Già Ambasciatore italiano in Pakistan, dal 2020 è Senior Civilian Representative della Nato in Afghanistan. Ha gestito il traffico all’aeroporto internazionale di Kabul durante la crisi afghana.
Ucraina, questa guerra fa male
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Se è vero che ogni crisi presenta una opportunità, lo è anche perché i momenti di crisi sono spesso momenti di introspezione e di analisi, a cui si giunge una volta superata la prima ondata emotiva relativa all’evento traumatico che si è prodotto e si comincia a ragionare sulle varie sfaccettature della vicenda che ha travolto l’ordinario svolgersi delle cose. In questo senso la guerra ucraina non è diversa dalle altre crisi che hanno investito il pianeta in quel susseguirsi di conflitti che hanno insanguinato varie parti del mondo negli ultimi quarant’anni. Guerra che, a differenza di molte altre alle quali è stata generalmente concessa una attenzione tra l’episodico e il distaccato, ha coinvolto come non mai l’Europa intera, con una partecipazione profonda e appassionata di pressoché tutta l’opinione pubblica italiana ed europea, la cui prossimità geografica al conflitto non basta a spiegare una partecipazione ideale così intensa allo svolgersi degli eventi. La guerra nei Balcani, ad esempio, è stato un conflitto centrale all’Europa, che per di più ha visto l’intervento diretto delle Forze Armate di vari Paesi, Italia in testa, e un rilevante impegno Nato, Ue e Onu. Seppure la guerra balcanica, o meglio sarebbe dire le guerre balcaniche, siano state seguite con attenzione dalle opinioni pubbliche, la sua intensità non è paragonabile all’emozione e all’interesse con la quale l’Europa sta invece seguendo il conflitto ucraino.
La distanza geografica non è quindi un fattore che ricopre una influenza decisiva. Né lo è la maggiore copertura mediatica consentita dal progresso tecnologico che ha stravolto l’ambiente nel quale si svolgono le attività umane, consentendo di seguire in tempo reale ogni minima evoluzione della situazione sul terreno e nel gioco politico-diplomatico. Rispetto agli anni ‘90 sono comparsi i social media, che hanno rivoluzionato il panorama informativo mondiale e iniettato una immediatezza e una articolazione nell’informazione, così come nei messaggi veicolati dagli uni e dagli altri, che consentono di farsi un quadro tempestivo e approfondito, in ogni momento, a chiunque vi ricorra. Ma ciò è vero a tutto tondo, dal conflitto in Congo a quelli in Sudamerica, all’Iraq, alla Siria e all’Ucraina. Per i social media le guerre sono tutti uguali e sono tutte oggetto della stessa esposizione mediatica o quasi. Basta affacciarsi su Twitter per mezz’ora, cercare un conflitto qualsiasi e si trovano notizie e analisi in quantità. Non è quindi nemmeno l’esposizione mediatica a fare la differenza, specie tenendo conto del fatto che la percentuale di coloro che si informano sui social rispetto ai media tradizionali è in ascesa vertiginosa. Secondo una ricerca svolta l’anno scorso dal prestigioso PEW Research Center, oltre l’86% degli americani si informa regolarmente sugli avvenimenti nazionali e internazionali da smartphone, tablet e computer contro il 40% che ricorre alla televisione e il 32% alla carta stampata. Similmente i dati europei mostrano che, secondo Eurostat, il 72% degli europei si informa online, e di questi la maggioranza ricorre a Twitter. Le altre percentuali, pur non del tutto omogenee, sono in proporzione a quelle americane.
L’Europa è stata impegnata direttamente in conflitti in varie parti del mondo, in primis in Afghanistan, di cui è passato da poco il primo anniversario dell’abbandono, e in molteplici altri conflitti che però non hanno visto la stessa partecipazione emotiva da parte della pubblica opinione occidentale. Ciò è parzialmente dovuto al fatto che vi è una diffusa percezione, nelle pubbliche opinioni europee e occidentali, che buona parte del resto del mondo abbia, in un certo senso, connaturato in esso i germi della conflittualità etnica, religiosa, sociologica, economica o politica che di volta in volta emergono e portano ipso facto al conflitto. Inevitabile e ineludibile, secondo questo diffuso modo di vedere, e pertanto da accettare come una fatalità quasi matematica. Spesso si è contrapposto il rissoso mondo islamico e l’inquieto continente africano all’evoluto continente europeo, in cui progresso e integrazione sono frutto di un modello democratico, politico ed economico che ha favorito, attraverso lo sviluppo e la stabilità, il raggiungimento di un livello di tranquillità che mette l’Occidente al riparo da sorprese sgradite. Tutte certezze che hanno accompagnato il nostro progredire, confortandoci che i points de réperes delle società occidentali, con tutto ciò che ne discende in termini di sviluppo materiale, fossero tali e di una tale solidità da permetterci di resistere alle correnti malsane che hanno destabilizzato gli altri.
Ed è nella messa in questione di queste certezze, sulle quali sono basate sia il modello che la prosperità raggiunta dall’Europa e dall’Occidente, che va cercata la causa profonda del coinvolgimento anche emotivo europeo nella guerra ucraina.Giocano evidentemente un ruolo anche le immagini delle distruzioni e dei profughi europei (nei quali è naturale e facile immedesimarsi) che si riversano sugli schermi di televisori e di smartphone e l’empatia che si prova per un Paese sotto attacco e una popolazione in sofferenza. Gioca anche l’aspetto etico, che porta alla istintiva simpatia per un Paese attaccato da un vicino ben più potente. Ma in questa fase della guerra, in cui l’effetto emotivo sta cedendo il passo al ragionamento e alla ricerca della comprensione circa il significato e le ricadute della crisi, questi elementi non bastano a spiegare l’intensità con la quale viene discussa, esaminata, analizzata questa guerra. Si va facendo strada la consapevolezza che questo conflitto non è un semplice, seppur doloroso episodio nella storia europea e mondiale, come lo sono stati altri conflitti in luoghi di fatto a noi non collegati e che comunque ci hanno lasciato con eredità tutto sommato gestibili sia sul piano economico che su quello politico ed etico. Al contrario, la crisi ucraina mette in questione alcuni pilastri fondamentali delle nostre certezze, in primis quella relativa alla sicurezza e alla stabilità europea, cornice necessaria alla cooperazione continentale che è alla base dello sviluppo e del nostro benessere.
In Europa sembra oramai essersi consolidata la consapevolezza che nel medio periodo occorre ricostruire un modello diverso, privo delle certezze e dei punti di riferimento su cui abbiamo basato tutto ciò che ci ha oggettivamente servito così bene negli ultimi anni. Ed è un ripensamento che investe la globalità del nostro modello di riferimento. L’appalto della sicurezza, che gli europei hanno di fatto affidato agli americani attraverso l’Alleanza atlantica, andrà ripensato nei suoi termini fondamentali, così come quello dell’approvvigionamento energetico che non potrà più contare sulla preponderanza russa, essendo fallito il disegno Merkeliano di integrazione europea con Mosca basato sulla interdipendenza energetica da un lato ed economico-tecnologica dall’altro. L’energia dovrà arrivare da altrove, mentre occorrerà investire nella nostra sicurezza, che nel medio lungo termine non potrà più essere appannaggio esclusivo statunitense, specie in una fase storica in cui l’interesse di Washington per l’Europa verosimilmente scemerà con l’attenuazione e il superamento della crisi Ucraina. È un dibattito che si va facendo strada e che, forte dei suoi risvolti pratici sulla vita di ognuno di noi, sta assorbendo sempre più una opinione pubblica già scossa dalla crisi in corso.
Tutto ciò genera ansia e preoccupazione per un futuro le cui prospettive volgono all’incertezza e nel quale si aprono molteplici scenari quasi tutti negativi. In queste condizioni, che vi sia una crescente attenzione del pubblico verso la crisi ucraina è un fatto naturale. Nessun altro conflitto ha prodotto conseguenze profonde sul nostro modo di vivere e sulle nostre prospettive immediate e di lungo termine. La guerra Ucraina sì, con tutte le conseguenze con le quali essa ci lascerà. E che, a ben guardare, sono oggetto di attenzione ben più del conflitto in sé.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
Un pastiche politico si conclude tragicamente
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La guerra in corso andava maturando da circa trent’anni; le sue radici riposano nella Guerra fredda e in una mentalità che non è evoluta anche dopo che essa è stata sepolta, almeno nominalmente, e in atteggiamenti politicamente poco saggi da ambo le parti. È sempre complicato dare una valutazione obiettiva delle condizioni che hanno portato alla situazione di conflitto nella quale si trova l’Europa intera, letteralmente dall’Atlantico agli Urali, specie a guerra in corso e con i teleschermi invasi da immagini ad alto impatto emotivo.
