[MILANO] Giornalista freelance e reporter per Il Foglio, Business Insider, National Geography Traveller, Linkiesta, La Repubblica. Cura una newsletter settimanale sull’Unione europea: La Spada nella Roccia.
Governi e grande industria investono sulla guerra
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‘Segui i soldi’.
Questo vecchio adagio, dalla retorica e dalla semplicità un po’ cinematografica, risulta spesso azzeccato quando si vuole trovare il bandolo di una matassa e soprattutto quando si vuole azzeccare una previsione sul futuro. Perchè il futuro sarà lì dove si investe.
E se vogliamo azzardare qualche previsione circa il fatto che i prossimi anni saranno anni di pace o di guerra, forse ci conviene guardare a quanto e come i governi più importanti del mondo e la grande industria stanno investendo sul settore armi e difesa.
E se si seguono i soldi, si scopre che questi sono molti, e che il barometro indica guerra. Se non combattuta, almeno pronta.
Questo perchè la spesa globale per armi e armamenti, negli ultimi mesi, è verticalmente cresciuta: + 9%, raggiungendo la cifra record di 2200 miliardi di dollari nel 2023.
E nessuno investe 2000 miliardi per beni che non ha intenzione, o la ragionevole probabilità, di usare.
Certo, queste cifre sono per lo più stime, probabilmente approssimate per difetto, perchè buona parte degli investimenti militari sono sotto segreto militare, oppure compiuti da Paesi e gruppi, (come la Russia, la Corea del Nord, oppure Hamas) non esattamente noti per trasparenza e condivisione delle informazioni e dei dati. E non è tutto. Sempre secondo IISS è verosimile che la spesa cresca ancora nei prossimi mesi.
Le ragioni di questa crescita sono piuttosto evidenti e hanno a che fare sia con le guerre in corso che con quelle possibili future che vanno scongiurate per tramite della deterrenza oppure preparate, nel caso in cui non ci fosse deterrenza che tenga.
Voci di spesa
Così se volessimo individuare le ragioni di questa crescita della spesa militare troveremmo tre grandi tronconi di spesa.
Il primo, piuttosto limitato, riguarda i conflitti regionali, quelli che vanno avanti da più tempo (così tanto che quasi li abbiamo dimenticati) e che spesso sono ridotti, almeno nella testa di chi li osserva da fuori, a guerriglia. Conflitti come quello in Myammar, o in Yemen, o in Sudan, oppure ancora come quello mai sufficientemente ricordato che ancora è in corso in Siria.
Tutte queste guerre, ormai assestatesi su una specie di guerriglia permanente, oltre a non comparire nei radar dell’attenzione delle opinioni pubbliche occidentali, hanno costi in termini di armi e armamenti piuttosto ridotti. Questo perchè in genere sono guerre che si combattono contro civili inermi, per uccidere o annientare i quali non serve chissà quale arma strategica, basta una vecchia pistola. Oppure perchè spesso si tratta di guerre che vengono combattute da eserciti di risulta, spesso informali, che si approvvigionano sul mercato nero e illegale, che spesso riciclano armi dismesse o rubate dai grandi eserciti occidentali. Un paniere impossibile da quantificare e individuare che si perde nell’opacità dell’illegalità e il cui peso, nel conto complessivo delle spese per armi e armamenti, è inquantificabile ma ragionevolmente limitato. Un vecchio report, Africa’s Missing Billions, datato 2007, stimava che il costo complessivo delle guerre in Africa tra il 1990 e il 2005, era stato di 300 miliardi. Una goccia nel mare rispetto alle spese militari complessive sia di quel periodo (lo stesso in cui la fallimentare Guerra al Terrore avviata dagli Usa contro Afghanistan e Iraq costava più di 300 milioni al giorno) sia di quello di oggi.
Se si guarda alle spese militari di oggi si nota che gran parte degli investimenti riguardano rispettivamente il secondo e il terzo troncone di spesa: quello sulle guerre effettivamente in corso e che riguardano (indirettamente ma non troppo) l’Occidente, cioè il conflitto in Ucraina e quello tra Israele e Gaza, e quello che riguarda la preparazione e la deterrenza di guerre future: un conto complessivo nel quale finiscono soprattutto due voci, quella della guerra in potenza sul fronte del Pacifico, tra Usa e Cina, e quella, che appare ogni giorno più probabile, tra Nato e Russia.
Guerra in Ucraina
Per quel che riguarda il computo complessivo della guerra in Ucraina, ci sono, di nuovo tre tronconi di spesa: quelle sostenute dall’Ucraina stessa, quelle sostenute dalla Russia, quelle sostenute dai paesi alleati dell’una o dell’altra. Al momento l’Ucraina è il Paese al mondo che spende di più in armi ed esercito in relazione al suo reddito: il 36% del pil ucraino viene dirottato sulla spesa militare. Gli Stati Uniti, tanto per fare un paragone, non arrivano al 3,5% del loro Pil, e la Cina nemmeno al 2%. Certo, i prodotti interni lordi di Cina e Stati Uniti non hanno niente a che fare con quello ucraino, e quindi questo si traduce in una spesa assoluta che, nel caso degli Usa (il Paese con la spesa militare più alta) sfiora i mille miliardi l’anno, nel caso della Cina i 300, e nel caso dell’Ucraina i 60 miliardi annui.
Poi ci sono le spese russe, delle quali per evidenti motivi sappiamo meno, ma sappiamo che queste si attestano attorno ai 100 miliardi, cioè circa il 6% del suo pil.
Sommando le spese militari annue di Russia e Ucraina, i due Paesi che effettivamente stanno combattendo sul fronte ucraino, arriviamo a circa 160 miliardi annui.
Ma, a questo punto, sappiamo che la guerra in Ucraina non riguarda solo gli eserciti (e i Paesi) che materialmente la combattono. Al contrario riguarda anche i Paesi che sono alleati dell’uno e dell’altro e che forniscono armamenti di vario tipo. In questo senso, possiamo dire, che la guerra in Ucraina sta avendo l’impatto di una guerra globale, dal momento che ha portato a un aumento delle spese militari non solo in ambito locale, ma anche in Paesi che, con quel conflitto, in teoria non c’entrano niente, ma in pratica ne sono coinvolti in termini di rifornimenti, aiuti, armi. Un sostegno che ha un costo economico alto. Secondo il Kiel Institute for the World Economy, che tiene traccia anche degli aiuti militari all’Ucraina, la cifra stanziata dai governi occidentali per gli approvvigionamenti all’Ucraina supera i 100 miliardi di dollari dal febbraio 2022. Molto più difficile, se non impossibile, sapere a quanto ammonta il valore dei contributi in armi che la Russia ottiene dai suoi sostenitori, come la Corea del Nord.
Situazione a sud
Se ci si sposta a sud, si arriva all’altro fronte caldissimo del mondo, quello di Gaza. Lì si trovano altri dati, diversi nella forma, ma non nella sostanza. La guerra tra Israele e Hamas è una guerra profondamente diversa da quella tra Russia e Ucraina. Se infatti tra Russia e Ucraina ci si trova di fronte a una guerra, tutto sommato, canonica, con due Paesi e due eserciti che si fronteggiano sulle linee del fronte, quella tra Hamas e Israele è un’altra faccenda: da un lato c’è un esercito regolare, tra l’altro tra i meglio equipaggiati del mondo, dall’altro un gruppo terroristico a disposizione del quale non è possibile sapere quali e quanti armamenti ci siano o stiano per arrivare. Così, se si vuole provare a fare stime di spesa, ci si accorge subito che queste possono essere fatte solo sul frangente israeliano, del quale, pur con tutti i caveat del caso, sono disponibili i dati. Su quello di Hamas, invece, nebbia fitta.
Secondo i dati pubblicati da Bloomberg, la guerra di questi mesi a Gaza è avviata a essere la più costosa della storia del Paese con un conto, tra armamenti e spese varie, stimato in 67 miliardi di dollari.
Preparazione e deterrenza
Al novero di queste spese, per quanto enormi, manca ancora un troncone, il più corposo di tutti: quello della preparazione a guerre future e allo sforzo della deterrenza.
Il riferimento è a quanto ogni Paese, impegnato o meno che sia in una guerra in corso, ha deciso di aumentare la sua spesa militare. Si tratta di una spesa ‘in potenza’ decisamente maggiore di quella ‘in atto’. In pratica si tratta di una spesa molto più ampia perchè comprende non solo le spese per coprire l’impegno attuale per armamenti e intelligence, ma anche quelle in preparazione di guerre di là da venire, da scongiurare per tramite della deterrenza. Un filone di spesa che è fatto più che altro di investimenti in industria pesante, tecnologia, intelligence e ricerca.
Per avere un’idea di quanto imponente sia questo ultimo filone di spesa basti sapere che tutti i Paesi Nato, inclusi quelli (e sono la maggioranza) che non hanno ancora raggiunto il margine minimo del 2% del Pil di spesa militare, hanno aumentato i fondi militari almeno del 30%.
Lo stesso, ovviamente, hanno fatto gli Usa, che pure partivano da un plafond enorme e quindi lo hanno fatto di poco (2% circa) concentrando questa crescita su RDT&E, ossia ricerca, sviluppo, test e valutazioni.
Anche la Cina, candidata ad essere il principale nemico, politico e forse anche militare degli Usa ha aumentato di molto la sua spesa per armamenti: 6% in più in un anno, il che significa il 12% della spesa militare mondiale e il 50% di quella compiuta da Asia e Oceania (un computo dal quale però è impossibile leggere le spese nord coreane).
