[ROMA] Vicedirettore del quotidiano Il Foglio.
L’Italia verso le elezioni
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Le ragioni della caduta del Governo Draghi sono state tutte contingenti, legate a calcoli di vantaggio (in alcuni casi per la verità non perfettamente calcolati) dei partiti. Le ragioni per le quali quel governo era invece nato sono immanenti: nessuno dei motivi che aveva determinato la necessità e l’urgenza di riunire al Governo tutti i partiti intorno alla figura dell’italiano più rispettato al mondo sono venute meno. Al contrario, alla pandemia e al Pnrr, si sono aggiunti nuovi elementi di crisi e di difficoltà: la guerra in Ucraina, la conseguente crisi energetica e l’impennarsi dell’inflazione che corrisponde a un ritorno delle politiche monetarie europee a logiche di controllo della spesa pubblica. Questo lascia immaginare che, al di là di chi dovesse vincere le elezioni del 25 settembre, sarà prima o poi inevitabile il ritorno a una soluzione in qualche forma “simil Draghi” o comunque sarà inevitabile l’adozione di metodi e programmi che si rifanno alla cosiddetta “agenda Draghi”. A riprova di ciò resta a verbale un fatto abbastanza sorprendente, e dai risvolti ironici: nessuno, nessun leader e nessuna forza politica si è assunta la responsabilità di aver provocato la crisi di Governo. Osservando anzi le dichiarazioni dei principali attori politici, fino a oggi, sembrerebbe quasi che il Governo sia caduto da solo. Spinto non si sa da quale imponderabile forza, certamente estranea alle regole della fisica.
Il 21 luglio, al Senato, l’ex Presidente della Banca centrale europea aveva d’altra parte incassato la fiducia, ma con soli novantacinque voti. Mancavano, perché astenuti e in parte usciti dall’Aula, i senatori della Lega, di Forza Italia e del Movimento 5 Stelle. Surreale ma vero. Nessuno ha sfiduciato Draghi. Si è sfiduciato da solo? Ovviamente no. Poco prima delle dichiarazioni di voto, poco prima di annunciare la propria astensione, il leader della Lega, Matteo Salvini, dopo aver bevuto una coca cola e mangiato un panino alla mortadella alla buvette, comunicava al suo senatore, Stefano Candiani, l’intenzione di non pronunciare lui il discorso in Aula. Discorso che avrebbe inevitabilmente sovrapposto il suo volto e la sua voce al fatto politico dell’anno: la caduta di Draghi. Silvio Berlusconi, il giorno stesso, la raccontava così: “Draghi non lo abbiamo cacciato noi, se ne è voluto andare lui”.
E Giuseppe Conte aderiva alla stessa, per così dire, ricostruzione dei fatti. Omettendo, ovviamente, che l’avvitamento della maggioranza era cominciato a fine giugno quando uno dei suoi consiglieri, il sociologo Domenico De Masi, aveva detto al Fatto che “Grillo mi ha raccontato che Mario Draghi gli ha chiesto di rimuovere Giuseppe Conte dal M5S, perché inadeguato”. Parole che il giorno stesso Conte, dopo aver definito “una manovra di palazzo” la scissione di Luigi di Maio avvenuta pochi giorni prima, commentava così dando vita a una accelerazione verso la crisi: “Trovo sinceramente grave che un premier tecnico, che ha avuto da noi la sua investitura, si intrometta nella vita di forze politiche”. Tutti ricordano a quel punto il ritorno in anticipo di Mario Draghi da un vertice Nato a Madrid. Fece il giro del pianeta la foto del premier italiano seduto da solo su una panchina con il telefonino in mano a parlare di Giuseppe Conte mentre alle sue spalle e tutt’intorno a lui i potenti della terra erano riuniti a parlare di Ucraina e di Vladimir Putin. Nessuno si è voluto intestare il Draghicidio. E questo non è un dettaglio.
Certo, il contraccolpo causato dalla caduta dell’esecutivo guidato dall’ex governatore della Bce è stato immediatamente misurabile, a riprova della debolezza italiana che risiede nel suo spaventoso debito pubblico arrivato intorno al 150% nel rapporto con il Pil. Il 21 luglio infatti, a poche ore dalla caduta, i rendimenti dei Btp italiani sono schizzati in alto a pari merito con quelli della Grecia, il valore dello spread ha raggiunto i 242 punti base e la Borsa ha chiuso in negativo (anche se di poco ma comunque la peggiore in Europa). Segnali. A riprova che la caduta del Governo Draghi è stata immediatamente interpretata, non soltanto dai mercati, come un grosso guaio politico. Eppure nessun osservatore, in Europa come nel nostro Paese, tra le alte cariche istituzionali e nell’establishment finanziario, sembra ritenere che l’Italia pur senza Draghi possa allontanarsi in modo deciso dalla stagione delle riforme e della responsabilità con un Quirinale che sarà guidato nei prossimi sei anni e mezzo ancora da Sergio Mattarella, con un debito pubblico molto elevato che impedisce strutturalmente fughe in avanti e con una serie di impegni che vincolano l’Italia al raggiungimento di obiettivi precisi con la Commissione europea pena la perdita di finanziamenti legati al Next Generation EU.
I vincoli rappresentano per l’Italia un’assicurazione formidabile contro ogni forma di populismo elettoralistico, compreso quello che a luglio ha spinto Lega, M5S e Forza Italia a pugnalare Draghi al Senato. Basterebbe infatti osservare le mosse della più probabile vincitrice delle prossime elezioni, cioè Giorgia Meloni, per capirlo. La leader di FdI non soltanto si è consegnata a una campagna elettorale prudente nella quale ha scientificamente evitato promesse elettorali mirabolanti tipiche delle televendite cui solitamente siamo abituati, ma ha immediatamente iniziato un intenso giro di consultazioni che ha coinvolto i maggiori banchieri italiani, tra cui Carlo Messina di Intesa, i più importanti dirigenti d’azienda, tra cui Claudio Descalzi l’amministratore delegato di Eni, economisti e funzionari italiani presso organismi internazionali ed europei, persino Fabio Panetta, al fine di ricevere consigli ma anche con l’obiettivo di comunicare a tutti (dunque anche all’estero) uno stesso messaggio che suona all’incirca così: “Fidatevi perché non ho intenzione di fare cose strane”.
