Giornalista e illustratore, collabora per diverse testate nazionali. Fra i suoi libri, i saggi: La Spettralità delle cose (Maremmi Editore 2011) e Giorgio Manganelli e il mondo infero (Edilet 2016).
La crisi israelo-palestinese: intervista a Nathan Thrall
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Giornalista e scrittore, Nathan Thrall rappresenta una particolare espressione di intellettuale liminare: ebreo statunitense – nato 44 anni fa in California e residente oggi a Gerusalemme -, manifesta profonda partecipazione e solidarietà alla condizione palestinese, risultando per questo inviso sia alle frange estremiste israeliane che alla compagine araba radicale.
Esperto di Medio Oriente, Thrall ha diretto dal 2010 al 2020 l’Arab-Israeli Project nell’ambito dell’International Crisis Group – Ong transnazionale impegnata nella consulenza governativa in prevenzione e risoluzione dei conflitti -, occupandosi di Israele, Cisgiordania, Gaza e delle relazioni di Israele con i suoi vicini. A partire dal novembre 2023 insegna al Bard College, un istituto privato di arti liberali sito nel quartiere newyorchese di Red Hok, dove tiene corsi incentrati sul conflitto arabo-israeliano. I suoi scritti, tradotti in diverse lingue, sono stati pubblicati su The London Review of Books, The Guardian, The New York Review of Books e The New York Times Magazine.
Nel 2017, le edizioni Metropolitan Books pubblicano il suo primo saggio, The Only Language They Understand: Forcing Compromise in Israel and Palestine, in cui fondamentalmente vengono espresse forti riserve circa la possibilità che la questione israelo-palestinese si risolva da sé, in quanto entrambe le parti hanno tutto da guadagnare dal protrarsi della crisi. La soluzione caldeggiata nell’analisi di Thrall si appunta sull’intervento della comunità internazionale e principalmente degli Usa, che dovrebbero applicare severe pressioni economiche.
Il suo nuovo lavoro, il romanzo-reportage Un giorno nella vita di Abed Salama. Anatomia di una tragedia a Gerusalemme – pubblicato in Italia da Neri Pozza nella traduzione di Christian Pastore – prende le mosse da un incidente stradale che causa numerose vittime fra i bambini palestinesi, cagionando la drammatica odissea di un padre – Abed Salama – che cerca di conoscere la sorte del figlio di cinque anni in un intrico di ostacoli burocratici, fisici ed emotivi strettamente correlati alla sua condizione di palestinese. L’esistenza di Abed si incrocia con quella di altre persone – un’insegnante d’asilo e un meccanico, un ufficiale israeliano e un funzionario palestinese, un colono paramedico, operatori sanitari ultraortodossi e due madri, entrambe anelanti che il figlio ferito ma vivo sia il loro -, tutte coinvolte nella medesima tragedia. Un’opera intensa e polifonica, che è valsa al suo autore l’assegnazione del Premio Pulitzer 2024.
Thrall, lei ha sottolineato, riguardo il suo romanzo: “Questa non è un’opera di finzione. Tutti i nomi presenti nel libro sono reali, tranne quelli di quattro persone”. Cosa ha significato per lei, anche emotivamente, scrivere questo libro?
Questo libro intreccia diversi temi. Racconta storie di singoli individui e, al tempo stesso, offre l’affresco collettivo della storia di una società. Si incentra fondamentalmente sulla dominazione israeliana sui civili palestinesi. Mi ero prefissato diversi obiettivi nel realizzarlo, come ad esempio far conoscere la burocrazia che innerva l’occupazione israeliana. Il principale obiettivo, tuttavia, che spero di aver centrato, è quello di testimoniare come realmente vivono e cosa provano i palestinesi costretti sotto la dominazione israeliana. Quando parli con i palestinesi, traspare dalle loro parole tutta la tragedia di vivere sotto un sistema di dominazione. Per quanto mi riguarda, devo confessare di aver imparato davvero molto in termini di conoscenza di questo sistema. Mentre scrivevo questo libro ho raggiunto una sorta di verità emotiva: è stato un processo molto doloroso.
Lei vive a Gerusalemme. Qual è l’orientamento generale dell’opinione pubblica riguardo al conflitto a Gaza?
Fondamentalmente, la maggior parte della società israeliana supporta la distruzione israeliana di Gaza. Al massimo, si discute intorno alla maggiore o minore forza da impiegare. Questo è il sentimento comune in Israele.
Alla luce dei recenti avvenimenti, la preoccupa il rischio di un’escalation militare con l’Iran e Hezbollah?
Sì, ne sono veramente preoccupato. Si tratta di una vera e propria guerra, non di un’escalation: Israele ha iniziato una guerra con il Libano. Si contano a oggi già cinquecento morti, e devo ammettere di essere piuttosto sorpreso della debolezza della risposta proveniente da Hezbollah. Fino a ieri ci raccontavano di quanto fosse pericolosa Hezbollah, di quanto fossero imponenti le capacità di Hamas, le loro risorse di precisione e i missili che avrebbero potuto utilizzare per penetrare nelle nostre difese. Ora abbiamo mosso guerra ad Hezbollah: nel centro del Paese vi sono stati danni ingenti e un cospicuo numero di vittime causate da Israele, che finora non ha fatto altro che aumentare la tensione senza peraltro ricevere alcuna risposta significativa dal Libano, l’unico a pagarne il prezzo. Pensi che il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, ha dichiarato che l’attacco in Libano è stato un capolavoro.
Le manifestazioni continuano a favore del rilascio degli ostaggi. Come giudica l’andamento dei negoziati?
È sempre la stessa situazione che si trascina da mesi. Essenzialmente, Hamas chiede la fine della guerra e il ritiro delle forze israeliane da Gaza. Queste le due condizioni poste per poter arrivare a un accordo che permetta la liberazione degli ostaggi, condizioni che Israele ha sempre rifiutato.
Israele, invece, cosa chiede?
Israele, dal canto suo, solleva una miriade di temi, di dettagli, dal numero degli ostaggi ancora in vita alla futura conformazione dei confini, alla questione della sicurezza. Il punto nodale, tuttavia, è uno solo: Hamas chiede la fine della guerra e Israele puntualmente rifiuta. Intendiamo raggiungere un accordo sul rilascio degli ostaggi e, allo stesso tempo, chiediamo espressamente il permesso di continuare a bombardare Gaza dopo che Hamas si sarà privata dell’unica carta che può spendere sul tavolo dei negoziati. Sarebbe folle per Hamas rinunciare all’unica cosa che realmente ha in mano, gli ostaggi. Bisogna tuttavia rilevare l’unica novità positiva avvenuta negli ultimi giorni.
A cosa si riferisce?
Al fatto che gli Stati Uniti abbiano finalmente cominciato ad ammettere, anche attraverso giornali come il New York Times, che non si giungerà presto a un accordo per il rilascio degli ostaggi, che precedentemente veniva dato per imminente quando, nel mentre, continuava la distruzione di Gaza. Sulla carta non si arrestava il processo di pace: si continuava a parlare della soluzione dei due Stati e della fine dell’occupazione, si dava l’impressione che presto si sarebbe raggiunto un accordo affermando, allo stesso tempo, che si sarebbe trovata una soluzione anche riguardo l’espansione dei coloni nei Territori Occupati. Questo solo sulla carta, mentre nella realtà proseguivano i bombardamenti e la gente continuava a morire.
Lei racconta la storia della detenzione di Abed Salama. Qual è la condizione dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane oggi?
La condizione dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane è peggiore di quanto si possa immaginare. Sono soggetti a tortura. Vengono somministrate loro esigue razioni di cibo. Sono resi irriconoscibili persino per le loro famiglie. È una storia che si ripete continuamente. Vi sono stati numerosi report che hanno testimoniato di stupri dei prigionieri all’interno delle strutture di detenzione. Vengono tenuti nell’oscurità, incappucciati, nella stessa posizione per tutto il tempo che stabiliscono i loro carcerieri.
Cos’è la detenzione amministrativa? Potrebbe essere considerata una pratica illiberale?
Sicuramente la si può definire una pratica illiberale. Permette di trattenere qualunque palestinese anche senza processo o accuse. La loro detenzione può protrarsi per sei mesi e successivamente essere rinnovata per altri sei, sine die. Ciò significa che i palestinesi possono essere rinchiusi in carcere per sempre, senza vi siano accuse a loro carico e senza poter accedere a un giusto processo.
Come giudica l’influenza di ministri di estrema destra come Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich sulle politiche governative?
La loro influenza è davvero cospicua all’interno di questo governo, in particolare a riguardo delle politiche adottate nei confronti dei palestinesi. Ad ogni modo, più in generale, Smotrich e Ben-Gvir, pur essendo responsabili del peggioramento delle cose, non costituiscono il problema principale.
Cosa intende dire?
L’occupazione israeliana dura da cinquantasette anni. Il progetto israeliano di colonizzazione è stato supportato da ogni tipo di governo sin dal 1967, sia che fosse di sinistra, di destra o di centro. Ci si era spesi per questo obiettivo molto prima che Smotrich e Ben-Gvir coltivassero il sogno di entrare a fare parte della politica israeliana. Il tema principale è il reale consenso che accompagna l’espansione delle colonie, la costrizione dei palestinesi in luoghi sempre più angusti e il mantenimento del controllo su di loro senza che venga loro concessa alcuna forma di autonomia o diritto di cittadinanza. Questa è la vera questione. Oggi si afferma che il problema sia rappresentato da Netanyahu, Smotrich, o Ben-Gvir: anche i leader del passato, di ispirazione liberale e progressisti, prima di prendere il potere hanno garantito un cambiamento sostanziale, ma poi, una volta al governo, hanno fatto le stesse cose.
Lei sottolinea che “le caratteristiche demografiche e geografiche dei Territori Occupati furono stravolte da Israele”. Come giudica la situazione attuale in Cisgiordania?
La Cisgiordania si trova in una situazione terribile. Si registrano più di seicento palestinesi uccisi dal 7 ottobre, continue violenze da parte dell’esercito e dei coloni armati, uno spostamento forzato dei palestinesi che, nei sei mesi successivi all’attacco di Hamas, è risultato maggiore di sempre. Migliaia di palestinesi sono stati rimossi dalla Cisgiordania. Abbiamo assistito al più considerevole furto di terra degli ultimi tempi: si è verificato l’esproprio più significativo da dieci anni a questa parte. A questo si aggiunge una situazione economica drammatica. In Cisgiordania si contavano centinaia di migliaia di posti di lavoro, scomparsi in Israele e nelle colonie israeliane, che rappresentavano il principale settore d’impiego per i palestinesi. Inoltre, permangono le restrizioni di movimento: adesso si impiegano delle ore per spostamenti che precedentemente avrebbero richiesto al massimo una mezz’ora. Infine, oggi Israele dispiega anche in Cisgiordania, come a Gaza, attacchi con droni e missili.
La definizione di “genocidio” utilizzata in relazione a ciò che sta accadendo a Gaza risulta piuttosto controversa. A proposito della storia dell’occupazione israeliana, tuttavia, è lecito parlare di pulizia e sostituzione etnica?
Sì. Bisogna andare indietro nel tempo a prima dell’occupazione israeliana. Lo stesso Stato di Israele è stato fondato nel 1948 attraverso un atto di pulizia etnica, con lo stanziamento della popolazione ebraica in Palestina, che nel 1957 costituiva già circa un terzo della popolazione, al quale venne offerto, con la protezione delle Nazioni Unite, più della metà dell’intero territorio, ovvero il 55%. Al fine di creare una stabile maggioranza ebraica, si è imposto un processo che avrebbe portato al consolidamento dello Stato di Israele: ha avuto luogo una consistente pulizia etnica, a tal punto che i palestinesi, da maggioranza, divennero una minoranza. La decisione di Israele dopo gli accordi di armistizio raggiunti nel 1949 verteva sul presupposto che ogni ebreo che aveva dovuto lasciare la propria terra durante la guerra poteva ritornarvi, mentre nei mesi precedenti migliaia di palestinesi furono costretti ad abbandonare per sempre le proprie case. Ciò finì per diventare permanente e gli ebrei finirono per rappresentare una schiacciante maggioranza. Un altro tipo di pulizia etnica che si può osservare oggi è in Cisgiordania. Sta avvenendo – lentamente ma sta avvenendo -, principalmente in alcune aree specifiche della Cisgiordania: intere comunità sono costrette dalla maggioranza ad abbandonare la propria regione.
Nelle discussioni inerenti i piani postbellici si vocifera di un ritorno del potere dell’ANP a Gaza. Lo ritiene plausibile?
Prima di tutto, Israele ha rifiutato molte volte di permettere che l’ANP facesse ritorno a Gaza. Oltre a ciò, al di là dei desiderata di Israele, è possibile verificare quale orientamento accomuni l’opinione pubblica nella Striscia: la stessa popolazione di Gaza non desidera il ritorno dell’ANP. Dopo tutte le distruzioni, dopo tutte le morti, è venuto finalmente il momento di concordare sull’entità del fallimento di qualunque progetto israeliano su Gaza, in quanto, ovunque si vada, è Hamas a detenere il potere sul terreno. Anche se Israele dovesse vincere militarmente nella Striscia, sarebbe comunque Hamas ad esercitare il potere effettivo sul territorio. Quindi, dovrebbe essere Hamas a decidere di permettere o meno la presenza dell’ANP nella Striscia.
Ritiene che la soluzione dei due Stati sia ancora applicabile?
Penso che da tanti anni a questa parte la soluzione dei due Stati abbia rappresentato una copertura retorica affinché Israele potesse continuare la sua espansione in Cisgiordania. Se mi avesse chiesto prima del 7 ottobre se la soluzione dei due Stati potesse funzionare avrei risposto assolutamente di no, che non sarebbe stata neanche un’opzione. Sono convinto che tale formula sia utilizzata da Israele per poter conservare in maniera meno onerosa lo status quo e continuare a costruire in Cisgiordania, in Palestina e in altre aree. Anche oggi Israele intende continuare a mantenere le cose come stanno. Fino a quando il mondo non cambierà prospettiva, Israele preferirà continuare a imporre lo stato di fatto.
Le opportunità del Green Deal europeo
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“Non possiamo nascondere l’orgoglio per questo traguardo raggiunto insieme al nostro partner Newtron Group”. Il Founder e Consigliere delegato di talet-e, Marco Dau, si riferisce alle omologazioni, rilasciate dalla Direzione Generale per la Motorizzazione del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, alle prime tre piattaforme della startup, in linea con le direttive europee.