E quindi, se facciamo quello che chiunque voglia capire qualcosa del mondo dovrebbe fare, cioè seguire i soldi, questi inevitabilmente ci portano a uno scenario di guerra, vera o in via di definizione. Quello che non sappiamo è se, come e quando tutti questi soldi daranno il loro terribile frutto.
COP 28: Green New Deal for Future
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Il bello della politica è che non sai mai cosa aspettarti.
Anche quando le cose sembrano scritte, alla fine, succede sempre qualcosa.
A volte è qualcosa di molto brutto, come una pandemia o una guerra che piombano sulle nostre vite all’improvviso e le sconquassano. Altre è qualcosa di molto bello, come l’arrivo di un vaccino che ci restituisce la normalità o come una guerra che finisce. Altre ancora, e per la verità si tratta della maggior parte di queste, succede qualcosa di imprevisto: qualcosa il cui arrivo non era stato visto, immaginato, considerato possibile.
È successo, per esempio, poche settimane fa. Lo scorso dicembre. A Dubai, il 13 dicembre. Mentre noi qui eravamo affaccendati tra regali e regalini, laggiù ci si stava preparando a smantellare la COP28. Gli spazi andavano liberati perché di lì a poche ore scadeva il tempo per il quale gli spazi di EXPO Dubai erano stati riservati alla Conferenza da parte dell’ONU, il più grande appuntamento politico del mondo, tutto concentrato sul tema dell’ambiente, e bisognava fare spazio per chi li aveva prenotati per il giorno dopo: i mercatini di Natale (in un paese arabo, sì, ma, per fortuna o purtroppo, il mondo non è più quello di una volta. E nemmeno il Natale).
Eppure alla vigilia di quello sfratto, non c’era ancora niente. Dopo due settimane di negoziati, non c’era uno straccio di bozza condivisa, di accordo, di principio condiviso, di risultato che potesse toccarsi e che potesse dimostrare che questa ventottesima COP non era stata solo una passerella, e solo un’infilata di belle parole e brutte bugie.
Non c’era nulla e nella sala stampa la tensione correva palpabile, divisa tra chi scuoteva la testa sconfortato e inseguiva il ministro per le risorse naturali delle Isole Marshall John M. Silk che, senza pudore di piangere davanti a tutti, diceva “Non ce ne andremo silenziosamente nelle nostre tombe d’acqua”, e chi, con aria navigata, diceva che era tutto prevedibile, che si sapeva da un pezzo che questa COP non sarebbe andata a parare da nessuna parte.
Del resto, questa era una COP nata zoppa, perché organizzata da un Paese produttore di petrolio, che regge tutta la sua (ricchissima) economia sulla dipendenza del mondo del petrolio, e perchè presieduta da Sultan Al Jaber, uno che di mestiere, nella vita normale, non fa il presidente di conferenze sul clima, ma il petroliere: produce e vende petrolio. E che – giustamente, perchè, alla fine, è il suo lavoro – cerca di produrne e di venderne il più possibile, e se inquina, pazienza.
Quindi, quando la COP è iniziata, alla fine di novembre, e alla vigilia della sua fine, a metà dicembre, questa conferenza aveva tutto l’aspetto di una pagina già scritta, un film di cui si conosce il finale fin dalla prima scena, di un preannunciato buco nell’acqua.
Poi, però, è successo, qualcosa.
Qualcosa le cui ragioni sono difficili da leggere, ma che hanno a che fare, prima di tutto con le persone e con la volontà politica occidentale, in particolare europea.
L’Ue, infatti, anche se priva del suo tedoforo ambientalista Frans Timmermans, era stata molto chiara alla vigilia della COP e aveva messo in chiaro che non avrebbe accettato niente che non prevedesse l’aumento (addirittura la triplicazione) dell’energia prodotta da fonti rinnovabili e un accordo all’eliminazione graduale dei combustibili fossili.
Una serie di condizioni, quelle europee, che sembravano destinate a restare lettera morta nella COP dei petrolieri.
Eppure, poi, come dicevamo, qualcosa è successo.
Qualcosa che può avere a che fare con volontà dei singoli individui di passare alla storia, con la consapevolezza della non potabilità e non accettabilità politica e sociale di un nulla di fatto, o forse con la consapevolezza e l’aritmetica delle cose: il clima cambia, negarlo non ha più senso, mostrarsi inermi non solo non è più accettabile, ma nemmeno possibile. E neppure vantaggioso perchè, alla lunga, i costi economici della crisi climatica potrebbero essere più alti della sua, pur tardiva, prevenzione.
Per una sola di queste cose, o forse per tutte insieme, alla fine, a sorpresa, qualcosa a Dubai è successo.
In particolare è successo che la COP, alla fine, si è sbloccata e che questa strana e un po’ surreale conferenza delle parti organizzata dai petrolieri per liberare il mondo dall’inquinamento prodotto dal petrolio, alla fine si è trasformata dall’essere destinata a essere la più inconcludente di sempre a essere la più incisiva di tutte. La prima a pronunciarsi in modo esplicito contro i combustibili fossili.
Infatti, alla fine, la dichiarazione conclusiva di COP 28, è di 34 parole. Parole che, così in fila, nessuno aveva mai visto, e che auspicano “Una transizione dai combustibili fossili in un modo equo e ordinato, che acceleri nel prossimo decennio, così da raggiungere emissioni nette pari a zero nel 2050, in accordo con le conclusioni della scienza”.
Sembra poco, e probabilmente lo è, ma non solo è tutto quello che abbiamo. Ma è il massimo che sia mai stato raggiunto.
Infatti, benchè le COP siano lo strumento più ampio di discussione presente al mondo (non esiste niente che, oggi, paia paragonabile; non esiste nessun altro contesto nel quale siedono, allo stesso tavolo, più di duecento paesi, in un modo trasversale ad alleanze, interessi economici e partnership) e benché le COP abbiano circa 30 anni (la prima, nel 1995, è stata presieduta da una giovanissima Angela Merkel, all’epoca Ministro dell’Ambiente), mai, sino ad ora, si era arrivati a mettere in relazione diretta cambiamento climatico e fonti fossili.
Può sembrare assurdo (e in realtà lo è), ma dal 1995 allo scorso dicembre, le COP erano state vaghe geremiadi sul fatto che il pianeta andava salvato, che il clima era in pericolo (signora mia) e che insomma bisognava ridurre l’inquinamento e contenere il surriscaldamento del pianeta entro il grado e mezzo rispetto all’epoca pre-industriale. Poi, però, al momento di dire come e facendo cosa e dove, tutti si guardavano intorno con aria perplessa. “Boh, non saprei…’.
Più che una Conferenza delle Parti, un gioco delle parti.
Questo perché, per quanto sia vero che alle COP i Paesi siedono in modo paritetico allo stesso tavolo, è anche vero che quelli ambientali non sono gli unici interessi in gioco. Forse sono quelli che ha più senso tutelare, quelli la cui non tutela ha (e avrà) gli effetti più esiziali nel medio e lungo periodo. Ma, nel mondo vero, non esistono solo gli interessi di medio e lungo termine. Esistono anche quelli di breve e brevissimo termine. E, in genere, è di quelli che ci si preoccupa per primi.
E sino a questo punto, gli interessi più urgenti, ritenuti prioritari rispetto a quelli ambientali, sono sempre stati quelli economici.
E lo sono ancora, intendiamoci.
Solo che, nel frattempo, è successo, appunto qualcosa.
E questo qualcosa è stato che la tutela ambientale ha smesso di essere una medicina amara per diventare un ottimo affare.
Per capire come e quando, occorre spostare lo sguardo da Dubai un po’ più a nord, e cioè all’Europa e agli Stati Uniti.
Il ruolo di questi due soggetti alle COP è da sempre particolarmente controverso. Questo perché è notorio che il pasticcio ambientale e climatico nel quale ci troviamo tutti è stato causato dallo sviluppo enorme e velocissimo dei Paesi Europei e degli Stati Uniti. La rivoluzione industriale è cominciata lì, la diffusione dell’auto è cominciata lì (e lì a lungo è rimasta), il consumismo più forsennato è cominciato lì (e lì a lungo è rimasto). Il problema però è che il conto climatico di tutta questa crescita è ricaduto sul pianeta intero, mentre i vantaggi solo a Stati Uniti e Europa. Questo ha sempre reso la voce dei Paesi occidentali per forza di cose smorzata: a che titolo chiedevano ad altri Paesi, per giunta più poveri, di fare sacrifici per riparare un debito climatico che loro stessi avevano contratto? A che titolo chiedevano ad altri Paesi, per giunta più poveri, di fare sacrifici che loro stessi non avevano intenzione di fare?
Poi però, ancora una volta, è successo qualcosa.
Anzi, di cose ne sono successe tre, la prima causa della seconda, la seconda causa della terza.
La prima è stata che la crisi climatica ha smesso di essere un’ipotesi teorica e lontana e ha preso a farsi tangibile, evidente, plastica.
Questo ha innescato la seconda cosa: ossia che il cambiamento climatico e la necessità di una transizione energetica hanno ottenuto l’attenzione dell’opinione pubblica e sono diventati un tema elettorale. Uno dei pochi, per altro, in grado di catalizzare voti e interesse (specie dall’altrimenti piuttosto riluttante elettorato giovanile).
Il più grande successo elettorale delle istanze ambientaliste è stato probabilmente quello delle europee: in Francia, Germania e Regno Unito, i partiti verdi sono andati fortissimo e hanno ottenuto la loro delegazione più ampia di sempre (75 seggi) a Strasburgo.
I verdi, in realtà, non sono mai entrati nella “maggioranza Ursula”, quella che ha sostenuto la presidente della Commissione Europea Von der Leyen, e a Strasburgo hanno avuto un peso piuttosto limitato, ma il peso del loro elettorato è stato importante.
