il vostro giudizio sui due personaggi, Gentiloni e Minniti avevano costruito una squadra efficace. Il primo per due anni era stato Ministro degli Esteri di Matteo Renzi. Aveva appreso le arti della politica verso la Libia sul campo. In coppia con il segretario di Stato americano John Kerry era stato protagonista di una azione politica della comunità internazionale di primo livello. Conferenze internazionali, riunioni, summit sulla Libia giravano tutte attorno a Roma, anche con la forza che l’amministrazione Obama offriva al ruolo italiano.
Il secondo dei due “consoli” di Libia, Marco Minniti, portava nel suo incarico di Ministro dell’Interno tutta l’esperienza di gestione del dossier Libia che aveva accumulato in tre anni da coordinatore politico dei servizi di sicurezza. Da anni iniziato a conoscere e incontrare leader politici, capi-milizia, capi delle tribù di Libia. La promozione a Ministro dell’Interno lo metteva in posizione di attuare, per esempio, quella politica di contenimento dell’immigrazione illegale che tante critiche ha provocato innanzitutto nel suo stesso Pd.
Bene. Nel 2018 l’Italia cambia Governo, cambiano i Ministri. E inevitabilmente cambia qualcosa anche verso la Libia. La prima esigenza che si sente è quella di aprire appunto al generale Haftar. Per mesi nella sua ascesa politica, Haftar aveva utilizzato gli attacchi pubblici all’Italia come uno strumento per rafforzarsi sul piano interno e internazionale. Un capo milizia libico che si permette si sbeffeggiare l’ex potenza coloniale deve essere uno tosto, pensano i libici anche a Tripoli.
Molti indizi dicono che perfino un’autobomba esplosa nei pressi dell’ambasciata italiana a Tripoli da poco riaperta fosse stata innescata proprio da due manovali di Haftar.
Il nuovo Governo decide di aprire al generale e in estate offre in sacrificio al signore della Cirenaica la testa dell’ambasciatore a Tripoli, Giuseppe Perrone. Il diplomatico per mesi aveva interpretato la linea di Roma, apertura e sostegno al Governo di Tripoli, al Presidente libico scelto dall’Onu e arrivato a Tripoli in motovedetta dalla Tunisia nel marzo 2016. Il pretesto che darà al Governo Conte della possibilità, prima di congelare, e poi di sostituire, Perrone è una intervista concessa a una tv araba.
Non placherà Haftar, che anzi alla fine fa pure finta di essere dispiaciuto.
Torniamo ad Haftar e alle sue mosse militari all’inizio del 2019, dopo aver preso il controllo dei famosi terminal sulla costa, la sua milizia inizia a scendere verso sud. Verso il Fezzan. La situazione della sicurezza nel Fezzan è caotica, milizie, tribù, gruppi armati non riescono a mettersi d’accordo. Ci sono scontri, criminalità incursioni dei gruppi jihadisti che si sono rifugiati nel ventre molle della Libia dopo la disfatta dell’Isis a Sirte nell’estate del 2016.
Le truppe di Haftar spesso vengono accolte come pacificatrici, una milizia militare che mette d’accordo gli altri, impone in qualche modo le sue regole.
Chi non è d’accordo trova i kalashnikov del generale: le accuse di stragi, di devastazioni di villaggi che non si sottomettono sono ripetute, ma rimangono relegate ai margini delle notizie internazionali.
Haftar va avanti e a questo punto dichiara di voler mettere in sicurezza anche i pozzi petroliferi nel sud, oltre che alcuni villaggi. La Francia di Emmanuel Macron e soprattutto di Jean-Yves Le Drian è entusiasta. L’arrivo della LNA al sud, alle frontiere con Ciad e il Niger è visto come una grande operazione antiterrorismo che Parigi, protettrice di Ciad e Niger, non può che salutare con interesse.
Da gennaio in poi la marcia sui pozzi petroliferi continua: dopo la città di Sebha, il generale prende i pozzi di Sharara, il giacimento più importante del Fezzan, fermo da alcuni mesi per contese con alcune milizie locali. Piccoli problemi che la forza militare del generale sembra poter risolvere in maniera rapida.
Haftar si allarga ancora, verso il giacimento di El Feel, ribattezzato “Elephant” e il nome spiega molto. La milizia LNA non interferisce per nulla con la sicurezza, con l’operatività dei pozzi, che anzi dove possibile riprende: e il petrolio che affluisce verso i terminal della costa (controllati da Haftar) entra nelle casse della Banca Centrale che ancora viene gestita da Tripoli.
La grande discesa verso sud appare come un’azione di responsabilità di Haftar: la responsabilità di riportare sicurezza nei pozzi, in centri abitati percorsi da bande criminali e da terroristi. Il GNA (Government of National Accord) di Serraj non si accorge che perdere il sud è molto grave per la sua credibilità ma anche perché il sud diventa il trampolino di lancio per l’affondo finale, la risalita verso Tripoli.
Nella capitale, il Governo di Fayez Serraj, con l’appoggio convinto e leale delle Nazioni Unite guidate da Ghassan Salamè, è impegnato in una lotta quotidiana per far sopravvivere una città di 3 milioni di abitanti. Innanzitutto, l’economia: Serraj e il suo vice Presidente addetto alle questioni economiche, il misuratino Ahmed Maitig, stano provando in ogni modo a invertire la rotta di un Paese ricco di petrolio, che ha a diposizione ogni mese miliardi di dollari ma che non riesce a trasferirli ai suoi cittadini. Bande criminali e milizie armate intercettano il flusso di danaro in uscita dalle casse dello Stato e lo dirottano verso conti privati: i sussidi clamorosamente alti al prezzo della benzina fanno sì che milioni di litri di benzina a bassissimo costo ogni mese vengano dirottati di contrabbando verso Tunisia, Ciad, Niger, persino su petroliere fantasma che riescono a solcare il Mediterraneo per vendere il loro carico.
L’altro problema che fra gennaio e febbraio il GNA deve affrontare è quello della progressiva riduzione del potere delle milizie. Il nuovo Ministro dell’Interno, Fathi Bishaga, prova a mettere in atto il “Security Plan 2019-One” messo a punto con l’Onu. Ed è a questo punto, mentre siamo arrivati all’inizio di aprile, che la milizia di Haftar sorprende tutti e si presenta alle porte di Tripoli.
La battaglia per la capitale è iniziata, il Governo di Tripoli resiste, contrattacca e rilancia. È partita la Terza Guerra civile di Libia. Durerà a lungo è sarà assai dolorosa.
Il Grande gioco di Libia
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Non è mai stato un Paese unificato fino all’occupazione coloniale italiana. Conosciamo meglio i gruppi, le milizie, le città, i nomi dei protagonisti.
L’unica previsione che tutti condividono, politici, analisti e perfino semplici cittadini libici, è questa: la crisi libica durerà ancora per anni. Il passaggio dalla dittatura dei 41 anni di Mu’ammar Gheddafi a qualcosa che sia relativamente pacificato è lontano dal compiersi. Il percorso è lungo, e purtroppo non è chiaro se perfino sia stata imboccata la
strada giusta. Di sicuro sarà importante iniziare ad avere maggiore consuetudine, conoscere un po’ meglio i gruppi, le milizie, le città, i nomi dei protagonisti di questo “Grande gioco di Libia”.