Dal nome che richiama il noto filosofo di Mileto – che nel 600 a.C. fu il primo a gettare le basi per il motore elettrico, quando scoprì che un pezzo d’ambra strofinato con della lana si caricava elettrostaticamente e poteva attirare una piuma –, la società, nata nel 2021, è la prima in Italia a vantare l’intento dichiarato di elettrificare gli scooter da 125cc in su, sostituendone il motore endotermico con un kit elettrico di produzione italiana.
In ossequio al suo manifesto “Rendere le nostre Città e il Pianeta un posto migliore”, talet-e fa della transizione alla mobilità sostenibile la sua principale vocazione. In Italia, infatti, sono attualmente in circolazione oltre 7,3 milioni di motocicli, di cui il 72% conta più di dieci anni. Stando agli ultimi dati espressi da Confindustria ANCMA, ad aprile le immatricolazioni sarebbero aumentate del 23% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, trainate proprio dalla crescita degli scooter. Diventa quindi auspicabile il rinnovo del parco esistente, attraverso la riduzione del 43% di motocicli omologati Euro 0 e Euro 1 tuttora in circolazione. “talet-e POWER Kit”, una tecnologia accessibile e in conformità alle norme vigenti, rappresenta la soluzione ideale per ridare vita ai mezzi più inquinanti, attraverso l’installazione del kit di conversione che lascia inalterate le prestazioni del veicolo termico originario, mentre le componenti sostituite vengono affidate ad aziende specializzate che operano nel riciclo delle materie prime.
Fra second Life e transizione ecologica, talet-e rinsalda il proprio impegno, sul solco di una Road map serrata e pensata in linea con l’Agenda 2030, per la costruzione di un futuro sostenibile, regalando una seconda esistenza agli scooter a combustione termica, che, secondo il progetto, diventeranno 100% elettrici.
Consigliere Dau, quali sono le tappe più significative della storia e gli sviluppi più recenti del piano industriale della startup?
Talet-e nasce nel 2021 come start up innovativa. L’idea era semplice, ovvero, in vista del decreto retrofit che era già in lavorazione, valorizzare gli scooter circolanti con un nuovo motore elettrico proprio partendo dalla volontà di migliorare la qualità dell’aria e ridurre l’inquinamento acustico in città. Da subito abbiamo capito che l’idea, nella sua bellezza, mostrava rischi ed opportunità, tutte da approfondire un po’ per volta. Il fatto che moltissimi interlocutori fin dalle prime battute abbiano mostrato vivo interesse, fino a diventare investitori, ci ha spronato a continuare nel nostro lavoro. Newtron Group, che è uno dei player principali in Italia nel campo del retrofit e dell’ibrido, ha accettato di lavorare con noi immediatamente, convinto che il mercato fosse maturo per questo progetto. Da lì poi ci sono stati svariati momenti in cui abbiamo aggiornato il nostro piano di sviluppo ed il nostro piano industriale, cercando sempre di mantenerci flessibili ed aperti a valutare tutte le opzioni, i consigli ed i punti di vista dei i professionisti che oggi, a vario titolo, lavorano con talet-e. Tra i nostri partner abbiamo il piacere di annoverare Elis, Findomestic, Circularity, GreenFutureProject, mentre con altri siamo in contatto in questi giorni per stringere accordi. Insomma, una start up con un’idea semplice e chiara che, come ogni tanto accade, aprirà un mercato che ancora non esiste ma che promette molto bene e che sta lavorando senza sosta, motivata da chi ci ferma per strada e ci chiede quando potrà convertire il proprio scooter!
Ci potrebbe indicare i principali obiettivi, in tema di sostenibilità, perseguiti da talet-e?
Talet-e rappresenta la massima espressione delle opportunità, anche economiche, figlie del Green Deal europeo e di cui troppo spesso si parla in modo negativo. La possibilità offerta dal decreto legge 141 del luglio 2022, per cui è ammessa la riqualificazione elettrica di motocicli di classe L senza l’obbligatorietà di autorizzazione dai costruttori, ha aperto letteralmente la porta ad importanti progetti come talet-e. Il retrofit ha innumerevoli vantaggi, in quanto, se da un lato permette di abbassare le barriere economiche all’ingresso rispetto al passaggio alla mobilità elettrica degli utenti (ovvero un costo inferiore all’acquisto di un veicolo elettrico nuovo), dall’altro evita la rottamazione di quanto oggi in circolazione, attività di solito condotta con la scusa di accedere ad incentivi economici e quant’altro. Tutta la ciclistica del veicolo resta e solo alcune parti come il motore, il serbatoio e gli scarichi vengono rimossi e destinati al riciclo o al recupero. Con talet-e, se volete, con ogni mezzo retrofittato nasce un fardello di risorse utilizzate decisamente inferiore ad un veicolo elettrico nuovo. In più, solo con belle sorprese rispetto alle sensazioni di guida del proprio mezzo, grazie alla migliore erogazione della coppia del motore elettrico.
Cosa rappresentano le omologazioni delle prime tre piattaforme di talet-e per la startup e, più in generale, per la transizione ecologica in Italia?
Abbiamo finalmente chiuso l’iter per l’omologazione dei primi 3 talet-e POWER kit e di molti altri che seguiranno e che ci permetteranno di accelerare moltissimo rispetto al nostro programma di marcia, potendo a questo punto garantire di aprire il nostro Flagship store a Roma con diversi kit a copertura di altrettanti veicoli ed accontentare tutto il pubblico che negli ultimi mesi si sta avvicinando a noi. Rispetto alla transizione ecologica questa non può che essere un’ottima notizia. Tutti gli amministratori incontrati ci hanno espresso la pressione che le nostre città vivono nel tentativo di ridurre l’inquinamento legato al parco circolante e finalmente abbiamo una risposta che convince con cui non solo abbattiamo le emissioni ma riduciamo anche la generazione di rifiuti grazie all’applicazione di principi di economia circolare come il riuso ed il riciclo.
Quali modelli sono interessati dalle certificazioni?
Partiremo con almeno 7, forse addirittura 8 kit che copriranno essenzialmente parte della gamma SH di Honda (dal 150 al 300 di varie annate) ed alcuni veicoli di Piaggio come il Liberty 150, il Beverly 300 o la Vespa GTS 200, tutti di annate specifiche. A seguire nei prossimi mesi altri SH, inclusi i 125cc ed ulteriori Liberty e Vespa. Anche lo Yamaha XMax fa parte del gruppo del primo anno, mentre altri ancora verranno valutati in virtù delle richieste che riceveremo.
“talet-e POWER Kit”, cuore dell’innovazione della società: ce ne potrebbe parlare?
Il talet-e POWER kit è semplicemente l’insieme di componenti elettrici, elettronici e meccanici che vengono assemblati sullo scooter dopo la rimozione dei sistemi legati alla propulsione termica come il motore, il serbatoio e lo scarico. E’ composto dal motore elettrico di opportuna potenza, 2 batterie fisse da 1,5 Kwh ed una estraibile di capacità variabile dipendentemente dal mezzo e dall’elettronica di gestione con il nuovo cablaggio. Questi componenti rappresentano circa l’80% del kit e sono essenzialmente comuni a tutti i kit e capaci di “coprire” le motorizzazioni dalla 125cc alla 300cc mediante opportuna mappatura software. Il rimanente 20% è composto dai componenti meccanici che occorrono per fissare la parte elettrica al telaio dello scooter e a adattare la trasmissione alla nuova posizione dell’asse del motore. Questo 20% è ciò che poi cambia, anche a parità di scooter al variare di cilindrate e model year. Le comunanze sono ciò che ci permette di accedere all’economia di scala riducendo i costi fino al valore di 2500 €, cosa sulla quale stiamo lavorando ancora oggi.
Un’Europa ancora da costruire
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“Il percorso dell’Unione europea mi sembra oltremodo complesso e i risultati di queste ultime elezioni non mi infondono fiducia”. Lo storico e giornalista olandese Geert Mak, fra gli autori più popolari dei Paesi Bassi, esprime le sue considerazioni sugli esiti del voto tenutosi dal 6 al 9 giugno al fine di rinnovare il Parlamento europeo, segnato da scarsa partecipazione – ha votato circa il 49,7% del corpo elettorale –, rinascita dei bipolarismi e affermazione ubiqua delle destre (in alcuni casi, dell’estrema destra).
Classe 1946, Mak esordisce come giornalista del settimanale “De Groene Amsterdammer” e del quotidiano “NRC Handelsblatt”, per poi dedicarsi, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, maggiormente alla stesura di libri. Ha vinto numerosi premi, fra cui il Leipziger Buchpreis zur Europäischen Verständigung e il Prins Bernhard Cultuurfonds Award; i suoi libri sono stati tradotti in oltre venti lingue. In Italia, Fazi Editore ha pubblicato “In Europa. Viaggio attraverso il XX secolo” (2006) e il recente “Il sogno dell’Europa nel XXI secolo” (2024).
“Serve innanzitutto distanza – annota lo storico nel prologo del suo nuovo lavoro. – Distanza fisica e distanza temporale, almeno per quanto possibile. Raccontare le vicende del periodo in cui si vive e del mondo di cui si fa parte è una contraddizione. Lo storico ha bisogno di un certo distacco e il trascorrere del tempo è ancora il modo migliore per giungere a una visione d’insieme. Solo nel tardo Ottocento siamo riusciti a dare alla figura di Napoleone la giusta collocazione nello scenario europeo. Ancora oggi si discute delle vere cause dei due conflitti mondiali del XX secolo, della natura e degli effetti del colonialismo, della cruda violenza della guerra fredda, del crollo dell’impero sovietico nel 1989. Per non parlare degli ultimi anni, di questi primi due decenni del XXI secolo, in cui la fabbrica della Storia è tornata a funzionare a pieno regime e in cui il nostro ordinato mondo europeo, fatto di pace e onesto benessere, sembra di nuovo capovolgersi”. Un distacco che non sempre l’irruzione indifferibile della Storia permette, ma che risulta tuttavia congeniale a una lucida disamina. “Come mi piacerebbe – continua Mak più avanti – essere già nel 2069 e poter dare un’occhiata alla tesi che, tra cinquant’anni, una brava laureanda in Storia dedicherà alla nostra epoca. Non sarà un racconto allegro, temo, ma di sicuro interessante. In fondo, sia gli Stati Uniti d’America che, in seguito, l’Europa potevano essere definiti come grandi progetti storici. Progetti con cui uomini liberi hanno cercato di prendere in mano il proprio destino invece che subirlo. Progetti ispirati dagli ideali dell’Illuminismo, dei diritti umani, di libertà, uguaglianza e fratellanza, anche internazionale. Come ha potuto disintegrarsi qualcosa di così prezioso? La mia giovane laureanda in Storia, a distanza di tempo, gode di un’ottima visuale. Io no. La invidio”.
Professor Mak, cosa ne pensa dei risultati delle recenti elezioni europee?
Il percorso di formazione e consolidamento dell’Unione europea è davvero difficile da realizzare, in maniera similare a quanto avvenne per gli Stati Uniti d’America, che impiegarono quasi un secolo per portarlo a termine. Penso che per creare una vera e solida Unione sia necessario adottare alcune particolari disposizioni. Significativo in tal senso risulta essere il fatto che, proprio come Schengen, anche l’euro non ha mai conosciuto un vero e proprio assestamento. Schengen rappresenta un’Unione europea senza confini ma anche senza una politica comune in tema di immigrazione. L’euro costituisce un nuovo sistema finanziario che deriva da un comune progetto finanziario. L’Unione europea è una sorta di federazione, ma è priva di una struttura realmente valida per quanto concerne l’innovazione. I prossimi cinque/dieci anni saranno necessari a costruire un’Unione europea con un euro forte e, a tal fine, bisognerà mettere a punto misure adeguate soprattutto a fronteggiare le tempeste geopolitiche che già si profilano all’orizzonte. È importante, ad esempio, abolire il diritto di veto, in quanto esso blocca ogni genere di decisione a livello federale. Dopo queste elezioni sarà sempre più difficile dare riscontro a talune tematiche e sviluppare un sistema comune; ciò nonostante, non si possono trascurare, altrimenti il progetto europeo potrebbe subire un arresto, o, peggio, essere archiviato, e ciò potrebbe rappresentare davvero un pericolo.
Secondo lei, Ursula Von der Leyen potrebbe essere riconfermata nella veste di Presidente della Commissione Europea?
Sì. Penso tuttavia che il vero problema sia che la nuova maggioranza europea virerà sempre più verso destra. Nel mio Paese, ad esempio, in questo momento anche i partiti di centro-destra sono sedotti dall’estrema destra e questa tentazione politica potrebbe divenire normale. Ciò è piuttosto rischioso per la tradizione democratica all’interno dell’Unione, perché la democrazia non riguarda solo la Costituzione o la libertà di stampa ma anche un certo tipo di civiltà, un modo di parlarsi e di accettarsi a vicenda. Pericolo che non interessa solo gli Stati Uniti d’America ma, con il grande successo dell’estrema destra, anche l’Europa. Nel mio Paese, da tre o quattro anni si è affermato un forte cambiamento e non è inusuale che i giornalisti subiscano attacchi verbali. Il fondamento di una democrazia non è solo la Costituzione ma anche quella profonda civiltà ad essa connessa.
L’Europa, quindi, vira a destra. Come riuscirà ad affrontare sfide come il Green Deal?
Il Green Deal ora è fermo ma l’Europa non ne vanificherà l’essenza perché è un progetto davvero imprescindibile. Questo arresto rappresenta sicuramente un grande successo delle lobby degli agricoltori. L’industria agricola è molto potente. Nel mio Paese, si è infatti formato un partito espressione degli agricoltori – ora al governo – e il momento originario della sua formazione è stata proprio la creazione di un ufficio di lobby relativo all’industria agricola. Il problema, ovviamente, è se tali realtà si rivolgano a destra o a sinistra. L’intero settore agricolo dell’Unione europea deve essere modernizzato, deve cambiare, perché, per come stanno andando le cose, specialmente nei Paesi più densamente popolati, non è più possibile procedere in tal modo. I paradigmi di sviluppo davvero necessari, non appannaggio di destra o di sinistra, sono ora bloccati.
Si prospettano problemi per l’Europa anche da oltreoceano?
