[PARIGI] vicedirettore OFCE-Sciences Po Parigi, insegna alla LUISS. È stato dirigente alla Presidenza del Consiglio dei Ministri.
La nuova Germania e le riforme europee
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Per l’eterogenea coalizione “semaforo” al governo in Germania, che vede insieme i Socialdemocratici del neo Cancelliere Scholz, i Verdi e i Liberali, i temi di politica economica europea sono quelli più controversi e forieri di potenziali conflitti; su Europa, regole, debito, il dettagliatissimo programma di coalizione cerca una difficile quadra tra partiti con piattaforme politiche molto diverse, quando non opposte.
L’accordo è importante tanto per quello che dice che per ciò che non dice. Una prima osservazione è che nel programma l’Europa è onnipresente, dalle politiche ambientali alla governance europea, dalla politica estera alla digitalizzazione e ai temi sociali; questo segnala che nei prossimi anni la Germania non intende rinunciare al proprio ruolo di perno della politica europea e di capomastro dei cantieri di riforma. Per provare a prevedere se questo ruolo sarà propulsivo o se la Germania continuerà ad essere una forza di conservazione come durante la crisi del debito sovrano, occorre entrare nei dettagli dell’accordo su due temi apparentemente non legati tra loro: le politiche per la transizione ecologica e le riforme della governance economica europea. Per quel che riguarda le prime, i Verdi sono riusciti a spuntare un’accelerazione dell’uscita dal carbone, anticipata al 2030 (dal 2038) quando l’80% dell’offerta di elettricità dovrà essere assicurata dalle energie rinnovabili. Questo richiederà investimenti pubblici colossali (stimabili in almeno 450 miliardi di euro nei prossimi dieci anni) che pongono il problema delle risorse e dei limiti alla politica di bilancio, in Germania come in Europa.
Nel marzo 2020 la Commissione europea ha attivato la clausola di sospensione del Patto di stabilità, per lasciar mano libera (fino a tutto il 2022) ai governi europei nel contrasto alle conseguenze del Covid. La sospensione delle regole è arrivata quando Bruxelles aveva già lanciato un progetto di consultazione per la loro riforma. Il Patto nella sua forma attuale è oggi considerato inadatto dalla maggior parte dei leader politici europei. Le istituzioni disegnate negli anni Novanta, infatti, già uscite malconce dalla calamitosa gestione della crisi greca, dopo il Covid appaiono vestigie di un’altra era. In primo luogo, il Patto si è dimostrato prociclico, forzando i Paesi a politiche restrittive durante la crisi e non riuscendo ad incentivare comportamenti virtuosi nei periodi di forte crescita. Poi, ha spinto i governi a ridurre i disavanzi abbattendo l’investimento pubblico, una strategia elettoralmente meno costosa del taglio di salari e prestazioni sociali. Infine, il sistema di regole negli anni è diventato barocco e inefficace, basato su variabili arbitrarie che di fatto rendono impossibile una valutazione oggettiva del rispetto o meno della disciplina di bilancio.
È ovvio che la posizione della Germania sarà imprescindibile nella discussione sulla governance. Ed è proprio su riforma delle regole e creazione di una capacità di bilancio europea che le distanze tra i partiti della coalizione sono più marcate. A Verdi e Socialdemocratici, che insistono sul bisogno di politiche sociali, di regole che consentano di investire e sull’importanza di progetti pan europei, si oppongono i Liberali, strenuamente opposti a modifiche dei trattati che definiscano regole più flessibili e che insistono sul carattere temporaneo e limitato del programma di investimento europeo Next Generation EU (NGEU). Non a caso, in un testo che su alcuni temi scende nei dettagli più minuti, riguardo all’Europa le formulazioni sono vaghe, come a non voler pregiudicare negoziati ulteriori.
Riguardo a NGEU, a parte l’ovvia constatazione che si tratta di un programma temporaneo e limitato, non c’è nessun impegno né in un senso (un’evoluzione verso una struttura permanente) né nell’altro (ritorno a debito esclusivamente nazionale); allo stesso tempo, si auspicano piani di investimento propriamente europei oggi assenti (ricordiamo che si tratta di un programma di indebitamento comune volto a finanziare investimenti e riforme che sono comunque effettuati dai Paesi membri tramite i Pnrr). Un tenersi le mani libere che si ritrova anche nel compromesso sulla riforma del Patto di stabilità: la formulazione del testo è pesata con il bilancino: se da un lato ribadisce il bisogno di regole che “siano più efficaci” garantendo sia crescita sia sostenibilità delle finanze pubbliche, dall’altro menziona esplicitamente il bisogno di investimenti e apre a “ulteriori sviluppi” che contribuiscano a questi obiettivi. Se a questo si aggiunge che, poco oltre, l’accordo apre a possibili modifiche dei trattati nell’incorporare i risultati della conferenza sul futuro dell’Europa, si può concludere che la partita è aperta.
La mancanza di impegni precisi su regole e capacità di bilancio europea, insieme al fatto che i Liberali non siano stati in grado di mettere nero su bianco nessuno dei veti che avevano espresso durante la campagna elettorale, potrebbe giocare a favore dell’anima riformista della coalizione. Infatti, per tenere insieme la “trinità impossibile”, il bisogno di investimenti pubblici, l’impegno a non aumentare le tasse (un altro punto su cui insistevano i Liberali) e la fedeltà a disciplina di bilancio e riduzione del debito, la coalizione prevede in primo luogo di indebitarsi massicciamente nel 2022, quando il Patto di stabilità sarà ancora sospeso, per poi finanziare gli investimenti negli anni successivi; e poi, ad usare agenzie fuori dal bilancio dello stato per finanziare gli investimenti futuri senza aumentare disavanzo e debito pubblici.
Ora, è alquanto improbabile che la Commissione faccia passare un trucco così smaccato; ci si troverebbe a dover finanziare un vasto programma di investimenti senza aumentare le tasse, due punti su cui l’accordo di coalizione non ammette deroghe e ambiguità. Socialdemocratici e Verdi potrebbero a quel punto sfruttare la vaghezza dell’accordo in tema di debito e regole per far passare una riforma delle norme europee (ma anche del debt brake interno). Vista anche la posizione francese e italiana, recentemente definita da una lettera congiunta di Draghi e Macron al Financial Times, è probabile che la Commissione nei prossimi mesi proponga una “regola d’oro verde” che scomputi gli investimenti nella transizione ecologica dai parametri del Patto di stabilità. Si tratterebbe di un’evoluzione importante, che segnalerebbe, infine, la priorità data all’investimento pubblico; tuttavia, essa sarà probabilmente insufficiente per consentire agli Stati membri di acquisire quei margini di manovra che oggi non hanno e colmare il deficit di infrastrutture e di capitale sociale che hanno accumulato negli scorsi decenni.