Questo perché la commissione Von der Leyen si è insediata come la più debole di sempre (appena 9 voti) e perché la Presidente sapeva che, non essendo particolarmente amata (eufemismo) dall’aula, doveva almeno cercare popolarità all’esterno.
E che per farlo serviva una presa di posizione che fosse forte, visibile, riconoscibile.
Questa presa di posizione (prima che arrivassero il Covid e il piano Next Generation EU) è stata la scrittura del Green New Deal.
Il Green New Deal, oltre che un piano di riduzione dell’impatto ambientale delle attività industriali e civili, è soprattutto un gigantesco piano di investimenti. Circa mille miliardi messi sul piatto affinché il sistema industriale e infrastrutturale europeo cercasse e trovasse modi per non inquinare o, almeno, per farlo meno. Lo stesso, mesi dopo, ha fatto l’amministrazione americana di Joe Biden, sia con il piano per le infrastrutture (circa 1000 miliardi), sia con l’IRA (il piano anti inflazione che contiene enormi incentivi per la produzione di energia da fonti sostenibili).
E qui arriva la terza cosa.
Il fatto che la tutela del clima da intenzione si è trasformata in azione. Da auspicio, in affare.
La ragione per cui, per la prima volta, ad una COP, per giunta una COP organizzata da un petro-stato, si è scritto nero su bianco che c’è una relazione diretta tra crisi climatica e combustibili fossili, è figlia del fatto che per la prima volta si è vista un’alternativa al petrolio che fosse non solo percorribile, ma conveniente e proficua.
E questo processo, questa trasformazione da amara medicina in ottimo affare, affonda le sue radici in Europa. Nell’Europa in cui sono nati i Friday for Future, nell’Europa in cui i partiti verdi hanno ottenuto buoni risultati, nell’Europa in cui il clima è diventato tema elettorale.
Nella stessa Europa in cui, per ironia della sorte, il primo motore a scoppio è stato inventato e tutto questo pasticcio iniziato.
Joe Biden e lo sporco caso Willow
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Joe Biden ha un problema per il 2024: deve vincere le elezioni. Detta così non sembra una grande novità. Ma in realtà lo è. Lo è perché il contesto e il quadro elettorale in cui si giocherà la prossima corsa alla Presidenza è molto diverso da quello del 2020.L’anno prossimo, a fare da traino alla candidatura di Biden, non ci sarà l’evidenza cocente e concreta dei pessimi risultati dell’amministrazione Trump; non ci sarà nemmeno più l’urgenza di liberarsi di un Presidente inaffidabile, inconsistente e pericoloso; non ci sarà nemmeno la pagina bianca di una Presidenza nuova, ma solo quella, per forza di cose già scritta, di un presidente già in carica e in cerca di conferma.
Il progetto Willow mette in gioco la rielezione del Presidente
Ma oltre a questo, nel 2024, il vero problema, per Biden e i suoi, potrebbe essere un altro: a sostenerlo potrebbe non esserci più la gigantesca coalizione che lo ha portato a vincere le elezioni del 2020: un’enorme pletora di elettori, movimenti, opinion maker e associazioni che andava dal centro repubblicano alla sinistra progressista e che aveva reso possibile la sua elezione. La ragione per cui questa enorme coalizione potrebbe non esserci più ha a che fare non solo e non tanto con il modo (per altro equilibrato e efficace) in cui Joe Biden ha governato in questi difficili anni, ma con una sola delle sue scelte. Una sola. Che potrebbe rivelarsi decisiva ed esiziale per la sua elezione: l’approvazione del progetto Willow.
Il progetto Willow, per chi si fosse perso qualche pezzo, è un campo estrattivo petrolifero su terreno federale, il cui processo di autorizzazione era stato avviato dall’amministrazione Trump e poi completato, tra mille polemiche, sotto quella Biden. Già così, la cosa sarebbe un problema, dal momento che, per tutta la campagna elettorale Joe Biden aveva assicurato che mai, in nessun caso, avrebbe autorizzato nuove estrazioni su terreni federali: “No more drilling on federal lands, period” aveva detto il candidato Biden a un evento pubblico, incorrendo nello stesso goffo errore di George H. Bush e del suo ‘Read my lips, no more taxes’.
Durante la campagna del 2020, la questione dei permessi di esplorazione petrolifera era tutt’altro che di secondo piano: i repubblicani accusavano Biden di essere una specie di eco-terrorista, ostaggio della sinistra ambientalista più radicale e di voler essere un ‘presidente green‘ deciso a punire le aziende petrolifere e, di conseguenza, a impoverire l’industria e la classe media americana. Invece, la sinistra progressista che, più per ordine di scuderia dato da Bernie Sanders che per paura di Trump, stava sostenendo Biden, era comunque molto guardinga nei confronti del candidato Dem: temeva che non sarebbe stato sufficientemente duro nei confronti dei petrolieri e del petrolio. Per questo, come è sua caratteristica, Biden mediò tra le posizioni e disse che no, non avrebbe impedito l’avvio di nuove trivelle su terreni privati, anche perchè non sarebbe stato nei suoi poteri, ma avrebbe impedito, nel modo più assoluto, l’avvio di nuovi campi petroliferi su terreni federali.
E invece, tre anni dopo quella promessa, ribadita e ripetuta, Joe Biden non solo ha approvato un nuovo campo di estrazione in un terreno federale (cosa che già così farebbe fischiare il fallo ai suoi sostenitori più sinistrorsi) ma con Willow, ha approvato il più grande campo estrattivo di sempre su territorio federale, per di più in un’area protetta. Ce n’è di che far crollare il suo gradimento a sinistra e far svanire la sua, pur consistente, legacy ambientale.
L’incoerenza del primo “Presidente del clima” degli Stati Uniti
Per dare un’idea di quanto fragorosa sia stata l’eco della decisione del Presidente negli ambienti progressisti, basti sapere che pochi giorni dopo l’approvazione del progetto Willow, il sito-bibbia della sinistra americana, Mother Jones, ha ripreso un articolo del Guardian dal titolo “L’approvazione di Biden del progetto Willow mostra l’incoerenza del primo “Presidente del clima” degli Stati Uniti”. Negli stessi giorni, il New York Times titolava “Molti giovani elettori amareggiati per il sostegno di Biden alla trivellazione petrolifera di Willow”. Nell’articolo del New York Times, si citava un sondaggio di marzo di Data for Progress, dal quale risultava un calo del 13% degli indici di approvazione di Biden tra gli elettori di età compresa tra 18 e 29 anni all’indomani della decisione di Willow.
Dal punto di vista del consenso elettorale, dunque, l’approvazione di Willow è (e soprattutto potrebbe essere) una catastrofe, soprattutto considerando gli strettissimi margini con cui, in genere, si vincono le elezioni negli Stati Uniti. Ma il problema, quando si parla di Willow, è che le sue conseguenze sono solo in ultima istanza elettorali.
Prima di essere un tema di dibattito e di consenso, il progetto Willow è una buona metafora di numerosi di aspetti della politica e dell’economia americana e delle sue contraddizioni. Primo di questi aspetti è la discrasia tra percezione e realtà. È senza dubbio vero quello che dice il Guardian, ossia che la scelta su Willow ha polverizzato la fama di Biden di essere un Presidente ambientalista; eppure è altrettanto vero che questa percezione non è del tutto fondata. Biden ha dato sì il via libera a Willow, ma questo non muta e non ridimensiona il fatto che la presidenza Biden sia stata la più impegnata di sempre per l’ambiente e per il clima, molto più, solo per fare un esempio, di quella di Barack Obama.
Il primo atto in assoluto da presidente di Joe Biden, tanto per fare un altro esempio, è stato quello di rientrare nell’accordo sul clima di Parigi, quello dal quale Donald Trump era uscito senza colpo ferire. Oltre a questo, Biden ha nominato un inviato speciale per il clima, ha posto l’obiettivo del dimezzamento delle emissioni, ha messo più di 370 miliardi di dollari sul piatto dello sviluppo delle rinnovabili, ha imposto dure multe a chi non si adopera per ridurre l’inquinamento, ha finanziato con più di un miliardo di dollari le infrastrutture di sicurezza dei paesi insulari, quelli più esposti ai danni del cambiamento climatico.
Certo, questo impegno sarebbe più visibile e raccontabile se di mezzo non ci fosse il tema Willow, che ha mescolato le carte e, con la sua enormità, ha nascosto tutto il resto e soprattutto il secondo grande tema di cui Willow è epitome e metafora: le nostre oggettive difficoltà nel dire addio al petrolio.
Sostituire le fonti fossili con quelle rinnovabili è urgente per la nostra sopravvivenza
Il grande nodo gordiano di questi anni è il fatto che sappiamo di doverci liberare prima possibile del petrolio, ma non siamo pronti a farlo, né dal punto di vista infrastrutturale, né da quello economico. Sappiamo che continuare a fare uso di fonti fossili non è solo dannoso, ma mette a repentaglio la nostra stessa sopravvivenza, sia come specie che come individui. Per questo, con altrettanta evidenza, sappiamo che è urgente smettere di usare petrolio, carbone e (seppur in maniera diversa) gas, anche perché la tecnologia che ci può consentire di farlo è disponibile. Allo stesso tempo, però, pur essendo già in ritardo sulla strada che ci porterà ad abbandonare le fonti fossili e a sostituirle con quelle rinnovabili, non siamo pronti a farlo.