Il problema maggiore va rilevato proprio oltreoceano: quest’estate sarà cruciale non solo per l’America, ma anche per l’Unione europea, quando Biden, che ha convocato il Congresso democratico ad agosto, sicuramente perderà. Quest’uomo è troppo in là con gli anni, non riesce più a svolgere bene il proprio lavoro. Ciò significa che il Partito democratico è davvero vulnerabile e diventa quindi quasi impossibile vincere le prossime elezioni. L’altro problema è Donald Trump: potrà essere un disastro nelle vesti di presidente non solo per la stessa America, ma anche per l’Europa. Non si tratta di problemi interni che riguardano esclusivamente le realtà d’oltreoceano, perché tutta la costruzione dell’Europa è stata messa a punto sotto la protezione degli Stati Uniti: è giunto il tempo di abbandonare questa protezione, anche se ci vorranno almeno cinque/dieci anni per poter fare a meno del loro sostegno militare. Se dovesse rimanere da sola, l’Europa sarebbe davvero vulnerabile, specialmente nel campo della sicurezza: quando un presidente come Trump dirà che non potrà più garantire la nostra sicurezza avremo davvero una grande incognita da dover risolvere.
In Francia, il presidente Emmanuel Macron ha convocato nuove elezioni il 30 giugno e il 7 luglio. Perché, a suo avviso?
È stata davvero una grande scommessa, la sua, e non solo per la Francia ma anche per l’intera Europa, perché la forza dell’Unione europea è sempre stato l’asse franco-tedesco, la connessione fra Parigi e Berlino. Per lungo tempo, esso ha rappresentato il motore dell’Unione europea, ma adesso da ambedue le parti questo motore si sta ingolfando. Dopo la mossa di Macron, non si sa bene cosa succederà in Europa: anche la Germania, che è stata da sempre la più grande potenza europea, in questo momento non presenta una forte leadership. Vorrei parlarle in maniera più ottimistica, ma prevedo una tempesta in arrivo.
Possiamo quindi considerare l’asse franco-tedesco ormai al tramonto?
In questo momento è in bilico. Sento la gente dire che stiamo per entrare in guerra come nel 1938/39 – sto scrivendo un libro proprio su questo periodo. Sembra una sensazione familiare: in quel periodo la gente assomigliava ai gatti sorpresi in mezzo a una tempesta, si sentiva aggredita. Anche adesso, nel mio Paese, le persone non dormono tanto bene. D’altro canto, vi sono evidenti differenze. È più difficile predire cosa accadrà. In generale possiamo dire di trovarci nel mezzo di un profondo e storico cambiamento di poteri: il potere occidentale sta declinando, mentre Cina e Russia stanno emergendo. Potremmo chiamarlo un cambiamento di paradigma. Si potrebbe paragonare questo momento storico al XVI secolo, agli sviluppi che hanno mutato il modo di pensare di intere generazioni, soprattutto in Italia. Viviamo ora un cambiamento della medesima portata.
Lei ha scritto che l’Europa è divisa e debole, la Russia coglie ogni opportunità per seminare discordia e la Cina occupa qualunque vuoto che l’Europa ha lasciato. In un contesto geopolitico, la centralità europea è destinata a decadere?
Non dovrebbe accadere, perché l’Europa possiede ancora un grande potere economico e dispone di un sacco di possibilità anche se, allo stesso tempo, non può considerarsi compiutamente un’Unione. È sempre lo stesso problema. Tutto ciò deve cambiare. Nei prossimi cinque anni, l’intera struttura europea andrà riorganizzata, in quanto non potremo andare avanti in questo modo. Non vedo lontana la costruzione di una solida potenza internazionale. L’Europa ha svolto un ruolo piuttosto importante a livello geopolitico, ma ha ancora difficoltà ad accettarlo. All’inizio del ventesimo secolo, anche gli Stati Uniti ebbero difficoltà ad accettare il fatto di rivestire un ruolo geopolitico preminente. Il problema dell’Europa, tuttavia, è che non abbiamo molto tempo, e, da questo punto di vista, anche i risultati di queste elezioni non mi rendono particolarmente felice. È come se le persone si rendessero conto dell’urgenza della situazione ma non sapessero reagire adeguatamente.
Lo scrittore americano Jeremy Rifkin argomentò che nei prossimi decenni l’Europa eclisserà gli Stati Uniti d’America. È quanto è avvenuto o potrebbe ancora avvenire?
All’inizio del secolo questo era il sogno europeo. Vi sono oggi le condizioni perché ciò avvenga? Questa sorta di ottimismo era già finito con il rifiuto francese alla Costituzione proposta nel 2005. Da allora si susseguirono diverse crisi – crisi dell’euro, crisi dell’immigrazione, la pandemia di Covid-19. Parte di queste problematiche derivavano dal fatto che la struttura dell’Europa non fosse ben definita, specialmente per quanto riguarda la crisi dell’euro. Penso tuttavia che oggi sia necessario, per il progetto europeo, adottare uno spirito diverso. Bisogna tenere conto che in passato generazioni di europei hanno vissuto la guerra. Tra Francia e Germania quasi ogni generazione l’ha conosciuta. Gli stessi pionieri dell’Unione europea fecero esperienza della guerra – sono stati anche rinchiusi nei campi di concentramento – e hanno poi provato una forte emozione nel lasciarsi alle spalle le proprie ombre. Condividevano un’esperienza che non sarebbe più accaduta in seno all’Europa. Questo tipo di emozione era comune in quegli europei. Parlando delle nuove generazioni, invece, temo che tale emozione stia lentamente scomparendo. Ci riferiamo ovviamente ad altre generazioni. Nel mio Paese, ad esempio, è evidente che i politici non la provano più. La radice dell’ottimismo europeo risiedeva nel successo del progetto di pace. In questo momento, credo che dovremmo combattere insieme cercando al contempo una prospettiva diversa, in quanto non si tratta più solo di un progetto di pace ma di un progetto di sopravvivenza: proteggere noi stessi ma anche sopravvivere al XXI secolo nella maniera migliore. Soltanto insieme potremo avere la meglio sulla minaccia rappresentata dal nucleare. Molti problemi, oggi, sono diventati problemi globali e per questo vanno affrontati insieme. L’estrema destra, specialmente i nazionalisti, tentano sempre di rifuggire da questa realtà, negandola. È complicato imparare a risolvere i problemi insieme ma dobbiamo farlo.
In questo senso, è giunto il tempo per una difesa europea comune?
Sì, deve diventare realtà il prima possibile, anche se riconosco che è molto complicato da fare. L’Unione europea promuove la cooperazione in economia e in altri campi, ma affida la sua difesa alla Nato e principalmente agli americani. Questo sistema non può continuare per sempre. L’America non è più un alleato stabile, non è più una superpotenza solida. E ciò non solo a causa di Donald Trump, che pure rappresenta un evidente pericolo: l’America non è più interessata all’Europa. Gli americani stanno dirigendo il loro sguardo oltre il Pacifico, verso Taiwan, la Cina, le Filippine e l’India. Questo è il loro centro d’interesse ora. La Nato è diventata per loro sempre meno importante. Oltre a Trump e ai Repubblicani, anche gli stessi Democratici considerano, ad esempio, l’Ucraina marginale, nonostante il sostegno concesso da Biden. Fin dai tempi di Obama, e, ancor prima, di Bill Clinton, gli americani si stavano allontanando sempre di più dall’Europa e dall’Asia. Diventa quindi per noi necessario un cambio di prospettiva.
Cosa si aspetta ora dall’Europa?
L’Europa può ancora svolgere un ottimo ruolo in veste di connettore. Sta già assolvendo a questo ruolo fra l’Occidente e la Cina, per esempio. Al tempo stesso, tuttavia, l’Europa ha smesso di sviluppare pienamente il proprio potenziale politico. In questo senso, l’Unione europea ha commesso molti errori, specialmente ora a Gaza. Certo, l’Europa è divisa al riguardo, in particolar modo la Germania, che sta sempre difendendo le azioni di Israele e i suoi crimini di guerra. Il ruolo dell’Unione europea è sempre stato quello di creare ponti. Adesso, quando dal primo giorno del conflitto Ursula von der Leyen si è schierata a favore di Israele, ha annichilito qualunque credito potessimo vantare presso la parte palestinese, vanificando qualsiasi possibilità di creare ponti e compromessi e poter giocare così un ruolo di primo piano nella politica internazionale.
Impresa della conoscenza
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“Lo scopo è migliorare il benessere delle persone e del pianeta, attraverso il miglioramento della qualità, della sicurezza e della sostenibilità dei prodotti che si utilizzano ogni giorno e dei processi che impattano sull’ambiente”. Il Presidente Enrico Loccioni chiarisce l’obiettivo cardine dell’omonima impresa, fondata nel 1968 insieme alla moglie Graziella Rebichini: un modello virtuoso di “impresa della conoscenza”, radicato nel territorio e capace di guardare lontano.
Diversi i progetti varati. Apoteca Community, nata dalla sinergia tra l’Azienda Ospedaliero-Universitaria Ospedali Riuniti e Loccioni, è una rete scientifica internazionale in cui professionisti del settore sanitario e sviluppatori di tecnologie elaborano l’evoluzione della robotica ospedaliera. Fondamentale la partecipazione al progetto Second Life con Enel e Nissan, per cui Loccioni ha realizzato il sistema di riuso delle batterie delle auto in una prospettiva di storage stazionario innovativo, finalizzato a stabilizzare la rete elettrica e migliorare la qualità dell’energia della comunità di Melilla.
Spicca il progetto Nexus, rete di imprenditori sviluppata da Enrico Loccioni e incentrata sull’idea di promuovere formazione per altri imprenditori. Non mancano le iniziative per i giovani, come Blue Zone Camp, un laboratorio di scuola-impresa per tutte le età, che offre percorsi che preparano i giovani alle sfide tecnologiche presenti e future, con uno spazio formativo riservato agli insegnanti, cui viene proposto un nuovo modo di pensare la collaborazione tra scuola e impresa.
Presidente Loccioni, potrebbe illustrare le finalità dell’impresa che rappresenta?
Sono nato nella campagna marchigiana, nel crocevia di tre abbazie importanti della cultura benedettina (S. Elena, S. Romualdo e S. Urbano), da una famiglia di agricoltori. Il patrimonio culturale dei monaci benedettini e quello familiare delle origini contadine hanno determinato il modello e i valori dell’impresa che ho fondato con mia moglie Graziella. Vivere l’impresa come un bene comune, che genera lavoro, ricchezza e identità nel territorio. L’impresa non è solo proprietà privata ma un progetto di futuro: le persone si aggregano intorno a un’idea e l’impresa diventa un hub in cui si integrano persone, idee e tecnologie.
La figura dell’imprenditore in Italia è a volte screditata dal concetto che chi guadagna è uno sfruttatore. Credo invece che l’impresa abbia il dovere di fare profitto: l’imprenditore ha la responsabilità di mantenere e sviluppare la comunità di lavoro che si alimenta da quel profitto. Da qui l’importanza fondamentale delle persone: se le persone – collaboratori, clienti, fornitori – sono coinvolte producono idee e soluzioni. Solo se si è produttori di ricchezza si può condividere: il profitto – lo dice la sua etimologia (pro-ficere) – serve per fare, quindi bisogna chiedersi come reinvestire il profitto nell’impresa in quanto mezzo e non fine ultimo.
A quali settori si rivolge la mission Loccioni?
La nostra mission è “Misurare per migliorare, per il benessere delle persone e del pianeta”. Progettiamo e produciamo sistemi high tech di collaudo e controllo qualità, sia da laboratorio che in linea di produzione, per migliorare la qualità degli elettrodomestici che utilizziamo, le auto che guidiamo, gli aerei o i treni che ci trasportano, l’energia che utilizziamo, l’aria che respiriamo, i farmaci e il cibo per la nostra salute. Misurare è la competenza che ci rende un partner strategico dei più grandi brand industriali internazionali nei settori della mobilità, dell’energia, dell’ambiente e del benessere della persona: tra i principali, Airbus, Bosch, Cleveland Clinic, Daimler, Enel, E.On, Ferrari, General Electric, GE Avio, Leonardo, Mayo Clinic, Northvolt, RFI, Samsung Medical Center, Toyota. Per ricambiare la loro fiducia sono nati team internazionali con giovani collaboratori Loccioni in Germania, Usa, Cina, Giappone, India, Corea, Messico, Svezia, Spagna, Francia. La diversificazione dei settori aumenta la competenza, favorisce l’approccio multidisciplinare e l’integrazione delle persone.
Potrebbe riassumere i principali passaggi relativi alla fondazione del vostro progetto?
Alcune storie iniziano in un garage, questa inizia in una stalla. Avevo 5 anni quando, nella remota campagna dove abitavo con la mia famiglia, arriva l’elettricità. Ho vissuto in prima persona la potenza dell’innovazione e per questo ho deciso di non seguire l’attività di famiglia. Ho studiato il pomeriggio elettrotecnica, lavorando come apprendista la mattina. A 15 anni ho sviluppato la prima “commessa”: con l’elettricità, una pompa e alcuni tubi, ho portato in casa l’acqua corrente, risolvendomi il problema di dover portare fuori a bere le mucche. È il primo progetto di automazione. Questo è il modello d’impresa che si è sviluppato a partire dal ‘68: elaborare progetti per risolvere problemi attraverso la tecnologia.
I primi 10 anni sono caratterizzati da un’attività di impiantistica elettrica, grazie alla fiducia (e ai cantieri) del gruppo Merloni, delle Cartiere Miliani, della Barilla, dell’Enel e di molti altri grandi nomi. Verso la fine degli anni ‘70 incontriamo in casa Merloni un problema da risolvere: il controllo qualità delle lavatrici. Nasce così il primo sistema automatico per il collaudo delle lavatrici a fine linea di produzione, innovazione che presto conquista tutti i produttori di elettrodomestici. È l’inizio di una nuova fase, il controllo della qualità diventa la competenza distintiva e l’impresa artigiana si trasforma in impresa innovativa, internazionale, manageriale. Dagli elettrodomestici all’automotive, dall’energia al medicale, dal monitoraggio ambientale all’aerospazio, si sviluppano soluzioni di nicchia tecnologica, a servizio dell’industria manifatturiera. È l’impresa della conoscenza, in cui le persone sono il valore più grande e il lavoro è un mezzo per la crescita personale e del territorio. Con il nuovo millennio l’impresa consolida una crescita costante media del 10% annuo del fatturato, raggiunge l’autonomia finanziaria e la cassa attiva. Questo grazie alla qualità dei clienti, alla competenza dei collaboratori e all’alchimia di un’organizzazione e una cultura d’impresa in cui ogni persona cresce e fa crescere. Sono gli anni dell’internazionalizzazione – si concretizza con team dedicati allo sviluppo di clienti, mercati e conoscenze in Usa, Germania, Cina, Messico, Corea, India, Giappone, Francia e Spagna – mentre le radici nel territorio vengono nutrite con progetti di innovazione sociale come il progetto Blue Zone per collaborare con le scuole di ogni ordine e grado; il progetto Apoteca, innovazione mondiale sviluppata in partnership con l’Azienda Ospedaliero Universitaria delle Marche e oggi presente nei più grandi ospedali del mondo; il progetto 2 km di futuro® con cui l’impresa, in un progetto pubblico-privato, mette in sicurezza e riqualifica il vicino fiume Esino; il progetto Valle di San Clemente con cui, sempre in partnership con il pubblico, si prende in custodia una millenaria abbazia benedettina e si rivitalizza la sua vallata. Nasce la Scuola Loccioni, con percorsi formativi per studenti e collaboratori, e Nexus, collaboratori in Spin off che aiutiamo ad avviare la propria impresa.