D’altra parte, a quanto risulta, Meloni progetta anche di presentarsi agli elettori, prima del 25 settembre, in più occasioni pubbliche, per squadernare una specie di “due diligence” del paese. Parlare un linguaggio di verità, mostrare i conti, rendere evidenti le ragioni per le quali in questa campagna elettorale Fratelli d’Italia ha evitato promesse irrealizzabili che alludono all’irresponsabilità e si è raccomandata che anche nel programma elettorale del centrodestra siano evitate “vendite di pentole e tappeti”. Quello che si capisce è che chiunque governerà sarà, certo a modo suo, l’erede dell’agenda Draghi. Contribuendo così a configurare questa campagna elettorale proprio come una parentesi destinata a chiudersi rapidamente assieme alle urne, nel momento esatto in cui il nuovo governo (qualunque esso sia) sarà per così dire aggredito dalla realtà e dai vincoli a cominciare, entro dicembre, dai 434 decreti attuativi, tra cui i dieci del nuovo disegno di legge Aiuti, necessari a rendere operativi i provvedimenti legislativi collegati allo stanziamento di 19 miliardi di euro del Pnrr. Se non si fanno, niente soldi europei.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
Quirinale, un reality show
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Sergio Mattarella è stato rieletto Presidente della Repubblica per la seconda volta, come già successo nove anni fa con Giorgio Napolitano, ma a differenza del bis del 2013 il secondo mandato di Mattarella non è stato originato dal collasso inebetito del sistema politico, bensì dal completamento d’un fenomeno in atto già da qualche anno: l’autodistruzione del populismo che aveva vinto napoleonicamente le elezioni quattro anni fa. Quel ben noto fenomeno gialloverde che era riuscito, con il Conte uno e l’alleanza tra Lega e M5S, ad arrivare addirittura al governo del paese.
Questa legislatura infatti, figlia del terremoto politico del 4 marzo 2018, era cominciata con la nascita di un governo formato da due partiti che parlavano apertamente di uscita dall’euro (la Lega) e che proponevano l’impeachment del presidente della Repubblica (il M5s) per aver impedito la nomina a ministro dell’Economia di Paolo Savona, l’uomo del “Piano B” per l’Eurexit. Il fatto rilevante, insomma, è che la legislatura iniziata con tali premesse si è poi avviata alla sua conclusione con quegli stessi partiti senza briglia che stavolta, però, appoggiano un governo presieduto dal presidente della Bce, Mario Draghi, e rieleggono Mattarella (quello dell’impeachment) al Quirinale.
L’Italia si avvia dunque alla chiusura di questa singolare legislatura avendo ribaltato l’agenda antieuropeista, e avendo ribaltato anche (o quasi) gli stessi movimenti politici che quell’agenda l’avevano scritta. E tutto ciò è avvenuto nel segno della stabilità incarnata dal duo Draghi-Mattarella, segnando una crisi delle alleanze politiche fin qui conosciute e aprendo inoltre alla crisi – lenta ma forse inevitabile – non solo dell’agenda populista in sé ma anche dei due leader populisti che quell’agenda l’avevano interpretata da protagonisti: Matteo Salvini e Giuseppe Conte. Entrambi infatti, nei giorni decisivi in cui si decidevano le sorti del Quirinale, hanno fatto di tutto per creare le condizioni perfette non solo per impedire a Mario Draghi di spostarsi da Palazzo Chigi alla presidenza della Repubblica (missione compiuta) ma anche per tentare in tutti i modi di avere un capo dello stato capace di indebolire l’attuale maggioranza di Governo. E dunque anche il presidente del Consiglio. Missione, questa, strafallita. Con considerevoli conseguenze.
L’aspetto da sottolineare è che si tratta di un colpo probabilmente fatale per entrambi i leader populisti, già periclitanti nei rispettivi partiti. Sia per Salvini, ancora non apertamente contestato nella Lega ma sempre più percepito come un problema dal pragmatismo nordista storicamente fortissimo nel Carroccio, sia per Conte, che non è riuscito a trasformare il M5S desertificato nelle urne in un partito vero in grado di sopravvivere alla liquidazione del vaffa come programma politico.
Tutto è iniziato il 24 gennaio. All’alba della prima votazione per il Quirinale. A tarda sera infatti, quando le trasmissioni televisive erano ormai finite, quando tutti gli ospiti, i commentatori e gli specialisti dell’intrattenimento quirinalizio se n’erano andati a letto, ecco che Matteo Salvini era invece ancora lì, elettrico, per strada, agitatissimo a Roma tra via della Missione e piazza Montecitorio, a un passo dal Parlamento, circondato dagli ultimi cronisti disfatti dal sonno. “La notte è giovane”, diceva ai giornalisti, degli zombi. “Tenete i telefonini accesi”. Ebbene, per i successivi sei giorni il segretario della Lega avrebbe dato vita alla più sbagliata, inconsulta e a tratti contraddittoria girandola di possibili ed eventuali presidenti della Repubblica che l’Italia abbia mai visto in settantacinque anni di storia democratica. Un reality show. Tirando acqua al suo mulino, spesso però secondo misteriosi calcoli e rimbalzi. Forse non del tutto calcolati, per la verità.