Che si tratti di una aggressione non vi è dubbio; che si tratti di una guerra di conquista è altrettanto vero, con obiettivi chiari all’inizio ma in cui l’impreparazione e l’imperizia dei militari russi hanno di fatto spostato i paletti di quanto è possibile e raggiungibile per l’inquilino del Cremlino. Forse lo si è considerato fin troppo razionale, ritenendo che la limitata sostenibilità dell’economia russa lo rendesse più realista di quanto non sia. O forse egli è stato ingannato dai suoi propri militari che gli hanno dipinto come raggiungibili in poco tempo obiettivi che non lo erano, ingannati a loro volta dalla propria intelligence o dalla narrativa prevalente.
Vi sono tante incertezze in questa vicenda tragica, accanto alle quali vi è qualche certezza che può fare da base a una analisi seria del perché siamo dove siamo. Analisi che non deve essere una distruzione sistemica, né un cercare colpe a tutti i costi, né una benevola catarsi da mettersi alle spalle per ricominciare da capo come se l’Ucraina fosse un inevitabile incidente su un percorso altrimenti lineare. Al contrario, un’analisi seria deve servire per capire gli errori di gestione politica, quanto poteva essere fatto meglio e diversamente e quanto vada aggiustato o registrato per evitare di tramandare alle generazioni future un mondo gravato da errori ripetuti e costosi in tutti i sensi.
La guerra ucraina va presa in un contesto più ampio e complicato, con gli attori principali della crisi (assieme, evidentemente, all’Ucraina stessa) che, grazie alle scelte e alle politiche perseguite veleggiavano verso un confronto inevitabile, di cui l’annessione russa della Crimea è stata una delle tappe. Da un lato la muscolarità con la quale gli americani e l’Occidente in generale hanno condotto i propri rapporti con il resto del mondo e che ha portato ad una serie di interventi politici e militari che hanno di fatto sconquassato i Balcani, il mondo arabo e il Nord Africa, aree di riferimento per noi come per la Russia di Putin che non è mai stata seriamente consultata (con una parziale eccezione sui Balcani). Indicazione di un’altra caratteristica della politica muscolare, che ha trattato la Russia come oggetto della politica estera occidentale piuttosto che come soggetto di un rinascente mondo multipolare. Un atteggiamento occidentale che Putin e i russi hanno più volte stigmatizzato (usando un termine diplomatico) e che ha accresciuto la distanza tra Mosca e l’Occidente, tra i quali non vi è stato alcun ingaggio politico che abbia dato ai russi la sensazione di essere considerati interlocutori paritari.
All’interno del campo occidentale vi è stata altresì una netta divergenza tra la politica americana del containment e quella tedesca (più che europea) dell’ingaggio, con il tentativo di legare la Russia all’Europa attraverso l’interdipendenza nel campo energetico, contando sul fatto che le materie prime energetiche costituiscono oltre il 65% dei proventi russi. Oltre che sulla considerazione che gli scambi e la convergenza degli interessi politici ed economici avrebbero aperto la Russia a un dialogo sempre più serrato che avrebbe favorito stabilità e sviluppo.
Era una politica saggia, che per avere una qualche possibilità di successo, avrebbe dovuto essere accompagnata da una volontà di dialogo nello spirito di Pratica di Mare, senza preclusioni (es. l’allargamento Nato è un dato di fatto non negoziabile…) e con tutti gli argomenti sul tavolo. Cosa resa impossibile dalla politica americana e dalla russofobia crescente nell’ambito dell’Europa e delle sue istituzioni, Ue e Nato, man mano che procedeva l’allargamento di entrambe. Russofobia che è diventata una “self fulfilling prophecy” in cui si mischiano da ambo i lati le cause e gli effetti. Il sentimento anti russo è frutto di un calcolo politico radicato nella storia per i britannici e nella politica per gli americani, ma riflesso di atteggiamenti forse comprensibili ma politicamente catastrofici nei nordici e nei Paesi dell’est europeo, che ha di fatto chiuso i margini per un confronto aperto con i russi, i quali a loro volta si sono assuefatti all’idea che con l’andare del tempo la Nato costituiva sempre più un nemico più che l’interlocutore che sembrava poter essere.
Dall’altro lato, dopo gli inizi incoraggianti degli anni ‘90, in cui l’avvento di Putin al Cremlino prometteva di voltare pagina rispetto a quella Russia eltsiniana pasticciona e corrotta che tanto preoccupava il resto del mondo, sia per l’arsenale nucleare che per l’influenza sull’Asia centrale ricca di giacimenti, la deriva autoritaria e antidemocratica presa dal nuovo Presidente russo lasciava presagire che egli non sarebbe stato quel personaggio accomodante che le condizioni economiche di arretratezza del Paese gli avrebbero imposto di essere, almeno secondo le valutazioni americane. Il profondo programma di rinnovamento delle Forze Armate russe, l’ammodernamento del suo arsenale nucleare, l’espansione dei servizi di sicurezza e intelligence, la stretta sulla libertà di stampa e sugli oppositori politici, il ritiro dal Trattato CFE (Conventional Forces in Europe) oltre che il mantenimento delle truppe russe in Georgia e Moldova contro la volontà dei padroni di casa, davano la cifra del personaggio oltre che l’indicazione del posto che, nel suo immaginario, spettava alla Russia sulla scena mondiale. La Russia non sarebbe stata una comprimaria. A Putin non sembrava di chiedere molto sul piano internazionale; all’Occidente sembrava una pretesa eccessiva.
Non bastò a risvegliare i sensi nemmeno il duro discorso del Presidente russo a Monaco nel 2007, esemplificazione tra le più chiare della linea politica della Russia putiniana che esprimeva tutto il proprio disaccordo verso un modello di relazioni internazionali in cui le regole venivano dettate ed interpretate secondo un sistema di valori e valutazioni propri solo dell’Occidente. Il tutto condito da una serie di accuse ad americani e Nato, in primis riguardo all’allargamento ad est che chiaramente era l’elemento che maggiorente disturbava i russi, ma anche l’atteggiamento occidentale reo di non tenere nel dovuto conto gli interessi di Mosca con evidente e chiaro riferimento alla politica anti serba nei Balcani (Bosnia e Kosovo) e quella perseguita in Iraq, oltre alla denuncia della mano occidentale nella percepita destabilizzazione di Paesi vicini alla Russia (Ucraina in primis).
In questo clima si arriva al Vertice Nato di Bucarest, che respinge la richiesta di adesione di Georgia e Ucraina, ispirata dagli americani ma avversata principalmente da Germania, Italia e Francia, ben coscienti delle riserve russe e di ciò che esse significano. Ma quel Vertice inaugura la “Politica della Porta Aperta” dell’Alleanza nei confronti dei due Paesi, che lancia ai russi il messaggio politico che le loro preoccupazioni riguardo all’allargamento non hanno rilievo. Per tutta risposta la Georgia viene prontamente invasa dai russi pochi mesi dopo, con la creazione delle Repubbliche dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia, che inaugurò la dinamica che portò all’invasione della Crimea nel 2014, vero e proprio spartiacque nelle relazioni tra Occidente e Russia.
Lo scenario post-2014 non si discosta molto da quello precedente l’invasione e l’annessione della Crimea, atti inaccettabili e contrari al diritto internazionale, comunque li si voglia guardare. Tranne che dal punto di vista del Cremlino, per il quale sono state l’unica risposta possibile al trattamento ricevuto. È opinabile se un atteggiamento diverso da parte americana e Nato avrebbe indotto il Presidente Putin ad una politica e a decisioni diverse, ma non ne avremo mai la controprova. Le firme sugli accordi di Minsk erano ancora fresche quando sono partiti i primi distinguo e le interpretazioni divergenti rispetto al testo firmato. Grazie anche a queste divergenze di opinioni sulle implicazioni delle varie clausole, nonché sulla loro tempistica e sull’ordine nel quale esse andavano eseguite, nessuno dei tredici punti è stato pienamente attuato. Parlare di responsabilità è anche qui complesso ma non improprio; i tecnicismi nascondevano, si dice, una volontà politica, non solamente ucraina, di mettere nell’angolo i russi resistendo a ogni loro richiesta.