Non siamo pronti né a smettere di usare il petrolio (per esempio per produrre la plastica) né a sostituirlo del tutto con altre forme di energia. Per ora, l’unica cosa che stiamo riuscendo a fare è affiancare le fonti rinnovabili a quelle fossili, ma non a usarle in modo alternativo. Per questo, per quanto esiziale sia, la ricerca di petrolio non viene fermata. E con essa non vengono neppure fermati i copiosi investimenti (Willow, per esempio, da solo, vale circa 8 miliardi) da cui dipende buona parte dell’economia americana (più di 12 milioni di posti di lavoro e svariati miliardi di entrate fiscali).
Per questo è improbabile che, nonostante i proclami e i buoni propositi, la politica americana riesca a chiudere davvero con il petrolio, almeno sino a quando le fonti rinnovabili non saranno in grado di sostituirlo in modo completo e identico. Ma questo non sarà possibile fino a quando non si fermeranno gli investimenti, dal momento che sino a quando ci saranno aziende, come la ConocoPhillips, concessionaria di Willow, disposte a investire 8 miliardi in un progetto di estrazione, è logico credere che vorranno trarre il massimo profitto dalla loro attività, e affinché questo sia possibile è necessario che il petrolio venga usato, non abbandonato o pensionato prima del tempo.
Il terzo, complicato, aspetto della politica americana, che appare ben spiegato dal caso Willow, è quello della discrasia tra politica locale e politica nazionale. Una discrasia presente ovunque, a qualunque latitudine, ma che è particolarmente marcata in un Paese come gli Stati Uniti nel quale i sistemi elettorali che regolano sia il Senato che la Presidenza hanno matrice locale. Per questo, nella politica americana, la politica locale dà le carte a quella nazionale, e non viceversa. E per questo, la politica dello stato dell’Alaska ha avuto un ruolo così determinante nel consentire l’approvazione di Willow.
Alaska: foreste, tundre e petrolio
L’Alaska (a proposito di contraddizioni) è uno stato fortemente ambientalista. Di fatto chi vive in Alaska (meno di 700mila persone), vive in un rapporto quasi simbionte con una natura rigogliosa e imponente. Allo stesso tempo, però, gli alaskani sono consapevoli del fatto che, sotto quelle foreste e quella tundra meravigliose, c’è l’unica ricchezza e l’unica possibile fonte di lavoro che lo stato offre. Per questo, la popolazione e la politica locale non lesinano quando si tratta di trivellare e scavare pozzi: perché in Alaska non c’è altro da fare. E soprattutto, non c’è altro che convenga fare, dal momento che i profitti delle aziende petrolifere consentono all’Alaska di essere uno stato di fatto privo di imposte.
Così, a spingere Biden verso un soffertissimo sì a Willow, non sono state solo esigenze di realpolitik e non è stato neppure l’ampio credito che contava di aver ottenuto con la sinistra progressista in tre anni di politiche ambientali: sono state le pressioni bipartisan dei deputati e dei senatori dell’Alaska che hanno spinto e lavorato per il sì al progetto. Certo, per quanto sia un tema del quale in Alaska (stato per altro di solida fede repubblicana) sembrano non preoccuparsi, il problema ambientale rimane ed è enorme. Così come quello elettorale.
“Dicono che a tenere unite le anime della sinistra americana sia stato Joe Biden, ma non è vero: è stato Donald Trump – ci ha detto l’analista politica Katie Parsons, dell’istituto di ricerca 270 Strategies –. Non sappiamo se il miracolo si ripeterà, dal momento che questa è un’elezione per il secondo mandato: l’elettorato è meno mobilitato e, nonostante Biden abbia realizzato le politiche più di sinistra degli ultimi anni e nonostante abbia incassato da subito il sostegno del leader progressista Bernie Sanders, il suo consenso a sinistra si è un po’ sfilacciato. Molti del fronte ambientalista e progressista nel 2020, che non avevano votato per Hillary Clinton nel 2016, lo hanno sostenuto per puro anti-trumpismo. Ora potrebbero non farlo più e questo per due ragioni: la prima è che le politiche economiche e sociali di Biden, pur essendo fortemente progressiste e sociali, non sono state comunicate con efficacia. La seconda è il caso Willow”. Joe Biden ha un anno per farlo dimenticare.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di Luglio/Settembre di eastwest
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Quanto inquinano le guerre
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A cosa pensiamo quando pensiamo a una guerra? A una serie di cose, per lo più tutte brutte. Pensiamo alle vittime militari e civili, prima di tutto.
Pensiamo a chi sopravvive e si ritrova tra le mani i brandelli di quella che, fino a pochi mesi prima, era la sua vita. Pensiamo alla fame, al freddo, alla sete, alla paura. Allo stato semiferino cui, in genere, la guerra ci riduce, impegnati solo a sopravvivere. Eppure, oltre a tutte queste calamità che della guerra sono diretta conseguenza, ce n’è un’altra, cui si tende a dare meno clamore ed eco (forse per non sembrare insensibili verso le persone e le vittime) e che riguarda l’ambiente nel quale le guerre si svolgono. Intere zone teatro di guerra, spesso, vengono distrutte in modo irrimediabile o rimangono contaminate per decenni in un modo che non solo rende estremamente tossico vivere, respirare e nutrirsi, ma che spesso rende anche impossibile coltivare, innescando fenomeni di desertificazione e, di conseguenza, siccità.
I danni ambientali della guerra: l’aria
I modi in cui la guerra inquina sono vari. Il primo, in ordine di successione degli eventi e ipotizzando che non si combatta con armi chimiche ma solo tradizionali, sono i bombardamenti e le esplosioni. Ogni edificio che viene colpito da bombe o missili sprigiona nell’aria un pulviscolo fatto di materiali da costruzione (tra i quali, spesso, ancora amianto) e metalli (tra i quali, spesso, ancora, piombo).
A questo primo danno, man mano che la guerra continua e i combattimenti si intensificano, se ne sommano altri. Per esempio, sempre per quel che riguarda l’aria, occorre contare le emissioni di carri armati e aerei, mezzi che hanno bisogno di un enorme quantitativo di carburante e che, di conseguenza rilasciano enormi emissioni Co2. Emissioni alle quali si sommano quelle sprigionate dagli incendi, dalla dispersione di metalli pesanti nell’aria, dalle esplosioni di mezzi carichi di carburante, fino a quelle che arrivano dal danneggiamento di impianti industriali e minerari. Ad oggi, per esempio, è impossibile conoscere i danni ambientali legati alla lunga battaglia nella acciaieria di Azovstal, a Mariupol, un impianto che già in tempo di pace era considerato tra i più inquinanti d’Europa, ma in passato, esempi simili non sono mancati. Nel 1991, nel corso della Prima Guerra del Golfo, per citare un evento clamoroso, furono dati alle fiamme più di 600 pozzi petroliferi in Kuwait. Il risultato di quell’immenso rogo fu non solo l’emissione di un quantitativo di Co2 pari al 3% delle emissioni di quell’anno, ma anche la dispersione di una fuliggine che rimase nel cielo per mesi, cambiando le temperature a terra (che per un certo periodo furono più basse del normale).
L’acqua
Ma se questi sono i danni che riguardano l’aria, occorre poi considerare quelli che riguardano l’acqua. In genere le infrastrutture idriche e di trattamento dell’acqua (come depuratori e fogne) sono tra le prime ad andare a gambe all’aria, o perché prese di mira in quanto strategiche, o perché abbandonate da chi ci lavora. Il risultato più ovvio è che le acque reflue finiscono così come sono in laghi e fiumi, con un immediato rischio per la salute di chi, quell’acqua, dovesse bere. A questo primo danno, che potremmo definire, per così dire, logistico, se ne aggiungono altri, legati all’effetto delle armi che finiscono in acqua, dove rilasciano materiali tossici, e allo sversamento (incidentale o volontario) di sostanze chimiche nei corsi di acqua. L’Ucraina, in questo senso, è un caso di scuola. Lo scorso marzo, la ricercatrice del Leibniz Institute of Freshwater Ecology di Berlino, Oleksandra Shumilova, ha pubblicato uno studio relativo all’impatto della guerra sulle risorse idriche del Paese. Nello studio sono stati censiti i diversi tipi di danno alle strutture idriche e alla qualità dell’acqua, arrivando a contarne una quarantina.
Un caso particolare è quello che riguarda l’area del Donbass, una regione ricca di miniere di carbone che, come è facile immaginare, sono state abbandonate. Il problema però è che le miniere di carbone sono luoghi che hanno bisogno di continua manutenzione, per evitare che, dal momento che sono sotterranee, si allaghino di acqua destinata a contaminarsi. Per evidenti ragioni, nel Donbass nessuno si occupa più di questo tipo di manutenzione, con il risultato che le miniere sono allagate e l’acqua, che prima o poi sarà bevuta e usata, è ormai contaminata.
Ma se questo tipo di contaminazione è una specie di danno collaterale, cioè di effetto non voluto e non cercato, esistono evidenze del fatto che, altre volte, soprattutto nell’Iraq flagellato dallo Stato Islamico, la contaminazione dell’acqua sia stata volontaria e che si sia usata quell’acqua avvelenata a mo’ di arma per indebolire, avvelenare e uccidere la popolazione di intere città.
I rifiuti militari e i rifiuti urbani
Un altro settore dell’ambiente che paga un conto salatissimo per la guerra è quello dei rifiuti. Non solo quelli militari, altamente inquinanti e pericolosi, come bossoli o residui di esplosivo, ma anche i banali rifiuti urbani. Il loro trattamento, spesso già complicato e costoso in tempo di pace, diventa pressoché impossibile in tempo di guerra. Così, nei centri urbani più o meno grandi, si creano discariche abusive (anche se sarebbe più corretto definirle spontanee) per gestire le quali ci sono solo due alternative: o lasciarle lì, a marcire e imputridirsi, contaminando la falda, o dare loro fuoco, inquinando l’aria. Un caso significativo, in questo senso, è stato ed è ancora quello della Siria, Paese che già prima dell’inizio dei combattimenti era noto per la sua pessima gestione dei rifiuti (inclusi quelli sanitari) e che oggi è di fatto del tutto privo di un sistema di smaltimento.