Se sulla possibilità di dotare l’Unione di una capacità di bilancio centrale nessun governo europeo ha finora scoperto le carte (molto dipenderà dal successo di NGEU, in particolare nel nostro paese), su altri temi il programma di governo della coalizione semaforo promette un cambiamento di rotta rispetto all’era Merkel. È il caso dell’impegno a sostenere gli obiettivi dell’Unione europea nel campo dei diritti sociali; è significativo, ad esempio, l’appoggio alla direttiva sul salario minimo votata di recente dal Parlamento europeo, insieme alla proposta di aumentarlo in Germania fino a 12 euro. La rinnovata attenzione a redditi e diritti non vuole certo dire che la Germania abbia chiaramente abbandonato il proprio modello di crescita mercantilista, tanto più che il posto di ministro delle finanze ottenuto dal leader dei Liberali Christian Linder lascia presagire aspri confronti con le istanze riformiste. Tuttavia, almeno sulla carta, l’equilibrio trovato da Olaf Scholz nel comporre il programma di governo apre uno spazio politico per riforme significative che mettano l’Europa in condizioni di far fronte alle sfide dei prossimi anni. C’è quindi da sperare che, dopo il lungo regno immobilista di Angela Merkel, la Germania ritrovi il suo ruolo di motore d’Europa.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
Prezzi dell’energia: una politica per soluzioni durature
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Dal gennaio scorso i prezzi dell’energia (in particolare del gas naturale) sono esplosi. Oggi, alle soglie dell’inverno, l’impatto sui redditi delle famiglie più modeste e sui costi delle imprese suscita preoccupazione; non solo, la fiammata dei prezzi dell’energia contribuisce ad alimentare l’inflazione e con essa il dibattito, pericoloso, sulla politica monetaria: il rischio è infatti che una svolta in senso restrittivo delle banche centrali uccida la ripresa post pandemia nella culla. Il funzionamento dei mercati dell’energia è legato a doppio filo alla transizione ecologica, alla carenza di investimenti nelle energie rinnovabili e anche al clima sociale: è ancora vivo il ricordo della protesta dei gilet gialli in Francia, innescata da un aumento della tassazione sul gasolio.
L’aumento dei prezzi è in parte legato a fattori contingenti, sia dal lato dell’offerta che dal lato della domanda. Un inverno particolarmente rigido e un’estate calda si sono combinati con il rimbalzo dell’economia successivo alla pandemia. Insieme, hanno fatto impennare la domanda di gas in Europa mentre parte dell’offerta si dirigeva verso i mercati asiatici, anch’essi particolarmente dinamici (in parte per motivi strutturali, come l’utilizzo del gas come fonte di energia di transizione, per paesi in uscita dal carbone ma non ancora dotati di sufficiente capacità produttiva nelle energie rinnovabili). A questo si aggiunga che l’incertezza sulla situazione economica l’anno scorso aveva spinto molti gestori a ridurre le scorte, che oggi in Europa sono a livelli troppo bassi e devono essere ricostituite. Infine, ma non da ultimo, il mercato dell’energia è fortemente influenzato da fattori geopolitici. Molti analisti spiegano le forniture a singhiozzo da parte della Russia con il tentativo di mostrare come il nuovo gasdotto Nord Stream 2 sia necessario per garantire un flusso di gas stabile e duraturo, forzando così l’autorizzazione alla sua messa in servizio da parte dei regolatori europei che esitano per un insieme di ragioni, anch’esse di natura geopolitica.
Questi fattori sono di natura temporanea e legati specificatamente al mercato del gas. Essi dovrebbero attenuarsi e i mercati si attendono una normalizzazione dei prezzi dopo l’inverno. Per far fronte a questo picco temporaneo, quindi, ci si potrebbe limitare a mettere in atto misure per proteggere i più fragili ed esposti all’aumento dei prezzi (per esempio nelle zone rurali), seguendo le linee guida pubblicate dalla Commissione in settembre. La Spagna ha adottato le misure più aggressive, introducendo un limite di prezzo per il gas, riducendo l’Iva e altre imposte sui prodotti energetici e introducendo una tassa temporanea sugli extra profitti delle società energetiche. Altri paesi, incluso il nostro, riflettono a misure simili.
Tuttavia, le cause non sono solo contingenti. Molti attribuiscono le tensioni recenti, e più in generale la tendenza alla volatilità dei prezzi dell’energia, alla eccessiva rapidità della transizione ecologica. Le tasse sui prodotti inquinanti (come il carbon pricing o la tassa carbone alle frontiere), la regolamentazione e, non da ultimo, i colossali investimenti necessari per sviluppare capacità produttiva nelle energie rinnovabili, imporrebbero un costo eccessivo della transizione ecologica, un “bagno di sangue”, come si sono spinti a definirlo alcuni. E se così fosse, la transizione ecologica dovrebbe essere rallentata, per spalmarne i costi nel tempo. Si tratta di una lettura a prima vista ineccepibile, ma in realtà fuorviante. Simone Tagliapietra e Georg Zachmann, del think tank Bruegel di Bruxelles, notano come il settore dell’energia si trovi in una fase transitoria e caratterizzata da forte incertezza: l’ineluttabilità della transizione ecologica spinge gli operatori a ridurre gli investimenti nelle energie fossili “in scadenza” che, a causa della timidezza di molti Governi, non sono ancora sostituite dalle rinnovabili (nel 2020 queste contavano per solo il 38% del totale in Europa).
Questo crea una carenza strutturale di offerta e dipendenza eccessiva da fonti di energia di transizione come il gas. A questa incertezza quindi, secondo i due economisti, si dovrebbe rispondere non rallentando la transizione ma al contrario accelerandola, ad esempio con politiche che stimolino gli investimenti di lungo periodo necessari ad aumentare l’offerta di energia pulita.
La Commissione europea ha nel luglio scorso indicato la strada per accelerare nella transizione ecologica proponendo un pacchetto di misure, Fit for 55. Se approvato e messo in atto, il pacchetto dovrebbe portare nel 2030 ad un taglio delle emissioni del 55% rispetto al 1990, mettendo così l’economia europea in grado di raggiungere la neutralità carbone entro il 2050. Fit for 55 contiene una miriade di proposte; la più significativa è l’espansione del Sistema per lo scambio delle quote di emissione dell’Ue, che la Commissione propone di potenziare aumentando il prezzo di acquisto dei diritti di emissione ed estendendo lo schema a settori ed attività finora esclusi, come il trasporto (di fatto la proposta implica la messa al bando dei motori termici per gli autoveicoli nuovi entro il 2035) e il riscaldamento degli immobili.
In Italia molti hanno espresso il timore che visto il nostro ritardo nello sviluppo di tecnologie verdi (dal fotovoltaico alle batterie elettriche), la decarbonizzazione finirà per favorire altri paesi (la Cina su tutti). Ma nella proposta della Commissione l’obiettivo della decarbonizzazione convive con quello, altrettanto ambizioso, di dare un impulso decisivo allo sviluppo industriale e tecnologico europeo e colmare il ritardo che lo separa da altri Paesi. Proprio in settori come l’energia e i trasporti, il mix di incentivi e ostacoli di natura regolamentare ha l’obiettivo di spingere i mercati a fare quel salto verso la transizione ecologica che finora hanno esitato a fare, consegnando la leadership ad altri Paesi. È certo vero che le misure a sostegno della transizione ecologica europea rischiano di portare benefici soprattutto per i nostri concorrenti; tuttavia, siccome il ritardo che abbiamo accumulato finirà comunque per metterci prima o poi fuori mercato, Fit for 55 potrebbe costituire un potente strumento proprio per far ripartire investimenti e ricerca, consentendo di colmare il nostro ritardo tecnologico.
