[ROMA] È stato rappresentante militare italiano presso l’Unione europea e Direttore del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza. È membro del Comitato scientifico di eastwest.
Europa, Usa, Nato: triangolo imperfetto
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Per decenni ci eravamo chiesti, senza pervenire a una risposta soddisfacente, quale fosse in realtà il confine est dell’Europa e se la Russia potesse essere considerata parte del continente almeno sino agli Urali, come preconizzava il Generale De Gaulle, o se invece ne fosse completamente estranea. Ora il Presidente russo, Vladimir Putin, sta fornendo una risposta ai due quesiti che, pur non essendo definitiva, appare comunque destinata a condizionare per decenni i rapporti fra i due lati della frontiera.
Egli sostiene, infatti, in primo luogo, e lo fa più con la forza delle armi che con quella delle idee e della parola, che la Russia non è né Europa né Asia, bensì un’entità autonoma non identificabile con nessuna delle due. Quanto alla linea di frontiera, per l’autocrate del Cremlino essa divide a metà ben tre paesi, vale a dire la Moldova dal cui territorio la Russia ha ritagliato la Transnistria, la Georgia, cui con una guerra sono state sottratte Ossezia e Abkazia, e infine l’Ucraina, amputata già nel 2014 della Crimea ed ora fatta oggetto di un devastante attacco che mira a sottrarle tutta la parte est del Paese, e probabilmente a toglierle qualsiasi accesso al mare. Il modo in cui tutto questo insieme di azioni si è articolato nel tempo ricorda molto, nel suo complesso, la politica adottata da Hitler nella seconda metà degli anni ‘30 del secolo scorso, allorché egli allargava i confini della Germania procedendo per passi successivi e fidando sull’inerzia indotta dalla paura delle grandi democrazie dell’epoca. Nel caso odierno però l’imprevedibilità del pensiero di Putin, che non ha esitato a scatenare una guerra ritenuta impossibile e la sta portando avanti con una ferocia che sino a ieri pensavamo tutti fosse soltanto un ricordo di altri tempi più bui, ha finito non soltanto col compattare i due lati dell’Atlantico che compongono l’Occidente ma anche con l’indurli a prendere una posizione ben precisa e molto dura sin dall’inizio del conflitto.
Di sicuro la guerra russa all’Ucraina, nonché il modo in cui essa viene condotta, è quanto di più contrario possa esistere a ogni nostro principio e valore. Non è però soltanto per questo e per solidarietà con il Paese aggredito che l’Occidente si sta esponendo sempre di più nel quadro di una reazione collettiva che si fa costantemente più forte e ha da un lato lo scopo di fornire all’Ucraina i mezzi militari necessari per resistere mentre dall’altro cerca di minare le basi stesse dell’economia russa creando le condizioni per un eventuale cambio di regime a Mosca. A monte di questi motivi vi è infatti anche il timore, che si fa ogni giorno più forte ed esplicito, di un possibile allargamento della guerra al territorio di Paesi che fanno parte dell’Alleanza atlantica, cosa che costringerebbe la Nato a reagire e trasformerebbe il conflitto in una vera e propria Terza Guerra mondiale.
Si tratta in sostanza dell’ipotesi che terrorizza fin dallo scioglimento del Patto di Varsavia e dal dissolvimento dell’Unione sovietica tanto i Paesi ex comunisti dell’Europa centrale quanto le Repubbliche Baltiche, di certo non ansiosi di ripetere un’esperienza che per loro è stata di catastrofica soggezione. D’altro canto questa è anche un’ipotesi che la Russia stessa pur temendola non scarta, come dimostra il modo in cui, forse per esorcizzarla, ritiene opportuno ricordare di tanto in tanto a tutto il resto del mondo la sua condizione di grande potenza nucleare.