I danni alla biodiversità
Oltre a tutti questi problemi ambientali, occorre poi considerare i danni alla biodiversità.Per avere un’idea di quanto seri possano essere occorre guardare a una terra tanto ricca di biodiversità quanto martoriata da guerre di vario genere: l’Africa. Nel 2018, due studiosi di Princeton, Josh Daskin e Robert Pringle, hanno pubblicato una documentatissima ricerca su come le decine di guerre che negli anni si sono susseguite in Africa hanno influito sulla sua fauna. Dalla loro relazione emerge che il 71% delle aree protette dell’Africa ha subito uno o più conflitti dal 1946 al 2010 e che, per almeno un quarto di queste aree (come Ciad, Namibia e Sudan), le guerre si sono trascinate per più di dieci anni. Un esempio lampante dell’impatto delle guerre sugli animali è quello del parco Gorongosa, in Mozambico, dove, all’inizio degli anni 2000, la popolazione di elefanti era crollata di oltre il 75% e i numeri di bufali, ippopotami, gnu e zebre si aggiravano su una o due cifre.
Non diversa è la situazione dell’Ucraina, dove si stima che risieda il 35% della biodiversità europea e dove la Riserva della biosfera del Mar Nero è un paradiso per gli uccelli migratori che lì nidificano e depongono uova. Oggi l’area è sotto il controllo russo, e non è dato sapere in che condizioni sia, se non per il fatto che, nel corso dei combattimenti è stata oggetto di incendi ed esplosioni che potrebbero averne alterato l’equilibrio.
La guerra inquina anche in tempo di pace
Ma se è vero come è vero che, in tempo di guerra, si è più preoccupati di sopravvivere che dei danni all’ambiente, è vero anche che la guerra inquina anche quando non si combatte e lo fa attraverso strutture militari, produzioni di armi, esercitazioni. Lo scorso ottobre la politologa americana e docente di Oxford Neta C. Crawford ha pubblicato un libro dal titolo The Pentagon, Climate Change, and War: Charting the Rise and Fall of US Military Emissions, nel quale, pur riconoscendo gli enormi progressi in termini di decarbonizzazione compiuti dalla Difesa americana, constata la resistenza di un dato più volte denunciato: ossia che il Pentagono è ad oggi il singolo maggiore consumatore di petrolio al mondo e il maggiore emettitore di gas serra, in grado di consumare, da solo, più di 100 milioni di barili di petrolio all’anno. Il carburante serve sia ad alimentare navi, veicoli, aerei e operazioni di terra, sia per scaldare e illuminare i circa 560.000 edifici che fanno capo alla Difesa americana. Nonostante si tratti di un dato imponente, va detto che è anche inevitabilmente parziale, dal momento che, per evidenti ragioni, non è possibile avere da Paesi che hanno eserciti altrettanto imponenti, come quello russo e cinese, la medesima trasparenza in termini di consumi e inquinamento che, invece, il Pentagono provvede con puntualità. Perché, alla fine, il problema è sempre lo stesso: quando si parla di guerra, di militari e di combattimenti, la parte di danno che è possibile conoscere è sempre parziale e incompleta. Sempre stimata per difetto. L’enorme punta di un enorme iceberg.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di aprile/giugno di eastwest
Perché i Balcani tifano per Mosca
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Lo scorso 25 agosto, mentre il mondo stava guardando con orrore e sgomento a quello che stava succedendo all’aeroporto di Kabul e la guerra non era nemmeno lontanamente tra le cose che consideravamo probabili, il giornale Foreign Politics pubblicò un articolo dal titolo: “I Balcani non credono più all’Ue”. A quell’epoca, sembra una vita fa, l’articolo, passò relativamente inosservato. Del resto, stavamo tutti guardando, giustamente, a Kabul.
Ma il tempo con quel pezzo è stato gentile e, pochi mesi dopo, lo ha fatto tornare buono. Del resto questi sono tempi complicati. Tempi complicati che, in teoria, non riguardano i Balcani. Ma che in pratica hanno, nella regione tormentata dall’altra parte dell’Adriatico, uno dei loro scenari chiave.
La ragione di questa centralità incidentale della regione è che i Balcani sono, geograficamente parlando, Europa a pieno titolo. Dal punto di vista politico, e anche sociale, invece non lo sono nemmeno un po’. Anzi: sono una regione i cui Governi sono sfilacciati e inefficaci, hanno lacune democratiche (soprattutto in Serbia), questioni territoriali mai risolte (come in Kosovo e in Repubblica Srpska) ed enormi problemi di corruzione e povertà. Queste condizioni di fragilità hanno sempre reso la regione, da dopo la guerra degli anni ’90, ma forse a ben guardare anche da prima, porosa, permeabile. In cerca di una pace, di un buon Governo, di una prosperità che da sola non le è riuscito di darsi e, se fosse possibile, anche di un inquadramento internazionale che, dopo aver rifuggito per tutta la guerra fredda, ora cerca disperatamente.
Questo inquadramento internazionale, in linea teorica, dovrebbe essere all’interno dell’Ue, perché la geografia, in merito, parla chiaro: i Balcani sono Europa. Però per varie ragioni questo non è mai successo. Le fragilità politiche dei Paesi balcanici hanno impedito loro di effettuare le riforme e di raggiungere i requisiti economici e di democrazia minimi richiesti dall’Ue; allo stesso modo, però, l’Ue (specie per mano di Emmanuel Macron) ha nicchiato quando si è trattato di accelerare e, addirittura, ha fermato tutto quando si è trattato di consentire a Paesi come Albania e Macedonia del Nord di entrare in Ue. “Nel 2003 – scrive Foreign Politics – a Salonicco, in Grecia, i leader europei hanno promesso ai paesi dei Balcani occidentali che il loro futuro ultimo risiede nell’Ue. Il linguaggio su una “prospettiva europea” per la regione è entrato in quasi tutti i comunicati pertinenti da allora, a cui i funzionari si sono aggrappati come dimostrazione di serietà e impegno da un blocco che ha tradizionalmente lottato per articolare una politica estera coerente per il suo vicinato più ampio. Ma la volontà politica non ha mai tenuto il passo con la retorica. E il sostegno all’allargamento tra gli elettori è in gran parte crollato in tutto il continente dall’ammissione della Croazia nel 2013, con l’opinione pubblica nei Paesi dell’Europa occidentale particolarmente diffidente nell’ammettere più paesi al momento”.
Questo continuare a procrastinare dell’Ue, questo suo continuo considerare (non senza ragioni) i Paesi balcanici come ‘non all’altezza’ del salotto buono di Bruxelles, ha generato da quelle parti enorme frustrazione e malcontento. Oltre che una sempre meno celata diffidenza verso quell’Ue che, dopo l’ignavia mostrata all’epoca della guerra, per la seconda volta nel giro di due decenni voltava ai Balcani le spalle, lasciandoli, di fatto al loro destino.
Su questo malcontento, o meglio, su questa delusione, ha seminato per anni la Russia di Vladimir Putin. Lo ha fatto in vari modi. Il primo e il più evidente dei quali è stata le propaganda capillare, compiuta sia attraverso i canali Sputnik e Russia Today, diretta emanazione del Cremlino, sia attraverso canali televisivi ‘amici’ e soprattutto attraverso la terra di nessuno dei social, inondati di troll, profili di fake news e complotti di ogni ridda. L’intenzione era quella di dimostrare come Ue e Nato fossero istituzioni pasticcione, inconcludenti, corrotte, tutto il contrario della Russia putiniana che veniva invece ritratta come solida, concreta, efficace.
Il report dell’Europarlamento ‘Mapping Fake News and Disinformation in the Western Balkans and Identifying Ways to Effectively Counter Them‘ scrive: “La disinformazione è una parte endemica e onnipresente della politica in tutti i Balcani occidentali, senza eccezioni. Una mappatura del panorama della disinformazione e della contro-disinformazione nella regione nel periodo dal 2018 al 2020 rivela tre sfide chiave della disinformazione: sfide esterne alla credibilità dell’Ue; disinformazione relativa alla pandemia di Covid-19; e l’impatto della disinformazione su elezioni e referendum”.
Allo stesso modo, un report della Nato collega esplicitamente questa volontà di semina russa nei Balcani con l’avvio della crisi in Crimea: “L’emergere di queste narrazioni in Bosnia ed Erzegovina, Montenegro e Serbia coincide con l’annessione illegale della Crimea nel marzo 2014. Il servizio di notizie Sputnik è stato lanciato in lingua serba, nel febbraio 2015, subito seguito da Russia Beyond. Decine di portali con e senza impronta (cioè una dichiarazione di proprietà e paternità obbligatoria) sono apparsi, generando o distribuendo messaggi simili. Nel corso del tempo, vari media, inclusi i principali organi di stampa nei paesi colpiti, hanno iniziato a utilizzare i contenuti di disinformazione stranieri su larga scala. Ciò è stato possibile grazie a un panorama mediatico caratterizzato da tabloidizzazione, logica clickbait, scarsi standard etici, scarso giornalismo investigativo e analisi delle notizie e influenze politiche”.