Il Gruppo Loccioni potrebbe costituire una dimostrazione di come l’Italia, ancora oggi, riesca ad attrarre investimenti internazionali?
Sicuramente. È fondamentale partire dalla propria competenza distintiva. Occorre sempre farsi la domanda: “perché un cliente tedesco dovrebbe venire nelle Marche anziché ordinare a un fornitore locale?”. Nel caso Loccioni siamo riusciti all’interno della competenza di misura a selezionare delle nicchie tecnologiche, abbattendo le distanze geografiche. In alcuni casi siamo gli unici a livello mondo ad avere la soluzione per il cliente. Di conseguenza, possiamo annoverare tra i nostri clienti i maggiori player mondiali. Credo che la capacità Italiana di risolvere problemi complessi con creatività e flessibilità, insieme alla bellezza, al design, alla valorizzazione del territorio, siano la chiave per attrarre e mantenere quel Made in Italy che non potrà mai essere imitato.
È fiducioso riguardo al fatto che il vostro esempio riesca a convogliare sempre più imprese verso un modello sostenibile di transizione ecologica?
La nostra transizione ecologica è partita molto prima che esistesse il nome, dal valore contadino del non sprecare e la sfida del comfort delle persone. Nel 2008, con la Leaf Community, abbiamo creato la prima comunità ecosostenibile d’Italia e 10 anni dopo la prima micro-grid 100% elettrica gestita da una rete intelligente, che produce più energia rinnovabile di quella che consuma e assorbe CO2 anziché emetterne. Misuriamo tutto: i consumi, la produzione di energia rinnovabile, il risparmio idrico, le emissioni di CO2, e anche il risparmio economico. Possiamo testimoniare che è un approccio conveniente, oltre che una spinta al miglioramento continuo. Oggi riceviamo tantissime visite e richieste su come replicare questo esempio e noi diciamo sempre che il segreto è nello sguardo a lungo termine: il rientro dell’investimento non è veloce, ma è duraturo e stimola il miglioramento continuo. Dopotutto è per questo che ci diamo da fare, per lasciare un po’ meglio di come abbiamo trovato.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di aprile/giugno di eastwest
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Energia nucleare: intervista al fisico Luca Romano
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“Se al termine della lettura non sarò riuscito a convincervi del fatto che il nucleare andrebbe quantomeno riconsiderato, nell’ambito della lotta al cambiamento climatico, spero almeno di avervi vaccinati contro chi parla di energia in maniera troppo semplicistica”. Le parole del fisico Luca Romano ben esemplificano l’intento sotteso alla scrittura del saggio L’avvocato dell’atomo (Fazi Editore), il cui titolo riecheggia quello della pagina Facebook – aperta il 6 aprile 2020, durante il primo lockdown – che ha riportato l’energia blu al centro del dibattito pubblico italiano, tentando così di scardinare assunti troppo superficiali o smaccatamente errati. Laureato in fisica presso l’Università di Torino, alle spalle un master in Giornalismo scientifico e Comunicazione della Scienza conseguito allo IUSS di Ferrara, l”avvocato’ Romano (“Ecco, io non sono Saul Goodman: con la parlantina me la cavo, ma mi faccio fin troppi scrupoli etici”) affronta, analizza e disseziona sulle pagine del testo quesiti e capi d’accusa mossi contro il nucleare, dalla (presunta) pericolosità insita in tale tecnologia allo smaltimento delle scorie radioattive, dai rischi di proliferazione militare ai limiti delle rinnovabili. “Il bisogno delle persone – scrive l’autore – di vedere le cose necessariamente bianche o nere è il più grande nemico di questo libro. La tesi di fondo, infatti, non è che l’energia nucleare sia la panacea di tutti i mali, la soluzione universale o il miglior modo possibile di generare energia elettrica: la tesi di questo testo è che il mondo energetico è incredibilmente complesso, e ridurre il nucleare a “le scorie”, “costa troppo” e “ommioddio Černobyl” è estremamente riduttivo, se vogliamo pensare di diminuire la nostra dipendenza dai combustibili fossili in maniera seria. Questo include anche il dover introdurre delle scale di grigio per personaggi, ideali, giornali, partiti politici o associazioni che fino a oggi sono sembrati immacolati, ma che su questo tema sono invece usciti dal sentiero”.
Luca Romano, cosa l’ha spinta a prendere le difese del nucleare? Ha rilevato una diffusa disinformazione al riguardo?
Assolutamente sì. Negli anni mi sono reso conto che di questo argomento (ma non solo) sui media generalisti si parla poco e malissimo. Quando ho iniziato questo progetto ovviamente non pensavo che sarei diventato una delle principali fonti di informazioni scientifiche su questo tema, ma ce n’era decisamente bisogno. Purtroppo ancora oggi il mio lavoro raggiunge solo una piccola parte del pubblico che non frequenta i social network: la TV e i giornali continuano ad essere dominati da opinionisti con una scarsissima conoscenza dell’argomento e molti bias ideologici, che spesso si esprimono senza contraddittorio ripetendo slogan datati. Questo, comunque, non è un problema solo del nucleare: in generale c’è bisogno di un rinnovamento del sistema televisivo e giornalistico in Italia, perché oggi l’offerta informativa è fatta e pensata unicamente per la fascia più anziana della popolazione.
Chiariamo un punto importante: qual è la dose minima di radiazioni assorbite dal corpo umano associabile a un rischio effettivo per la salute?
Questa domanda richiede un piccolo preambolo: l’attività radiologica di una sorgente si misura generalmente in Becquerel (Bq), che è un’unità di misura che indica semplicemente il numero di decadimenti radioattivi al secondo. Per calcolare la dose efficace trasmessa ad un tessuto organico occorre utilizzare dei fattori di conversione che tengono in considerazione la tipologia di radiazione emessa, l’energia della radiazione e la modalità di irraggiamento (dall’esterno o dall’interno del corpo umano). Ad esempio, le particelle alfa trasportano più energia, ma sono poco penetranti, dunque sono potenzialmente pericolose in caso di irradiazione interna (dovuta, ad esempio, a ingestione o inalazione di sostanze radioattive), ma del tutto innocue in caso di sorgente esterna. La dose efficace, che si misura in Sievert (Sv), è un parametro utile per stimare il potenziale danno biologico. Ovviamente resta una stima, perché la risposta del corpo umano alle radiazioni varia da individuo a individuo, ma ad oggi possiamo dire che non si hanno evidenze di effetti sulla salute umana per dosi inferiori a 100 mSv/anno (milli-Sievert all’anno). Al di sopra di questa soglia si ha un incremento (marginale, che cresce con la dose assorbita) della probabilità di contrarre tumori sul lungo termine. Gli effetti di un avvelenamento acuto da radiazioni invece richiedono dosi molto più elevate, dell’ordine delle centinaia di mSv all’ora. Per fortuna la radioattività con cui abbiamo a che fare quotidianamente si aggira su valori molto più bassi: i cibi più radioattivi che si trovano in commercio (banane e noci brasiliane) danno dosi dell’ordine della frazione di micro-Sievert − servirebbero diecimila banane al giorno per un anno per arrivare ad avere effetti misurabili sulla salute dovuti alla radioattività; una radiografia dà una dose di pochi microSv, mentre con una TAC si arriva a pochi mSv. In generale, la dose media che riceviamo dall’ambiente si aggira tra i 2 e i 3 mSv/anno e il limite di esposizione per il pubblico generale alla radioattività artificiale è di 1 mSv/anno. Alcune categorie professionali sono esposte a dosi più alte (ad esempio i piloti d’aereo, che passano molto più tempo in quota e sono dunque maggiormente esposti alla radiazione cosmica: per loro il limite fissato dai regolamenti internazionali è di 20 mSv/anno), ma ad oggi non risulta che queste categorie siano maggiormente affette da malattie oncologiche o comunque associabili alla radioattività.
Trova che l’energia nucleare possa costituire una scelta migliore rispetto ad altre fonti energetiche, dai combustibili fossili alle rinnovabili?
Dipende dal contesto, il mondo energetico è complicato. Però in generale occorre affiancare alle rinnovabili, che non sono disponibili sempre (il solare e l’eolico) o non sono disponibili ovunque (idroelettrico e geotermico), una fonte continua e a basse emissioni, e da questo punto di vista il nucleare resta la migliore opzione a nostra disposizione. Chiaramente, la quantità di centrali nucleari necessarie andrà ponderata in base alla disponibilità geografica di fonti rinnovabili: in Italia, ad esempio, abbiamo una discreta disponibilità per quanto riguarda i bacini idroelettrici, soprattutto sull’arco alpino, ma la maggior parte dei bacini utili è già sfruttata; abbiamo una discreta insolazione, soprattutto al sud Italia, il cui potenziale andrebbe aumentato potenziando le connessioni; siamo invece messi male per quanto riguarda l’eolico, dal momento che la dorsale alpina blocca le correnti continentali, il che ci lascia come unica opzione le turbine offshore. Combinando i numeri delle rinnovabili con le previsioni di evoluzione della domanda probabilmente sarebbe sufficiente coprire il 30% del fabbisogno di elettricità col nucleare per portare a termine gli obiettivi di decarbonizzazione.
A suo avviso, il potenziale catastrofico di un eventuale incidente nucleare renderebbe tale tecnologia un rischio inaccettabile?
Il potenziale catastrofico di un incidente nucleare oggi è inferiore a quello di una diga che crolla o di un incidente in un impianto chimico. E anche l’impatto degli incidenti passati (soprattutto Fukushima) è stato largamente esagerato dalla stampa, tanto che molta gente oggi ignora che a Fukushima non è morta neanche una persona per le radiazioni. Il nucleare in questo ambito soffre di quello che si chiama “paradosso dell’eccellenza”: gli incidenti nucleari sono rarissimi, ma proprio per questo vengono ricordati da tutti, tanto che chiunque saprebbe citare quali sono stati i più importanti. Viceversa, gli incidenti della filiera dei combustibili fossili (petroliere che si rovesciano, raffinerie che prendono fuoco, crolli o esplosioni nelle miniere di carbone, etc.) sono talmente comuni che ci abbiamo fatto l’abitudine, per non parlare poi delle morti da inquinamento. Nell’anno 2022 la maggior parte della prefettura di Fukushima è stata nuovamente dichiarata abitabile: dal 2011 al 2022 è stato giudicato che la radioattività ambientale più elevata della media rappresentava un rischio troppo grande. Ma se la prefettura di Fukushima non fosse mai stata evacuata, in questi 11 anni sarebbe comunque morta meno gente per la radioattività rispetto a quanta ne uccide l’inquinamento ogni giorno a Tokyo, solo che i morti da inquinamento abbiamo deciso che sono per qualche motivo più accettabili.
Quali potrebbero essere le conseguenze del peggior incidente nucleare possibile? E la frequenza con la quale potrebbe verificarsi un danno al nocciolo?
I reattori moderni hanno robusti edifici di contenimento e sistemi di sicurezza molto ridondanti. Il peggior caso possibile potrebbe essere una situazione simile a quella di Fukushima, dove si ha la fusione del nocciolo, ma senza danni all’ambiente o alla salute delle persone. Parliamo comunque di eventi rarissimi. Gli enti regolatori internazionali, che controllano e approvano ogni step di ogni progetto di reattore nucleare nel mondo, considerano, per la generazione attualmente sul mercato (la cosiddetta “terza generazione avanzata”), che un incidente con danno al nocciolo possa capitare con una frequenza che va da 10 -5 a 10 -7 eventi all’anno. In altre parole, per i reattori costruiti oggi si valuta che un incidente grave possa capitare una volta ogni 100.000 anni nella stima più pessimistica, una volta ogni 10 milioni di anni nella stima più ottimistica. Anche ammesso che un tale incidente si verificasse, vi sono ancora diverse barriere che separano una fusione del nocciolo da una contaminazione dell’ambiente esterno. Le centrali nucleari oggi sono letteralmente progettate per spegnersi in sicurezza anche nell’eventualità in cui tutti gli operatori cospirassero per provocare un incidente radiologico.
Qual è il rischio di contaminazione ambientale in relazione allo smaltimento di scorie nucleari?
In tutta la storia del nucleare civile questo evento non si è mai verificato (a differenza del nucleare militare o di tecnologie nucleari usate in medicina). Quindi direi che il rischio è prossimo allo zero. Si tratta di un non-problema: oggi nel mondo produciamo circa 10.000 tonnellate di scorie nucleari all’anno. Possono sembrare tante, ma in realtà si tratta di quantità estremamente modeste e per questo facili da tracciare e da gestire. Basti pensare che, solo in Europa, ogni anno produciamo 100 milioni di tonnellate di rifiuti tossici, molti dei quali estremamente pericolosi, e nessuno che non sia addetto ai lavori sa realmente come vengono trattati e smaltiti. Tutte le scorie nucleari prodotte nel mondo nella storia del nucleare civile riempirebbero un campo da calcio fino ad un’altezza di 6 metri. Trovare dei siti adeguati per lo stoccaggio è più un problema politico (occorre vincere la sindrome di NIMBY delle comunità locali) ed economico (occorre investire per un deposito che impiegherà secoli a riempirsi) che un reale problema ingegneristico o fisico.
Cosa si intende per riprocessamento?