Di sicuro con una furia al confine con la disperazione. Voleva infatti dare l’impressione d’essere il direttore d’orchestra con la bacchetta in mano. Diceva “lavoro per voi”. Quindi inondava i cellulari dei cronisti di ogni suo più minuscolo atto, movimento, pensiero. Ma l’unica impressione diffusa era quella di un attivismo tanto compulsivo quanto fine a sé stesso. Una corsa sul posto. Il massimo del movimento con il minimo dello spostamento. Come se il segretario della Lega, ancora una volta, confondesse rappresentazione e rappresentanza. Che è la sua maledizione. “Sembra X Factor”, sfotteva infatti Matteo Renzi, osservandolo. “Ore 8.12 Matteo Salvini è arrivato alla Camera”; “ore 9 Matteo Salvini proporrà persona di alto profilo”; “ore 12 Matteo Salvini telefona a Berlusconi”; “ore 15.13 Matteo Salvini smentisce di avere incontrato Cassese”; “ore 17 Matteo Salvini sta vagliando professori e avvocati”; “ore 20 Matteo Salvini proporrà una donna al Quirinale”… Al termine di questa girandola stordente, Salvini è finito col centrare un risultato probabilmente positivo per l’Italia, quasi inciampandoci: ha permesso la rielezione di Mattarella. Sì. Ma nel farlo, col suo “metodo”, si fa per dire, è finito col mettere su un filotto impossibile. Incredibile. Una cosa che non gli sarebbe riuscita nemmeno se avesse voluto.
In soli sei giorni, tra il 23 e il 29 gennaio 2022, il segretario della Lega è per l’appunto riuscito a far saltare in aria la coalizione di centrodestra, a rafforzare la sua avversaria interna Giorgia Meloni, e a spaccare la Lega spingendo Giancarlo Giorgetti alla minaccia di dimissioni. Dopo sei giorni di fuoco e iperattivismo, dunque, il 29 gennaio, lo si vedeva apparire in un angolo del Transatlantico poco dopo le dieci del mattino. Il volto provato nascosto a metà dalla mascherina, le spalle ricurve, lo sguardo perso. Non era più il king maker, il direttore d’orchestra con la bacchetta in mano. Nessuna spavalderia. Anzi. Tutto il contrario. “Mi fate prendere un caffè?”, diceva cercando di divincolarsi dai cronisti. Poi, cercando la via per la buvette, eccolo esalare la frase che avrebbe segnato la svolta: “Chiediamoci se non sia il caso di chiedere al presidente uscente di accettare un reincarico”. Bum!
Gli accidenti avevano preso per lui una piega talmente surreale, che alla fine s’era rassegnato a intestarsi l’unica opzione che il suo vice, Giorgetti, gli suggeriva di evitare: il Mattarella bis. “Perderesti la faccia”, gli diceva quello. E in effetti… Ma Salvini quella scelta l’aveva presa perché non sapeva più come uscire dallo gnommero Quirinale nel quale s’era incastrato. L’ultima strambata notturna, infatti, decisa d’intesa con Giuseppe Conte, appena dodici ore prima, lo aveva trascinato in un vicolo cieco. Disperato. I due s’erano messi in testa di elevare al soglio laico del Quirinale il capo dei servizi segreti, Elisabetta Belloni. E avevano apparentemente convinto Enrico Letta a dire di sì. Ma non avevano fatto i conti con Luigi Di Maio, Matteo Renzi e con tutto il resto del Partito democratico, in particolare con Dario Franceschini e Lorenzo Guerini (compreso chissà anche Letta, che forse in realtà non era affatto convinto). Dunque erano a andati a sbattere, Salvini e Conte. Rumorosamente. Definitivamente. “Due furboni”, se la rideva proprio in quelle ore Luigi Di Maio, che aveva giocato tutta un’altra partita. Vincendola. Dimostrando, ancora una volta, l’inconsistenza di Conte, suo avversario se non addirittura nemico all’interno del M5S.
Il leader del partito di maggioranza relativa, Conte, l’uomo che insomma avrebbe dovuto essere decisivo per l’elezione del capo dello stato, non era riuscito nemmeno a giocarla quella partita. Non l’aveva nemmeno iniziata. Flop. Appena qualche ora prima della marcia indietro di Salvini, in un controtempo surreale, Conte aveva imbastito un comizietto fuori l’ingresso dei gruppi parlamentari, in via della Missione: inneggiava alla certezza di avere un presidente donna. La Belloni, appunto. Eppure, mentre parlava, l’ipotesi Belloni stava già tramontando. E lui era l’unico a non saperlo. Quando non si ha una identità culturale precisa e comprensibile si sfoderano i simboli pensando che essi possano mascherare l’inconsistenza politica. L’inizio della fine per il leader inconcludente di un M5s passato in quattro anni dal 30% dei voti al 10%, o forse addirittura meno.
Dunque ecco la crisi del populismo certificata dall’elezione di Sergio Mattarella. Ecco la crisi dei suoi leader, degli uomini che ne avevano incarnato il climax ascendente nel 2018: il piano B per uscire dall’euro e i minibot di Claudio Borghi, il reddito di cittadinanza e quota cento, le allegre gite a Mosca e la Cina sempre più vicina, la guerra alle Ong e la Bce usuraia. Nessun dubbio, nessuna moderazione ammessa. Tutto questo era già scomparso, ma il meccanismo della rielezione di Mattarella ne segna la crisi definitiva. La scomparsa dall’orizzonte. Come ipotesi di futuro. Crisi del populismo, quindi. Ma non la crisi della Lega, attenzione, che rimane insediamenti, tessere, nativismo settentrionale e voti nel nord produttivo del paese. Bensì la crisi di un modo di guidare (secondo qualcuno con una mano sola) la politica italiana. La crisi di un complesso fenomeno che, tra malumori popolari e sparate pirotecniche nei Palazzi e in Parlamento, s’era impadronito del paese intero. Delle sue fantasie malate. E delle sue istituzioni. Perché se si decide di non avere i paraocchi, il sì al bis di Mattarella è stato l’ennesimo faticoso passo verso l’annientamento del M5s e verso l’emancipazione della Lega dal salvinismo. Fenomeno lento, ma progressivo.