La Commissione non è sola ad esprimere la convinzione che la transizione ecologica dovrebbe essere vista come un’opportunità e non come un costo. Nel suo World Energy Outlook 2021, il rapporto annuale uscito in Ottobre, la International Energy Agency (Iea) segnala come da un lato l’energia elettrica stia proseguendo la sua espansione a scapito di altre fonti come il gas e il petrolio. E dall’altro come, ormai, la spinta all’espansione delle tecnologie verdi non venga più dagli incentivi pubblici ma, almeno dove le infrastrutture sono adeguate, dalla loro convenienza. La Iea stima che la traiettoria verso la neutralità carbone porterebbe, anche limitandosi ai soli settori delle turbine eoliche, pannelli solari, batterie agli ioni di litio, elettrolizzatori e celle a combustibile, a decuplicare entro il 2050 il volume d’affari, raggiungendo i 1200 miliardi di dollari annui; un ammontare superiore a quello attuale dell’industria petrolifera e del suo indotto.
Il messaggio è chiaro: rimettersi in carreggiata e impegnarsi per arrivare alla neutralità carbone nel 2050 non deve essere comportare bagno di sangue. Al contrario, si tratta di un’opportunità, forse l’ultima, per rilanciare la crescita e il dinamismo della nostra industria, per colmare il ritardo accumulato in questi anni, stabilizzare i mercati dell’energia e ridurre l’impatto macroeconomico della loro volatilità e quindi assicurare la sostenibilità sociale e ambientale del nostro modello di sviluppo. Insomma, si tratterebbe di buon affare anche se non ne andasse dell’esistenza del nostro pianeta.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di novembre/dicembre di eastwest.
Ue: la sfida federale del Recovery Plan
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Anche se la pandemia non è ancora alle nostre spalle, l’economia europea è ormai entrata in una nuova fase. È vero che, fin tanto che l’attività economica non sarà tornata normale, occorrerà che la politica di bilancio continui a sostenere i settori in difficoltà a causa delle chiusure amministrative o delle restrizioni alla circolazione; tuttavia, la presentazione dei Recovery Plan a fine aprile ha rappresentato lo spartiacque tra la fase emergenziale della crisi e quella in cui i policy makers si proiettano sulle sfide di medio e lungo periodo per trovare una crescita strutturalmente più elevata garantendone allo stesso tempo la sostenibilità ambientale e sociale. Si tratta di sfide per le quali gli Stati da soli potranno fare ben poco. La dimensione europea è infatti quella più adatta per il finanziamento e la fornitura di “beni pubblici globali” quali gli investimenti nella transizione ecologica o nella digitalizzazione, ma anche l’organizzazione dei nostri sistemi sanitari per far fronte alle pandemie e finanziare ricerca e produzione di medicine e vaccini.
Proprio perché la dimensione europea è centrale, è probabile che il nostro successo nel far fronte a queste sfide sia legato a doppio filo al fato del programma Next Generation EU (NGEU). Ricordiamo in primo luogo rapidamente di cosa si tratta e perché rappresenta una novità: l’Unione europea ha lanciato nel luglio scorso un programma che prevede che la Commissione si indebiti per 750 miliardi in modo da affiancare al bilancio “ordinario” (circa 1000 miliardi per il periodo 2021-2027) altri strumenti tra cui un “Dispositivo per la ripresa e la resilienza” che distribuirà ai Paesi membri trasferimenti o prestiti (312 e 360 miliardi rispettivamente). È da questo Dispositivo che vengono i circa 200 miliardi del Piano Nazionale per la Ripresa e la Resilienza (PNRR) italiano.
Il Dispositivo per la ripresa e la resilienza
Il primo aspetto innovativo è quindi che la Commissione si indebita per somme ingenti, per finanziare investimenti nei campi considerati prioritari per le nostre società (transizione ecologica, digitalizzazione e coesione sociale). La Commissione ha pubblicato nell’autunno scorso delle linee guida molto stringenti sia sulla preparazione dei PNRR (che arrivano fino a dettare la percentuale minima da assegnare ad ogni categoria di spesa, ad esempio il 37% nella transizione ecologica) che sulle condizioni (rispetto dei tempi e degli obiettivi legati a ogni singolo programma di investimento) per l’esborso dei finanziamenti in corso d’opera. I programmi di investimento dovranno essere completati entro il 2026, e il prestito sarà rimborsato dalla Commissione tra il 2028 e il 2058 a partire dalle risorse proprie. L’obiettivo è di creare delle imposte genuinamente europee come la web tax, la Tobin tax sulle transazioni finanziarie, la tassa carbone alle frontiere o la plastic tax. In caso queste non fossero finalizzate, si chiederebbe un (a dire il vero modesto) aumento dei contributi nazionali al bilancio europeo.
Il secondo aspetto innovativo del programma NGEU è l’allocazione dei fondi (in particolare dei trasferimenti) in base a chiavi di ripartizione che tengano conto non solo del peso economico dei paesi, ma anche dell’impatto delle due crisi dello scorso decennio sulla loro economia. L’Italia, Paese ricco che di solito è contributore netto al bilancio dell’Ue, sarà invece beneficiario netto dei fondi del Dispositivo per la ripresa in ragione dell’impatto particolarmente severo delle due crisi (ricordiamo che eravamo uno dei pochi paesi europei a non aver ancora ritrovato, prima della pandemia, i livelli di Pil del 2008).
Quando è stato faticosamente raggiunto l’accordo sul programma NGEU, nel luglio scorso, molti lo hanno salutato come il “momento hamiltoniano” dell’Ue, l’atto fondativo per l’Europa federale. Nel 1790, su iniziativa del Ministro Alexander Hamilton, il Tesoro degli Stati Uniti si fece carico del debito contratto dagli stati durante la guerra d’indipendenza, avocando a sé contestualmente la possibilità di finanziarlo con tariffe doganali e accise federali; questo creò di fatto il Governo federale.
La sfida federale del Next Generation EU
L’entusiasmo di chi parla di momento hamiltoniano, tuttavia, è ingiustificato. Il Dispositivo è ancora molto lontano da una genuina capacità di bilancio di tipo federale. Intanto, lo storico via libera da parte della Germania è stato condizionato alla natura una tantum di NGEU, che non si fa carico dei debiti esistenti (come appunto fece il Tesoro americano con Hamilton). Inoltre, solo la plastic tax è oggi realtà; per tutte le altre imposte “federali” che consentirebbero di evitare l’aumento dei contributi dei Paesi membri al bilancio europeo, il consenso tra gli Stati membri resta ancora tutto da costruire. Poi, il Dispositivo trasferisce risorse per programmi di investimento che resteranno nazionali, in quanto l’Unione a oggi non ha una capacità di spesa comparabile a quella di uno Stato federale. Infine, i Paesi detti frugali hanno condizionato il via libera al Fondo a tagli significativi dei finanziamenti ordinari per programmi europei come la ricerca scientifica, gli investimenti, il fondo per la transizione energetica e addirittura la sanità. Al di là degli aspetti quantitativi (su cui il Parlamento europeo ha meritoriamente limitato i danni), il messaggio è stato quello di un ridimensionamento dell’impegno dell’Unione nella fornitura dei pochi beni pubblici genuinamente europei. Mentre con il programma NGEU si lancia un ambizioso programma per adeguare l’Unione europea alle sfide del ventunesimo secolo, si è persa l’occasione di orientare gli strumenti ordinari dell’Ue verso gli stessi obiettivi.
Insomma, NGEU è ancora lontanissimo da un bilancio federale. Ma questo non significa che non potrebbe diventarlo. Dopotutto, la storia europea è disseminata di strumenti temporanei che sono entrati a far parte dell’architettura istituzionale dell’Unione. Perché questo avvenga, dovranno nei prossimi anni verificarsi alcune condizioni. La prima, e più banale, è che dopo essersi dotata degli strumenti per reperire risorse (risorse proprie e, nel caso di NGEU, debito) l’Unione si doti di strumenti per attuare programmi di investimento europei, senza dover passare per trasferimenti e prestiti agli Stati.