Il riprocessamento è il recupero di isotopi fissili potenzialmente utili (soprattutto il Plutonio) dal combustibile esausto di un reattore nucleare. I paesi che oggi adottano questa pratica sono pochi (Francia, Russia, Giappone, Cina), perché è un procedimento costoso rispetto alla quantità di Plutonio riciclabile, soprattutto col prezzo dell’Uranio “vergine” che è ancora abbastanza basso sul mercato. Tuttavia, con l’avvento dei reattori di quarta generazione, sarà possibile recuperare e “bruciare” anche quegli isotopi a lunga emivita che oggi costituiscono la parte più problematica delle scorie nucleari. A parità di energia, i reattori di quarta generazione consumeranno dunque meno materia prima, producendo quindi meno rifiuti, e questi ultimi avranno una durata molto più breve.
Nel 2011 gli italiani si sono pronunciati, votando il quesito referendario numero 3, contro la produzione nel territorio nazionale di energia nucleare: un’occasione persa?
Sì, e ne stiamo pagando le conseguenze oggi, con le bollette alle stelle e un’esposizione tra le più alte in Europa alla dipendenza dalle forniture russe di gas, per fortuna in parte attenuata dalle politiche del governo Draghi. Se nel 2011 avessimo iniziato i lavori di costruzione di 6 reattori nucleari EPR, come previsto originariamente dal memorandum firmato con la Francia, oggi probabilmente almeno un paio sarebbero attivi, e ogni reattore sostituisce oltre un miliardo di metri cubi di gas all’anno solo per quanto riguarda la produzione di elettricità. Se a questo aggiungiamo la possibilità di utilizzare il calore di scarto per fare teleriscaldamento, i benefici aumentano ulteriormente. D’altronde, non è un segreto che i paesi che si sono ritrovati maggiormente esposti al ricatto russo sono stati proprio quelli che hanno abbandonato il nucleare: Italia, Germania ed Austria.
Completata la fusione nucleare presso la National Ignition Facility del Lawrence Livermore National Lab: quali prospettive si schiudono?
Dal punto di vista energetico, nessuna: gli esperimenti del NIF non sono mai stati orientati alla produzione di energia elettrica. Si tratta di esperimenti per il controllo delle reazioni nucleari tramite laser, che hanno applicazioni fisiche e militari molto importanti, ma non energetiche. La fusione a confinamento inerziale, da questo punto di vista, è ancora molto indietro. Arriverà prima quella a confinamento magnetico (ITER), ma ci vorranno ancora decenni, e bisognerà risolvere alcuni problemi non indifferenti, tra cui quello della produzione di Trizio, uno degli ingredienti chiave per la fusione: il Trizio in natura è praticamente inesistente, e produrlo è incredibilmente costoso. Con ITER si sperimenteranno dei moduli per cercare di produrlo dalla fissione del Litio-6, ma occorre che il processo sia straordinariamente efficiente. Altri problemi da non sottovalutare sono l’infragilimento dei materiali del contenimento, causato dal bombardamento neutronico, e la gestione dello stress termico su alcune componenti. Ovviamente il risultato del NIF è straordinariamente importante dal punto di vista scientifico, ma è sbagliato attendersi soluzioni tecnologiche a breve termine.
Riguardo il problema della nostra dipendenza energetica da altri Paesi, drammaticamente rimarcata dall’attuale conflitto in Ucraina, ritiene che il ricorso al nucleare civile potrebbe rappresentare una valida soluzione?
Sì. Il prezzo dell’energia nucleare dipende solo per il 2% dal prezzo dell’Uranio e tra i principali produttori di Uranio nel mondo vi sono due democrazie come Canada e Australia, per questo il nucleare garantisce stabilità di prezzi e non mette nelle condizioni di dipendere da paesi autocratici. Inoltre, l’Uranio è una risorsa abbastanza ben distribuita sulla crosta terrestre ed è 40 volte più abbondante dell’argento, per cui un aumento dei prezzi renderebbe conveniente l’estrazione in paesi dove oggi non si estrae (o non si estrae più) per motivi economici, e questo contribuisce a tenere i prezzi sotto controllo. In futuro, le risorse fissili si potranno ottenere anche dal combustibile riciclato (coi reattori di quarta generazione) o dall’acqua di mare (piccole quantità di uranio sono sciolte nell’acqua dell’oceano e sappiamo già come filtrarle: oggi questo procedimento è più costoso rispetto all’estrazione in miniera, ma un domani potrebbe diventare conveniente). Se tutto questo non dovesse bastare, è possibile anche sfruttare il Torio, un altro elemento radioattivo che, nelle giuste condizioni, può essere trasmutato in un isotopo fissile. Il Torio è 3-5 volte più abbondante dell’Uranio nella crosta terrestre, ma la ricerca sui reattori al Torio è iniziata più tardi, e quindi non è ancora un’alternativa economicamente competitiva; resta comunque una risorsa strategica che mette al riparo da speculazioni sul prezzo dell’Uranio.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/marzo di eastwest
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In Ucraina, tre guerre in una. Intervista esclusiva a Bill Emmott
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“Combattendo contro l’imperialismo russo, stiamo difendendo il diritto delle nazioni di scegliere il proprio destino, di essere sovrane e indipendenti e non temere di venire conquistate da altri Paesi più potenti. Ciò non costituisce specificamente uno scontro tra democrazia e autocrazia: si tratta, in verità, dello scontro tra imperialismo da una parte e il diritto di essere liberi e scegliere il proprio percorso dall’altra”. Il giornalista, saggista e consulente in affari internazionali britannico Bill Emmott compendia in queste parole la vera posta in gioco celata dietro l’aggressione militare all’Ucraina portata avanti dalla Russia di Putin, drammaticamente in corso dal 24 febbraio scorso.
Classe 1956, dal 1993 al 2006 direttore del settimanale inglese The Economist, Emmott è attualmente, Presidente di The Wake Up Foundation, organizzazione benefica co-fondata con la regista italiana Annalisa Piras e dedicata all’impiego di cinema e giornalismo come strumenti atti a comprendere e affrontare il declino delle società occidentali. Fra le sue altre attività, è Presidente del Consiglio di amministrazione del Long Room Hub Arts & Humanities Research Institute del Trinity College di Dublino, Presidente della Japan Society del Regno Unito, Charmain of the trustees dell’International Institute for Strategic Studies, nonché co-fondatore, insieme a Berel Rodal, della Global Commission for Post-Pandemic Policy, un gruppo apartitico e indipendente votato alla formulazione di raccomandazioni volte a rendere le società più resilienti in seguito alle crisi legate all’emergenza pandemica scaturite nel 2020. Per i servizi resi nell’alveo delle relazioni Giappone-Regno Unito, il Governo giapponese gli ha tributato nel 2016 l’Order of the Rising Sun: Gold Rays with Neck Ribbon.
Fra i tredici libri pubblicati sul Giappone, l’Asia, l’Italia e il XX secolo, ricordiamo almeno The Sun also Sets: Why Japan Will Not Be Number One (Simon & Schuster, 1989), Japan’s Global Reach: The Influences, Strategies, and Weaknesses of Japan’s Multinational Companies (Century, 1991), Asia contro Asia: Cina, India, Giappone e la nuova economia del potere, (Rizzoli, 2008), Forza Italia: come ripartire dopo Berlusconi (Rizzoli, 2010), Il destino dell’Occidente. Come salvare la migliore idea politica della storia (Marsilio, 2017) e Japan’s Far More Female Future, edito in giapponese nel 2019 e in inglese l’anno successivo. In sinergia con la summenzionata regista italiana Annalisa Piras, firma la realizzazione del documentario Girlfriend in a Coma (2012), lucida esplorazione della società e della politica italiana, manifestamente critico nei confronti dell’ex premier Silvio Berlusconi. Una sua presentazione inizialmente organizzata al MAXXI di Roma e prevista per il 13 febbraio 2013, è stata rinviata a dopo le elezioni politiche del 2013, suscitando le vive critiche dell’autore che ha parlato, in proposito, di censura.
Emmott, la Presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen ha detto, riferendosi al conflitto in corso, che “non si tratta solo dell’Ucraina, è uno scontro tra due mondi, due sistemi di valori”. È d’accordo?
Sì. La guerra in Ucraina rappresenta uno scontro tra due sistemi di valori. Dobbiamo tuttavia prestare attenzione nel definire quali sono le tipologie di valori cui ci stiamo riferendo. Il sistema di valori russo – come dimostrato dal 2008 in Georgia e Ucraina – sembra tradursi nella convinzione che il potere sia tutto, che i forti abbiano diritto di fare quello che vogliono e che la sovranità nazionale, nel migliore dei casi, rappresenti una mera preoccupazione secondaria. Chiamare i valori russi “autocratici” o “autoritari” non è sufficiente a giustificare questo diritto: la realtà è che i valori della Russia sono imperialisti, ovvero valori di costruzione dell’impero. L’Unione europea e il Regno Unito hanno entrambi abbandonato questa visione dopo il 1945, smantellando i propri imperi europei, mentre la Russia sta ora cercando di ricostruire il suo.
Lei ha scritto che in Ucraina si stiano combattendo “tre guerre in una”. Potrebbe ripercorrere i punti nodali della sua riflessione?
La guerra in Ucraina, a mio avviso, deve essere considerata come “tre guerre in una” per il seguente ordine di motivi. In primo luogo, si tratta di un conflitto militare diretto tra un Paese invasore, la Russia, e un altro Paese costretto a difendersi, l’Ucraina. Secondariamente, è una guerra per procura tra l’Occidente – principalmente la Nato – e la Russia, in quanto i Paesi della Nato stanno fornendo armi e altro materiale bellico impiegato da Kiev nella sua lotta per la sopravvivenza. Anche se la Nato vuole evitare un conflitto diretto con una superpotenza nucleare, si sta comunque scontrando con Mosca utilizzando l’Ucraina come proprio delegato. Infine, l’attuale conflitto ha prodotto una nuova Guerra Fredda, che probabilmente durerà ancora a lungo dopo che lo scontro militare vero e proprio sarà cessato, dato che, attraverso sanzioni e altre misure, l’Occidente sta cercando di isolare e contenere la Russia probabilmente per i decenni a venire, tentando di convincere altri Paesi in tutto il mondo a sostenere questa politica di isolamento.
Il Ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov si è detto deluso dagli Usa su Kiev. Ravvisa responsabilità e interessi speciali da parte americana in relazione alla guerra in Ucraina?
Il Ministro degli Esteri Lavrov può essere considerato l’equivalente russo di ciò che Joseph Goebbels ha rappresentato per Hitler: è il capo della propaganda, qualcuno che crede nell’impiego di “Grandi Bugie” se ritiene che esse servano agli scopi del Presidente Putin. Tutto ciò che dichiara come ‘responsabilità’ degli Stati Uniti in Ucraina deve essere giudicato parte di questa “Grande Bugia”. Ovvio, coltivo sempre la speranza che gli Stati Uniti contrastino l’imperialismo di una superpotenza come la Russia. Questo è quanto hanno fatto in Ucraina. Piuttosto che perseguire l’espansione della Nato, come sostiene Lavrov, l’America si è opposta – come anche Francia e Germania – al piano di Kiev di avanzare domanda di adesione alla Nato quando questo progetto è stato evocato nel 2008. Per questa loro posizione, ha ricevuto il plauso dell’allora Presidente Dmitri Medvedev. Gli Usa hanno reagito in maniera moderata sia in occasione della conquista russa della Crimea nel 2014 che quando i militari russi intervennero segretamente nella regione del Donbass. In effetti, l’Ucraina ha buone ragioni di lamentarsi di essere stata trascurata dagli Stati Uniti, che costituisce esattamente l’opposto di quanto rivendicato dalla “Grande Bugia” di Lavrov.
Finlandia e Svezia pronte a chiedere di entrare nella Nato: una provocazione per la Russia?
A nessuno dovrebbe importare cosa pensa Mosca riguardo la candidatura alla Nato della Finlandia e della Svezia. Se, come mi aspetto, sceglieranno di proseguire su questo percorso, la ragione sarà che sono state indotte a farlo proprio a causa della guerra provocata dalla Russia in Ucraina. Anche Mosca, tuttavia, ha ormai da molti anni condotto diverse manovre navali, provocatorie e segrete, lungo le coste della Finlandia e della Svezia. La Russia è la provocatrice. Le minacce russe di porre fine allo status di zona denuclearizzata del Mar Baltico suonano vuote e false: essa, infatti, ha da tempo infranto quel presunto status.
Riguardo l’approvvigionamento italiano ed europeo di gas e petrolio, quanto dureranno le ripercussioni dovute al conflitto in Ucraina e fino a che punto esse eroderanno il fronte comune dei Paesi europei?
Credo che le ripercussioni del conflitto in Ucraina dureranno per molti anni a venire. Il conflitto diretto potrebbe concludersi entro sei mesi, ma non è probabile che si arriverà a individuare una soluzione a lungo termine. Così, ogni governo europeo che ritiene che la questione di inviare centinaia di milioni di euro ogni giorno alla Russia per il suo petrolio e per il suo gas – finanziando in effetti il nemico in quello che, come ha rilevato l’onorevole Von der Leyen, appare come un conflitto di valori – diventerà più facile da sciogliere in un arco di tempo di pochi mesi, è colpevole di auto-illusione. Ogni giorno che passa, con gli acquirenti italiani e di altri Paesi che inviano centinaia di milioni di euro alla Russia, si traduce nella morte di un maggior numero di ucraini e in un ulteriore protrarsi della guerra. Per far finire prima questo conflitto occorre che i Paesi europei smettano di finanziare il bilancio russo attraverso l’acquisto di gas e petrolio.
Il Presidente russo Vladimir Putin afferma che “nel mondo moderno è impossibile isolare completamente un Paese vasto come il nostro”. Ritiene che, una volta finita la guerra, la Russia sarà realmente esclusa dalle relazioni internazionali sul versante sia politico che commerciale?
Nessun Paese può essere completamente isolato, ma di certo è possibile erigere una nuova “cortina di ferro” attorno alla Russia, separandola dall’Europa, dal Nord America e dal resto dell’Occidente e bloccando la sua partecipazione ad alcuni importanti tavoli internazionali. Questo sta già accadendo, nonostante Mosca continui ovviamente a commerciare in armi ed energia con i suoi mercati tradizionali, come ad esempio l’India e il suo “partner strategico”, ovvero la Cina. Cosa accadrà nel lungo termine dipenderà dal fatto che Vladimir Putin – o chiunque condivida i suoi obiettivi – continuerà a governare la Russia dal Cremlino o se, invece, si verificherà la possibilità di qualche tipo di cambiamento. Solo attraverso un cambiamento di ampio respiro, alla fine della guerra sarà possibile evitare una nuova “cortina di ferro”.