Ma anche se la propaganda fa molto, non fa tutto. La propaganda si fa amiche le persone, ma non i Governi. Per farsi amici i Governi servono gli investimenti. E anche quelli sono puntualmente arrivati, copiosi. In particolare nel mondo del gas. “Nel 2008 – scrive un report di Carnegie – la russa Gazprom Neft, una sussidiaria di Gazprom, ha acquisito una partecipazione di controllo nella compagnia petrolifera e del gas serba Naftna Industrija Srbije (NIS), un affare del valore di oltre $ 450 milioni e si è impegnata a investire almeno $ 600 milioni in più nell’azienda. Attraverso il suo investimento in NIS, Gazprom Neft ha acquisito beni in altre parti della regione, comprese imprese sussidiarie – stazioni di servizio, impianti di stoccaggio, diritti di perforazione ed esplorazione e uffici di rappresentanza – in Bosnia, Bulgaria, Croazia, Ungheria e Romania. Queste strutture offrono alle entità commerciali russe una presenza visibile in tutta la regione più ampia e creano affinità nelle comunità provinciali in cui le entità russe possiedono, direttamente o indirettamente, partecipazioni in importanti datori di lavoro locali”.
Un altro report, di Center for Strategic and International Studies, scrive “L’investimento economico della Russia nella regione si è concentrato su settori strategici come l’energia e ha capitalizzato i sistemi di clientelismo e corruzione dei partiti. Negli ultimi anni, la Russia ha anche rafforzato i suoi legami militari con la Serbia, vendendole armi, aerei e sistemi di difesa aerea. Ciò ha spianato la strada all’influenza russa per permeare fortemente in Serbia, Bosnia e Montenegro, dove segmenti significativi del sistema politico sono fermamente filo-russi”.
Così, ora che le menti delle persone sono state adeguatamente imbibite di propaganda filo-russa e che i Governi sono stati adeguatamente legati a Mosca, per Putin è arrivato il tempo di mietere quel che ha seminato negli anni con tanta meticolosità. I frutti sono le strade di Belgrado e Banja Luka piene di manifestazioni di estremisti di destra che inneggiano a Putin; sono il capo della Repubblica Srpska (la parte serba della Bosnia Herzegovina) che fa pressioni sull’ambasciatore bosniaco alle Nazioni Unite affinchè non voti contro la Russia; sono la Serbia che non si unisce alle sanzioni; sono Belgrado che presta orecchio a chi sussurra che, in fondo, la storia del Kosovo non è poi tanto differente da quella del Donbas.
Ma la messe più importante è quella che riguarda l’Europa. Un’Europa che, solo oggi, si accorge che il vuoto da lei lasciato nei Balcani è stato colmato da qualcun altro. Un’Europa che si accorge solo ora, che i Balcani, non sono dall’altra parte del mondo, ma al centro del suo continente. Esattamente dove li avevamo lasciati negli anni ’90.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
Gli Stati Uniti alla prova midterm
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Pochi mesi ancora, e poi, a novembre ci saranno le elezioni di mid term. Pochi mesi ancora e poi, comunque andranno le cose, a guidare il Congresso non sarà più Nancy Pelosi.
Non sarà più lei per due ragioni. La prima, la più evidente, è che i dem potrebbero perdere il Congresso (i sondaggi, almeno per ora, sono piuttosto chiari in questo senso); la seconda è che, almeno in teoria, anche se vincessero i democratici, Pelosi potrebbe comunque decidere di passare la mano, non foss’altro che per questione di età (ha 81 anni).
Su quest’ultimo punto, ci sono voci piuttosto discordanti, perché benché Pelosi abbia detto più volte che non avrebbe fatto di nuovo la Speaker, in realtà, si è altrettante volte rimangiata la parola. Recentemente, poi, il Washington Post le ha chiesto se intendesse conservare il ruolo di Speaker in caso di vittoria o di leader della minoranza in caso di sconfitta, ma Pelosi ha rifiutato di commentare.
In realtà, la neghittosità di Pelosi circa il suo futuro non è faccenda da ascrivere solo alla vanità o alla difficoltà a lasciare il potere. È invece faccenda molto politica. La ragione è che prima di fare un passo di lato (comunque vada, Pelosi siederà al Congresso, dal momento che si ricandida per il suo collegio sicuro di San Francisco), Pelosi vuole guardare in faccia il Congresso e, soprattutto, il Partito democratico che uscirà dalle prossime elezioni di mid term e prima ancora, dalle primarie che si svolgeranno da qui alla prossima estate.
I democratici da una parte, i repubblicani dall’altra
Nei prossimi mesi infatti, le primarie saranno se possibile persino più importanti delle elezioni vere e proprie, perché sarà da quelle consultazioni interne che comprenderemo che aspetto avranno i partiti dei prossimi mesi e anni. La ragione è che entrambi i partiti americani, in questa fase, sono in una situazione speculare, e vivono, mutatis mutandis, la stessa situazione.
Sia tra repubblicani che tra democratici esiste una profonda spaccatura: da in lato ci sono i centristi, figli della vecchia tradizione novecentesca, convinti che le elezioni si vincano al centro, che l’elettorato non vada spaventato ma rassicurato, che la conciliazione tra le diverse anime dell’America possa essere trovata e, soprattutto, debba essere cercata; dall’altro lato ci sono i radicali, che si traducono in una fazione fortemente progressista, tra i dem, e in una fortemente trumpiana tra i repubblicani. A onor del vero, comparare democratici dem e repubblicani trumpiani non è del tutto onesto, perché se i progressisti alla Alexandria Ocasio-Cortez o alla Bernie Sanders sono radicali e spesso hanno toni accesi e fuori dalle righe, fondano comunque le loro posizioni su un principio di realtà e di verità. Si possono condividere o meno le loro analisi e proposte, le si possono trovare più o meno praticabili, sensate, eque o efficaci, ma non si possono definire lunari. Le posizioni dell’ala trumpiana dei repubblicani, invece, sono del tutto scollegate dalla realtà e dalla verità; anzi traggono forza dalla sua sistematica negazione, mistificazione, confusione; dal costante vilipendio dei criteri di verità e giustizia.
Nonostante questa fondamentale differenza, c’è però qualcosa che accomuna i democratici progressisti e i repubblicani trumpiani: la loro enorme capacità di mobilitazione degli elettori, il talento (che in America è raro e prezioso) di far uscire di casa le persone per andare a votare; la sapienza nel toccare le corde giuste dell’animo degli elettori, siano quelle dell’orgoglio o quelle della rabbia; la virtù di occupare, come un gas, tutto lo spazio di dibattito disponibile.
La ragione di questo successo è semplice e comprensibile: sia i progressisti che i trumpiani propongono un cambiamento, una rivoluzione, titillano la rabbia e la frustrazione degli ultimi, dei poveri, degli arrabbiati e degli oziosi (che spesso, per altro, sono molto di più di ultimi, poveri e arrabbiati).
Le fazioni centriste, incarnate da Pelosi e dal suo omologo repubblicano Mitch McConnell, invece propongono una versione aggiornata della solita vecchia formula di mediazioni, dialogo e concretezza. Una formula che probabilmente funziona, ma che difficilmente scalda i cuori e porta la gente a fare la fila alle urne.
Il successo, in entrambi i partiti, delle ali estreme porta a una specie di paradosso: i candidati che più hanno possibilità di vincere le primarie, sono quelli che hanno meno possibilità di vincere le elezioni. E viceversa, perché ogni volta che un candidato radicale si afferma, lascia scoperta una enorme fetta di elettorato che radicale non è e che dunque o sta a casa (come successo in Alabama nel 2017, dove la candidatura di un personaggio indigeribile persino per uno stato superrepubblicano come l’Alabama ha fatto sì che vincesse, a sorpresa, un candidato senatore democratico) o si rivolge altrove.
Il problema però è che, se in entrambi i partiti vincono candidati radicali, questo altrove potrebbe semplicemente non esistere.
La politica, infatti, non è un sistema perfetto. Non è governata dalle leggi della termodinamica. Non è in costante ricerca di equilibrio. Se lo fosse, ogni volta che uno dei due partiti si sposta all’estremo, l’altro, per forza di cose, si sposterebbe al centro. Ma con la politica non funziona così. Anzi, spesso, vale l’opposto. E polarizzazione chiama polarizzazione. Estremismo chiama estremismo. Lacerazione chiama lacerazione, con il risultato che nel prossimo Congresso potrebbero sedere soggetti che non solo non si piacciono, ma non si riconoscono nemmeno il reciproco diritto di esistere e non avrebbero la benché minima possibilità di arrivare a stringere accordi, paralizzando del tutto l’azione legislativa e il Governo di Joe Biden.
Le valutazioni di Nancy Pelosi
Per questo Pelosi si è ricandidata. Per questo tentenna nel dire cosa farà da grande. Non per vanagloria o, come diremmo (con grande volgarità) in Italia, per “attaccamento alla poltrona”. Perché prima di dire se sarà ancora leader o semplice deputata, vuole capire quale sarà il Partito democratico che esisterà da qui a pochi mesi. Se prevarrà la fazione centrista, potrebbe serenamente tornare a fare la deputata semplice, affidando il partito nelle mani del suo delfino, il newyorkese Hakeem Jeffries, centrista come lei. Se invece dovesse prevalere la fazione progressista (che Pelosi detesta cordialmente e di cui detesta soprattutto l’esponente superstar Ocasio-Cortez), Pelosi potrebbe voler guidare l’opposizione interna, presidiare il terreno centrista e fare da vigoroso e autorevole contrappeso a possibili sbandamenti a sinistra, che non solo lascerebbero senza voce la base centrista e moderata del partito, ma che lascerebbero anche scoperte le spalle del presidente Joe Biden.