Poi, occorrerà vigilare che la vecchia ortodossia macroeconomica, che predica l’inutilità della politica di bilancio, non riprenda il sopravvento. Se questo avvenisse, il progetto di un bilancio federale sarebbe morto prima ancora di nascere. Su questo possiamo essere moderatamente ottimisti: oggi la stragrande maggioranza degli economisti europei (persino qualche tedesco!) ritiene che la politica di bilancio dovrebbe essere utilizzata insieme alla politica monetaria per sostenere la crescita e contrastare le recessioni.
Ma la condizione più importante è anche quella più problematica: il programma deve essere un successo. È cruciale che l’obiettivo di una crescita potenziale più elevata (e più sostenibile) sia raggiunto. La sfida sarà quella di riuscire a canalizzare le risorse in progetti efficaci (il “debito buono” evocato da Mario Draghi), secondo un progetto coerente e, soprattutto, aumentando la capacità di spesa. Molti Paesi membri non riescono a spendere tutti i fondi strutturali che ricevono, e tra questi spicca l’Italia: a fine 2019 avevamo speso il 30,7% dei fondi spettanti per il bilancio 2014-2020, e ne avevamo impegnati il 58% (i fondi possono essere spesi fino al 2023). I finanziamenti del Fondo saranno circa il triplo, da spendere entro il 2026.
Se si utilizzeranno in modo efficiente i finanziamenti, se si lavorerà a risorse e a progetti di investimento comuni, se si investirà in quelle risorse immateriali (riordino della PA, della giustizia, della regolamentazione) che oggi frenano invece di stimolare la crescita, si potrà a quel punto, e solo a quel punto, legittimamente mettere sul tavolo il progetto di trasformazione del Dispositivo in una capacità di bilancio comune.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
Ue: l’euro digitale
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La crisi del Covid-19 ha visto un boom degli acquisti online e dei pagamenti con carta di credito (facilitati dalla diffusione delle carte contactless). La pandemia ha accelerato una tendenza alla riduzione dell’uso del contante, che pur rimanendo il mezzo di pagamento più comune in corso da molti anni, vede il suo predominio erodersi costantemente (nella zona euro a fine 2019 circa il 73% delle transazioni avvenivano in contante; ma erano il 79% solo tre anni prima). Un’inchiesta della Bce pubblicata nel luglio 2020 documenta come il 40% degli utilizzatori abbiano ridotto l’utilizzo del contante dopo l’inizio della pandemia.
La proliferazione delle criptovalute
La smaterializzazione delle transazioni avviene in un contesto in cui la proliferazione di criptovalute decentralizzate (come bitcoin) pone una minaccia, sia pure non immediata, al monopolio nell’emissione di valuta che le banche centrali hanno da più di un secolo. Le criptovalute oggi non sono una riserva di valore sicura, né un’unità di conto, né un affidabile mezzo di scambio (il loro prezzo è troppo volatile). Non soddisfano insomma alcuno dei criteri necessari per essere definiti “moneta”. Allo stesso tempo, il tentativo di Facebook di lanciare la propria valuta digitale privata (Libra) approfittando del suo status di gigante del web, incontra ostacoli tecnici, regolamentari ed etici che non saranno risolti a breve. Ma è solo questione di tempo prima che, in una forma o in un’altra, emerga un sistema di pagamenti digitale che sia sufficientemente stabile, a buon mercato e sicuro da far concorrenza alle valute sovrane come l’euro o il dollaro.
Quando un concorrente emergerà, gli emittenti legali si troveranno in grande difficoltà. In un mondo nel quale l’uso di contante è ridotto ed esistono concorrenti per le valute sovrane, da un lato sarà difficile condurre le politiche macroeconomiche necessarie a sostenere l’economia (per esempio tramite iniezioni di liquidità a sostegno di governi e imprese come avvenuto nella primavera del 2020). Dall’altro lato, aumenterà il rischio di instabilità finanziaria. È opportuno rammentare che la nascita delle banche centrali, istituzioni dotate per legge del monopolio dell’emissione di moneta legale, rispondeva proprio all’esigenza di stabilizzare un sistema in cui la proliferazione di mezzi di pagamento privati (il credito) necessitava (e necessita tuttora) di un prestatore di ultima istanza capace di fornire mezzi di pagamento virtualmente illimitati a istituzioni finanziarie in difficoltà. La sparizione del contante e l’avvento delle criptovalute rischiano di farci entrare in un’economia cashless in cui è indifferente se le transazioni avvengono in dollari, euro, yen o anche bitcoin. A quel punto le banche centrali perderebbero ogni possibilità di utilizzare la leva monetaria e anche di agire da prestatore di ultima istanza.
Proprio per non trovarsi sorpassate dagli eventi, la maggioranza delle banche centrali riflette alla creazione di valute digitali (CBDC, acronimo inglese per Central Bank Digital Currency). Si tratterebbe in pratica di “contante digitale” che potrebbe essere caricato su una carta o su di una app. Come il contante oggi, questo avrebbe corso legale e sarebbe universalmente accettato. I due paesi più avanzati nella riflessione sono la Svezia e la Cina, che ha anche cominciato a testarlo in qualche grande città e potrebbero lanciarlo in occasione delle Olimpiadi d’inverno del 2022. Anche in Europa la riflessione avanza; la Bce ha lanciato nell’ottobre 2020 un processo di consultazione pubblico i cui risultati saranno pubblicati nei prossimi mesi. Ma come ha ricordato recentemente Christine Lagarde, siamo ancora molto lontani da una proposta operativa che tenga in debito conto tutte le questioni tecniche e regolamentari.
I vantaggi della valuta digitale
Quali sarebbero i vantaggi della creazione di una valuta digitale? In primo luogo, essa eviterebbe la “privatizzazione della moneta” legata alla sparizione del contante. Ricordiamo che giganti del web, grandi oligopoli come Amazon e Google riflettono sulla creazione delle loro valute, che magari legherebbero all’utilizzo dei propri servizi, “catturando” i consumatori. Il rischio di un mercato delle criptovalute dominato da pochi grandi attori è reale. Essi formerebbero di fatto un oligopolio della creazione di moneta e dei sistemi di pagamento (le piccole banche avrebbero difficoltà a sopravvivere), con un potenziale rischio di accaparramento di rendite di posizione.
La creazione di valute digitali da parte delle banche centrali consentirebbe di risolvere i problemi e le inefficienze legate ai pagamenti con il contante e resistere così all’offensiva delle criptovalute, mantenendo il controllo sulla creazione di moneta da parte della banca centrale e contrastando il rischio di concentrazione oligopolistica. Ma i vantaggi non si fermerebbero qui. La creazione di una valuta digitale consentirebbe di far accedere ai pagamenti elettronici quella parte della popolazione che non ha accesso ai servizi bancari, aumentando così l’inclusione finanziaria. Questo è un vantaggio importante in economie avanzate come la zona euro, ma lo è ancora di più per paesi emergenti e in via di sviluppo.