Come giudica la posizione della Cina in merito?
La Russia e la Cina sono accomunate da quella che hanno definito “alliance of the aggrieved” [“alleanza dei danneggiati”, ndr.], come specificato in una lunga e dettagliata dichiarazione del 4 febbraio. Condividono l’interesse di ridurre il dominio occidentale. Putin ha, con tutta evidenza, ritardato la sua invasione fin dopo la fine delle Olimpiadi di Pechino. Tuttavia, la Cina ha reagito in modo piuttosto tiepido all’aggressione militare della Russia ed è improbabile che le fornisca un sostegno diretto, il che suggerisce che trova le sue azioni disagevoli. In ogni caso, Pechino non si opporrà, in quanto è consapevole che, qualunque sia il risultato finale, sarà probabilmente in grado di trattare la Russia alla stregua di uno stato vassallo, chiaramente inferiore e dipendente. La Cina pensa solo ai propri interessi nazionali: di conseguenza, mentre è lieta che l’attenzione degli Stati Uniti e dell’Occidente sia deviata verso l’Europa piuttosto che verso l’Asia, non nutre alcun interesse nel venire coinvolta ulteriormente. Ha già i suoi problemi da affrontare, Covid in primis.
Il Presidente Putin dichiara che “le autorità di Kiev, spinte dall’Occidente, si sono rifiutate di rispettare gli accordi di Minsk volti a una soluzione pacifica dei problemi del Donbass”. Pensa che, alla fine, Putin guadagnerà il Donbass abbandonando il progetto iniziale di “denazificare” l’intera Ucraina?
Gli accordi di Minsk del 2014 sono stati infranti sia da Mosca che da Kiev, poiché nessuna delle due parti ha rispettato gli impegni di cessare le operazioni militari, ritirare tutti i mercenari stranieri, fermare i voli con aerei da combattimento o rimuovere l’artiglieria pesante nelle linee concordate. È estremamente offensivo utilizzare il termine “denazificare”, dal momento che questo presunto scopo costituisce una pura bugia di propaganda in stile Goebbels. Non è possibile prevedere cosa accadrà nel Donbass durante l’attuale conflitto, anche se la tendenza attuale suggerisce che Putin potrebbe finire per conquistare solo una parte della regione. Certamente, non potrà conquistare l’Ucraina nella sua interezza nel corso della guerra, anche se non abbandonerà questo obiettivo per tutto il tempo che resterà al potere.
Durante i negoziati a Istanbul, Kiev ha auspicato la creazione di un gruppo di Stati – fra cui anche l’Italia – a garanzia di una pace dopo la fine del conflitto. La persuade questa possibilità?
Quando si raggiungerà una pace credibile, o almeno un cessate il fuoco, diventerà necessario invitare e concordare una forza internazionale di peacekeeper per aiutare la polizia nell’affrontare i problemi, specialmente nel Donbass. Dubito che tale gruppo possa essere composto da Paesi della Nato come l’Italia, a meno che il conflitto non si concluderà con una sconfitta totale della Russia. Una sorta di gruppo sul modello delle Nazioni Unite è molto più probabile. Ci sarebbe inoltre bisogno di accordo da entrambe le parti.
Il Presidente americano Joe Biden vorrebbe processare Putin per “crimini di guerra”, mentre il Presidente ucraino Volodymyr Zelensky evoca una nuova Norimberga. Crede che si potrà arrivare infine a un processo alla Corte Internazionale dell’Aia o, addirittura, a trascinare in aula lo stesso Presidente russo?
Un tribunale in stile Norimberga potrebbe concretizzarsi solo nel caso di una sconfitta completa della Russia e con la sostituzione del regime di Putin con una nuova classe dirigente, incentivata a epurare i propri predecessori attraverso un processo per crimini di guerra. A meno che ciò non accada, chiedere un processo per “crimini di guerra” rimarrà un atto puramente simbolico: giustificato moralmente e legalmente, ma in termini politici e pratici puramente simbolico.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
Mario Draghi, un anno da Premier
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“Immagino che Draghi abbia in mente di portare avanti un processo profondo di riforma che consenta all’Italia di modernizzarsi, concentrandosi in particolar modo su alcuni punti ben precisi: giustizia, fisco, mercato del lavoro. Il tema delle riforme è sempre stato di attualità, nonostante, alla fine, sia rimasto sempre solo sulla carta”. Il giornalista ed economista Marco Cecchini riflette sulle sfide portate avanti dal governo di Mario Draghi – che il 13 febbraio dell’anno corrente compie il suo primo anno di vita –, in bilico fra la salda determinazione a intraprendere un compiuto percorso di riforme e gli equilibri fragili dei partiti. Nel suo nuovo libro, Un anno da Draghi. La metamorfosi di un banchiere (Fazi editore, 2022), analizza le motivazioni che lo hanno portato a porsi alla guida di un Paese al collasso, vestendo quegli abiti da politico che in passato aveva sempre rifiutato: “qualcosa di più di un tecnocrate che risolve problemi”.
Ascolta l’intervista a Marco Cecchini sul libro L’enigma Draghi.
“Il bilancio dei primi undici mesi di governo Draghi – scrive Cecchini – presenta un saldo positivo. La pandemia non è finita, ma perlomeno è stata ricondotta nell’alveo di una maggiore gestibilità grazie a un’ottima campagna vaccinale; Bruxelles ha dato il suo via libera al Pnrr; l’economia è in ripresa oltre le più rosee aspettative; la fiducia dell’estero nell’Italia è ristabilita e dulcis in fundo Standard & Poor’s ha migliorato la valutazione del debito italiano. Ma alcuni non secondari problemi restano aperti e, come ha scritto The Economist in un articolo peraltro meno scettico dei precedenti, il tempo stringe””.
Approdato al giornalismo come collaboratore del Sole 24 Ore e inviato di economia internazionale per il Corriere della Sera nonché, in passato, capo dell’ufficio stampa del Ministero dell’Economia e responsabile delle Relazioni Esterne dell’IVASS, l’authority assicurativa collegata alla Banca d’Italia, Marco Cecchini ha dedicato all’ex Presidente della Bce anche il precedente saggio, L’enigma Draghi (Fazi Editore, 2020), con la prefazione di Giuliano Amato.
Cecchini, in passato, nonostante le sollecitazioni di Prodi nel 2006 e Napolitano nel 2015, Draghi si è sempre rifiutato di scendere nell’agone politico. In una recente conferenza stampa, ha affermato, rispondendo a chi lo vorrebbe futuro federatore dei gruppi di centro: “Se decidessi di lavorare, un lavoro lo trovo da solo”. Dobbiamo intendere questo suo premierato come una parentesi politica non replicabile?
Draghi è un uomo d’azione: persegue una missione, nonostante il suo percorso, adesso, dipenda ovviamente dalla maggioranza che lo sostiene. Mi pare giustamente irritato dalle diverse voci e illazioni sul suo destino futuro; quindi ha reciso in modo netto ogni possibile riferimento come federatore o candidato Presidente di una parte politica. Non credo che queste voci si fermeranno, ma, in ogni caso, il destino di Draghi si deciderà nel marzo del prossimo anno dopo le elezioni politiche. Il resto sono tutte speculazioni che non aiutano.
Si cominciano a rivelare discrepanze e fibrillazioni all’interno della maggioranza di governo. Lo stesso Draghi ha parlato di “vedute diverse”, escludendo comunque possibili rimpasti. Crede che questa maggioranza continuerà inalterata il suo percorso?
La maggioranza dipende dai partiti. Credo che oggi, dopo le elezioni per il Quirinale, Draghi sia nella condizione di dire: prendere o lasciare. Sarebbe inutile che lui stesse lì ad accettare troppi compromessi per poi arrivare fra un anno a ottenere soltanto risultati opachi. Ha sicuramente tutto l’interesse ad assumere posizioni nette e a passare la responsabilità di un’eventuale rottura della maggioranza ai partiti, i quali penso che non arriverebbero a tanto: dovranno accettare le decisioni di Draghi, magari con qualche piccolo ritocco o correzione che gli consenta di presentarsi al proprio elettorato enfatizzando questo o quel punto, ma senza snaturare la sostanza.
Ritiene che lo spirito pragmatico di Draghi e il suo approccio comunicativo molto diretto ed essenziale possano aver spiazzato i partiti tradizionali?
In un certo senso sì. Certamente questo decisionismo di Draghi, che tutti si aspettavano, ha avuto dei riflessi sui partiti ridimensionandone il ruolo, mentre loro sono soprattutto in cerca di visibilità, specialmente negli ultimi mesi che precedono una campagna elettorale importante. È però questo ciò che deve fare Draghi, altrimenti non avrebbe alcun senso: se dovesse mediare continuamente non sarebbe più una personalità chiamata da fuori per risolvere dei problemi ma diventerebbe un attore politico a tutto tondo, passando dalla politica alta che guarda al medio e lungo termine, accettandone i rischi connessi, alla politica politicante interessata soprattutto ai sondaggi e ai risultati delle prossime elezioni.
Vede la mancata elezione di Draghi al Colle come una rivalsa della politica?
Nonostante qualcuno potesse temere che la presenza di Draghi per sette anni ai vertici dello Stato avrebbe potuto comportare una sorta di semipresidenzialismo de facto, io la vedo come una sconfitta per il Paese. Nonostante sia l’esecutivo che assume le decisioni fondamentali, penso che Draghi al Quirinale avrebbe potuto influire anche sulle successive scelte di governo, orientandole in una direzione ben precisa.
Trova che la sua immagine ne sia uscita in qualche modo scalfita?
In un certo senso sì: nella sua storia Draghi ha sempre vinto. Per il lavoro svolto al Tesoro, dove è stato per dieci anni, si è imposto all’attenzione dei media e delle istituzioni internazionali. La Goldman Sachs ha rappresentato per Draghi un ripiego, nel senso che ormai il ciclo al Tesoro era concluso, i rapporti con Tremonti non erano idilliaci e, alla fine, ha preferito una grande banca privata piuttosto che rimanere in un’istituzione pubblica italiana in un contesto politico con cui lui non si trovava in sintonia, proprio per la qualità dei programmi che quella maggioranza portava avanti. Ma, come dice Prodi, Draghi è nato banchiere centrale. La Bce ha rappresentato un’altra vittoria: qui la sua statura è cresciuta enormemente e Draghi è diventato un leader mondiale.
Poi ha dovuto fare i conti con la politica italiana…
Il leader mondiale si è dovuto misurare con il barocchismo della politica italiana, con un sistema politico che favorisce la frammentazione, l’immobilismo e l’assenza di decisioni: un contesto molto diverso da quello delle istituzioni internazionali, tecnocratiche e multilaterali. Non era nei suoi piani fare il Presidente del Consiglio, consapevole che avrebbe dovuto confrontarsi con un ambiente che non era il suo: l’ha fatto solo per senso di responsabilità e perché è stato chiamato a farlo. Per quanto riguarda la sua immagine, il tempo passa e la memoria del salvatore dell’euro comincia a sfumare. Tuttavia, credo che a marzo del 2023 riuscirà a presentarsi come l’uomo che ha imposto all’Italia una serie di riforme di qualità che servivano al Paese da anni.
Debito e Pnrr: come giudica l’approccio del Draghi premier? In conformità con quanto da lui scritto nell’agosto scorso sul Financial Times?
Non bisogna mai dimenticare che Draghi nasce come keynesiano – attenzione alla crescita, al problema delle disuguaglianze, al merito, all’equità sociale, all’inflazione – ma è anche un eclettico: l’impronta keynesiana è stata, nel corso degli anni, moderata da un forte interesse nei riguardi del funzionamento dei mercati finanziari. Oggi il Draghi keynesiano si è ritrovato a fare i conti con una corrente di pensiero economico che ha rivalutato il ruolo della crescita come elemento di riduzione del debito. Ricorre, quindi, congiuntamente a un’azione pubblica – non tutta focalizzata sul deficit – e a provvedimenti inerenti l’offerta – per esempio attraverso una riforma della concorrenza – che consentano, insieme ad altre riforme, di aumentare la produttività del sistema. In questo modo, le riforme aiutano la crescita e la crescita, a sua volta, aiuta la riduzione del debito.
Un significativo cambio di prospettiva…
Prima era diffusa l’idea che la sostenibilità dipendesse dal livello dei tassi d’interesse, e quindi dal livello del deficit, oggi il pensiero generale è che la crescita renda sostenibile il debito: si possono anche avere tassi d’interesse alti, ma con la crescita il debito si riduce. Questo è quanto è avvenuto negli ultimi due anni.
Intendimenti come il rifiuto di ricorrere a un nuovo scostamento di bilancio per far fronte al caro energia, ci mostrano un Draghi maggiormente prudente?
Il contesto è mutato: l’inflazione, che si giudicava temporanea, ci accompagnerà a lungo. L’atteggiamento delle banche centrali, a partire dalla Federal Reserve, comincia a essere orientato a un contenimento della liquidità. Essendo cambiato il contesto, l’Italia non può permettersi di aumentare eccessivamente il proprio debito pubblico. Il debito impiegato per aumentare la crescita è stato utilizzato da una parte per finanziare investimenti e dall’altra per consumi e spesa corrente. Quest’ultima va tenuta a freno. Il debito buono, quello riservato a finanziare investimenti, può crescere, ma quello cattivo, indirizzato alla spesa corrente, va contenuto.
Draghi e la pandemia: come giudica il suo operato in questo campo?
A mio avviso, la somma totale è positiva. Prima di Draghi, vi era stata una gestione della crisi pandemica ondivaga e priva di una strategia precisa: la questione dei banchi a rotelle e dell’acquisto delle mascherine hanno dimostrato un evidente pressapochismo. La mossa di puntare su un uomo esperto in logistica come il generale Figliuolo ha fatto partire la campagna vaccinale. All’arrivo di Draghi, i problemi principali erano due, ovvero far arrivare i vaccini senza disperderli – di qui il blocco dei vaccini Astra Zeneca destinati all’Australia – e far partire la campagna vaccinale: ambedue sono stati risolti. La variante Omicron ha rimescolato le carte, ma, grazie anche ai progressi della scienza e alla posizione netta adottata dal governo sui vaccini, ci troviamo in una situazione ben diversa rispetto a un anno fa.