A questo proposito vale forse la pena qui di ricordare cosa diceva di Mattarella il Salvini di prima, quello spavaldo e in ascesa, appena qualche anno fa. Era il 2015: “Il cattocomunista Mattarella presidente? Fondatore dell’Ulivo, vice di D’Alema, ministro con De Mita. E giudice di quella Corte costituzionale che ha fregato agli italiani il referendum per cancellare la legge Fornero. Se Berlusconi e i suoi lo votano, cosa diranno ai loro elettori? Mattarella non è il mio presidente”. Come ben si capisce allora, l’aver votato Mattarella è stato un passo che non può non essere messo in fila con una serie di altri passi compiuti a fatica dalla Lega nell’ultimo anno. Con Salvini, o meglio malgrado Salvini. Il sì al governo Draghi (“sostenere questo governo significa condividere l’irreversibilità della scelta dell’euro”), il sì al Recovery Plan (dopo aver votato contro in Europa), il sì al Green Pass (e anche al super green pass), il sì all’obbligo vaccinale (per gli over 50).
Il Movimento 5 stelle si è annientato da solo, nel Palazzo e nelle urne. Resisterà qualcosa, probabilmente, in un rapporto ancillare con la sinistra. Ma la Lega è un’altra storia. E se rimane vero che Salvini non è probabilmente la persona più adatta a superare definitivamente la stagione del salvinismo, resta il fatto che la rielezione di Mattarella – e il modo in cui è avvenuta: per umiliazione delle scelte compulsive del segretario leghista – è un sì che evita di condannare automaticamente la Lega a un futuro populista. Si vedrà. Salvini esce indebolito, questo è sicuro. La Lega no. E il futuro del centrodestra, e della prossima legislatura, passa anche da qui. Un futuro che resta schiuso a misteriose promesse, certo. Ma nessuno ora può escludere che il Parlamento del 2023 porti con sé la riconferma di Mario Draghi a Palazzo Chigi.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
Corsa al Quirinale, cosa aspettarsi?
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
La regola prescrive una specie di voglioso distacco. A dimostrazione che il Quirinale non è per chi lo desideri, ma è una gloria terminale che corrisponde alla più smaniosa scaramanzia del comando. Anche Mario Draghi ricorre infatti alla metafora, che simpaticamente allude: “Sono un nonno a servizio delle istituzioni”. Ci si propone, dunque, ma anche no.
La corsa al Quirinale
La lunga corsa verso la presidenza della Repubblica, d’altra parte, sempre mortifica i candidati troppo desiderosi, superbi e sicuri di sé. Successe due volte a Fanfani, cui scrissero nelle schede: “Maledetto nanetto non sarai mai eletto”. E successe a Spadolini, poi a Forlani e persino ad Andreotti. Così le ambizioni sono costrette a muoversi nell’ombra. E fatta eccezione per Silvio Berlusconi, primo nella storia italiana a candidarsi alla presidenza della Repubblica senza far alcun mistero dei propri desideri, per tutti gli altri la prassi vuole al contrario che ci si candidi e ci si accrediti al di fuori d’ogni rapporto con l’opinione pubblica.
Non c’è mai nessuno che dica “io vorrei fare il Presidente, credo di avere le qualità adatte”. Quelli che di solito la spuntano, alla fine, sono infatti quelli che stanno più a lungo sott’acqua, come i sommergibilisti. Nessuno pensava davvero che Oscar Luigi Scalfaro, nel 1992, diventasse Presidente della Repubblica. E nemmeno Sergio Mattarella era tra i favoriti. Più noto sei, infatti, di solito, meno possibilità hai. Significa forse che Mario Draghi non sarà mai Presidente della Repubblica? E chi può dirlo. I partiti sembrano temerlo, quest’uomo diventato la vivente fatalità dell’italico destino.
Appaiono spaventati dall’ipotesi che una sua ascesa al soglio presidenziale provochi la fine repentina della legislatura. E fin qui danno tutti l’impressione di non volerlo votare. Dal canto suo, l’ex Presidente della Bce, sornione e spiritoso, si è definito un “nonno al servizio delle istituzioni”. Dunque alludendo, anche lui, alla presidenza. Senza mai confermare, ma nemmeno smentire, d’essere interessato al quel Colle più alto sorvegliato dai corazzieri. A quella gloria terminale. È infatti proprio nella voglia che la faccenda quirinalizia sempre si complica. Perché “chi entra Papa, esce cardinale”, come dicevano nella Dc. Chiedete a Romano Prodi, che fu impallinato dai famosi centouno franchi tiratori. Bisogna dunque dissimulare, e costruire, adelante con juicio, passo dopo passo. Sotto il pelo dell’acqua ci sono ancora Dario Franceschini, Pier Ferdinando Casini, Paolo Gentiloni, Guliano Amato, Luciano Violante, Walter Veltroni, Anna Finocchiaro, Sabino Cassese… E chi meno parla, chi meno si è espone e meno appare, forse in realtà più aspira, e più ha possibilità. Ed è così che alla fine, i candidati più forti come sempre sono anche quelli più improbabili e sommersi.