I rischi della valuta digitale
Tuttavia, la creazione di valute digitali pone problemi di scelta abbastanza complessi, dei tradeoffs per i quali costi e benefici si intrecciano con aspetti tecnici. È proprio questo che spiega la prudenza di tutte le banche centrali nel lanciarsi nell’impresa. In primo luogo, la banca centrale dovrebbe decidere se emettere la propria moneta digitale trasferendola direttamente a imprese e consumatori senza ricorrere a intermediari come le banche commerciali. Adottando questo la banca centrale manterrebbe il pieno controllo sull’emissione e sulla circolazione della valuta. Tuttavia, questo richiederebbe la creazione di conti presso la banca centrale per i quali far transitare il contante digitale emesso. La banca centrale dovrebbe quindi sottostare a tutti gli obblighi regolamentari e legali cui sono sottoposti gli istituti di credito commerciali, dal rispetto delle normative antiriciclaggio alla necessità di creare piattaforme per la gestione delle apps o dei portafogli elettronici. Sono tutte funzioni alle quali le banche commerciali possono facilmente provvedere ma per cui le banche centrali non hanno le competenze, che andrebbero costruite dal nulla.
Ma il vero rischio di una valuta digitale accentrata è che, pensata per garantire sicurezza e stabilità nei pagamenti, finisca per fare concorrenza al sistema dei pagamenti privato finendo per agire da fattore destabilizzante soprattutto (ma non solo) durante una crisi. Essa potrebbe drenare depositi e risorse dal settore finanziario, riducendone profittabilità e offerta di credito. Una valuta digitale sarebbe un safe asset che, contrariamente al contante fisico, potrebbe potenzialmente essere detenuto in grandi volumi e senza alcun costo. In momenti di crisi si potrebbe quindi assistere a “fughe di capitali” dai depositi bancari alla valuta digitale. Gli stessi movimenti di capitali destabilizzanti potrebbero verificarsi a livello internazionale. Anche per questo, è probabile che le banche centrali finiscano per decidere di utilizzare il settore finanziario per emettere valuta digitale (la Bce ha segnalato l’intenzione di andare in quella direzione). D’altra parte, è giusto considerare che il settore bancario è tutt’altro che concorrenziale. L’introduzione di una valuta digitale potrebbe quindi consentire di ridurre il potere di mercato delle banche commerciali e ridurre i costi per imprese e consumatori.
In conclusione, fin dai tempi di John Maynard Keynes si insegna agli studenti di macroeconomia che i motivi per detenere valuta sono due: per effettuare transazioni e come riserva di valore. I benefici delle valute digitali risiedono principalmente nel facilitare le transazioni, mentre i costi della loro introduzione risiedono nell’effetto destabilizzante che avrebbero sul sistema finanziario se usate come riserva di valore. Per questo le banche centrali vanno ovunque con i piedi di piombo: le valute digitali devono essere progettate accuratamente per incentivarne l’uso come mezzi di pagamento ma non come investimenti (ad esempio limitando l’ammontare dei conti individuali o facendo pagare un tasso di interesse negativo oltre una certa soglia). Sembra tuttavia inevitabile che prima o poi si approdi alla creazione di questi strumenti. Il rischio per i sistemi monetari che valute private o criptomonete vengano a riempire il vuoto, che prima o poi il contante lascerà, è troppo grande.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
Monti e Draghi a confronto
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Mario Draghi, che arriva alla guida del Paese con la reputazione di salvatore dell’euro guadagnata negli otto anni alla guida della Bce, è diventato Presidente del Consiglio in condizioni a dir poco peculiari. Mai, nella storia italiana, si era vista la corsa della quasi totalità dei partiti dell’arco costituzionale a dare la fiducia “sulla fiducia”, a scatola chiusa, senza nemmeno sapere quale fosse il programma di Governo. Con il giuramento del Governo Draghi abbiamo assistito all’ennesima intronizzazione di un uomo della provvidenza, chiamato al capezzale di un’economia cronicamente malata e di un sistema politico disfunzionale, incapace di esprimere un progetto coerente per il paese. Ma Draghi non è il primo Super Mario della storia recente. Meno di dieci anni fa, in seguito alle dimissioni del Governo Berlusconi, il Presidente Napolitano chiamò Mario Monti con il compito di guidare l’Italia fuori dalla tempesta della crisi del debito sovrano. Cosa hanno in comune questi due tecnocrati? Cosa li differenzia? Quali lezioni si possono trarre dall’esperienza controversa del Governo Monti? Quali errori dovrebbe evitare Mario Draghi?
Draghi e Monti: i punti in comune
Iniziamo da cosa accomuna i due salvatori della patria. In primo luogo, un profilo tecnocratico di alto livello e un prestigio acquisito al di fuori dei confini nazionali, che li colloca in qualche modo al di fuori della mischia politica. La Banca centrale europea per Mario Draghi e la Commissione europea per Mario Monti, che da Commissario alla Concorrenza dell’esecutivo Prodi si dedicò alla lotta agli abusi di posizione dominante divenendo lo spauracchio di grandi gruppi come Microsoft o General Electric. Poi, entrambi sono stati chiamati al capezzale del paese in un momento di crisi profonda alla quale la politica non è apparentemente in grado di dare risposta. Draghi entra in gioco mentre la pandemia non è ancora alle nostre spalle e già occorre proiettarsi sul dopo, con il piano di rilancio da 209 miliardi finanziato dall’Ue. Monti fu chiamato a Palazzo Chigi in piena tempesta finanziaria, con gli spread alle stelle e il Governo Berlusconi che era stato sfiduciato da mercati e istituzioni europee (uno snodo non limpido e non particolarmente glorioso del recente passato europeo): per entrambi i Super Mario, l’arrivo alla Presidenza del Consiglio è accompagnato da attese messianiche. Infine, in entrambi i casi la crisi italiana non può prescindere dal contesto europeo. Per Monti si trattava di adottare le politiche di consolidamento fiscale e di riforma che “ci chiedeva l’Europa”; per Draghi di inscrivere il piano di rilancio italiano nel programma Next Generation EU e negli obiettivi di medio periodo che si è data l’Unione.
Tuttavia, la situazione è oggi molto diversa da quella del 2011 e c’è da sperare che lo sarà anche il giudizio che sarà portato sul Governo. Ricordiamo che il Governo Monti, composto esclusivamente di tecnici, entra in carica nel novembre di quell’anno (curiosamente, un paio di settimane dopo l’arrivo di Draghi alla presidenza della Bce) con il compito di ritrovare la fiducia dei mercati che in seguito alle convulsioni del Governo Berlusconi hanno portato l’Italia sull’orlo del collasso finanziario (un famoso titolo de Il Sole 24 Ore all’epoca titolava “Fate presto”!). Poche settimane dopo il Governo vara il decreto detto “Salva Italia” che prevede risparmi per circa trenta miliardi nell’arco di tre anni e introduce la controversa riforma Fornero delle pensioni. Sotto il Governo Monti viene anche introdotto l’obbligo di bilancio in pareggio in Costituzione (in realtà negoziato in sede europea dal Governo precedente). L’esperienza si conclude dopo poco più di un anno con le dimissioni del dicembre 2012, anche se il Governo resterà in carica per gli affari correnti fino all’aprile successivo.