Il bagaglio di diffidenze che il rapporto russo-ucraino si è trascinato da vari anni, basato sulla convinzione che le esigenze russe sono per principio viziate nella forma e nella sostanza e che pertanto non debbano essere prese in conto, ha trascinato l’applicazione delle clausole di un accordo che avrebbero contribuito a disinnescare una situazione conflittuale, eliminando una ragione (o una scusa) per l’aggressione russa. E che dietro alle rigidità ucraine vi fosse il sostegno fermo occidentale non è un segreto, né per noi né per il Cremlino già bruciato dall’andamento della vicenda Yanukovich.
Su questo sfondo, che sa tanto di ballo sulla tolda del Titanic, dal 2014 in avanti l’Occidente si è disinteressato alle sempre più visibili frustrazioni russe, spinto dalla volontà di ricondurre Kiev entro la “famiglia europea”, facendone parte integrante dell’area euro-atlantica; tradotto in russo, l’avamposto americano contro Mosca, con la Nato ai confini del Paese e truppe americane sulla frontiera. Abbastanza da far innalzare ulteriormente la tensione, alimentata anche da azioni occidentali al limite del politicamente irresponsabile che hanno accresciuto la convinzione russa che l’Ucraina fosse persa nonostante la maggioranza della popolazione non fosse antirussa né contraria a un più stretto rapporto con essa. Sul piano politico quanto successo da Yanukovich in poi venne preso da Mosca come un vero e proprio golpe eterodiretto al servizio di obiettivi antirussi. A completare il quadro vi sono state le attività più propriamente militari condotte con l’Ucraina e in Ucraina dall’Alleanza Atlantica e dai suoi Stati membri.
Una buona esemplificazione dello spirito con il quale queste attività sono state portate avanti sono le dichiarazioni del Comandante ucraino dell’esercitazione “Rapid Trident” del settembre dell’anno scorso, alla quale hanno partecipato militari di circa 15 paesi Nato, secondo il quale esse costituivano un passo importante verso l’integrazione europea dell’Ucraina. “Integrazione europea”, venendo da un alto ufficiale nel mezzo di una esercitazione militare è stata letta, e non solo da Mosca, come integrazione militare. Altre esercitazioni vi erano state nell’est europeo, tra cui quelle marittime e di difesa aerea nel Mar Nero, tutte rivolte a contrarre una minaccia da est, che hanno lanciato segnali chiari a Mosca.
Così come il segnale chiaro verso l’integrazione di Kiev nelle strutture euro-atlantiche è stato dato dai programmi di addestramento, sia in Ucraina che all’estero, forniti dai Paesi Nato a varie unità ucraine. Il fatto che gli americani abbiano inviato nel Paese, come addestratori, unità della guardia territoriale della Florida piuttosto che militari a pieno titolo dimostra che il Pentagono era ben cosciente della sensibilità dell’esercizio, perseguito in forme e tempi diversi anche da altri Alleati.
Accanto alle esercitazioni e all’addestramento possiamo mettere anche le dichiarazioni che provenivano in questi anni da Evere, il quartier generale alleato, manifestazione di quel misto di preoccupazione autentica e russofobia caratteristica dell’Alleanza (e che Putin ha giustificato, a posteriori), che sono largamente caratterizzate da ammonimenti e censure piuttosto che prefigurare l’apertura di un dialogo volto a spazzar via, nel limite del possibile, le divergenze di opinione. Per chiudere il cerchio, poi, con gli improvvidi rifiuti di Washington a dialogare con Mosca alla vigilia dell’invasione mentre ne denunciava con forza gli intenti aggressivi con tanto di date e direttrici di attacco. Un ulteriore errore politico che compendia la storia recente dei rapporti tra Stati Uniti/Occidente e Russia che, se gestiti con un atteggiamento più realistico e politicamente responsabile da parte occidentale, avrebbero forse risparmiato all’Europa anni di tensione e all’Ucraina il dolore della sua gente, oltre a permettere forse una convivenza accettabile con il potente vicino che avrebbe evitato le pesanti prospettive con le quali essa, e l’Europa intera, sono confrontate.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
Nessuno vuole morire per Kiev
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Quella che apparentemente si presentava solo come una crisi si è evoluta in una guerra che trasforma in profondità lo scenario europeo. Essa viene da lontano ed è frutto di calcoli strategici più che di nostalgia russa, oltre che di una sottovalutazione e incomprensione dei dati di base da parte dell’Occidente. L’invasione di un Paese terzo non ha mai giustificazioni e l’azione militare contro l’Ucraina è stata giustamente condannata dal mondo intero, compresi i cinesi, seppure senza accenti particolarmente duri; si potrebbe pensare che stiano riflettendo su Taiwan… Trattare con chi ha una pistola carica sul tavolo, che è disposto a usare, non è mai semplice e la responsabilità finale è sempre di colui che tira il grilletto. In questo senso le azioni della Russia parlano e si condannano da sole, ma della possibilità di una azione militare russa in Ucraina si parlava da mesi. Cercare soluzioni dell’ultima ora può avere successo solo se si è disposti a rivedere le posizioni che hanno condotto sull’orlo del baratro.
L’invasione russa ri-crea una barriera in Europa, una cortina di ferro spostata più a est ma che non di meno divide il continente. Una convivenza già difficile diventa ancora più complicata, compromessa dal sospetto sulle intenzioni di Mosca e dalla frustrazione che deriva dalla oggettiva impotenza dell’Europa e dell’Occidente di fronte all’aggressione. È stato chiaro fin dall’inizio che nessuno era disposto a morire per Kiev e del resto non ve ne sono nemmeno i presupposti. Sanzioni o misure economiche hanno sempre avuto effetti marginali e non hanno mai inciso in profondità sui comportamenti dei sanzionati. Piuttosto sarà l’Europa a portarne una parte del peso. Gli ucraini sono da soli a confrontare l’armata russa; qualsiasi sostegno essi possano ricevere non può che essere un sostegno indiretto, politico o economico, che poco può contro la forza militare che Mosca ha messo in campo.
Gli scenari precedenti all’invasione
Quella in atto in questi giorni non è una crisi scoppiata dall’oggi all’indomani. Già dalla scomparsa dell’Urss le relazioni russo-ucraine erano al centro delle preoccupazioni di Mosca, il cui obiettivo è costantemente stato quello di cercare di avere un Governo il più possibile amico nel Paese confinante. La rivoluzione arancione, e ciò che ne ha conseguito, è stato un passo in avanti per la democrazia ucraina ma non è andata giù ai russi, che vi hanno visto la mano occidentale che giocava contro i suoi interessi. L’invasione della Crimea, considerata storicamente parte integrante della Grande Madre Russia, e la costituzione delle due autoproclamate repubbliche autonome che la Russia ha riconosciuto e che sono alla base del conflitto odierno derivano direttamente dal convincimento russo che l’Ucraina era oramai sotto la diretta influenza dell’Occidente.
Una politica lungimirante avrebbe probabilmente potuto evitare in parte, se non del tutto, quanto è accaduto e sta accadendo. Una politica con la “P” maiuscola, mancata negli ultimi anni, avrebbe dato coerenza e contenuti a un rapporto che è stato invece improntato alla diffidenza, al contrasto piuttosto che al dialogo, allo scontro piuttosto che al confronto. Sarebbe stata un’impresa difficile, ma non impossibile e nell’interesse di entrambi, essendo l’Europa un interlocutore molto più naturale per la Russia rispetto alla Cina, verso la quale lo scontro con l’Occidente la sta spingendo. Le crisi che il mondo ha attraversato negli ultimi dieci anni sono anche e soprattutto dovute a una crisi della leadership internazionale. Uscita di scena la generazione dei grandi leader europei e mondiali, quelli che li hanno succeduti non si sono sempre mostrati all’altezza. Ma tant’è, e ci ritroviamo in una situazione nella quale a soffrire maggiormente sarà evidentemente l’Europa e, in Europa, Germania e Italia, che hanno rapporti serrati con i russi molti dei quali dovranno essere rivisti. A preoccupare maggiormente deve però essere il clima apertamente conflittuale che rischia di prolungarsi per mesi. Danno qualche speranza le profferte di dialogo che vengono da entrambe le parti, anche se dialogare con il rumore delle bombe in sottofondo non sarà facile. Così come non è facile partire dal fatto compiuto della gravità della invasione dell’Ucraina.