Ci troviamo in sostanza per molti aspetti a dover far fronte a un futuro costellato da incertezze e rischi di ogni tipo e in cui sarebbe opportuno poter disporre di strumenti idonei a far fronte ad ogni emergenza che dovesse presentarsi. Purtroppo sul piano della sicurezza e della difesa le cose non stanno affatto così. Un periodo di pace lunghissimo e il progressivo attenuarsi dei valori connessi ai doveri collettivi ci hanno portato infatti all’assurdità di ritenere che guerre entro i nostri confini non fossero più possibili e a un disarmo che è più morale che materiale. L’unico efficace strumento di difesa di cui disponiamo, la Nato, presenta quindi un’impressionante serie di difetti e di carenze, più volte segnalati, ma cui nel passato non si è mai messa seriamente mano, rinviando di volta in volta una bisogna che alle opinioni pubbliche dei nostri paesi poteva suonare come sgradita.
La prima cosa che è mancata è stata in tale quadro un’azione diretta a riequilibrare all’interno della Organizzazione il peso del suo pilastro americano rispetto a quello europeo, cosa che ha consentito agi Stati Uniti, specie nel corso degli ultimi trenta anni, di comportarsi da padroni pressoché assoluti della struttura. Si tratta di un fatto che ha già prodotto effetti negativi nel passato e che rischia di produrne altri ancora più gravi nel futuro. Pur nella quasi totale comunanza di valori America ed Europa hanno infatti interessi che a volte sono fortemente divergenti. Si veda il caso del rapporto con la Russia, che per l’Unione europea, in circostanze diverse da quelle attuali, sarebbe l’ideale partner complementare. O più semplicemente al fatto che non è certo nelle aspirazioni americane una crescita europea che possa domani condurre l’Unione a insidiare il mantra della “America first”. In tempo di pace queste tensioni rimangono per la maggior parte latenti. In momenti di forte tensione come quello attuale lo strapotere americano soprattutto nel settore della potenza militare, lascia invece alla nostra Ue ben poca libertà di scelta con la conseguenza che l’onere di quasi tutte le decisioni prese finisce in pratica col ricadere quasi esclusivamente su noi europei.
Questo sarebbe quindi il momento di pensare seriamente a quella elusiva difesa europea che rincorriamo dal secondo dopoguerra senza mai riuscire realmente a concretizzarla, malgrado il fatto che disponiamo ormai di tutto quello che ci serve. Il nostro bilancio complessivo per la difesa ci pone infatti al secondo o terzo posto nel mondo, anche se l’impossibilità di effettuare sino ad ora economie di scala mina la nostra efficacia. La nostra tecnologia è d’avanguardia. In molte azioni Nato già contribuiamo con circa il 90% del personale impegnato. Il territorio su cui si combatterebbe un’eventuale guerra è quello dei nostri paesi. Basterebbe che l’iniziativa partisse come una cooperazione fra alcuni dei grandi Paesi dell’Europa e la maggior parte degli altri Stati membri probabilmente seguirebbe. Cosa aspettiamo dunque?
La creazione di un reale forte pilastro europeo di difesa tra l’altro non avrebbe soltanto l’effetto di fornire all’Unione quel braccio armato di cui essa necessita in questi momenti di paura e incertezza ma conseguirebbe altresì, come già accennato, il risultato di rendere più forte, equilibrata ed efficace l’Alleanza Atlantica, e quindi la Nato a valle di essa. È il momento di muoverci, dunque, anche perché la finestra di opportunità che si è aperta negli ultimi tempi e che sino ad ora ci ha permesso di fronteggiare uniti la duplice contingenza della malattia e della guerra potrebbe dissolversi domani, travolta dall’ondata di quegli egoismi nazionali che ci hanno sino ad ora ancorato al passato e impedito di procedere verso il futuro. L’Ungheria di Orbán ha già preso quella strada e nella Francia che affronterà fra poco le elezioni presidenziali crescono giorno dopo giorno i consensi per chi desidera una Francia che sia solo francese e non europea. Sì, il momento è veramente questo in cui ci troviamo, per comunanza di valori ma anche per orrore e per paura, ancora tutti uniti. Adesso… o chissà quando!
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
Cosa manca all’Europa per avviare il processo di costruzione di una difesa comune?
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Cosa ci vuole dunque, che cosa occorre per realizzare finalmente questa difesa comune europea, questa Fata Morgana, miraggio che periodicamente appare, illude e scompare, lasciando ogni volta la bocca di chi ci ha creduto più amara di quanto essa non fosse prima?