La confusione delle forze politiche
Strana e complicata faccenda, l’elezione del Presidente della Repubblica. Si voterà alla fine di gennaio, tra il 20 e il 25. Manca poco. Eppure mai come questa volta tutto appare confuso e indecifrabile. Perché se è normale e fisiologico che non ci siano esplicitamente dei candidati, è al contrario preoccupante e patologica l’incertezza delle forze politiche. Il loro stordimento. Questa volta nessun partito sembra infatti capace di dare le carte e dirigere le danze, trovare un metodo, offrire un punto d’incontro. Enrico Letta non ha la forza parlamentare sufficiente col solo Pd, né può contare sulla fragilità esplosa dei 5 Stelle di Giuseppe Conte per provare a imporre qualcosa: un nome, un’idea, anche solo un profilo disegnato nell’aria. Giorgia Meloni è in grande spolvero, sì, nei sondaggi, ma in Parlamento ha un gruppo parlamentare minuscolo e dal peso trascurabile. È fuori partita. Silvio Berlusconi gioca per sé, per adesso. E Matteo Salvini, infine, sembra un nostromo senza bussola: candida Draghi, ma poi dice che se Draghi va al Quirinale equivale alle elezioni anticipate. In pratica sabota il candidato che pure afferma di sostenere. E davvero Draghi dovrebbe esporsi alle follie di un Parlamento incontrollabile? Alle incertezze di leader politici che improvvisano? Sul serio un uomo con la sua biografia accetterebbe il rischio dello spelacchiamento e dell’umiliazione?
C’è chi addirittura spera nell’ultima mossa del cavallo di Matteo Renzi, il leader disarcionato e in crisi di consensi ma che pure ha fin qui dirottato e indirizzato il destino di questa legislatura: impedito le elezioni ai tempi del Papeete, favorito la nascita del secondo governo Conte, determinato la crisi di Conte e l’ascesa di Draghi a Palazzo Chigi. Ora forse ci si attende da Renzi che determini, pur senza voti, ma con la sola imposizione del talento politico, anche l’incoronazione di Draghi al Quirinale. Chissà. Pare che lui sia orientato però verso altre soluzioni. E così, davvero, l’unica cosa certa sul proscenio istituzionale e politico è la confusione. L’assenza di un filo rosso da seguire. Nessuno parla con nessuno. Nessuno sembra capace di costruire quel genere di conversazioni e d’intese, di compromessi e di scambi, che dovrebbero essere la caratteristica e la qualità stessa della politica.
Sette anni fa il caos Quirinale fu risolto con una cena settimanale. La cena dei non cretini, anzi dei competenti, potere fortissimo e perciò invisibile, muto, ma bilanciato, decisionista e operativo. La cabina di regia di cui oggi non si vede nemmeno l’ombra. Giorgio Napolitano, Giuliano Amato, Sergio Mattarella e Sabino Cassese. Erano loro i commensali di quella segreta cena settimanale (di preferenza il martedì) andata avanti per un anno, a cavallo tra il 2014 e il 2015 in attesa delle dimissioni ampiamente annunciate del Presidente dell’epoca, Giorgio Napolitano, prorogato dai partiti per la loro incapacità. Oggi come allora. Ebbene, a quei tempi tutti sapevano e tutti facevano finta di niente. Ovvero che era un appuntamento carbonaro tra amici che si stimano, ma allo stesso tempo una cena tra rivali per la successione di Napolitano. E che da quel mazzo sarebbe uscita la carta vincente. Come si fa in un club di gentlemen uscivano tutti dal luogo dell’incontro fischiettando, ognuno convinto che il traguardo fosse più vicino per sé e più lontano per gli altri.
C’erano una volta un ex comunista, un socialista, un cattolico democratico e un liberale. Come nelle barzellette. Si faceva il punto e poi questo punto discendeva giù pe’ li rami verso i mondi di riferimento dei commensali: nomine, rapporti con la finanza, con i grand commis, leggi, Governi, emendamenti, manovre. Potere forte, anche se a Palazzo Chigi c’era il ragazzo di Rignano, Matteo Renzi, uno che il punto tende a metterselo da solo, dove gli pare, anche a costo di rompersi l’osso del collo. Un gruppo di quirinabili, insomma, riuniti attorno al presidente della Repubblica in carica. E un presidente del consiglio, leader della maggioranza, con la forza parlamentare (e l’agilità politica) sufficiente a gestire un processo complesso come l’elezione del Presidente della Repubblica. Tutto ciò che insomma manca adesso.
Tutto può ancora mutare…
Due anni prima di quelle cene, era andata in scena la crisi istituzionale, la vergogna dei partiti culminata con la richiesta – cappello in mano – d’una rielezione di Napolitano. Sergio Mattarella lo ha detto e ripetuto: non ha intenzione di ricandidarsi, non vuole essere rieletto. Più volte lo ha ribadito nelle ultime settimane fra visite (a Papa Francesco) e cerimonie natalizie. Eppure nel suo discorso di fine anno, pronunciato in piedi, quasi sull’uscio del Palazzo, quindi non fuori dal Quirinale ma nemmeno del tutto dentro, il Presidente in carica non ha recitato un commiato. Non ha preso cappello. Non ha salutato. Ma ha saggiamente omesso qualsiasi riferimento al suo futuro personale e a quello dell’istituzione che lui rappresenta.