Come spesso accade in Italia, i giudizi sul Governo Monti si polarizzano tra le accuse di aver fatto macelleria sociale in nome dell’Europa e le lodi per aver imposto le necessarie lacrime e sangue che hanno evitato l’espulsione dall’euro e una crisi ben peggiore. Qualunque sia il giudizio che si porta su quell’esperienza di Governo, si dimentica spesso che essa è stata un sostanziale fallimento proprio riguardo al motivo per cui era nata. Dopo una brevissima luna di miele, gli attacchi speculativi riprendono più forti di prima e il Governo Monti si rivela totalmente incapace di guadagnare la fiducia dei mercati. Lo spread oscilla per tutta la primavera del 2012 seguendo alti e bassi della crisi europea e ripassa sopra alla barra dei 500 punti base nel luglio 2012. È solo il whatever it takes di Mario Draghi, il 26 luglio, che salva il Governo Monti arrestando nettamente la speculazione (di fatto, con quel discorso, Draghi vince la resistenza dei falchi della Bce e segnala l’intenzione di agire da prestatore di ultima istanza rendendo vani i tentativi di spingere i governi italiano e spagnolo al default). La vicenda del Governo Monti è di fatto la prova che l’austerità non è condizione necessaria, né sufficiente, per garantire la quiete sui mercati e la sostenibilità del debito. Per un’economia fortemente integrata in un’area valutaria, le politiche comuni (in particolare la politica monetaria) sono molto più importanti delle politiche nazionali.
Monti e Draghi: le differenze
Questo ci porta alle differenze con il Governo Draghi e alle lezioni che se ne possono trarre. La differenza più rilevante è che oggi il contesto è profondamente diverso da quello del 2012. L’Europa, invece di spingere a politiche recessive e destabilizzanti è oggi un fattore di stabilità. La Commissione ha messo in campo dei programmi di prestiti a tassi preferenziali e ha di fatto sospeso le regole di bilancio. Soprattutto, la Bce ha aperto il suo ombrello con il programma PEPP di acquisti di titoli che tiene gli spread ai minimi storici; si pensi a quanto i tassi di interesse sono rimasti stabili durante le convulsioni del Governo Conte, nonostante la crisi apparisse ai più, fuori dall’Italia, incomprensibile. Questo implica anche una differenza sostanziale nel contesto politico che ha portato alla nascita dei due governi dei Super Mario. Mentre la vasta maggioranza che aveva sostenuto il Governo Monti lo aveva fatto con la pistola alla tempia e lo spettro dell’exit dall’euro, oggi, nonostante la difficoltà della situazione sanitaria ed economica, non siamo nella stessa situazione.
Anche per quel che riguarda lo “scopo” del Governo, la situazione è radicalmente diversa. A differenza di Monti, Draghi non dovrà tagliare ma, al contrario, avrà una somma considerevole da impegnare nei grandi cantieri di modernizzazione del paese. Il successo di questo programma dipenderà ovviamente dalla capacità di mettere mano a storture e inefficienze in settori chiave quali la giustizia, la pubblica amministrazione, l’istruzione. Tuttavia, nonostante un contesto chiaramente meno vincolante, il Governo Draghi farebbe bene a studiare l’esperienza del suo predecessore, in particolare della riforma Fornero. Un vasto programma di riforme in profondità necessita di un orizzonte temporale ampio e di una legittimità politica che quasi per definizione un Governo di emergenza nazionale non possiede. La vasta maggioranza numerica che sostiene in parlamento l’ex presidente della Bce (e di cui godeva anche il Governo Monti) nasce dall’emergenza sanitaria ed economica, non da un accordo di forze politiche intorno ad un programma condiviso. Sarebbe un errore se questo ampio sostegno fosse utilizzato per imporre riforme su cui non c’è un ampio accordo tra i partiti che sostengono il Governo. Il peccato originale della riforma Fornero è proprio la mancanza di padri politici, che ha impedito di riconoscerne le insufficienze e di avere un dibattito ragionevole sui sui effetti.
A questo riguardo, le differenze tra i due Mario spingono a un moderato ottimismo. Monti è figlio di una cultura, questa sì profondamente tecnocratica, per cui il policy maker non deve far altro che selezionare la politica “ottimale” e imporla ad una società riluttante. Mario Draghi, invece, anche nei suoi ruoli di tecnocrate, ha sempre mostrato di avere ben chiaro in mente che la politica economica non seleziona un ottimo ma deve scegliere la distribuzione di costi e benefici ed è quindi, per definizione, politica; è proprio questa concezione non tecnocratica del proprio compito che gli ha consentito di guidare con successo la Bce nelle acque tempestose della crisi dell’Eurozona. C’è da sperare che invece di passare in forza con il pretesto dell’urgenza, egli utilizzi il “metodo Ciampi” e concentri i propri sforzi su riforme ampiamente condivise da partiti e parti sociali. Per le altre (penso ad esempio a mercato del lavoro e pensioni), sarebbe il caso che il Governo d’emergenza si limitasse a preparare il terreno per poi lasciare il campo a scelte politiche che necessitano della legittimazione (ed eventualmente, in seguito, della sanzione) del voto popolare.
Tra i cantieri sui quali è possibile avere un consenso trasversale ci sono sicuramente le riforme europee. Su temi quali la riforma del Patto di stabilità, la tassazione delle multinazionali, la creazione di una capacità di bilancio permanente, non sarebbe difficile trovare un punto di sintesi tra le forze politiche italiane. Il (più che meritato) prestigio di cui Draghi gode fuori dai confini nazionali potrebbe poi fare il resto, consentendo di far avanzare l’agenda europea come non è stato possibile in passato. Su questo, e non su riforme domestiche per le quali manca il tempo, il consenso e quindi la legittimità politica, dovrebbero concentrarsi gli sforzi dei prossimi mesi.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
Covid, Ue: una crisi da non sprecare
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Nella primavera del 2020 la gestione sanitaria della pandemia è stata accompagnata da uno sforzo titanico dei Governi per mantenere in vita un sistema produttivo artificialmente ibernato dai lockdown. Dopo qualche esitazione iniziale (e con qualche eccezione: si pensi alla Svezia), è stato chiaro abbastanza in fretta per governi e istituzioni internazionali che non si trattava di scegliere tra il salvare le vite o l’economia, ma tra il salvare entrambe o nessuna.
In Europa, la prima linea nel contrasto alla pandemia sono stati i governi dei paesi membri; questo era inevitabile. L’Unione europea è un’unione di Stati sovrani e né la gestione della sanità, né la politica fiscale e di bilancio sono tra gli ambiti per cui le competenze sono di tipo federale. Per la seconda non può essere altrimenti, in ossequio al motto no taxation without representation, le decisioni di spesa e di tassazione non possono che essere prese al livello che è responsabile di fronte agli elettori.
Sono stati quindi gli Stati ad introdurre un arsenale di misure volte a sostenere famiglie e imprese. Le misure di sostegno all’economia rientravano in tre grandi categorie: in primo luogo il sostegno ai sistemi sanitari sotto stress (anche, se non soprattutto, perché sistematicamente sottofinanziati da almeno un decennio); poi, misure per preservare l’occupazione e sostenere i redditi dei lavoratori licenziati e degli autonomi; infine, misure a sostegno della liquidità delle imprese, con rinvii o cancellazione delle scadenze fiscali e sostegno dell’offerta di credito con garanzie statali. Il primo paese ad introdurre misure lungo queste linee è stato proprio l’Italia, con il decreto “Cura Italia”. In quasi tutti i paesi europei le misure sono state estese e rinnovate man mano che gli effetti economici della pandemia si dispiegavano; con la seconda ondata sono state prorogate quasi ovunque fino al primo trimestre del 2021. L’effetto delle misure sulle finanze pubbliche è stato immediato; per l’eurozona per il 2020 il disavanzo medio è schizzato all’8,7% (in Italia 10,8%) e il debito pubblico aumenta di quasi venti punti, dall’86% al 104,5% del Pil (in Italia dal 135% al 158% almeno).