Se vogliamo che essa possa svilupparsi e crescere nella sicurezza, la nostra difesa non deve per prima cosa né essere competitiva, né tantomeno apparire tale, nei riguardi di una Nato che in un modo o nell’altro dovrà sempre tenere nel debito conto le preoccupazioni statunitensi. Si tratta quindi in primo luogo di riassicurare i grandi alleati d’oltreoceano, spiegando loro come la creazione di un vero “pilastro europeo” dell’Alleanza rinforzerebbe considerevolmente lo sforzo di difesa comune, creando altresì le premesse perché si sviluppi quel costruttivo dialogo interno che è l’unica cosa che può permettere alla Organizzazione di progredire e che purtroppo le è mancato nel corso degli ultimi decenni. In tale ottica la definizione del Nuovo Concetto Strategico Nato e i relativi studi preliminari, in parte tra l’altro già avviati, costituirebbero un’occasione unica per cercare di impostare la relazione fra le due sponde dell’Atlantico che condividono i medesimi valori su basi più consone al futuro che esse dovranno affrontare insieme, e che si preannuncia estremamente agitato.
Se poi l’operazione potesse essere condotta da un Segretario Generale Nato espresso da un Paese europeo forte e supportato già in partenza da una volontà continentale pressoché unanime, la situazione si presenterebbe realmente come ottimale. È la ragione per cui la scelta di chi dovrà sostituire il SecGen attualmente in carica fra pochi mesi assume una importanza che in altri tempi essa non aveva mai avuto e dovrebbe quindi sin da ora essere oggetto di trattativa fra tutte le maggiori Cancellerie interessate.
Al di là delle preoccupazioni Usa e Nato, un altro importante ostacolo da superare appare ancora la costruzione di una corale volontà europea che possa avviare il processo di costruzione di questa difesa comune. Sembra inutile, specie con le dimensioni che l’Unione europea ha progressivamente assunto dopo la caduta del Muro di Berlino e la dissoluzione dell’URSS, sperare che ciò possa verificarsi conglobando sin dall’inizio l’intera panoplia dei Paesi Ue, ove ciascun protagonista ha un orizzonte strategico e una storia recente da cui nascono paure diverse. L’unico fattore che potrebbe giocare un ruolo unificante pressoché immediato sarebbe una minaccia collettiva così forte e tanto visibile da provocare un “serrate le file”. Vi è solo da sperare, in ogni caso, che ciò non avvenga, anche se purtroppo si tratta di un’ipotesi che allo stadio attuale dei fatti non si può completamente scartare. Dunque nessuna politica estera comune in tempi brevi o medi, né tantomeno quella difesa comune che da essa dovrebbe derivare!
Vi è da rilevare però come i meccanismi istituzionali europei consentano a gruppi di Paesi che intendono procedere in particolari settori a una velocità superiore a quella auspicata da tutti gli altri di avviare il processo con cooperazioni rafforzate. Nel caso della difesa, il ruolo trainante nel settore potrebbe così essere svolto dal trio dei grandi Paesi fondatori dell’Europa, Germania, Italia e Francia, che tra l’altro dispone dell’unica forza nucleare rimasta nell’Unione dopo la Brexit. Se intorno a questo primo nucleo duro fosse poi possibile aggregare, magari grazie a una spinta congiunta italo/francese, anche la Spagna, il gioco comincerebbe veramente a farsi interessante. Qualora poi la Germania utilizzasse la sua influenza a est per cooptare anche la Polonia, il resto dell’Unione, nel tempo, non potrebbe far altro che seguire. Segnali in questo senso in ambito europeo ce ne sono stati parecchi, dalla firma del trattato di Roma fra Italia e Francia alle dichiarazioni del Presidente Macron in merito al programma dell’incombente semestre di presidenza francese.