Gli eventi degli ultimi giorni sono anche una conseguenza della mancanza di una strategia a lungo termine nei confronti della seconda potenza nucleare del pianeta, oltre che indicazione della superficialità con la quale l’Occidente ha sottovalutato il peso che la questione ucraina ha per i russi e non solo per il loro Presidente.
La “perdita” dell’Ucraina per i russi
Astraendo dalla teoria, che pure ha una sua credibilità, che l’Ucraina sia solamente una scusa per giustificare la rioccupazione degli spazi strategici subcontinentali di cui Mosca vuole riappropriarsi con il pretesto di difendere le popolazioni russofone che vi abitano, che pure è un fattore forte nel calcolo russo, è mancata la comprensione da parte di noi tutti di un paio di realtà.
La prima è che i russi non hanno mai accettato la “perdita” dell’Ucraina, per il legame simbiotico che quel Paese, o meglio quelle aree hanno con la Russia, che nasce come Stato a Kiev e non a San Pietroburgo o a Mosca, e di cui l’Ucraina era la zona di frontiera. In russo “crai”, la radice della parola Ucraina, vuol dire proprio frontiera. La seconda è che i russi non vogliono che la Nato si estenda fino ai propri confini, che sarebbe il caso qualora l’Ucraina entrasse nell’Alleanza atlantica. Mosca sostiene di aver ricevuto promesse stringenti che non vi sarebbe stato alcun allargamento ad est dell’Alleanza Atlantica dopo il crollo dell’Urss e stando alle rivelazioni dello Spiegel non avrebbe tutti i torti; promesse disattese dalle tre ondate successive di allargamento ad est intraprese dalla Nato che ha accolto anche repubbliche ex-sovietiche. Con tali premesse, i timori di Mosca che Kiev avrebbe presto o tardi aderito non sono campati in aria.
Leggi anche “Le ragioni di una guerra”.
Non aver voluto capire fino in fondo il rilievo fondamentale della questione ucraina per Mosca, traendone le dovute conseguenze, è stato un errore politico e di valutazione. Non si parla di incoraggiare la resa di fronte a pretese post-sovietiche o cedimenti sul piano dei principi, bensì piuttosto dell’avvio di un dialogo, che presuppone la previa comprensione delle “linee rosse” dell’interlocutore. La mancanza di dialogo approfondito con Mosca comporta un’ulteriore incertezza, quella di non sapere esattamente quale sia l’obiettivo finale di Putin; in soldoni, se l’Ucraina tutta o solo le parti russofone di essa. Nel frattempo, le borse crollano, i titoli dei debiti pubblici schizzano da tutte le parti, il prezzo del petrolio è al massimo livello registrato negli ultimi otto anni, i rapporti economici sono in turbolenza. Considerazioni da non paragonare alle vittime e alla sofferenza che l’offensiva russa sta causando, ma che non di meno pesano sull’economia totale della crisi.
Perché vogliamo l’Ucraina nella Nato?
Nulla di tutto ciò giustifica una invasione, ma proviamo a ragionare secondo un paradigma complementare. Se è vero che per i russi non è accettabile un’Ucraina nella Nato, qual è invece il nostro interesse ad avere l’Ucraina come Paese alleato, esponendoci a un altro confine in comune, oltre che quello nel Baltico, tra Alleanza atlantica e Russia? Confine che dividerebbe due Paesi antagonisti e che rischierebbe di trascinare la Nato in un confronto perenne con Mosca? Per quanto sul piano dei principi è assolutamente condivisibile quello secondo il quale ciascuno Stato sceglie da che parte stare e deve conservare il diritto a decidere in autonomia di quali alleanze o raggruppamenti fare parte, ci sono fatti e realtà che sono ineludibili che piaccia o no. Uno di questi è alla radice della guerra odierna. Delle inquietudini russe eravamo consapevoli e non da ieri.
Già nel corso del Vertice Nato di Bucarest, nel 2008, alla proposta del Presidente Bush di ammettere nell’Alleanza atlantica Ucraina e Georgia si opposero Francia, Germania e Italia. All’epoca il Presidente del Consiglio era Romano Prodi, il quale ha reiterato pochi giorni fa le ragioni di quel no, legate sia alla necessità di non compiere un atto che già all’epoca sarebbe già stato letto come ostile da parte russa oltre che a una considerazione di carattere geopolitico. Si preferì mantenere l’Ucraina sulla soglia della porta, in un rapporto di partenariato con l’Alleanza (che non piacque ai russi, che lo videro come prodromico all’adesione), mantenendo uno “Stato cuscinetto” tra l’Alleanza atlantica e Mosca. Spiacevole e cinico che possa suonare, era la scelta giusta. L’ambiguità sul percorso atlantico dell’Ucraina ha fatto il resto, spingendo i russi a una avventura militare le cui conseguenze saranno pagate non solo dagli ucraini.
Si poteva evitare…
La vicenda ucraina è un fallimento complessivo, attribuibile in primo luogo a un freddo calcolo russo ma nel quale qualche responsabilità va assunta anche da altri. Essa è una ulteriore dimostrazione che la mancanza di dialogo e di comprensione conduce a situazioni in cui non ci si dovrebbe trovare. Il muro eretto contro tutte le richieste russe presentate negli anni, laddove rispondeva agli alti standard e ai principi ai quali si ispirano le nostre società, non di meno ha creato la situazione in cui ci troviamo.
Non si tratta di trovare giustificazioni a un’azione inaccettabile, bensì di riflettere come una conduzione politica più avveduta del rapporto con i russi, che si sono anche sentiti trattati come potenza di second’ordine, avrebbe forse evitato ciò che è accaduto, senza per questo necessariamente cedere sul piano dei principi trovando invece formule di convivenza che tenessero conto di preoccupazioni fondamentali da ambo i lati. Il negoziato è sempre meglio della guerra e in un negoziato si deve essere disponibili al compromesso. Il solo fatto di parlarsi e di ascoltare mantiene in vita un rapporto complicato anche se esso non è sereno. L’alternativa, come dimostrato dai fatti di questi giorni, non c’è o ha costi infinitamente più alti. Fermo restando le responsabilità russe, noi il dialogo non lo abbiamo voluto e non abbiamo ceduto nulla alle loro richieste. In cambio, abbiamo probabilmente perso l’Ucraina.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
La sicurezza in Asia, un dejà vu
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Il ritorno al potere dei Talebani in Afghanistan modifica gli equilibri regionali dell’Asia centrale, di quella meridionale e del Sud-est asiatico. Molti Paesi della regione convivono da tempo con la consapevolezza che i Talebani sarebbero tornati a far parte delle strutture governative afghane, anche se la speranza era quella di una transizione ordinata del potere che non fosse dirompente della struttura statale afghana e dei rapporti interstatuali come invece è stata. In poche parole, che i Talebani fossero parte del Governo ma che non fossero il Governo. E ciò nonostante il fatto che tutti i Paesi della regione hanno avuto negli anni scorsi rapporti anche intensi con la leadership talebana, improntati alla pragmatica necessità di dover comunque trattare con una parte importante della futura dirigenza di un paese rilevante per storia, per posizione geografica, per il potenziale economico e per i problemi securitari che esso pone.