Si capisce allora che davvero tutto può mutare in un contesto ancora così denso di incertezze. Il 14 dicembre 2012 l’allora Presidente Napolitano in occasione degli auguri al corpo diplomatico chiuse l’evento sottolineando che “guardando al termine del mio mandato, vi ho accolto oggi al Quirinale ancora una volta”. E tre giorni dopo, il 17 dicembre con il premier Mario Monti da poco dimissionario, aggiunse davanti alle alte cariche dello Stato che “la non rielezione al termine del settennato è l’alternativa che meglio si conforma al modello costituzionale di Presidente della Repubblica. È con questa convinzione che mi accomiato da voi”. Poi, come sappiamo, nel caos, venne rieletto. Anche per il Presidente in carica, infatti, la regola del Quirinale prescrive l’ormai ben noto voglioso distacco. Vale per tutti. Al punto che oggi il non candidato e riluttante Sergio Mattarella è forse in realtà uno dei supercandidati più probabili.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
In Italia ha vinto il bipolarismo
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Le ultime elezioni amministrative segnalano un solo sconfitto evidente: il Movimento 5 Stelle. Un partito annullato. Fenomeno che se sarà confermato anche alle prossime elezioni politiche – e non c’è nulla che ne faccia al momento dubitare – riporta evidentemente l’Italia alla fisiologia del suo passato bipolare: coalizione di centrodestra contro coalizione di centrosinistra. Terzo non dato. La scomparsa dei grillini sta già spingendo il Pd verso orizzonti di “nuovo Ulivo” e di riflesso costringerà i due maggiori leader del centrodestra, Giorgia Meloni e Matteo Salvini, a una migliore e più leale collaborazione tra loro. Pena: la sconfitta.
“Complimenti ai sindaci di Ginosa, Noicattaro e Pinerolo, che vengono confermati alla guida delle loro città”, dichiarava il 18 ottobre, dopo i ballottaggi, e senza alcuna ironia volontaria, Laura Castelli, viceministro grillino dell’Economia. Dunque Ginosa, Noicattaro e Pinerolo. Gli unici comuni in Italia in cui i 5 stelle hanno vinto oltre che a Grottagliea, in provincia di Taranto, l’unica vittoria al primo turno. Insomma il partito che governava Torino e Roma, il Movimento vaffanculista che ancora detiene la maggioranza relativa in Parlamento, ha raccolto al primo turno 247.381 voti. Meno di un terzo rispetto ai voti ottenuti alla precedente tornata amministrativa del 2016. A Napoli e Bologna, due città in cui la vittoria di Gaetano Manfredi e Matteo Lepore è stata molto celebrata dalla dirigenza del M5S, il movimento grillino ha raccolto rispettivamente il 9,73 e il 3,37%. In pratica Manfredi e Lepore sarebbero stati eletti anche senza l’appoggio del M5S. Ininfluenti. A Milano i 5 Stelle semplicemente non esistono: 2,7%. Zero consiglieri comunali eletti. E le percentuali non si discostano molto nemmeno nel resto d’Italia. A Salerno i grillini valgono il 4,4%, a Isernia il 3,76%, a Savona il 6,44%, a Grosseto il 5,22%…
E si potrebbe continuare a lungo. Ma sarebbe noioso e ripetitivo dell’unica notizia. Ovvero che si è conclusa la commedia umana dell’assalto al cielo da parte delle tabule rase e delle zucche, quella stagione bislacca iniziata nel 2013 in cui una classe politica selezionata con criteri sempliciotti da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio s’era impadronita del potere, della Rai e dell’Inps, delle aziende di stato e del governo, per instaurare una specie di regime di analfabeti cronici. La loro scomparsa tuttavia è destinata e determinare delle novità ancora prima che venga conclamata dalle elezioni politiche. Sia il centrodestra sia il centrosinistra hanno infatti immediatamente cominciato a riorganizzarsi.
Il segretario del Partito democratico, Enrico Letta, ha parlato di risultati “trionfali”. E ne ha qualche motivo, anche se la lunga storia del centrosinistra è ricca di galvanizzanti vittorie amministrative, capaci di generare nei dirigenti e nei militanti i più sfrenati sogni di gloria seguiti dai più amari risvegli. Tuttavia queste elezioni sembrano rappresentare per il segretario del Pd l’occasione di cementare la nuova-vecchia coalizione che Letta sembra inseguire da tempo, con tanti saluti alla legge proporzionale, primo di quei “correttivi” che il Pd aveva promesso in cambio del suo appoggio al taglio dei parlamentari. Maggioritario, dunque, e nuovo Ulivo, questo è l’obiettivo di Letta, una cosa che vada da Fratoianni a Calenda passando per Conte. La priorità del segretario, ad allungare lo sguardo fino al 2023, è quella di assicurarsi un sistema di gioco che imponga a tutti di formalizzare le alleanze prima del voto, in un regime di bipolarismo di fatto. Ormai conclamato anche dalle intenzioni degli elettori. Si potrà convincere il centrodestra? Forse sì. Chissà.
Ma non meno difficoltoso sarà per Letta il problema di come mettere invece insieme un centrosinistra così diverso, come tenere uniti Matteo Renzi e quel che resta dei grillini. Compreso Calenda, che Letta cita continuamente e con insistenza tra le componenti del campo di centrosinistra da ricostruire. Letta ha già fatto partire queste manovre da tempo, come se aspettasse soltanto da queste elezioni amministrative la conferma di un fatto di cui lui era già sicuro: il bipolarismo è tornato. E così, allora, se da un lato agitare i temi identitari della sinistra in questi ultimi mesi è servito a stanare il M5s, l’apertura ad Azione di Calenda e Italia viva di Renzi dovrà portare, nell’ottica del segretario dem, a evitare il rischio di un centro basculante che possa agire da ago della bilancia. Impresa non semplicissima, quest’ultima. Perché se la durissima sconfitta del M5S annulla qualsiasi velleità autonomista di ciò che resta dei grillini (e insomma rende Conte pressoché un ascaro nelle mani del Pd), per Renzi e soprattutto per Carlo Calenda il discorso è diverso. Calenda, in particolare, potrebbe non aver alcun interesse ad aiutare Letta nella costruzione di una coalizione di partiti, in un cartello elettorale, in cui lui sarebbe un partner più che minoritario. Preferirebbe, è del tutto evidente, una situazione alla “proporzionale”: alleanza sì, ma dopo il voto. La fortuna di Letta è che Calenda praticamente non ha parlamentari. E quindi, da questo punto di vista, l’interlocutore del segretario Pd sarà il solo Matteo Renzi.