In compenso, altrettanto forti sono stati i segnali di senso contrario con una Germania che appare terrorizzata dall’avvio del dopo Merkel, una Francia profonda in cui solo il 27% dei cittadini si dichiara favorevole a un approfondimento dei legami europei e una Italia dei partiti non più in grado di guidare la formazione dell’opinione pubblica, oltretutto in un settore che essa si è sempre rifiutata di considerare come prioritario. La palla rimane quindi, almeno per il momento, perfettamente in equilibrio sul crinale che divide i due versanti, mentre gli avvenimenti dei prossimi sei mesi si riveleranno probabilmente decisivi per il futuro degli assetti. Un autorevole commentatore di recente ha intitolato un suo articolo La difesa europea: illusione o necessità?. Probabilmente essa è entrambe le cose nel medesimo tempo.
La Nato ha perso la sua credibilità?
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Per tutta la durata della Guerra fredda la Nato è riuscita a essere all’altezza del proprio ruolo, dimostrando una flessibilità che le ha consentito prima di superare le varie difficoltà di volta in volta incontrate sul proprio cammino, poi di proclamarsi vincitrice di una guerra che non era mai stata combattuta e di essere accettata come tale da tutto il mondo.
Gli errori commessi
Al crollo del Muro di Berlino hanno però fatto seguito all’inizio un lungo decennio di completo disorientamento, poi circa venti anni di progressivo crescente asservimento agli Stati Uniti, nonché alla tutela dei loro interessi. Durante il primo di questi periodi il più grave degli errori commessi dall’Alleanza è stato quello di non aver saputo approfittare della contingenza favorevole per incorporare una Russia che probabilmente in quel momento non avrebbe chiesto di meglio. La politica atlantica è invece sempre stata orientata in senso contrario, ricercando costantemente un allargamento verso est che ha finito con l’essere considerato da Mosca come estremamente allarmante, provocando una duplice reazione russa che ha riguardato, in tempi diversi, prima la Georgia e poi l’Ucraina.
Nel ventennio successivo poi, anche a causa della negativa influenza di Segretari Generali deboli o palesemente schierati, la Nato non ha mai efficacemente contrastato la tendenza sempre più accentuata degli Stati Uniti a ritagliarsi, in ambito atlantico, un ruolo centrale e quasi monopolistico, considerando nella pratica l’Alleanza come un serbatoio da cui attingere uomini e materiali per le loro avventure. In pari tempo non è stata mai realmente intrapresa quella revisione di strumenti e strutture che avrebbe dovuto mantenere il complesso all’altezza di minacce di conflitti che assumevano sempre più caratteristiche di avanzatissima tecnologia e scivolavano progressivamente verso forme di guerra ibrida che la sola forza militare non sarebbe mai stata in grado di contenere efficacemente.
Da rimarcare poi come non si sia mai realmente tentato, in seno alla Nato, di sfruttare realmente l’enorme potenziale costituito dai membri europei, il cui eventuale inserimento in una struttura unica − un “pilastro europeo” dell’Alleanza facente capo alla Ue − avrebbe consentito di utilizzare al meglio bilanci della difesa che nel loro complesso raggiungevano un livello astronomico, pari a circa due terzi della spesa militare degli Stati Uniti.
Il risultato di queste politiche ha avuto sul piano strategico il disastroso effetto di minare la credibilità dell’Alleanza, posta seriamente e giustamente in discussione dopo l’abbandono dell’Afghanistan.
La crisi interna
Inoltre sul piano interno, la Nato si trova ora a dover far fronte a una crisi politica dai molteplici aspetti che investono tanto i rapporti degli Usa con i loro alleati di oltre oceano, quanto la spaccatura che divide la cosiddetta “vecchia Europa”, orientata a una difesa che non trascuri, come avviene adesso, il teatro mediterraneo, e la “nuova Europa”, che desidererebbe invece concentrare ogni risorsa sul confine euro-russo. Per non parlare poi della ridefinizione del ruolo di una Turchia condizionata da tempo da aspirazioni quasi imperiali neo-ottomane che la Nato non può certo condividere. In simili condizioni una revisione generale dell’intero complesso appare come indispensabile e urgente.