La vittoria talebana ha creato una situazione paradossale. Da un lato vi è la prospettiva di una reale stabilizzazione del Paese in cui non si combatte più e in cui, al netto degli attentati dell’Isis, la violenza è notevolmente calata ed è tornata la calma. Apparentemente una situazione ideale per lo sviluppo di proficui rapporti regionali. Dall’altro lato, la stabilità nel Paese e il venir meno del conflitto favoriscono il proliferare incontrollato di fenomeni criminali che preoccupano enormemente i Paesi della regione, tutti a corto di strumenti di contenimento della minaccia, molto reale, derivante dal territorio afghano: il fondamentalismo, il terrorismo, la criminalità organizzata, il narcotraffico, il traffico di armi, l’immigrazione clandestina con i suoi risvolti sociali e securitari. Aggravato dal fatto che il crollo di esercito e polizia afghane comporta un controllo del territorio sensibilmente ridotto. Senza contare che molti dei Paesi interessati hanno debolezze istituzionali interne e popolazioni di fede islamica che fatalmente risentono degli accadimenti afghani.
La regione è stata caratterizzata da sfide securitarie note e in qualche modo “istituzionalizzate”, quali i dissidi indo/pakistani e la contesa sino/indiana, oltre a tensioni di minor portata. Confronti preoccupanti ma, per così dire, tradizionali ed affrontabili con strumenti politici e diplomatici rodati. Anche il conflitto afghano, in fin dei conti, aveva creato una situazione con la quale la regione aveva imparato a convivere. I pericoli erano limitati e noti, così come le sfide. L’avvento dei Talebani e il modo in cui esso è avvenuto ha sparigliato le carte. I Paesi della regione devono ora contendere con un rafforzamento del fondamentalismo, fenomeno difficilmente controllabile, con la radicalizzazione delle popolazioni islamiche che vivono entro i propri confini e con l’incognita del terrorismo, di cui essi saranno le prime vittime. Oltre ad una serie di altri traffici criminali transnazionali come quelli menzionati. Un Afghanistan con ampi territori incontrollati e una dirigenza strutturalmente incapace a controllarli rischia di diventare una comoda e agevole centrale per ogni sorta di traffici illegali che possono minare la stabilità dei vicini.
Per essi la crisi afghana è un dejà vu. Le dirigenze centro-asiatiche, quella cinese, la pachistana e l’iraniana ricordano bene gli anni ’90, in cui il messaggio degli allora mujaheddin fece presa su consistenti fasce di quelle popolazioni destabilizzando i vari Governi. Il timore odierno delle Repubbliche centro asiatiche e del Pakistan è lo stesso di allora, che il potere di attrazione della vittoriosa rivoluzione islamica sunnita intacchi il tessuto sociale interno e che i gruppi jihadisti autoctoni siano spronati all’azione dall’esempio afghano. E ciò anche senza che i Talebani alzino un dito per esportare la propria ideologia.
L’Islam militante è una preoccupazione diffusa in tutta l’Asia. Come scrive uno studio del prestigioso istituto britannico Chatham House, negli anni ’90 “il territorio afghano divenne l’epicentro di organizzazioni terroriste internazionali e gruppi religiosi estremisti, quali il Movimento Islamico del Turkestan, ponendo una seria minaccia alla sicurezza e alla stabilità dei Paesi della regione. Via via che i governi della regione combattevano per sopprimere movimenti religiosi non autorizzati dallo Stato, le condizioni domestiche diventarono più spinose in quanto i movimenti diventarono clandestini e sempre più politicizzati”. Lo studio osserva altresì che “…senza il cuscinetto costituito dalla Alleanza del Nord, che operava sulle frontiere afghane, l’Islam militante è oggi un pericolo maggiore rispetto al passato per i Paesi centro asiatici”. Tanto più che i Talebani hanno un debito di riconoscenza nei confronti di vari gruppi estremisti che hanno assistito l’ultima fase della loro conquista. Da quelle parti i debiti di gratitudine vengono onorati, e questo i vicini lo sanno bene. Il dibattito interno in corso nella dirigenza talebana sul trattamento da riservare agli altri gruppi jihadisti presenti in Afghanistan non può che confermare i timori nutriti dai Paesi della regione.
Il ritmo degli eventi e la dimensione della vittoria talebana, che ha stabilito senza equivoci chi comanda in Afghanistan, hanno spiazzato, oltre che noi, anche i Paesi della regione, nessuno escluso, che non sono pronti ad affrontare la nuova situazione. È sempre più evidente che i vicini, e tra questi annovero la Russia anche se tecnicamente vicino non è, di fronte alla complessità e alla difficoltà di trattazione che presenta il “nuovo Afghanistan” stanno trovando necessario un approccio concordato e comune al Paese, in luogo dell’approccio puramente bilaterale che ha caratterizzato le relazioni tra i Talebani ed i Paesi della regione nei primi giorni del regime.
Quella della maggiore collaborazione regionale (India esclusa, anche per la freddezza che caratterizza sia le relazioni con importanti Paesi regionali che con i Talebani) è una delle conseguenze della mutata situazione in Afghanistan. Conseguenza che ha un risvolto immediato anche sullo scenario della sicurezza, specie per le comuni preoccupazioni sociali e securitarie, sfide reali che i Paesi della regione sanno di non poter affrontare da soli. Ne sono testimonianza concreta la proliferazione di incontri in vari formati regionali a tutti i livelli: politico, militare e di intelligence, quest’ultima una relativa novità che la dice lunga sul carattere delle sfide che affronta la regione. La maggior parte di questi fori escludono per ora i Talebani, non considerati ancora un partner responsabile ma piuttosto una entità nei confronti della quale occorre trovare una linea comune.
Accanto alla crescita nella cooperazione tra i Governi vi è un ulteriore effetto, finora scarsamente menzionato ma che rischia di cambiare anche lo scenario istituzionale in Asia. Esso è il cauto ma progressivo rafforzamento delle organizzazioni regionali di sicurezza che hanno finora avuto un ruolo scarsamente incisivo e principalmente cosmetico, bloccate com’erano dalla rivalità russo-cinese e dalla scarsa propensione alla collaborazione regionale degli Stati che ne fanno parte. Ma essi hanno mandati che potrebbero ora tornare utili. Lo Shanghai Cooperation Council (o SCO), venne fondato nel 1996 per affrontare le emergenti minacce alla sicurezza in Asia Centrale, identificate nel terrorismo, nel fondamentalismo e nel separatismo (a sfondo islamico). La Collective Security Treaty Organization, o CSTO, organizzazione sovrannazionale a carattere militare ispirata da Mosca e che conta tutti i Paesi centro-asiatici, sta anch’essa trovando spazi di manovra che prima non c’erano. Ora avranno sfide concrete da affrontare, che avvicineranno i vari Paesi.
C’è, comprensibilmente, scarso appetito per un confronto con il nuovo regime talebano. C’è anzi la volontà, in particolare nei paesi della regione, di trovare le modalità di una convivenza pacifica. In poche parole, un tentativo di trasformare i Talebani da movimento di rottura a fattore di stabilità regionale. Non sarà impresa facile, data la natura del movimento e le modalità con le quali esso è giunto al potere.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di novembre/dicembre di eastwest.
Afghanistan, l’evacuazione da Kabul spiegata
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L’evacuazione dei collaboratori afghani a seguito della uscita dal Paese degli Stati Uniti e degli Alleati e partners della Nato ha dato luogo al più imponente ponte aereo della storia, seguito con il fiato sospeso dal mondo intero.
Essa ha riguardato, in via prioritaria, i cittadini dei nostri rispettivi Paesi o stabili residenti che si trovavano in Afghanistan per motivi di lavoro. Categorie piuttosto estese, dato anche l’alto numero di doppi cittadini, specie americani e inglesi nel Paese. Vi sono stati molti casi complessi, specie quando una parte della famiglia, generalmente il padre, aveva acquisito la cittadinanza straniera mentre gli altri membri della famiglia erano solamente cittadini afghani. In televisione si vedevano le file di persone e gli aerei. Non si vedeva quello che c’era dietro, cioè il lavoro consolare e migratorio delicato sempre e ancor più in emergenza. Vi erano aspetti migratori complessi, ad esempio quando si trattava di capi famiglia con due o tre mogli e figli da ciascuna.
Far partire dall’Afghanistan i nostri cittadini era un “dovere d’ufficio”. La loro sicurezza preoccupava nelle nuove condizioni in cui si trovava il Paese, ma coloro che rischiavano di più erano i cittadini afghani. Quelli che avevano lavorato per noi per lunghi anni e che avevano assistito la Nato e i suoi Stati membri nello sforzo bellico e che poi hanno sostenuto l’esercito afghano nella sua guerra contro i Talebani.