La stretta bipolare sta già avendo effetti anche a destra. Giorgia Meloni e Matteo Salvini sono stati riportati con i piedi per terra da queste elezioni. Non hanno vinto. Ma nemmeno hanno in realtà perso: i voti del centrodestra sono tantissimi, ma il centrodestra sembra essere stato incapace di presentare dei candidati sindaci che fossero all’altezza delle aspettative. L’errore nella scelta delle candidature è facilmente imputabile alla lunga e defatigante guerra che Meloni e Salvini si sono fatti tra loro. Concorrenti, spesso, in forme di estremismo. E concorrenti al punto da lavorare per danneggiarsi l’un l’altra. La mezza sconfitta li riporta ora inevitabilmente a riprendere il filo di una logica di coalizione all’interno della quale, come succede in tutte le alleanze, esiste la consapevolezza del fatto che la buona salute dell’uno condiziona la buona salute dell’altro.
La sconfitta inoltre li dovrebbe portare a ragionare di più sulla propria immagine e sulla selezione dei gruppi dirigenti, a riprova di dati che sono molto significativi in città come Roma e Milano nelle quali il candidato sindaco presentato dal centrodestra ha preso meno voti delle liste che lo sostenevano. Storicamente le elezioni amministrative hanno fatto più spesso sorridere la destra che la sinistra, e queste non fanno differenza dalle altre. È anzi spesso capitato, come nel 1993, che delle amministrative andate benissimo per la sinistra coincidessero poi (1994) con delle politiche in cui il centrodestra ha trionfato nettamente. Di questo i leader della destra devono essere consapevoli: le elezioni politiche si possono anche vincere, ma per governare serve una coalizione che non sia un mero cartello elettorale. Ci riusciranno? Intorno a questa domanda si gioca, da qui a un anno, il destino di Salvini e Meloni.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di novembre/dicembre di eastwest.
Con Draghi, la competenza sfida il populismo
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Si è installato a Palazzo Chigi portando il silenzio dell’uomo che ama fare, e non parlare. Ha costruito attorno a sé, alla presidenza del Consiglio, e nei ministeri economici, una squadra di tecnici affidabili e competenti, Antonio Funiciello, Roberto Garofoli, Vittorio Colao e Daniele Franco. Ha poi consegnato il ruolo di portavoce alla vaghezza istituzionale di Paola Ansuini, che viene dalla Banca d’Italia, e a Ferdinando Giugliano, giornalista economico che aveva lavorato al Financial Times e a Bloomberg. Lei parla poco, lui parla inglese. E dunque il 17 febbraio, alle 10 del mattino, presentandosi per la prima volta al Parlamento che di lì a poco gli avrebbe votato la fiducia, Mario Draghi ha confermato di appartenere alla categoria degli italiani secchi, all’antropologia dei Dossi e dei Pontiggia. Prosa didattica punteggiata di senso del dovere, perché non serve nessun aggettivo che definisca quello che nasce: “Mi giudicherete per quello che farò”. E poi, citando Cavour: “Le riforme compiute rafforzano l’autorità”. Fisco, scuola, vaccini, lavoro, Recovery Plan… Vasto programma, ambizioso a dir poco, per certi versi esaltante.
Da allora nessuna conferenza stampa, nessuna intervista, nessun ricorso a quel fluviale susseguirsi di annunci e contro annunci, suggestioni e ritirate, fantasie e invenzioni, ribalderie e veline di cui da anni si alimenta il circo mediatico, quel gioco di specchi da perdere l’orientamento che gli anglosferici – ma ormai anche gli italiani – chiamano “spin”. Tutto molto singolare, inconsueto, nell’Italia delle dirette Facebook, dei comizi Instagram, dei selfie, del Papeete e dei salti nei cerchi di fuoco. Quanto durerà lo stile Draghi al potere? E cosa gli sarà concesso di fare da una classe politica che è sempre quella di prima, cioè quella delle elezioni del 2018? Come potrà navigare Mario Draghi nel Parlamento che gli italiani appena tre anni fa inzepparono di no euro, vaffanculisti e retorica anti establishment, e che secondo le categorie della politologia corrisponde forse alla forma più evoluta e instabile di populismo che i sistemi democratici occidentali abbiano fin qui conosciuto?
Nei due lunghi mesi, da dicembre a fine gennaio, in cui andava spelacchiandosi la vicenda politica di Giuseppe Conte e dell’alleanza tra Pd e Movimento 5 stelle, nella Lega prendeva coraggio la strategia di Giancarlo Giorgetti. Il vicesegretario, e architetto di retrovia della politica leghista, si trovava sostenuto da quella parte del partito, nordista e nativista settentrionale, che intorno agli amministratori delle grandi regioni del nord premeva per una maggiore partecipazione della Lega alle manovre politiche. Insomma alla gestione di quel Recovery Plan che con i suoi miliardi di euro avrebbe potuto potrebbe – tirare fuori la Lombardia e il Veneto dalle spire della crisi. Conciliaboli, insistenze, riservatissimi e cauti contatti con il Quirinale. Fino al botto definitivo di Conte e all’emergere di Draghi. A quel punto Giorgetti si è trovato a spiegare al suo leader, a Matteo Salvini, che doveva dire di sì a Draghi e a quello che rappresentava. Ovvero una mentalità italiana evoluta, europea e internazionale, un’occasione per la Lega di tornare in gioco, dunque in definitiva un’opportunità da cogliere al volo, pena il rischio di schiantarsi contro il suolo dell’irrilevanza rumorosa.