Essa però potrà avvenire soltanto se alla testa dell’organizzazione vi sarà un Segretario Generale realmente forte e come tale capace, grazie anche al pieno supporto degli Alleati europei, di resistere alle pressioni che verranno certamente esercitate su di lui per l’intera durata del processo. Per una non scritta regola di alternanza, che comunque mantiene appieno la propria validità, anche se è stata più volte violata nel corso dei recenti decenni, egli dovrebbe anche provenire da uno dei Paesi meridionali dell’Alleanza, considerato come i Paesi del Nord abbiano monopolizzato la poltrona per più di un ventennio. Tra l’altro si potrebbe trattare di un’occasione molto buona per l’Italia che ha ricoperto il ruolo una sola volta − con Manlio Brosio dal 1964 al 1971 − sempre che essa riesca a proporre un candidato, o una candidata, di livello adeguato.
Qualora al vertice di Varsavia del prossimo anno, previsto per il mese di luglio, l’Alleanza non riuscisse a dotarsi di un Segretario Generale forte, essa continuerebbe probabilmente a vegetare come ha fatto sino ad oggi, arrivando al massimo a produrre progetti di aggiornamento e revisione simili al documento relativo alla Nato negli anni Trenta, redatto di recente da un gruppo di esperti internazionali. Un lavoro che appare pregevole in alcuni dei suoi punti ma che, come regola generale, evita di porre sul tavolo i veri, grandi problemi del settore. E questo con una Russia impegnata in grandi manovre in Ucraina, con una Cina che sta raddoppiando la propria potenza militare e con un Mediterraneo allargato che si fa sempre più inquieto, mentre gli Stati Uniti divengono di giorno in giorno più nervosi.
Se questo non significa scherzare col fuoco…
Nato: quanto è pronta (o disposta) a rinnovarsi?
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Se da un lato la Nato è stata fin dalla fondazione l’ombrello sotto cui l’Europa si è rifugiata in cerca di sicurezza, dall’altro però l’Alleanza ha impedito, com’è progressivamente divenuto chiaro col tempo, che essa crescesse armonicamente sino a raggiungere una piena autosufficienza. Come un grande albero, maestoso ma che impedisce lo svilupparsi di vegetazione minore nel terreno coperto dalla sua chioma, l’Alleanza non ha mai amato l’idea che sul continente considerato di sua esclusiva pertinenza potesse svilupparsi qualcosa di analogo con cui in un lontano domani avrebbe magari potuto iniziare ad avere contrasti e conflitti di competenza.
All’interno dell’Organizzazione poi, gli Stati Uniti, di gran lunga il più potente degli Stati membri, pur seguendo con coerenza una politica declaratoria con cui costantemente esprimevano la speranza che al cosiddetto “pilastro americano” potesse un giorno affiancarsi un “pilastro europeo” più o meno di pari livello, nella pratica si sono sempre mossi in modo tale da ostacolare, direttamente o per mezzo di altri, ogni passo europeo in quella direzione. D’altro canto l’Europa stessa ha fatto ben poco in questi ultimi settanta anni per porre rimedio a una simile situazione.
Dopo il fallimento della costituzione della Ced (Comunità Europea di Difesa) nel 1954 per rifiuto francese dovuto, come raccontava una battuta del tempo, “all’incapacità transalpina di risolvere il problema della rinascita di un esercito tedesco che avrebbe però dovuto essere più numeroso di quello sovietico e più piccolo di quello francese”, i tentativi europei in quel senso sono infatti risultati sporadici e molto poco efficaci. Di norma infatti l’Europa si rende conto delle macroscopiche lacune che ha nel settore militare soltanto nei momenti di grande tensione, quando è pervasa dalla paura di quanto potrebbe succedere e si scopre incapace di intervenire autonomamente in settori o in problemi che considera di suo precipuo interesse. Si tratta comunque di periodi che non durano mai abbastanza da convincerla a dedicare agli strumenti di sicurezza le risorse che sarebbe necessario investirvi. A dire il vero però qualche progresso, soprattutto negli ultimi venticinque anni, l’Europa lo ha fatto, anche se i bilanci della Difesa di molti Stati membri della Ue continuano a rimanere ridicoli.