Lei ha scritto che Conte “ha sempre sofferto l’autorevolezza di Draghi”, mentre Draghi “in conversazioni private ha dimostrato di averne scarsa stima”. Come giudica il rapporto fra i due?
Permane questa difficoltà a capirsi fra due uomini che hanno storie molto diverse. Conte ha intuito fin da subito, da quando Draghi ha lasciato la Bce, che potesse rappresentare un suo temibile concorrente, in quanto figura di alto livello e, quindi, personaggio ‘ingombrante’ per la politica italiana. Ha cercato di proporgli incarichi esterni, come la Presidenza della Commissione europea, per poi, al suo diniego, rivelarne la risposta: “sono stanco”. Un’operazione maldestra per far intuire come l’ex presidente della Bce fosse ormai fuori dai giochi e da incarichi operativi. Non credo che, da parte sua, Draghi abbia apprezzato questa uscita e questo modo di fare e mi risulta che non sia stato molto tenero nei giudizi su Conte in alcune conversazioni private.
A livello internazionale, in cosa il governo Draghi marca delle differenze rispetto ai due governi guidati da Conte?
La principale differenza risiede nello schierarsi in modo netto nel campo atlantico occidentale a difesa dei valori delle economie e delle democrazie liberali. La sua posizione è molto netta su Cina e Russia. Non ha mancato di fare dichiarazioni al riguardo. Dopo il Consiglio europeo che doveva decidere le sanzioni alla Bielorussia, ad esempio, ha criticato in un commento pubblico la Russia per le sue politiche di interferenza, per gli attacchi hacker e per lo spionaggio. Non dimentichiamo, inoltre, le dichiarazioni dedicate a Erdogan e l’abbandono dell’accordo sulla Via della Seta che era stato firmato dal governo gialloverde. Cambio di posizione anche sulle sanzioni: con Draghi la scelta di campo è inequivocabile.
Ritiene che anche sulla questione ucraina mantenga una prospettiva accentuatamente atlantista?
Assolutamente. Addirittura più in linea sulle posizioni americane che europee, più vicino alla condotta apparentemente rigida di Biden. In questo campo la politica si fonda molto sulla comunicazione, sullo sfoggio di atteggiamenti di facciata mentre, dietro le quinte, avvengono colloqui, negoziati, ricerche di dialogo.
I rapporti e le relazioni europee stanno cambiando: in Germania alla Merkel è subentrato il socialdemocratico Olaf Scholz mentre si avvicinano le elezioni francesi. Cosa dovremo attenderci in futuro?
Negli ultimi mesi si è creato un asse franco-italiano: il passo successivo dovrebbe essere quello di stipulare un trattato simile a quello del Quirinale tra Germania e Italia. Sembra che l’auspicio di tutti sia di arrivare ad una sorta di triangolazione Parigi-Roma-Berlino. Il punto, tuttavia, è che il destino di Macron non è ancora chiaro e lo stesso Draghi ha davanti a sé dodici mesi. Il nuovo governo tedesco di coalizione – che include tre anime diverse, quella ambientalista dei Verdi, quella liberale e quella socialdemocratica della Spd – è ancora tutto da scoprire. In questo scenario, Draghi potrebbe, nel ruolo di Presidente del Consiglio italiano o in quello di incaricato al vertice di una istituzione europea, giocare una sua partita. Nel 2024 scade il mandato del Presidente del Consiglio europeo, ruolo destinato ad ex premier: Draghi, qualora fosse la sua aspirazione, potrebbe ricoprirlo in futuro.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
“Patrick Zaki libero, ma bisogna continuare a vigilare!”: intervista all’amico fraterno
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“Siamo stati molto sollevati dal fatto che, dopo più di 650 giorni, Patrick ha dormito nel suo letto e non sul pavimento. Ha potuto trascorrere finalmente del tempo con la sua famiglia e gli amici. Ma siamo molto cauti nei confronti di quello che potrebbe succedere. Non dimentichiamoci che il processo è ancora in corso”. Non nasconde l’emozione Mohamed Hazem Abbas, amico fraterno di Patrick Zaki, alla notizia della scarcerazione del ricercatore, avvenuta l’8 dicembre dopo 22 mesi di detenzione preventiva in un carcere del Cairo.
Scarcerato ma non ancora assolto: cosa c’è da temere?
Vi sono tre scenari che potrebbero verificarsi: nel primo – lo scenario peggiore – Patrick subirà una dura sentenza; nel secondo, otterrà una condanna di due anni che non sconterà, in quanto ha già trascorso lo stesso lasso di tempo in custodia cautelare; nel terzo – lo scenario migliore – Patrick viene assolto e tutte le accuse ritirate. Il primo scenario è quello che temiamo maggiormente.
Siete ottimisti riguardo la prossima udienza?
Se saremo capaci di mantenere alta la pressione sul Governo egiziano, il primo febbraio potrebbe arrivare qualche bella notizia, ovvero lo scenario migliore fra quelli descritti in precedenza.
Cosa dovrebbe fare l’Italia per aiutare Patrick?
Continuare a incalzare e sollecitare con determinazione affinché cadano le accuse mosse contro di lui e si smetta di tormentarlo: in assenza di ciò, non ci sono garanzie che Patrick rimanga fuori di prigione.
Zaki è stato in prigione dal 7 febbraio 2020 per “diffusione di notizie false, incitamento alla protesta e istigazione alla violenza e ai crimini terroristici”. Quali sono, a suo avviso, le vere ragioni dietro la sua detenzione?
Secondo me, una delle principali ragioni per cui Patrick e migliaia di altri attivisti sono stati perseguiti è la loro partecipazione alla rivoluzione del 25 gennaio 2011. Esiste un modello di rappresaglia continua contro chiunque abbia preso parte a qualcosa di collegato alla rivoluzione egiziana. Patrick, inoltre, è un attivista politico e per i diritti umani e, infine, uno dei pochi attivisti cristiani copti che hanno deciso di non seguire il percorso tracciato per loro dalla chiesa in conformità ai dettami dello Stato.
Lei è un amico fraterno di Patrick Zaki: come lo descriverebbe?
Patrick è un narratore divertente e talentuoso. È anche una persona molto sincera e premurosa verso tutti coloro che lo circondano. I due anni che ha trascorso in prigione sono stati davvero molto difficili per tutti i suoi amici perché hanno segnato un vuoto nelle loro vite.
Zaki ha chiesto: “non dimenticatevi di me e dei 60mila prigionieri egiziani”. La situazione dei diritti civili in Egitto è davvero così drammatica?
Preferisco chiamarla tragica piuttosto che drammatica. Dal colpo di Stato militare del 2013, decine di migliaia di attivisti politici sono stati arrestati, mentre ci sono stati oltre 3000 casi di sparizioni forzate. Le condizioni carcerarie in Egitto sono terribili: i detenuti non hanno accesso all’acqua pulita, a una corretta alimentazione, a esercizio fisico o ricambio d’aria. In alcuni casi, la negligenza medica ha portato alla morte delle persone. Le prigioni sono così sovraffollate che lo Stato ne costruisce sempre di più quasi ogni anno.
La catastrofe climatica. Intervista esclusiva a Mark Lynas
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“Già oggi – annota l’attivista Mark Lynas nella prefazione del volume Il nostro ultimo avvertimento. Sei gradi di emergenza climatica, recentemente pubblicato da Fazi Editore nella traduzione di Michele Zurlo – viviamo in un mondo che è un grado più caldo rispetto a quello in cui hanno vissuto i nostri nonni e genitori. E all’orizzonte, non troppo lontano, incombono i due gradi Celsius che metteranno in difficoltà le società umane e che distruggeranno molti ecosistemi naturali, tra cui le foreste pluviali e le barriere coralline. Adesso sono certo che, una volta raggiunti i tre gradi, la stabilità della civiltà umana verrà messa seriamente in pericolo, mentre a quattro gradi è probabile che le società umane andranno incontro a un collasso su scala globale, accompagnato da un’estinzione di massa della biosfera che rappresenterà l’evento peggiore per decine, se non centinaia di milioni di anni. A cinque gradi, assisteremo al verificarsi di retroazioni positive di portata enorme, che causeranno un ulteriore innalzamento delle temperature, e a impatti climatici talmente estremi da rendere la maggior parte del pianeta biologicamente invivibile, mentre gli esseri umani saranno costretti a condurre un’esistenza precaria all’interno di piccoli rifugi. Infine, raggiunti i sei gradi, rischieremo di innescare un processo di surriscaldamento fuori controllo, che potrebbe portare all’estinzione completa della biosfera e distruggere per sempre la capacità di questo pianeta di offrire le condizioni che rendono possibile la vita”.
Un quadro inclemente, di drammatica attendibilità, che muta senza arresto. “Anche mentre redigevo questo libro – testimonia – ho potuto osservare come l’emergenza climatica continuasse ad aumentare. Quando avevo iniziato a scrivere, l’Australia era ancora un paese normale. Oggi invece, dopo i devastanti roghi del gennaio 2020 seguiti alle temperature eccezionalmente elevate che hanno riarso una nazione già colpita dalla siccità, normale non lo è più. Per settimane, milioni di australiani hanno dovuto vivere sotto una coltre di fumo, mentre 12 milioni di ettari di boscaglia e di terreni agricoli venivano inceneriti da mega incendi catastrofici. Di per sé il bilancio delle vittime, che attualmente registra trentatré morti, risulta già abbastanza tragico. Tuttavia, oltre a esso occorre tenere conto del miliardo di animali selvatici che, secondo le stime, sono periti allo stesso modo. E va inoltre ricordato che per questo paese non potrà più esservi un ritorno alla normalità. La normalità è finita, per sempre”.
Un quadro, tuttavia, che potrebbe essere ancora modificato in ragione di una prospettiva meno esiziale, attraverso un impegno congiunto e decisivo: “Non sono in grado di affermare con precisione quando, in futuro, il pianeta raggiungerà i vari livelli di temperatura. Ciò non è da imputarsi tanto all’incertezza della scienza – sebbene, in una certa misura, essa lo sia – quanto al fatto che la rapidità del surriscaldamento che avverrà in questo secolo dipenderà dalle decisioni ancora da prendere in merito a quanto e con che velocità continueranno ad aumentare le emissioni di carbonio. Se verrà mantenuta quella che oggi è la normale traiettoria, potremmo andare incontro a un innalzamento di due gradi già all’inizio degli anni Trenta, di tre gradi intorno alla metà del secolo e di quattro gradi all’incirca entro il 2075. Se, malauguratamente, dovessero innescarsi le retroazioni positive prodotte dallo scongelamento del permafrost nell’Artide o dal collasso delle foreste pluviali, a quel punto potremmo arrivare a cinque o persino sei gradi entro la fine del secolo. Al contrario, se i politici metteranno in atto degli sforzi seri e convinti per raggiungere gli obiettivi di Parigi, e se in accordo con tali sforzi gli Stati Uniti torneranno sui propri passi, prima che si chiuda questo secolo saremo ancora nelle condizioni di evitare che la temperatura aumenti di due gradi e di scongiurare completamente che si innalzi fino a tre o più gradi”.
Giornalista, scrittore – fra i suoi libri precedenti ricordiamo almeno Sei gradi. La sconvolgente verità sul riscaldamento globale (Fazi Editore, 2008) – ed esperto del settore, Lynas, avvalendosi dei più recenti studi di climatologia, delinea, grado per grado, le possibili conseguenze del riscaldamento globale e della catastrofe climatica ad esso collegata, nel segno di un coerente realismo che non tracima mai in una disperante rassegnazione. “Fate dei figli, – scrive – amateli, e poi lottate per il loro futuro con tutti voi stessi. Per me i profeti di sventura non sono migliori dei mercanti di dubbi. In ogni caso, addoloratevi pure per ciò che è andato perduto, ma convogliate quella pena emotiva nella determinazione, nella fermezza e in una speranza rinnovata”. Speranza che va, infatti, rinnovata anno dopo anno attraverso misure concrete e appuntamenti tematici ricorrenti, come ad esempio la Conferenza delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici, la cui XXVI edizione, svoltasi a Glasgow dal 31 ottobre al 12 novembre 2021 sotto la presidenza del Regno Unito in partenariato con l’Italia, è stata presieduta da Alok Sharma, Segretario di Stato britannico per gli affari economici, l’energia e la strategia industriale. Lynas vi ha partecipato come delegato per il Bangladesh, collaborando anche con l’ex Presidente delle Maldive, Mohamed Nasheed, per il Climate Vulnerable Forum, che riunisce 48 Paesi in via di sviluppo vulnerabili ai cambiamenti climatici (oltre a Bangldesh e Maldive, figurano anche Tanzania, Filippine e tanti altri).
Lynas, lei ha preso parte alla recente Cop26. Come giudica l’esito della conferenza?
Gli esiti della conferenza, come sempre avviene, sono stati alquanto eterogenei. Per certi versi, la si potrebbe considerare un grande successo: prima della Cop26, l’aumento di temperatura previsto in riferimento alle emissioni future di carbonio era valutato in 2,7° C. Successivamente, in seguito ai nuovi accordi e impegni presi durante la conferenza, tale aumento potrebbe essere ridotto a soli 1,8° C, non troppo distante dall’obiettivo fissato a Parigi nel 2015 di rimanere sotto 1,5° C. Il problema, naturalmente, è che si tratta ancora soltanto di impegni scritti sulla carta: dobbiamo ancora stimarne gli effetti nel mondo reale e il loro effettivo impatto sulle emissioni.
Come valuta il contributo delle organizzazioni multilaterali (G20, ONU, Cop26, ecc…) per quanto concerne il miglioramento della situazione ambientale?
Tutte queste organizzazioni multilaterali appaiono estremamente tediose fino al momento in cui non si immagina un mondo senza di loro: allora diventa subito chiaro come, in un tale scenario, regnerebbe soltanto l’anarchia e non sarebbero previsti procedimenti di alcun tipo per affrontare collettivamente i problemi ambientali in un contesto internazionale. L’ONU potrebbe sembrare alquanto burocratica e anche molto lenta, ma questo perché include tutti, è nella natura stessa del processo organizzativo. Siamo però consapevoli del fatto che può anche portare a risultati positivi e concreti: il protocollo sull’ozono ha avuto successo, e anche quello relativo al clima potrà averlo.
Ritiene che gli obiettivi fissati negli Accordi di Parigi siano ora troppo difficili da raggiungere?