Questo sforzo colossale dei governi europei ha prodotto i suoi frutti. Nel suo bollettino trimestrale dell’ottobre scorso la Banca d’Italia notava che il numero di occupati si è ridotto in misura sensibilmente inferiore del Pil e delle ore lavorate, anche grazie al diffuso ricorso alla cassa integrazione e alle misure di tutela dell’occupazione a tempo indeterminato. La speranza (non solo in Italia) è che quando queste misure di sostegno verranno meno, occupazione e salari non crolleranno ma saranno sostenuti dalla ripresa economica.
Il fatto che l’Europa non fosse in prima linea non deve far immaginare che essa sia stata assente. Negli anni scorsi ho spesso pensato che la crisi del debito sovrano fosse venuta a smentire il detto di Jean Monnet per cui L’Europa si farà attraverso le crisi, e sarà costituita dalla sommatoria delle soluzioni che saranno date a queste crisi. La cattiva gestione della crisi greca, l’adesione generalizzata ad un’austerità fine a sé stessa, riforme istituzionali che nel loro complesso avevano mirato a rafforzare la sorveglianza sulle finanze pubbliche; tutto questo componeva un quadro desolante, di una crisi sprecata e non utilizzata per costruire un’Europa più coesa. La primavera del 2020 ha smentito queste convinzioni fosche. È come se gli errori degli anni precedenti, in qualche modo metabolizzati, abbiano spinto a “fare la cosa giusta”.
Le istituzioni europee si sono fatte garanti dello sforzo dei paesi membri. La Commissione ha immediatamente deciso di sospendere la vigilanza sul debito e ammorbidire la normativa sugli aiuti di Stato. Contemporaneamente, la Bce ha aperto un ombrello protettivo varando un vasto programma di acquisti di titoli pubblici (il Pepp) che recentemente è stato esteso fino alla primavera del 2022. Questo ha contribuito a ridurre i tassi di interesse, rendendo più sostenibile il debito. Le istituzioni europee hanno anche messo a disposizione degli Stati membri prestiti per le spese più urgenti, sanità e mercato del lavoro. Che si trattasse di meccanismi esistenti come il Mes, o di nuova creazione come il Fondo Sure per i mercati del lavoro, il principio era lo stesso: l’Europa si indebita a tassi di favore e gira i fondi ai paesi che possono così risparmiare sulla spesa per interessi. Se il Mes non è decollato (e andrebbe definitivamente accantonato) per difetti strutturali che la nuova linea pandemica non ha eliminato, il Sure è stato plebiscitato e nell’autunno 2020 ha iniziato a erogare prestiti per 90 miliardi a 18 paesi.
Se il ruolo dell’Europa nel breve periodo non poteva che essere limitato, le cose cambiano se ci si proietta nel lungo periodo. Una volta messa alle nostre spalle la crisi occorrerà affrontare le sfide che la pandemia ci ha lasciato in eredità. Si tratta in questo caso di provvedere alla fornitura di “beni pubblici globali”, fondamentali per la ripresa e per il lungo periodo, come la transizione verso una crescita sostenibile, il rilancio dell’investimento pubblico, la digitalizzazione, il ripensamento dei nostri sistemi di welfare. Nemmeno i paesi europei più grandi possono sperare di affrontare queste sfide da soli: la maggiore efficacia di investimenti coordinati, le economie di scala, le “esternalità”, sono tutti elementi che militano in favore di politiche condotte, o almeno finanziate e coordinate, a livello comune.
È questo che ha ispirato il piano Next Generation EU che affianca il Fondo per la Ripresa e altri meccanismi al bilancio europeo stanziando una somma colossale, circa 750 miliardi. Il Fondo per la Ripresa ha un valore simbolico importante, perché la Commissione si indebiterà, per la prima volta per somme così ingenti, e ridistribuirà i fondi ai paesi membri in base ai bisogni: un meccanismo di mutualizzazione del debito, sia pure temporaneo e limitato, che ha per la prima volta visto il consenso della Germania. Inoltre, la Commissione ha innestato questo programma di rilancio sulle sue priorità di lungo periodo: crescita verde, sostenibile e inclusiva, modernizzazione.
Sarebbe stato auspicabile che questo sforzo di indebitamento comune potesse essere messo al servizio di un vasto programma di investimenti europei. Ma, ancora una volta, l’Ue non è uno stato federale. Proprio il fatto che concezione e attuazione dei Piani nazionali di ripresa e resilienza (i PNRR) del Next Generation siano affidate ai paesi membri ha reso necessarie stringenti condizioni. Gli strettissimi paletti posti per la stesura dei PNRR sono da valutare con favore perché volti a garantire una coerenza d’insieme delle strategie nazionali e una maggiore efficacia nella fornitura dei beni pubblici globali. È un peccato anzi che i Paesi membri non siano andati oltre, collaborando tra loro nella definizione dei propri piani di investimento nazionali. Chi si straccia le vesti per queste condizioni, peraltro, dimentica che i finanziamenti a fondo perduto sono un’eccezione, in Europa come a livello nazionale. Condizioni sulla destinazione d’uso sono la norma, che si tratti di prestiti o di trasferimenti.
Insomma, l’Europa ha risposto ‘presente’ di fronte alla pandemia, sostenendo i paesi membri nell’immediato e lanciando un programma comune per governare la ripresa nel medio periodo. Dove i vecchi vizi della nostra casa comune si sono confermati è nel comportamento degli stati membri, che come quasi sempre in passato hanno anteposto l’interesse nazionale a quello comune. Si è visto nel caso della minaccia di veto ungherese e polacca al bilancio europeo; e si è visto soprattutto nell’ambito dei negoziati per il Next Generation EU, dove i paesi cosiddetti “frugali” hanno eretto barricate contro politiche comuni e hanno alla fine ceduto solo in cambio di concessioni finanziarie significative (quei rebates che con la Brexit avremmo sperato di non vedere più). Ancora più grave è stato il pretendere la riduzione dei finanziamenti per beni pubblici autenticamente europei come l’istruzione, il programma Invest Europe e la sanità. Delle lotte fra stati preoccupati di pagare il meno possibile ha fatto ad esempio le spese la proposta per un embrione di Unione della sanità (il programma EU4Health, già modesto, ha visto i suoi finanziamenti dimezzati).
Insomma, la gestione della pandemia sembra dirci che fatta (almeno in parte) l’Europa, ora occorra concentrarsi sul fare gli Stati europei.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
Ue post Covid: investimenti, ecologia e riforme
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Dopo essere state investite dalla pandemia del Covid, le economie dei Paesi avanzati sono salite su un ottovolante. L’impatto sulla crescita è stato devastante. La chiusura amministrativa di interi settori dell’economia e il tracollo di consumi e investimenti hanno provocato un immediato crollo del Pil, che ha fatto impallidire quello osservato in occasione della crisi finanziaria globale. Altrettanto spettacolare, ben oltre le attese degli istituti di previsione, è stato il rimbalzo estivo. La ripartenza ha in qualche modo mostrato la giustezza della scelta dei Governi di sostenere redditi e posti di lavoro, consentendo a consumi e investimenti di ripartire non appena le restrizioni sono state revocate. L’autunno e la seconda ondata poi hanno di nuovo precipitato la situazione. Le ultime previsioni disponibili per la zona euro (quelle della Bce del dicembre 2020) hanno rivisto al ribasso la crescita per il 2021: +3,9%, dopo il -7,3% del 2020 (per l’Italia si dovrebbe stare intorno al -9% e +3,5% per 2020 e 2021 rispettivamente). Non si dovrebbe tornare ai livelli del 2019 prima della fine del 2022, e ben dopo per alcuni paesi tra cui il nostro.