A seguito della decennale crisi in Jugoslavia, congelata in maniera accettabile solo dopo un deciso intervento statunitense che ha propiziato quello della Nato, si è infatti tentato, con gli accordi di Saint Malo, di dar vita a un sistema di comando che potesse col tempo garantire la gestione del cosiddetto “headline goal“. Nella pratica, come sancito da tali accordi, l’Unione europea mirava a dotarsi di un Corpo d’Armata di 60mila uomini capace di entrare in linea nel tempo di due mesi sino a una distanza di 4mila km dall’Europa, nonché appoggiato da un congruo dispositivo aeronavale. La costruzione del sistema, che all’inizio pareva ben procedere è rimasta però incompleta, e per l’assenza del pezzo centrale della scacchiera − vale a dire di un comando che fosse in condizione di gestire a livello strategico tale complesso − e per la serie di ostacoli e di “distinguo ” che la Nato è riuscita progressivamente a imporre ai suoi membri Ue.
Così, su ogni possibile operazione, l’Alleanza si è arrogata un diritto assoluto di prelazione, lasciando invece all’Unione soltanto la possibilità di svolgere le cosiddette “missioni tipo Petersberg”, vale a dire azioni minori di soccorso, evacuazione o peacekeeping. Inoltre l’ipotesi di un Comando Ue a livello strategico è stata per parecchi anni congelata e sostituita dall’accordo che in caso di necessità la carenza sarebbe stata coperta da SHAPE, il comando Nato delle Forze Alleate in Europa depurato dei membri non Ue. Una soluzione che, se da un lato avrebbe rischiato di porre alla testa dell’azione europea uno SHAPE di efficienza notevolmente ridotta, dall’altro non considerava affatto l’ipotesi più delicata, cioè quella di una Ue intenzionata a intervenire in contesti tanto sgraditi agli Usa, o a uno qualsiasi degli altri membri non Ue dell’Alleanza, da indurli a porre il veto a qualsiasi impiego di mezzi e capacità Nato nel caso contingente.
A conclusione di tutto questo, vera e propria ciliegina sulla torta, era stato infine affermato, con forza tale da divenire un mantra costantemente citato, il principio che “occorresse a ogni costo evitare costose duplicazioni” e per decenni ogni tentativo europeo nei settori più delicati dei materiali è stato costantemente etichettato come una “costosa duplicazione”. Questa situazione di assoluto stallo ha iniziato in ogni caso a migliorare in tempi recenti, specie dopo che la Brexit ha portato fuori dall’Ue quel Regno Unito che nel corso degli ultimi due decenni era sempre più diventato il principale cavallo di Troia americano inserito nella struttura europea.
Adesso non solo il Comando Strategico Europeo è in via di costituzione, ma si moltiplicano nel settore della difesa accordi bilaterali che potrebbero divenire domani multilaterali, mentre il tema dell’aggiornamento dell’intero settore della sicurezza collettiva è divenuto centrale tanto per la Commissione quanto per il Consiglio dell’Unione. Tuttavia una riforma efficace esige che venga rivista dalle fondamenta la relazione fra la Ue e la Nato, possibilmente poi una Nato rinnovata, che abbia posto rimedio alle gravi carenze emerse negli anni più recenti.
Ma l’Alleanza si è poi resa veramente conto di questa impellente necessità di rinnovamento? Ed è realmente disposta ad accollarsi tutto il travaglio che essa comporterà? E in tale quadro, quale sarà il ruolo che essa sarà disposta ad accordare all’Europa? Tante domande, ma per il momento ancora nessuna risposta.
Il futuro della Nato, tra crisi e cambiamenti necessari
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Per tutto il periodo della Guerra fredda la sicurezza e la difesa dell’Occidente sono state appannaggio esclusivo della Nato che ha svolto il suo compito con serena efficienza, riuscendo a superare una dopo l’altra le varie crisi che si presentavano e riemergendone ogni volta più agguerrita e coesa.