Allo stesso modo, prima di lasciare il campo, Pelosi potrebbe voler vedere come andrà a finire la disfida tra trumpiani e centristi nel Partito repubblicano: se dovesse prevalere (cosa improbabile ma non da escludere) la fazione raziocinante che si riconosce (nonostante qualche mal di pancia) in Mitch McConnell, o in senatori centristi come Susan Collins, Mitt Romney e Lisa Murkowski, o nella deputata Liz Cheney, allora Pelosi potrebbe tirare un sospiro di sollievo e mollare la presa, convinta che comunque vada il Congresso sia in mani guidate dalla razionalità. Se invece dovesse prevalere (come sembra probabile, almeno per ora) la fazione più esaltata, quella dei cultori di Trump e della teoria della Big Lie, ossia del fatto che le ultime elezioni presidenziali siano state truccate, allora Pelosi potrebbe voler restare in prima linea, consapevole di avere una conoscenza della macchina dei regolamenti che in pochissimi anno e consapevole di avere un carisma e un autorevolezza che potrebbero essere capitali da spendere per guidare, anche dall’opposizione, il Congresso e mettere al sicuro la presidenza Biden.
La sua anali potrebbe non essere sbagliata. Per dire l’aria che tira, pochi giorni fa, Kevin McCarty, l’uomo che potrebbe diventare Speaker della Camera nel caso in cui i repubblicani tendenza Trump dovessero vincere primarie ed elezioni, ha partecipato a una trasmissione tv. Lì gli è stato chiesto “Cosa farà se diventerà Speaker e Nancy Pelosi le consegnerà il martelletto di inizio lavori?”. La sua risposta, ridanciana, è stata “Sarà difficile non darglielo in testa”. I social si sono scatenati per questa risposta inopportuna sotto mille punti di vista. Ma forse hanno perso di vista il punto vero: e cioè che probabilmente Nancy Pelosi preferirebbe farsi dare il martelletto in testa, piuttosto che affidarlo a McCarty.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
Climate change: le diverse policy ambientali
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Il clima, il suo cambiamento, il suo continuo (e, a questo punto, evidente) surriscaldarsi, è faccenda che riguarda tutti, a tutte le latitudini. Ma non tutti i Governi stanno reagendo allo stesso modo. Alcuni hanno preso la faccenda di petto, affrontandola come se fosse qualcosa da cui, con urgenza, dipende la vita delle persone. Altri, invece, continuano a trattare tutta la questione clima e inquinamento come hanno sempre fatto, ossia come un problema lontano, nello spazio e nel tempo. E per questo, danno la precedenza a problemi più immediati e concreti, come l’occupazione, l’inerzia dei modelli industriali o, molto più prosaicamente, il consenso elettorale.
Altri ancora invece, e sono i Paesi più grandi e grossi, sia dal punto di vista della popolazione che da quello dell’economia, come gli Usa o l’Ue, hanno ben chiara la portata del problema, la sua imminente gravità (e anche il suo peso elettorale), ma si trovano nella complicata posizione di essere gli unici che davvero possono fare qualcosa e, allo stesso tempo, quelli che possono farci meno di tutti perché la loro ricchezza (opulenza, in alcuni casi) e quella di chi li abita dipendono proprio, se non solo, da un modello economico pensato e progettato sulla base di petrolio e carbone. Smantellarlo, potrebbe significare ripensare l’intero sistema: una cosa che si può fare, ma che richiede passi lenti e ponderati, laddove invece forse servirebbero strappi decisi.
I “buoni”
Così, in questa stasi, mentre guardiamo le nuvole che corrono nel cielo, le tempeste tropicali che spazzano le Alpi, la grandine a novembre e i 38 gradi in Siberia, risulta difficile fare una lista dei buoni e dei cattivi tra i Paesi del mondo. Qualunque definizione sarebbe imprecisa, affrettata, parziale. Quello che possiamo fare, però, è una distinzione tra Paesi più o meno consapevoli e volenterosi. Nella lista dei Paesi più consapevoli, perché il cambiamento climatico ce lo hanno letteralmente in casa, possiamo mettere il Costa Rica, la Danimarca (con la costola Groenlandia) e le Barbados. Paesi il cui peso economico e geo-politico è, in verità, piuttosto limitato, ma che hanno fatto della lotta al cambiamento climatico la loro bandiera, la loro sfida identitaria.
Nel caso del Costa Rica occorre dire che, insieme alla Danimarca, ha dato vita al BOGA, Beyond Oil and Gas Alliance, una specie di cordata internazionale di Paesi intenzionati a fissare una data precisa entro cui mettere al bando definitivamente, la produzione e la ricerca di petrolio e gas. All’alleanza, lanciata tra non poche perplessità lo scorso settembre, hanno aderito, dopo Cop26, Paesi come Francia, Italia, Finlandia e Irlanda, oltre che lo stato della California e la regione del Quebec. La Danimarca, inoltre, si è impegnata a ridurre del 70% le emissioni di gas serra entro il 2030 e ha deciso di investire fortissimo sull’energia eolica offshore, settore del quale aspira a diventare Paese faro. Della Danimarca, poi, fa parte anche la regione autonoma della Groenlandia, che si ritrova nella posizione peculiare di essere una delle terre in assoluto più colpita dal riscaldamento globale e dallo scioglimento dei ghiacci.
Allo stesso tempo, però, la Groenlandia è anche un Paese ricchissimo di terre rare, materiali indispensabili alla transizione ecologica, ma la cui estrazione è devastante e inquinante come poche altre. Non a caso, dunque, pochi mesi fa, la Groenlandia ha fermato un enorme progetto di escavazione. Una scelta comprensibile e salutata con sollievo dagli ambientalisti di tutto il mondo. Ma che mette la Groenlandia nella scomoda e paradossale posizione di essere uno dei paesi climaticamente più consapevoli e, allo stesso tempo, che più si mette di traverso alle politiche di transizione energetica. E la ragione per cui lo fa è, in questa specie di matrioska di paradossi, proprio la tutela dell’ambiente.
Un altro Paese che merita di stare nella lista dei Paesi volonterosi e consapevoli è il Gambia, un posto del quale il mondo, in genere, tende a dimenticarsi. Pochi pochi mesi fa, però, è balzato agli onori delle cronache perché il think tank Climate Action Tracker ha certificato che, con una riduzione di gas serra del 44% entro il 2025, il Gambia è l’unico Paese ad aver rispettato a pieno gli impegni della tabella di marcia previsti da Parigi 2015. Un traguardo enorme in termini assoluti e simbolici. Ma insignificante in termini relativi, se si pensa che il Gambia è un Paese di 2,5 milioni di abitanti che per lo più vivono in estrema povertà e il cui contributo alle emissioni globali annue è di meno dello 0,01% annuo.
Nel gruppo dei buoni, poi, potremmo mettere anche un altro paese africano, il Marocco, che si sta dando da fare per migliorare la gestione delle sue risorse idriche, per ripopolare le foreste e per generare gran parte della sua energia da fonti rinnovabili. La posizione del Marocco, però, è contestata, perché per raggiungere l’obiettivo del 53% di energia rinnovabile entro il 2030 occorre passare dal controllo del Sahara Occidentale, area tra le più contese e complesse della Terra.
Infine, nel club dei Paesi senza dubbio buoni, ma di scarso ruolo economico e (ahimè) ambientale, ci sono le isole Barbados. Il loro peso nel gigantesco paniere delle emissioni globali è minimo (siamo, di nuovo dalle parti dello 0,01%, per circa 250 mila abitanti), ma, dopo Glasgow, il Paese, o meglio la sua carismatica presidente Mia Mottley, ha assunto il ruolo di leader ambientale planetario.
I “cattivi”
Stilare un gruppo dei cattivi, o meglio di Paesi che si ostinano a non impegnarsi per la riduzione del loro impatto sul clima, è faccenda assai più complicata. Perché in teoria non esiste nessun Paese che non sia consapevole dalla questione clima. E non esiste nessun Paese che, almeno di facciata, non abbia preso impegni per ridurre le proprie emissioni. Però esistono Paesi ai quali la transizione ecologica non conviene. Almeno non ora, non a queste condizioni.
Uno, per esempio è l’Australia, primo esportatore al mondo di carbone.
In realtà il contributo complessivo del carbone all’economia australiana è relativamente basso (circa l’1% delle entrate nazionali), ma è politicamente cruciale perché i lavori nel carbone sostengono alcune delle comunità rurali da cui dipende il risultato delle elezioni. A quelle comunità guarda soprattutto (un po’ come il senatore del West Virginia, Joe Manchin) il premier australiano Scott Morrison, noto per le sue posizioni di forte minimizzazione, se non proprio negazione, del cambiamento climatico e del ruolo del carbone nella sua crescita.
Male anche la Russia: non solo per i suoi (assai timidi) tentativi di policy interna, non solo per le mire, pesantissime, che ha sull’Artico, ma anche per le sue posizioni sullo scacchiere internazionale. Lo scorso dicembre, per esempio, la Russia ha bloccato una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che avrebbe definito il cambiamento climatico una minaccia alla pace.
Male anche il Brasile, dove i roghi continui della deforestazione selvaggia degli anni di Bolsonaro, hanno fatto sì che ad oggi la Foresta Amazzonica emetta più CO2 di quanta riesca ad assorbirne.
Vulgata vuole che anche Cina e India giochino nella squadra degli inquinatori senza tetto né legge. Ma, di nuovo, si tratta di una definizione un po’ affrettata. La Cina, per esempio, da un lato è responsabile di un’infinità di emissioni e usa il carbone come se fosse acqua fresca, dall’altro è anche uno dei maggiori investitori al mondo in energie rinnovabili oltre che un imprescindibile produttore di tecnologie necessarie alla transizione verde, come pannelli solari e pale eoliche.