Perché era necessario evacuarli con noi? Perché, al di là delle dichiarazioni concilianti dei Talebani vittoriosi, una larga fascia di essi e dei loro aderenti, seguaci e simpatizzanti considerano chi ha lavorato per gli infedeli e contro la jihad non semplicemente nemici sconfitti, ma mussulmani fuorviati nella migliore delle ipotesi. E apostati nella peggiore, che devono pagare con la vita propria e dei propri familiari il peccato commesso e reiterato. Negli ultimi mesi di guerra i Talebani hanno proclamato periodicamente il perdono per tutti coloro che avevano lavorato per la Repubblica afghana o per gli stranieri ma i numerosi proclami sulla amnistia generale non hanno convinto nessuno. Pochissimi afghani hanno voluto assumersi il rischio di verificare la buona fede dei mullah.
Del resto, la popolazione aveva esempi quotidiani dell’atteggiamento dei Talebani e del loro comportamento. In particolare nei territori che essi hanno controllato o in cui hanno avuto una forte presenza per vari anni prima dell’offensiva finale e dai quali giungevano racconti inquietanti. E anche volendo concedere ai nuovi padroni il beneficio del dubbio, il movimento non è né monolitico né controllato in toto dai suoi vertici. La linea di comando e controllo era e resta tenue, con una certa distanza tra centro e periferia. Era quindi imperativo evacuare dall’Afghanistan coloro che erano stati in prima linea nella lotta al movimento ed estrarre in via prioritaria quelli che erano in vero pericolo.
L’evacuazione è stata improntata a due semplici principi, ai quali si sono attenuti tutti. Primo, essa non era una iniziativa volta a permettere una vita migliore a coloro che venivano trasportati fuori dal Paese, bensì il meccanismo attraverso il quale mettere in sicurezza i nostri colleghi e collaboratori afghani. Secondo, i cittadini afghani evacuati dovevano essere realmente in pericolo, ad evitare che persone che non lo fossero impedissero a coloro che lo erano di raggiungere la sicurezza. Lo sforzo quotidiano è stato veramente notevole. Ho visto casi di individui di cui ci si è occupati per giorni, tenacemente, fino a quando non sono stati messi in sicurezza. In alcune istanze, poche, ciò non è riuscito, lasciando il recupero per una fase successiva ancora in corso.
I collaboratori dei contingenti militari erano stati già evacuati a cura delle rispettive nazioni nel corso del ripiegamento della missione militare Nato. Ciascuno a cura del contingente nazionale dal quale era stato assunto e per il quale lavorava. Pertanto, in linea generale il personale della categoria nota al grande pubblico come quella degli “interpreti”, poi estesasi a ricomprendere tutti i collaboratori dei vari contingenti, era stato messo in salvo già prima del termine della missione militare. Cioè prima della fine di luglio. In aeroporto, dal 15 agosto ne abbiamo avuti alcuni, ma la quasi totalità degli evacuandi era costituita da personale afghano che, a vario titolo, era stato strettamente associato alle Ambasciate o a enti governativi stranieri; oppure esponenti della società civile particolarmente esposti per le posizioni avanzate che avevano preso, per la retorica anti-talebana o per la vicinanza a questa o a quella Ambasciata o organizzazione internazionale.
Non vi era un criterio univoco al quale uniformare l’individuazione degli evacuandi, tolto quello securitario. Ciascun Paese adottava i propri, a seconda delle indicazioni politiche provenienti dalle rispettive Capitali. Successe così che ci ritrovammo con un misto di persone di differente estrazione: personale locale delle Ambasciate, esperti che lavoravano su progetti di cooperazione allo sviluppo (in particolare in campo sociale), personalità della cultura, giornalisti, attivisti dei diritti umani e così via. Oltre a funzionari ed esponenti del Governo caduto, autorità locali invise ai Talebani, alcuni esponenti di reparti militari afghani più in vista. Accanto alle priorità costituite dagli impiegati locali, ciascun Paese ha preso in carico personalità esterne la cui esistenza in Afghanistan avrebbe potuto essere minacciata da un regime intollerante al dissenso, al progresso, all’arte, ai diritti civili e politici. Alcuni sono stati particolarmente attivi sugli esponenti femminili, altri sui giornalisti, altri ancora su attivisti civili e così via. Ciascun Paese assumeva in proprio la responsabilità finale della individuazione, scrutinio di sicurezza, trasporto e ospitalità degli individui e delle famiglie scelte. Con il risultato di coprire uno spettro amplissimo di categorie e persone. Tutte accomunate dalla paura per il futuro e per l’incolumità propria e per quella dei propri familiari.
La comunità internazionale ha pertanto fatto il proprio dovere, nella massima misura consentita dalle circostanze, nei confronti dei propri collaboratori afghani. Si sarebbe potuto fare prima e meglio se le circostanze fossero state diverse e se non avessimo dovuto agire circondati dalle macerie di un esperimento politico male avviato e finito ancora peggio. L’evacuazione è ancora in corso, con modalità diverse rispetto ad agosto e con l’assistenza di Qatar e Pakistan, i due Paesi che ho visitato recentemente e che saranno strumentali, il secondo in particolare, per il successo di questa seconda fase dell’operazione.
Afghanistan, perché i Talebani hanno vinto in soli 12 giorni?
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È una buona domanda. La risposta è che non hanno vinto in 12 giorni. Essi hanno dato la spallata finale al sistema Afghanistan in 12 giorni; i 12 giorni che sono trascorsi dalla presa di Zaranj, capitale della provincia meridionale di Nimroz sul confine con l’Iran, che si è arresa il 2 agosto, a quando le prime unità jihadiste sono entrate a Kabul installandosi nella capitale a Ferragosto.
Lo sgretolamento del sistema è cominciato ben prima; volendo fissare una data per “l’inizio della fine” si può risalire a fine febbraio 2020, all’Accordo di Doha tra il Governo degli Stati Uniti e i Talebani, il quale ha tolto legittimità alla parte governativa e certezze alla popolazione. Accordo che ha indebolito, per le modalità con le quali è stato negoziato e concordato, un Governo che di per sé non aveva saputo conquistare i necessari consensi agli occhi della popolazione e che era visto come inetto e corrotto. Vi è stato quindi un fattore esterno di peso, ma esso si è inserito su una dinamica statuale tutta afghana che era già malsana di per sé.
La sfiducia per il Presidente e le istituzioni
La sconfitta militare della Repubblica islamica dell’Afghanistan ha radici profonde, dovuta come è a cause non solo militari ma principalmente istituzionali e politiche. La sfiducia che il Presidente e il suo stretto entourage avevano per le forze armate afghane era altresì palpabile. Ho dovuto io stesso invitare più di una volta i vertici afghani a mostrare, almeno pubblicamente, maggiore vicinanza e sostegno alle loro forze armate. Cosa difficile per il Presidente, il quale riteneva che esse fossero eterodirette e che rispondessero agli americani e alla Nato più che a lui. Una situazione nella quale il Comandante supremo non si fida dei suoi vertici militari e questi ultimi non sentono di avere la fiducia del Presidente e delle istituzioni non è certamente una condizione ideale nella quale trovarsi in tempi di guerra.
Una volta confermato, da parte del Presidente Biden, il ritiro definitivo delle truppe americane, e conseguentemente anche di quelle della Nato entro l’11 settembre, Ghani ha proceduto a “de-americanizzare” l’esercito e la polizia, avvicendando nel giro di poco più di quattro mesi i Ministri della Difesa e degli Interni, vari Viceministri, il Capo di Stato Maggiore della Difesa e i comandanti di tutti e sette i Corpi d’Armata afghani, oltre a un alto numero di comandanti subordinati. Senza contare la sostituzione di un gran numero di Governatori, che in Afghanistan avevano il compito di coordinare localmente i tre pilastri del settore securitario e cioè esercito, polizia e intelligence, e i capi provinciali dei tre servizi. Una girandola di nomine che ha avuto un peso non trascurabile nella impreparazione al combattimento nel momento di maggiore pressione dell’avversario. Il morale già basso delle unità sparse per il Paese, accoppiato con i continui cambi dei comandati ha ulteriormente estraniato le forze armate, che alla fine rifiutarono di combattere ciò che percepivano come una guerra persa.