L’equilibrio tra Salvini e Giorgetti
Ma ecco il primo, e non certo di poco conto, problema che Draghi si trova già ad affrontare: Salvini non ha capito Giorgetti. Anzi, Salvini non la pensa affatto come Giorgetti. E per averne la certezza, in questi giorni, è appena sufficiente fare un giro in Parlamento, nei capannelli, tra i senatori e i deputati della Lega, dove già adesso si fanno discorsi dall’aria drammatica e vagabonda. Quel che infatti sin da subito Salvini ha capito della vicenda Draghi è che forse sarebbe potuto tornare ministro, che avrebbe potuto darsi da fare nei comizi social, che gli veniva offerta la possibilità di mettere in campo tutto quel genere di attività nelle quali eccelle e che già, ai tempi del governo con Luigi Di Maio, s’erano dimostrate efficaci al punto di consentirgli d’ingrassare nei consensi inscenando una continua baruffa, una perenne politica parallela a quella del governo. Tutto questo Draghi deve averlo capito. E naturalmente, alla fine, come tutti sanno, ha nominato Ministro Giorgetti, e si è guardato bene dall’imbarcare Salvini nella compagine di governo. Cosa che già in queste prime settimane ha spinto il leader leghista ad affidarsi a una tattica di ripiego: i ministri della Lega facciano un po’ quel che vogliono e possono, io faccio il controcanto sulle aperture, sul piano vaccini e sul fisco. Ma quanto potrà durare l’equilibrio tra Salvini e Giorgetti? E che effetti potrebbe avere sul governo Draghi, sulla sua capacità di azione e sulla sua durata, questo acrobatico malinteso che ancora non esplode eppure in tutta evidenza serpeggia e scoppietta?
Oggi la Lega, con Forza Italia, non è soltanto ultra rappresentata nel governo. Ma in Senato ha ribaltato gli equilibri di maggioranza e rappresenta il gruppo più numeroso a sostegno di Draghi. Il cartello composto da Pd, M5s e sinistra arriva a quota 110. Lega e Forza Italia a 115. E questo per effetto dell’esplosione del Movimento cinque stelle, il partito che di fatto aveva vinto le elezioni del 2018, ma che nel corso dei tre anni successivi, tra abbandoni ed espulsioni, ha perso 28 parlamentari. Ed ecco il secondo problema di Draghi: i grillini. Benché crollato, secondo i sondaggi, dalle vette del 35% al sottoscala del 10%, il M5s è ancora un cardine fondamentale per qualsiasi maggioranza si voglia comporre in Parlamento. Ma il Movimento fondato da Beppe Grillo e da Gianroberto Casaleggio è oggi un universo in decomposizione attraversato da una profonda frattura politica, strategica e di potere che vede contrapposti da una parte il figlio di Gianroberto, Davide, e dall’altra il comico genovese. Davide vorrebbe riprendersi la creatura del papà, riportandola al linguaggio e alle pulsioni delle origini. E per questo da tempo coltiva rapporti interni con Nicola Morra e Barbara Lezzi (oltre che con Alessandro Di Battista). Grillo, al contrario, è il contrafforte dei governisti, benedicente nei confronti di Luigi Di Maio e anche di Conte.
La fiducia a Mario Draghi
Nel giorno in cui il Senato votava la fiducia a Draghi questo conflitto è esploso in tutta la sua evidenza. Morra e Lezzi, insieme a parecchi altri, hanno votato No alla fiducia, a quanto pare confortati dal sostegno di Casaleggio che aveva garantito loro che nessuna iniziativa disciplinare li avrebbe investiti poiché – sono parole sue pubblicate sulle pagine internet dell’Associazione Rousseau – in vista delle prossime elezioni per la segreteria del M5s “il capo politico Vito Crimi è decaduto”, e dunque impossibilitato per regola statutaria ad espellere chicchessia. Solo che, nell’eterno possibilismo delle nebulose regole del M5s, Grillo ha al contrario offerto una diversa e opposta interpretazione: il capo politico c’è ancora ed è nel pieno delle sue funzioni. Fatto sta che lo scorso 18 febbraio Vito Crimi ha espulso Lezzi e Morra dal gruppo parlamentare del M5s, avviando la procedura di espulsione anche dal partito. I due, che hanno intenzione di candidarsi alla guida del M5s proprio imbracciando la bandiera della purezza, hanno annunciato ricorso, persino in tribunale. E questa storia, che può apparire episodica e di secondaria importanza, è in realtà centrale perché rivela il conflitto insanabile interno a quello che un tempo era il primo partito d’Italia. Così, anche in questo caso, come per la Lega, la domanda è la stessa: quanto potrà reggere il fragilissimo equilibrio? E potrà non avere conseguenze sulla serena navigazione del governo?
Mario Draghi è uscito dal cilindro del Presidente della Repubblica come la vivente fatalità dell’italico destino ai tempi della pandemia. Con un programma ambizioso, ed estremamente complicato, potrà contare sul suo proprio carisma, sul sostegno di Sergio Mattarella e sui bravi tecnici che lo circondano. Ma con i partiti dovrà fare di necessità virtù: la loro debolezza è una forza per chi se ne sappia servire, ma il tramestio e le ambiguità che li attraversano sono un’insidia, un veleno, una miscela instabile e pericolosa. La storia e la cronaca lo confermano. Basterebbe forse appena accennare alla parabola di Mario Monti. Le sue grandi riforme, le uniche, riuscì a farle nel momento più cupo e drammatico, a un passo dal default, con lo spread sul baratro dei seicento punti, quando ogni briglia era ormai travolta dalla tragedia incombente: non nascevano dall’ottimismo e dalle virtù italiane, ma dalla paura e dall’ansia di una casta inebetita. Finita la paura, lo divorarono, al punto da trasformare oggi Monti in una specie di monito per Draghi. Un doloroso monumento ai fallimenti della classe dirigente italiana. Non serve a nulla possedere la fede nella tecnica, la competenza e il prestigio, se tutto ciò è messo al servizio d’una borghesia indifferente, di un popolo chiassoso e di una politica che ne è il riflesso allo specchio.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.