Nei quarant’anni circa intercorsi fra la firma del Patto Atlantico e la caduta del Muro di Berlino essa ha inoltre svolto una funzione insostituibile, da un lato sviluppando un linguaggio e abitudini comuni che ci consentissero, nel caso, di combattere insieme, dall’altro contenendo per quanto possibile le ambizioni delle singole industrie per la difesa nazionale, e quindi ottenendo un minimo di standardizzazione dei nostri armamenti e materiali. Si tratta di funzioni che l’Alleanza continua tuttora a svolgere e non esiste allo stato attuale dei fatti alcuna altra organizzazione che possa sostituirla in tale delicato compito.
A questo punto, occorre però segnalare come dalla fine della Guerra fredda in poi l’Alleanza sia scivolata in una crisi profonda, che l’ha portata prima a inventarsi nuove funzioni da svolgere per cui essa non era affatto strutturata, poi a violare in parecchi punti il Patto Atlantico di cui essa è espressione e infine a perdere di recente in Afghanistan la sua prima guerra, e a perderla molto male. Un caso, quello dell’Afghanistan, che evidenzia come per l’Alleanza sia definitivamente giunto il momento di prendere atto con urgenza della pericolosità estrema della parabola discendente che essa sta percorrendo e provvedere a riformarla radicalmente permettendole di affrontare un futuro che promette sin da ora di essere reso potenzialmente esplosivo dai problemi che sempre più evidenziano la loro globalità.
Parte della situazione di crisi in cui la Nato si trova ora deriva senza dubbio dal modo in cui essa è progressivamente cambiata dagli anni ’90 del secolo scorso in poi, con un processo che l’attacco terroristico alle Torri Gemelle ha reso in seguito sempre più accelerato. In precedenza infatti, pur nel prevalere del peso del Grande Fratello Statunitense, l’Alleanza rimaneva una società di eguali in cui il lato politico prevaleva sempre su quello militare, e il Lussemburgo, il più piccolo degli Stati membri, poteva bloccare una decisione con il suo veto. Con l’inizio degli anni 2000 essa è invece divenuta, nella realtà anche se non nella forma, una organizzazione stellare, con gli Usa al centro e tutti gli altri Stati intorno, ancora legati fra loro da un rapporto collettivo ma su cui chiaramente prevalevano i legami bilaterali che ciascuno di essi poteva vantare con il centro.
Le conseguenze di questo stato di fatto, di cui portano la maggiore responsabilità le dottrine Neocon statunitensi, il Presidente Bush junior e il suo Segretario per la Difesa Rumsfeld, si sono col tempo rivelate devastanti. Anziché favorire quella crescita della identità europea di sicurezza e di difesa che gli accordi di Saint Malo avevano abbozzato e che avrebbe potuto consolidare il pilastro europeo dell’Alleanza, gli Usa l’hanno invece costantemente ostacolata, giocando da un lato sulle superstiti paure degli Stati membri ex comunisti, terrorizzati dall’idea di un possibile ritorno offensivo della Russia, e utilizzando il Regno Unito, dall’altro, come un cavallo di Troia inserito nella Unione europea.
Per rendere la loro presa sull’Alleanza più solida hanno inoltre favorito l’elezione di Segretari Generali o inglesi o appartenenti a piccoli Paesi nordici. Ne è risultata una Nato pesantemente squilibrata, attenta soltanto alla sua frontiera nord orientale, pericolosamente ed inutilmente aggressiva nei riguardi della Russia e del tutto dimentica di un teatro Mediterraneo in progressivo disfacimento. Nel contempo poi non è stata data la dovuta importanza alle nuove frontiere dei conflitti, per cui l’Alleanza è ora indietro sul piano cyber e su quello dello spazio e del tutto impreparata alla guerra ibrida.
A tutto ciò si è aggiunto negli ultimi tempi un terribile interrogativo politico che la disfatta afghana ha evidenziato, vale a dire l’affidabilità o meno di garanzie americane che già in un paio di casi, in Vietnam come in Afghanistan, si sono rivelate alla prova dei fatti basate sul nulla. L’intero complesso è quindi da rivedere a fondo, ma come? La complessità dell’argomento ci costringe a rinviare a una prossima occasione la continuazione di questo discorso.