Corruzione e incompetenza
Si potrebbero elencare molteplici altri fattori strettamente tecnico/militari per spiegare, o almeno tentare di spiegare in termini tecnici la disfatta. E se ne troverebbero molti, a partire dal modello di forze armate creato in Afghanistan per arrivare al morale delle truppe. La sconfitta della Repubblica afghana è stata, prima ancora che militare, politica e sociale. E queste sconfitte non si sono concretizzate in 12 giorni; erano presenti da molto tempo e il ritiro delle truppe americane e alleate è stato il catalizzatore delle molteplici cause concomitanti che hanno concorso al disastro. Assieme con l’uso assai efficace che i Talebani hanno saputo fare della comunicazione strategica, attraverso la quale hanno creato una narrativa della inevitabilità della loro vittoria finale.
Il Governo Ghani ha aperto gli spazi politici ai Talebani grazie a una azione di Governo, o meglio di malgoverno che tra corruzione, incompetenza e supponenza ha progressivamente minato le basi del suo consenso nella società, tra le istituzioni dello Stato e tra le forze armate. La disfatta militare è stata una conseguenza logica della fragilità e della insostenibilità del sistema. Con tutte le loro pecche, le forze armate afghane erano largamente superiori, in tutto, ai Talebani: nei numeri, nell’addestramento, nelle unità speciali, nella superiorità aerea, nella tecnologia.
La lezione da trarre dall’Afghanistan è che la tecnologia non può sconfiggere l’ideologia quando queste si trovano a scontrarsi. Tra le due vince l’ideologia, che dà la motivazione necessaria a perseguire la vittoria. Senza un forte sostegno ideologico e motivazionale la tecnologia e la preparazione specialistica, da sole, servono a ben poco.
Come si finanziano i Talebani
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I Talebani sono stati una insorgenza quasi unica nel panorama mondiale. In Occidente abbiamo l’immagine di un gruppo di esaltati combattenti islamici che hanno perseguito una guerra sorretti dalla fede, dallo spirito combattivo proprio degli afghani e da poco più. La realtà è abbastanza lontana. I Talebani sono un gruppo ben coordinato (pur con perduranti tensioni interne) dotato di un vertice politico/religioso forte con a capo l’emiro, “la guida dei fedeli” che presiede la “Rabhari Shura” (consiglio direttivo), una sorta di consiglio d’amministrazione del gruppo composto da una serie di personalità religiose e dai capi delle varie commissioni in cui si articola la struttura amministrativa del movimento.
Le commissioni coprono le attività d’interesse dei Talebani (commissione militare, politica, finanziaria, reclutamento, salute, Ong, educazione etc.) costituendo un vero e proprio Governo ombra servito da una burocrazia forte di 1200/1400 unità. Una struttura articolata ed efficiente. Ricordo ad esempio che, quando avevo incontri con la leadership talebana a Doha, gli appuntamenti venivano definiti attraverso un funzionario responsabile del desk Europa della Commissione per le relazioni esterne.
I Talebani avevano altresì una diffusa rete locale, composta da governatori ombra e capi militari per quasi tutte le province e amministrazioni più estese nelle province e nei distretti che controllavano.
Tutto questo, accoppiato alla spesa per lo sforzo bellico, costa e richiede risorse finanziarie. I combattenti avevano un salario (in media, mi è stato detto, di 15.000 afghani al mese, pari a 170/180 dollari) così come i comandanti, che ricevevano un salario più alto e potevano contare su benefici ulteriori (entrate derivanti da taglieggiamenti, traffici clandestini e così via). Munizioni, armi, alimentazione, trasporti e così via costano anch’essi. Nel corso degli anni i Talebani hanno costruito una capacità di finanziamento che ha consentito loro di reggere una guerra di logoramento e tenere in efficienza forze e strutture. E l’hanno costruita in modo da affrancarsi progressivamente dalla dipendenza dai donatori esterni, fossero essi nel Golfo, in Asia o altrove, che davano generosamente ma fatalmente condizionavano le scelte e gli orientamenti del gruppo.
Secondo uno studio commissionato recentemente, le risorse di cui hanno potuto disporre i Talebani nel 2020 sono stimate in una cifra vicina al miliardo e duecento milioni di dollari. Alcuni studiosi ritengono la cifra troppo alta e quella reale più vicina al miliardo di dollari e forse qualcosa in meno. Ma vi è una larga concordanza di vedute circa la provenienza delle entrate, che sta a dimostrare l’evoluzione del gruppo da fonti di finanziamento terze (principalmente donatori nel mondo islamico) dai quali i Talebani dipendevano all’inizio della loro storia, a forme più spinte di autofinanziamento derivanti dallo sfruttamento del territorio e dalla cooperazione sempre più stretta con la criminalità organizzata nazionale e transfrontaliera.
Per venire a qualche cifra, quasi il 30% delle entrate dei Talebani derivano da sfruttamento ed esportazioni di minerali, o da miniere gestite direttamente da appartenenti al movimento oppure da collaborazione o estorsioni a danno di proprietari di miniere; il 26% dei proventi derivano dal traffico di narcotici, raramente coltivati direttamente ma nella cui catena di distribuzione i Talebani sono massicciamente presenti, specie nella provincia di Helmand da cui proviene l’80% circa degli oppiacei immessi sul mercato mondiale; il 15% da esportazioni varie di merci legittime, quali il talco e lo zafferano; il 10% da estorsioni a danno della popolazione delle zone controllate dal movimento (che i Talebani hanno battezzato tasse locali), il 5% da attività immobiliari lecite ed il 15% da donatori esteri. In sintesi, negli anni i Talebani si sono trasformati anche in abili amministratori, in grado di reperire e amministrare per conto proprio la maggior parte delle risorse necessarie a finanziare la jihad.
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“Chi è Ashraf Ghani, l’ex Presidente afghano che non ha capito il suo Paese”
Afghanistan, ecco perché la democrazia non si esporta
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Questo articolo è il secondo capitolo della serie “L’ultimo volo da Kabul” a cura di Stefano Pontecorvo. Leggi il primo capitolo “Chi è Ashraf Ghani, l’ex Presidente afghano che non ha capito il suo Paese”.
La democrazia non si esporta. Con buona pace di coloro, e non sono pochi, che ancora ci credono e ancora agiscono per arricchire il prossimo dei valori propri e del modo proprio di riorganizzare la società e lo Stato (altrui).
Institution building
Abbiamo oramai un sufficiente bagaglio storico per capire che occorre cambiare strada. L’Afghanistan è stato solo l’ultimo esempio delle cose che possono andare storte e delle conseguenze a cui possono portare gli errori. La Nato in Afghanistan non ha fatto, né poteva fare, institution building in senso proprio, limitandosi da qualche anno ad assistere nella costruzione delle forze di sicurezza afghane (Defence Institution Building, per cui ha tutti gli strumenti). Ma quella costruzione non è stata accompagnata da un’azione internazionale coordinata di ricostruzione della società e del quadro istituzionale che le avrebbero consentito di prosperare. Questa è una delle chiavi di lettura del crollo afghano.
La Nato era entrata nel Paese dopo l’11 settembre per aiutare il maggiore alleato a evitare un altro 11 settembre. L’obiettivo era securitario, la lotta al terrorismo. Successivamente alcuni Stati membri hanno aggiunto altri obiettivi, tra cui l’institution building. Ma la Nato disponeva di un solo strumento, quello militare, inadatto a un’azione di sviluppo istituzionale e rafforzamento delle istituzioni. Con mezzi militari non si perseguono obiettivi strettamente civili. Al massimo si possono accompagnare. Il resto era compito di altri.
Vi è una grande differenza tra tentare di esportare la democrazia in un Paese e svilupparne le istituzioni. La prima suppone l’imposizione di un sistema di valori non necessariamente propri, in tutto o in parte, alla società ricevente; il secondo presuppone il rispetto della struttura sociale e i valori culturali di quella società, che deve essere accompagnata sulla via del consolidamento, della modernizzazione e dell’equità. Un obiettivo complesso, che richiede una serie di azioni coordinate e strumenti intellettuali e operativi adatti. Richiede soprattutto una comprensione della realtà sul terreno e delle condizioni sociali che si vanno a impattare. E richiede un’attenta considerazione dei valori a cui si ispira la società ricevente. Nessuno accetta volentieri imposizioni che vanno contro usi secolari. Già per creare istituzioni solide ci vogliono decenni; i tempi si allungano e i risultati diventano ancora più incerti se la società non è convinta del modello che gli si propone. In particolare, le società più tradizionali.