Quello che è più preoccupante, tuttavia, non è tanto il calo del Pil, ma il possibile effetto permanente della crisi. Nonostante l’impegno dei Governi, molte imprese falliranno. Questo, insieme al crollo degli investimenti degli scorsi mesi, porterà in dote un calo dello stock di capitale e quindi del reddito potenziale (la capacità massima di produzione dell’economia); il capitale non si ricostituisce in un giorno, per cui serviranno anni prima di lasciarsi alle spalle la crisi. Nei prossimi anni quindi la politica economica dovrà avere come obiettivo principale il sostegno dell’investimento, sia pubblico che privato. In questo senso è rassicurante che l’Europa abbia deciso di incentrare la propria politica di rilancio su di un massiccio programma di investimenti (il programma Next Generation EU).
Come notava la capo economista dell’Ocse Laurence Boone in un’intervista recente al Financial Times, sarà importante mantenere il sostegno delle politiche economiche invariato anche una volta che l’economia sarà ripartita, in modo da garantire un flusso stabile di investimento pubblico e privato. Dopotutto, nota a ragione Boone, anche durante la crisi finanziaria globale le politiche economiche inizialmente erano state espansive. La svolta affrettata verso l’austerità è avvenuta, soprattutto in Europa, in un secondo momento (a partire dal 2010). Quindi, una prima sfida consisterà nel resistere alle sirene dell’austerità che inevitabilmente torneranno a farsi sentire quando la crescita riprenderà e l’enorme stock di debito accumulato in questi mesi incomberà sul dibattito pubblico.
La gestione del debito
Proprio la gestione dello stock di debito costituisce la seconda grande sfida dei prossimi anni. L’emissione netta da parte dei governi dell’area dell’euro ha raggiunto in soli sei mesi, tra marzo e agosto del 2020, lo stesso livello che raggiunse in un anno e mezzo dopo la crisi finanziaria globale (tra settembre 2008 e febbraio 2010). Tuttavia, non ci si dovrebbe inquietare oltremisura della sostenibilità delle finanze pubbliche. Intanto, vale la pena ricordare che lo Stato non deve “ripagare” il debito, ma solo rifinanziarlo a scadenza. Questo vuol dire che ogni livello di debito è sostenibile fin tanto che le entrate fiscali coprono le spese per gli interessi e il debito non è su una traiettoria esplosiva. Nei prossimi anni questo sarà di fatto garantito dalla Bce, che con il suo programma di acquisti di titoli ha da un lato creato domanda per il debito pubblico e dall’altro rassicurato i mercati rendendo la probabilità di default nulla. Ricordiamo che nel 2020 tutte le aste per le emissioni italiane hanno visto una domanda da parte dei risparmiatori abbondantemente superiore all’offerta. Ma anche quando l’ombrello della Bce verrà chiuso è probabile che i tassi di interesse rimarranno bassi ancora a lungo. I Paesi avanzati infatti flirtano da anni con la “stagnazione secolare”, una situazione in cui il risparmio tende a essere eccessivo e l’investimento compresso. Questo porta ad una cronica insufficienza di domanda aggregata e quindi ad inflazione strutturalmente bassa e tassi di interesse vicini allo zero. Questa tendenza alla stagnazione secolare sarà probabilmente la malattia delle economie avanzate dei prossimi anni; ne abbiamo visto un’anteprima nel lungo periodo di deflazione giapponese.
In questa situazione di tassi strutturalmente bassi il debito non sarà un problema (lo prova proprio il Giappone, con un debito monstre di più del 200% del Pil); dovrà anzi essere parte della soluzione, andando a finanziare quell’investimento che potrà contribuire a sfuggire dalla trappola della stagnazione secolare. Vale la pena infine di ricordare, poiché molti parlano ancora oggi di necessari sacrifici futuri, che mai, nella storia recente, il debito accumulato in circostanze eccezionali è stato “ripagato” con avanzi di bilancio che avrebbero richiesto decenni di politiche restrittive. Circostanze eccezionali hanno richiesto misure eccezionali (il caso inglese del secondo dopoguerra è paradigmatico) molte delle quali sono state evocate in questi mesi: dall’inflazione (se si riuscirà ad averla!) alla repressione finanziaria, all’emissione di obbligazioni perpetue o ancora alla monetizzazione. E per molte di queste, nella situazione corrente di tassi e inflazione cronicamente bassi, i costi sarebbero di gran lunga inferiori a quelli di un’austerità che devasterebbe economie rese fragili da due crisi globali in poco più di dieci anni.
Infine, occorrerà fare tesoro dei successi (e dei molti errori) degli scorsi anni per mettere mano alla riforma delle istituzioni europee.
Rilanciare la crescita
La necessità di sostenere l’investimento pubblico influenzerà, si spera, il dibattito sulla revisione delle regole di bilancio europee lanciato dalla Commissione nel febbraio 2020 (ricordiamo che qualche settimana dopo la Commissione ha per la prima volta nella sua storia attivato la clausola di sospensione generalizzata del Patto di stabilità, per consentire ai Paesi membri di contrastare la pandemia). La Commissione stessa riconosce oggi che le regole europee hanno reso la politica di bilancio un fattore di instabilità e non di stabilizzazione: in primo luogo il quadro attuale è eccessivamente complesso, arbitrario, difficile da far rispettare; poi, e soprattutto, il Patto di stabilità ha spinto i Paesi europei a fare politiche pro-cicliche (in particolare tra il 2010 e il 2013) e a penalizzare l’investimento pubblico. Ci sono molte proposte di riforma sul tavolo. Quella a cui va la preferenza di chi scrive, la golden rule, ha lo scopo di preservare l’investimento pubblico consentendo di finanziarlo con debito, mentre le spese correnti devono essere coperte dalle entrate correnti. Gli eventi di questi mesi hanno mostrato come rispetto alla versione di cui si parla da decenni (e che fu applicata nel Regno Unito alla fine degli anni Novanta), la golden rule oggi dovrebbe essere “aumentata” per consentire di finanziare qualunque spesa (ad esempio nella sanità) capace di incrementare il capitale materiale e immateriale.
Nella zona euro, poi, occorrerà correggere alcune storture che rendono i Paesi membri vulnerabili alla speculazione. La Fed americana, la Bank of Japan o la Bank of England ci mostrano come lo scudo della Banca centrale sia fondamentale per rendere il debito pubblico sicuro, quindi appetibile, quindi a buon mercato. Occorrerà trovare un modo di consentire alla Bce di intervenire sui mercati in modo meno barocco di come, a causa dei vincoli posti dai trattati, ha dovuto fare fino ad ora. Il sacrosanto bisogno di evitare il comportamento opportunistico di governi irresponsabili (che giustifica il divieto di finanziamento diretto) non può essere soddisfatto rendendo tutti vulnerabili alla speculazione, e quindi incapacitati di usare la politica di bilancio.
Le sfide dei prossimi anni ruoteranno intorno alla capacità di ricostruire uno stock di capitale (materiale e immateriale) che consenta di rilanciare la crescita e di canalizzarla verso la transizione ecologica. Le politiche macroeconomiche, la gestione dell’eredità della crisi, le riforme della governance, dovranno tutte essere tese a perseguire questo obiettivo a livello europeo e di singoli Stati membri.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.