Allo stesso modo, anche sull’India (che pure ha giocato la parte del poliziotto cattivo alla Cop di Glasgow, imponendo che nella dichiarazione finale si parlasse di ‘riduzione’ e non di ‘abbandono’ del carbone) non si possono dare giudizi affrettati. In primo luogo perché, per quanto l’India inquini (e lo fa moltissimo, è il terzo Paese al mondo per emissioni dopo Cina e Usa) ha un livello di inquinamento pro capite assai basso (molto inferiore a quello di qualsiasi Paese occidentale: 1,9 tonnellate a persona nel 2019, contro le 16 tonnellate di ciascuno statunitense). In secondo luogo perché quando si parla di India e inquinamento non si può, in tutta onestà, non tenere conto delle responsabilità storiche di un problema antico al quale l’India sta contribuendo solo da pochi anni: e se il clima, nel suo precipitoso cambiare, non tiene conto di chi ha iniziato per primo, la politica, necessariamente, lo fa.
Infine occorre dire che l’India, che pure ha zavorrato le trattative di Glasgow, un impegno lo ha preso: emissioni zero entro il 2070. Il che significa sì, vent’anni più tardi del 2050 promesso da Regno Unito, Stati Uniti e Ue, e dieci dopo il 2060 scelto da Cina, Russia e Arabia Saudita. Ma significa anche il termine ultimo. La vera e non più trattabile data di scadenza del mondo inquinatore che conosciamo. E questa è senza dubbio, una buona notizia. Non ottima, certo. Ma, per ora, è tutto ciò che abbiamo.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
Mongolia: la legge del più forte, lo zud
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Sono anni che gli esperti (e i film di fantascienza, con loro) vanno ripetendo che esiste un filo sempre meno sottile tra crisi climatica e crisi sociale e che è da illusi (o da miopi) pensare che i ghiacci che si sciolgono e i boschi che vanno a fuoco, oggi, non si trasformeranno, domani, in mancanza di cibo e acqua e in miseria vera e concreta per tutti, incluso l’opulento occidente.
La crisi climatica
Per comprendere con chiarezza cosa si intende per crisi climatica che diventa crisi sociale, forse, un buon posto a cui guardare è la Mongolia, Paese spesso fuori dai radar delle cronache politiche internazionali, ma nel quale il domani della miseria causata dal clima impazzito sembra essere già arrivato.
La ragione degli “spoiler del mondo che sarà” che ci arrivano dalla Mongolia è piuttosto semplice: la Mongolia è uno dei Paesi più estesi del mondo (il 19esimo per superficie, cinque volte l’Italia) e uno dei meno popolosi (circa 3 milioni di abitanti, metà dei quali vive nella capitale, Ulan Bator). Gran parte del territorio mongolo è costituito da steppe e il 40% della sua popolazione, ossia tutti quelli che non si sono ancora inurbati, vive di pastorizia e di agricoltura.
Non ci sarebbe molto altro da dire, se non fosse che, negli ultimi anni, il clima mongolo, che da sempre è estremamente freddo, da una ventina d’anni, è impazzito.
Dall’inizio degli anni 2000, infatti, si sono fatti frequentissimi gli inverni particolarmente rigidi (con temperature che raggiungono i -50 gradi) seguiti da estati particolarmente secche e da lunghi periodi di siccità. Si tratta di un fenomeno, quello del combinarsi di siccità e inverni freddissimi, che i mongoli conoscono da sempre e chiamano dzud (o zud) e che, fino a pochi anni fa era considerato possibile ma estremamente raro e che ora, invece, si è fatto sempre più frequente fino a essere quasi la norma. Questo abbinamento, uguale e contrario, di siccità e di enorme freddo porta con sé due conseguenze. La prima: le estati troppo calde e la siccità hanno ridotto le possibilità di avere fieno e erba per il foraggio degli animali; la seconda: gli inverni troppo freddi, di fatto, fanno sì che gli animali consumino prima del tempo le loro riserve di grasso e, dunque, abbiano fame proprio di quel foraggio che manca.
Quali conseguenze?
A questo punto, di nuovo, le conseguenze dello dzud e della mancanza di foraggio e del freddo, sono due, nessuna delle quali buona.
La prima riguarda gli animali che, vuoi per il freddo, vuoi per la fame, muoiono in massa. Durante lo scorso inverno, per esempio, i dati del Ministero dell’Alimentazione e dell’Agricoltura Mongolo avevano contato le morti di 402.300 capi di bestiame, ossia lo 0,6% del totale nazionale; di questi 2.100 erano cammelli, 17.200 cavalli, 36.600 mucche, 123.300 pecore e 222.900 capre. Numeri alti, ma non quanto quelli, terribili, causati dallo Dzud del 2009-2010, durante il quale morirono 8 milioni di animali, o quanto quello del 1999-2001, quando morirono 12 milioni di capi.
La crisi sociale
La seconda conseguenza degli Dzud, quella che, come dicevamo, trasforma la crisi climatica in crisi sociale, ha a che fare con gli allevatori. Se gli animali muoiono, di freddo o di fame, evidentemente, i loro proprietari rimangono privi della loro principale fonte di sostentamento. A questo punto, per chi alleva bestiame in Mongolia, ci sono varie strade possibili.
C’è chi decide di uccidere gli animali più anziani, così da poter dare il poco mangime disponibile a quelli più giovani; oppure c’è chi decide di affrontare lunghissime transumanze (centinaia di chilometri) per trovare pascoli più ricchi, con il problema, però, di dover far saltare agli animali impegnati in viaggio la stagione dell’accoppiamento e dunque di non poter avere nuovo bestiame. Oppure ancora c’è chi decide di rimanere dov’è e dove è sempre stato, entrando però in una situazione di conflitto, non di rado violento, con gli allevatori vicini, con i quali ci si contende ferocemente il poco foraggio disponibile, tanto che i giornali di cronaca locali riportano con sempre maggiore frequenza storie di alterchi e risse.
Dalle campagne alla città
Se tutte queste opzioni appaiono, poi, poco percorribili o economicamente inconcludenti, infine, ce n’è un’altra, quella preferita dai più giovani. Gettare la spugna dell’allevamento, vendere i pochi animali rimasti e trasferirsi a Ulan Bator, città che, complice il mercato dell’estrazione mineraria, negli ultimi anni ha avuto un’enorme crescita (la sua popolazione è triplicata in 30 anni) che appare, agli abitanti impoveriti delle campagne una specie di Eldorado grondante di occasioni, lavoro, ricchezza.
Ovviamente, però, non è così. Non tanto perché non ci sia davvero possibilità di lavoro, che, in effetti c’è ed è anche molto, anche se riguarda quasi esclusivamente i minatori, ma perché a Ulan Bator non ci sono né case né infrastrutture adatte a ricevere così tante persone. La ragione di tanta mancanza di alloggi e di strutture ha a che fare in parte con l’enorme quantità di persone arrivate in pochi anni e, in parte, con la legge mongola che prescrive che chiunque ha il diritto di erigere la sua yurta su un pezzo di terreno libero, cosa che ha fatto sì che i terreni vicini alla città siano quasi tutti occupati, rendendo impossibile la costruzione di nuove case.
Il risultato è che, ad oggi, Ulan Bator appare come una città spaccata in due, a sud il quartiere gentrificato e di élite di Zaisan, con grattacieli e villette a schiera; a nord invece enormi slum, dove vecchi e fatiscenti edifici di epoca comunista si alternano alle yurte, in un sistema casuale, più che caotico, quasi del tutto privo di servizi, strade, fognature e riscaldamento. Quest’ultimo aspetto non è secondario, perché Ulan Bator è considerata la capitale più fredda del mondo, con una temperatura media annuale di 0 gradi. “I funzionari – scrive Reuters – stimano che il 55% della città – o 750.000 persone – ora viva in vasti distretti informali nelle tradizionali tende circolari dei pastori, o ger, senza accesso al riscaldamento centralizzato. Ciò ha portato a un grave problema di inquinamento con le stufe a carbone che le persone usano per stare al caldo, e che hanno portato l’inquinamento atmosferico a superare di 14 volte le linee guida globali. Consapevoli della necessità di rigenerare le vecchie aree residenziali sovietiche e di collegare i distretti ger alla fornitura di gas, per fermare l’inquinamento degli incendi, le autorità hanno promesso di investire miliardi in alloggi e servizi pubblici a prezzi accessibili entro il 2030”.
Riqualificazione
Al momento, però, il piano di nuove costruzioni prosegue a rilento e, secondo un report di Amnesty International del 2016, ha ottenuto il solo risultato di procedere a sgomberi ai quali non sono seguite costruzioni, con il risultato di produrre una pletora di potenziali senzatetto: “L’ambizioso programma di riqualificazione non è stato accompagnato dall’istituzione di garanzie sufficienti per proteggere dal rischio di sgombero forzato – dice il report -. È urgente che le autorità mettano in atto garanzie chiare ed efficaci per proteggere i diritti dei residenti”.
Così, ad oggi, le periferie di Ulan Bator appaiono non solo miserrime, sporche, e dimenticate, ma anche chiuse in un circolo vizioso del quale non si riesce a trovare il bandolo: non c’è più spazio, ma continua ad arrivare gente dalle campagne, spinta in città dagli effetti dell’inquinamento, di cui, in parte sono responsabili proprio quelle periferie sovraffollate nelle quali gli ex allevatori si trasferiscono, nella speranza di una vita migliore che, al momento, non c’è. Il risultato è che per sfuggire a una vita di miseria, se ne sceglie una ancor più misera e faticosa, priva di radici e di prospettive, incantati dal piffero magico di un futuro che, per ora, non c’è.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.