Cultura e divisioni etniche
Specialmente in una realtà diversificata etnicamente come lo è l’Afghanistan, l’approccio secondo il quale una misura deve andare bene a tutti non può funzionare. Strutture sociali autoctone che reggono da centinaia di anni non possono essere rimpiazzate in pochi lustri da modelli importati e non sentiti propri dalla popolazione. Lo avevano ben capito già i romani, e gli inglesi ai tempi del loro impero, che non si sognarono di sovrapporre la propria cultura a quello dei popoli conquistati, limitandosi a sovrapporre strutture amministrative che tenevano bene in conto i costumi sociali. Non voglio certo sdoganare conquiste imperiali o colonialismo, limitandomi a notare come il rispetto dei costumi e delle prassi locali sono una necessità assoluta per chi ha a cuore l’avanzamento sociale dei Paesi di cui si occupa.
Le divisioni etniche, laddove esistenti come nel caso dell’Afghanistan, rendono il tutto più difficile. Più che uno standard minimo, occorre cercare un minimo comun denominatore e costruire da lì un percorso istituzionale che sia sostenibile. Non si può imporre la democrazia ma è possibile creare le condizioni affinché le istanze di base di ogni popolo – e quello afghano non è un’eccezione – vengano accolte e possano prosperare, come base di istituzioni solide che dovranno regolare e governare la collettività. Una cornice di sicurezza, assistenza tecnica, assistenza alle istanze della società civile, cura verso una stampa libera e obiettiva e soprattutto, la lotta alla corruzione devono essere alla base di ogni sforzo. Cosi come il sostegno a leadership politiche locali che siano l’incarnazione di istituzione sane e rispettate.
Chi è Ashraf Ghani, l’ex Presidente afghano che non ha capito il suo Paese
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La mattina di domenica 15 agosto ricevo un messaggio sul cellulare, da un vice Ministro afghano con il quale avevo frequenti rapporti, il quale mi informa che il Presidente Ashraf Ghani era fuggito da Kabul in elicottero con un paio di fedelissimi, abbandonando al suo destino la capitale afghana e il Paese. Un degno finale per un Presidente che ha responsabilità storiche nel crollo del Governo afghano e nel ritorno al potere dei Talebani, pur scontando la difficile posizione nella quale si è trovato, specie dopo gli Accordi di Doha. Verificata la notizia da altre fonti, essa è risultata vera.
L’ex Presidente Ghani era al suo secondo mandato, avendo vinto le elezioni del settembre 2019 contro il suo rivale di sempre Abdullah con il 50,64% del voto, ovvero 923.592 suffragi. Questo è già un dato che la dice lunga sulla disaffezione verso la politica e sulla sfiducia degli afghani nei confronti di Ghani, ove si consideri che le elezioni presidenziali del 2014 avevano visto più di 7 milioni di votanti (contro i circa 2 milioni 5 anni più tardi), di cui oltre 3,9 avevano votato per lui. È appena il caso di menzionare che in entrambe le votazioni le accuse di brogli sono state molteplici e feroci. È irrilevante domandarsi qui se fossero fondate o meno; la maggior parte degli afghani ci credono. E ciò ha gettato un’ombra sulla credibilità di Ghani già all’avvio del suo secondo mandato, inaugurato con grave ritardo a causa della contesa sulla conta dei voti, risolta principalmente attraverso l’intervento degli americani che optarono per lui su Abdullah.
Chi è Ashraf Ghani
Ghani non è un personaggio banale. Prima della presidenza è stato Ministro delle Finanze del suo Paese (dove ha riconosciutamene fatto bene), professore di antropologia alla John Hopkins e poi a Berkeley, funzionario della Banca mondiale. Nel 2013 venne considerato tra i 100 intellettuali più influenti a livello globale dalle prestigiose riviste Foreign Policy e Prospect. Nel 2006 il Financial Times lo inserì nella lista dei candidati alla successione di Kofi Annan quale Segretario Generale dell’Onu. Eppure un uomo di tale talento – e io stesso, pur molto critico nei sui confronti, rimasi impressionato dalle sue capacità intellettuali – è riuscito in poco tempo a condannare il suo Paese e cancellare il sistema del quale era un convinto costruttore.
Una serie di fattori hanno concorso al disastro politico che è stata la presidenza Ghani, accompagnato e sostenuto dall’inerzia della comunità internazionale che pure forniva i mezzi di sussistenza essenziali a Ghani e al suo Governo, contribuendo oltre il 60% delle entrate dello Stato afghano (poche delle quali sul bilancio statale, per la scarsa fiducia nei meccanismi di controllo e nella capacità di spesa del Governo). È pur vero che è oggettivamente difficile intervenire su di un Presidente eletto nell’esercizio delle sue funzioni, specie quando egli va sostenuto contro un nemico determinato come i Talebani e non indebolito. Tanto più arduo in quanto, e ne so qualcosa personalmente, egli ascoltava poco. Anche la sua cerchia intima trovava difficoltoso suggerire o contraddirlo, essendo il Presidente assai convinto delle proprie idee. Intellettualmente arrogante, direbbero alcuni. Dopo l’annuncio del ritiro fatto dal Presidente Biden il 14 aprile, il Presidente si distanziò visibilmente dalla Nato e dell’Occidente, rinchiudendosi sempre più. Egli si vantava di non leggere i giornali e non guardare la televisione. Alla fine ha agito in una realtà immaginata che lo ha portato a valutazioni errate in particolare sulla situazione di sicurezza e sullo stato e le capacità delle sue Forze armate.
Gli errori sul piano politico e sociale
Sul piano politico e sociale, Ghani non aveva capito il suo stesso Paese. L’Afghanistan è uno Stato che si regge su un equilibrio molto delicato, sia etnico che religioso, ed è stato in pace quando il centro era debole e le periferie largamente autonome. L’annoso problema afghano è il rapporto tra i pashtun, etnia dominante maggioritaria sia tra i Talebani che nella leadership “democratica” del Paese, e i tagiki, gli uzbeki, i turkmeni, gli Hazara. La Costituzione afghana è spiccatamente accentratrice e lascia al Presidente poteri molto estesi di nomina anche delle autorità locali.
Laddove quei poteri sono utilizzati per perseguire un’agenda accentratrice ed etnica, quale quella dell’ex Presidente Ghani, piuttosto nazionale, se ne pagano le conseguenze con un’opposizione sempre più marcata verso il centro e la frammentazione del tessuto del Paese. Ghani si era altresì inimicato buona parte delle personalità di spicco nella società afghana, colpendone gli interessi economici e politici e con molte di esse ha disatteso accordi formali, minando la fiducia dei suoi interlocutori; ciò ha portato a una parcellizzazione della leadership afghana e all’isolamento politico del Presidente, disorientando popolazione e istituzioni, tra cui le Forze armate. Quando invece avrebbe dovuto tentare di riunire attorno a sé un fronte compatto anti-talebano, che di fatto non c’è mai stato.
L’amministrazione Ghani ha svuotato sia le amministrazioni locali che quelle centrali di ogni vero potere. Buona parte dei Ministeri di peso a Kabul venivano controllati da commissioni ad hoc create dal Presidente, in particolare sugli introiti e la spesa. Mala gestione e corruzione erano all’ordine del giorno, e in alcuni casi toccavano direttamente la persona del Presidente e i suoi familiari. Ed è, in fine dei conti, il malgoverno e l’estesa e pervasiva corruzione che hanno minato alle basi qualsiasi credibilità il Presidente avesse accumulato nel suo primo mandato, tra la popolazione afghana e le Forze armate. Una parte della popolazione ha pertanto accolto i Talebani con molti timori, ma con la convinzione che non sarebbero stati peggio dell’amministrazione Ghani, mentre le Forze armate non sono state motivate a combattere per la sopravvivenza di un sistema corrotto e di un Presidente la cui reputazione generale era quella di essere un leader inefficace, disattento e corrotto.