È davvero molto improbabile che riusciremo a raggiungere l’obiettivo di Parigi di mantenere le temperature non sopra 1,5° C: ciò richiederebbe una riduzione della metà delle emissioni di carbonio entro i prossimi otto anni, condizione che sembra quasi impossibile poter soddisfare. Tuttavia, c’è poco da guadagnare da una totale rinuncia a percorrere questa direzione, in quanto, anche se non potremo conseguire l’obiettivo di 1,5° C, i benefici derivanti dalla determinazione profusa nel tentare di raggiungerlo sono comunque incommensurabili.
Dalla prima edizione del suo libro, pubblicato nel 2007, la temperatura globale è aumentata di 1° C. Quanto velocemente stima che potrà aumentare ancora?
Quando il mio primo libro, Sei gradi, è stato pubblicato nel 2007, ci mantenevamo ancora sotto un grado al di sopra dei livelli pre-industriali. Nel 2015 abbiamo superato quella linea e siamo entrati a far parte dello scenario da me preso in esame nel primo capitolo del libro. Il mio ultimo lavoro parla di come stiamo vivendo adesso le ripercussioni future di quelle che allora erano solo proiezioni in un modello digitale.
Per quanto riguarda l’impegno dei singoli Paesi, quali, a suo avviso, stanno dimostrando di essere più virtuosi e quali meno?
Alcuni Paesi sembrano determinati a giocare il ruolo di cattivi. Mi riferisco, ad esempio, all’Arabia Saudita e alla Russia; tuttavia, se si guarda più da vicino e con attenzione, anche da loro le cose stanno cambiando. L’Arabia Saudita ha appena dichiarato che investirà 100 miliardi di dollari per le energie rinnovabili e ha anche dichiarato di coltivare il proposito di giungere a zero emissioni. L’obiettivo “emissioni zero” della Cina costituisce il più ambizioso traguardo climatico in assoluto, e le dichiarazioni dell’India di arrivare a ottenere metà della sua energia da fonti rinnovabili entro il 2030 sono state alcuni dei punti salienti della Cop26. Il momento più sconfortante, tuttavia, ha avuto luogo quando l’India e la Cina, unite dalla comune intenzione di annacquare le dichiarazioni sul carbone contenute nel testo finale della conferenza, hanno ottenuto di cambiare l’annuncio di “coal phase out” [eliminazione graduale del carbone, ndr] con “coal phase down” [riduzione graduale del carbone, ndr]: è stato molto avvilente dovervi assistere.
Allo stato attuale, come le appare l’attenzione della politica internazionale su questo tema?
Quasi tutti i Paesi più importanti si stanno impegnando a raggiungere l’obiettivo di zero emissioni. Anche l’Australia. Non è rimasto quasi nessuno che nega la realtà e l’urgenza del cambiamento climatico. Penso che abbiamo superato il punto di svolta e che i combustili fossili scompariranno, ma ciò che serve è accelerare questo processo.
Nel settore privato, quali sono le principali realtà industriali impegnate a ridurre le emissioni?
È chiaro che le compagnie petrolifere e carbonifere dovranno modificare completamente i loro modelli di business; alcune, probabilmente, falliranno e spariranno. Sarà come per l’industria automobilistica, dove Tesla, azienda pioniera nel settore delle auto elettriche, è ora molto più avanti delle vecchie compagnie automobilistiche, che stanno lottando per adattarsi alla nuova realtà.
Quali sono, nel breve e medio termine, le conseguenze principali prodotte dall’aumento di Co2 nell’atmosfera e negli oceani?
Ho trattato in maniera estesa l’argomento nel mio nuovo libro, Il nostro ultimo avvertimento. Sei gradi di emergenza climatica. La conseguenza principale è ovviamente il riscaldamento globale, ma si presenta anche il problema del Co2 che si scioglie negli oceani rendendoli più acidi. Un’ulteriore cattiva notizia riguarda le barriere coralline e molti altri organismi marini: la probabile scomparsa della maggior parte di essi si consumerebbe nel giro di due decenni. Gli scienziati stanno lavorando 24 ore al giorno per elaborare misure d’emergenza al fine di salvarli. Poi c’è il collasso dei principali ghiacciai della Groenlandia e dell’Antartide, l’innalzamento del livello dei mari e l’aumento delle temperature più calde. L’elenco, ovviamente, è ben lontano dall’esaurirsi…
Pensa che in un prossimo futuro assisteremo a significative migrazioni dalle zone costiere a quelle interne?
Non in un prossimo futuro. L’innalzamento del livello del mare è un processo a lungo termine, che si protrarrà per molti decenni e secoli. Anche alla fine di questo secolo, ipotizzo che non vedremo più di un metro di innalzamento del livello del mare, evenienza che sortirebbe certamente effetti rovinosi, ma non costituirebbe una delle principali cause di migrazione, tranne eventualmente dai piccoli Stati insulari. Una maggiore ondata migratoria coinvolgerebbe probabilmente le persone sfollate dalle aree tropicali e subtropicali – interi miliardi entro la fine del secolo – che, se non controlliamo le emissioni diventeranno troppo calde per essere abitate dall’uomo; fra queste regioni, si distingue gran parte del Medio Oriente, l’Asia Minore e Orientale e la Cina Minore.
Il riscaldamento globale colpirà l’intero pianeta allo stesso modo?
Sì, ma alcune aree saranno più resilienti di altre a causa del loro maggiore sviluppo e potenzialità. I Paesi più ricchi potranno permettersi di proteggere più efficacemente i loro cittadini, investendo una maggiore quantità di risorse per far fronte ad eventi estremi: erigeranno dighe foranee e argini, rifugi anti-uragano e altri complessi sistemi di difesa. Nonostante ciò, bisogna tuttavia sottolineare come, in ultima analisi, non esista una difesa risolutiva contro la catastrofe climatica.
A cosa potrebbe portare la conflagrazione della foresta amazzonica?
Sicuramente a una catastrofe di immani proporzioni per la biodiversità e il rilascio di cospicue quantità di carbonio dagli alberi e dal suolo, che andrebbe ad accelerare il disastro climatico. Semplicemente, non possiamo lasciare che questo accada.
Il riscaldamento globale danneggia la produzione alimentare. Aumenterà il numero delle vittime di malnutrizione?
Sì: è probabile che il riscaldamento globale causi un aumento del prezzo dei raccolti e le fasce più povere della popolazione dovranno annoverare percentuali più elevate di malnutrizione. Una congiuntura di tal genere si è già imposta durante la fase più acuta della pandemia di Covid-19, ma conoscerebbe un ulteriore peggioramento con il deterioramento della situazione ambientale. In un’economia alimentare globalizzata come quella odierna, la perdita di raccolto riscontrata in un’area importante inciderà ovunque sui prezzi alimentari: l’umanità è quindi dipendente da un limitato numero di colture di base prodotte in poche aree.
Riscaldamento globale e diffusione di virus: esiste una relazione?
Non trovo un’evidente connessione tra il riscaldamento globale e il Covid. Tuttavia, alcune malattie trasmesse da vettori, come la dengue e la malaria – diffuse dalle zanzare –, potrebbero conoscere un aumento in presenza di temperature più elevate. Abbiamo però a disposizione molteplici strumenti che possiamo impiegare per mitigarne gli effetti, da servizi sanitari più efficienti ai vaccini.
A suo avviso, le calamità climatiche prodotte dal riscaldamento globale potrebbero influenzare l’instabilità politica?
Impossibile prevedere le conseguenze politiche scaturite dal riscaldamento globale. Alcuni studi suggeriscono un aumento dei conflitti, e, di fatto, collegano la guerra civile in Siria alle tensioni sociali dovute alla siccità di lungo periodo. È forse più facile immaginare le conseguenze delle migrazioni su larga scala. La crisi dei profughi innescata dalla guerra civile siriana ha assecondato l’emersione dei movimenti della destra populista. In tale ottica, il riscaldamento globale potrebbe rappresentare anche una minaccia per la democrazia di portata internazionale.
Cosa fare per limitare il riscaldamento globale e ridurre le emissioni di carbonio?
Possiamo contare su un ampio ventaglio di possibilità: energia solare, eolica, idrica e nucleare. Forse un giorno anche la fusione. Nel frattempo dobbiamo eliminare tutti i combustibili fossili entro la metà del secolo. Abbiamo bisogno di auto elettriche e di idrogeno per decarbonizzare l’industria pesante e i trasporti. Sono convinto che la transizione stia avvenendo e sia ormai inarrestabile, ma che non si stia imponendo abbastanza rapidamente.
Cosa si augura per il futuro?
Spero che i miei nipoti possano ereditare almeno un clima stabile.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
Intervista esclusiva a Parag Khanna: la vera patria è il cloud
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“Le civiltà del passato sono scomparse perché non sono riuscite a adattarsi alla complessità da loro stesse creata. Questo ci suggerisce che la grande missione dell’umanità sta nel saper districare la complessità che abbiamo di fronte; sta nel rilocalizzare, e al tempo stesso nel conservare la nostra connettività globale. Un mondo abitato da comunità più compatte, e sempre pronte alla migrazione, comporterebbe rischi inferiori a quelli che minacciano un mondo abitato da grandi masse di popolazione concentrate in megalopoli costiere, vulnerabili all’innalzamento del livello degli oceani e al diffondersi delle malattie”.
Il nuovo saggio del consulente di strategia globale Parag Khanna, “Il movimento del mondo. Le forze che ci stanno sradicando e plasmeranno il destino dell’umanità” (Fazi Editore, traduzione di Franco Motta), sviluppa un’analisi accurata e brillante delle migrazioni di domani, mettendo in luce le tendenze che cambieranno l’economia e la società, scosse ad ogni latitudine dall’impatto devastante dell’emergenza pandemica e climatica. Un cambiamento decisamente significativo: “La Civiltà 1.0 era nomade e agraria; la popolazione mondiale era ridotta e localizzata, e l’ambiente ci imponeva la scelta dei luoghi in cui sopravvivere. Poi arrivò la Civiltà 2.0, fatta di sedentarietà e industrializzazione. Ci stabilimmo in città sempre più grandi e trasformammo la natura in una risorsa grazie alle supply chain globali. Ma il circolo vizioso che si è innescato fra uomo e natura sta uccidendo entrambi. Ora è arrivato il momento di adattarsi di nuovo. La Civiltà 3.0 dovrà essere mobile e sostenibile: ci muoveremo verso le masse continentali, verso le altitudini più elevate e le sconfinate distese del nord del mondo. La nostra impronta carbonica decrescerà grazie alle energie rinnovabili, ma dovremo migrare più frequentemente a causa delle incertezze economiche e ambientali. Sempre più persone vivranno di vita nomade; i nostri insediamenti diventeranno temporanei. Ci disperderemo, ma resteremo connessi”.
Nominato da Esquire una delle “75 persone più influenti del XXI secolo”, fondatore della società di pianificazione di scenari e di consulenza strategica FutureMap, Parag Khanna è autore di numerosi best-seller, fra cui I tre imperi (2009), Come si governa il mondo (2011), Connectography (2016), La rinascita delle città-Stato (2017) e Il secolo asiatico? (2019), pubblicati in Italia da Fazi.
Leggi l’altra intervista di Orlando Trinchi a Parag Khanna: Il Covid ridisegna il mondo.
Khanna, verso quali direzioni si muoveranno le prossime migrazioni di massa e quale relazione intercorrerà tra esse e la mobilità digitale?
Storicamente, abbiamo registrato modelli di migrazione molto stabili, principalmente entro i confini della stessa regione: gli europei all’interno dell’Europa, gli asiatici all’interno dell’Asia, gli africani all’interno dell’Africa, i sudasiatici verso i Paesi del Golfo, i sudamericani verso il Nordamerica, e via dicendo. Assisteremo ora a nuove linee di migrazione: per fare un esempio, i sudasiatici si muoveranno verso l’Asia del Nord, l’Asia centrale o la Russia. Vedremo anche più asiatici arrivare in Europa, mentre sta rapidamente aumentando il numero di cinesi, indiani e vietnamiti che risiedono stabilmente nel continente europeo. Nel prossimo decennio, il numero di giovani e qualificati “asiatico-europei” può crescere, come aumentano i sud asiatici e asiatici dell’Est, e arrivare a sostituire le diaspore esistenti di arabi e africani. La mobilità digitale è certamente molto importante, ma essa si applica maggiormente ai lavoratori da remoto e a coloro che scelgono di vivere nei posti più convenienti, dalle migliori condizioni climatiche, pur mantenendo il proprio lavoro. Se le persone si sposteranno verso città contrassegnate da un costo della vita inferiore, pur continuando a guadagnare alti salari attraverso il lavoro da remoto che svolgono per conto di grandi aziende, ciò potrebbe sortire effetti significativi per le città più costose. A fronte di un consistente numero di nuovi migranti, inoltre, converrà poter disporre di maggiore mobilità digitale o digitalizzazione della mobilità. Possiamo affidarci a standard e protocolli più chiari ed efficienti per consentire alle persone di spostarsi.
Separare la mobilità dalla nazionalità: sarà la sfida del futuro?
Sì, è quello a cui mi riferisco con ‘digitalizzare la mobilità’: per intendersi, se possiedi il tuo passaporto personale in una blockchain, ciò significa che noi disponiamo dei tuoi dati, conosciamo il tuo percorso formativo, la cronologia dei tuoi viaggi, i tuoi precedenti penali, e non ha alcuna importanza se sei italiano o nigeriano. Sappiamo di te e possiamo decidere se accettarti o meno nell’eventuale Paese di arrivo in maniera più appropriata sulla scorta delle tue informazioni personali, piuttosto che comminare una penalità solo in base al luogo da cui provieni. In questo modo giudichiamo la persona, non la nazionalità. Suppongo che ciò sarebbe possibile soltanto se gli individui condividessero realmente più dati e se i dati in questione venissero condivisi in modo sicuro attraverso l’uso della tecnologia, permettendo così di viaggiare in maggiore efficienza, a prescindere dalla propria nazionalità.
A fronte del cambiamento climatico, quali luoghi saranno più accoglienti e capaci di adattarsi al riscaldamento globale?
Sappiamo per certo, sulla base delle proiezioni climatiche, che saranno il Nordamerica − il Canada −, l’Europa settentrionale, Russia, Paesi scandinavi, e parte delle regioni interne del Sudest asiatico. Queste sono le aree che stanno diventando più vivibili – o stanno incrementando la propria vivibilità – e che continueranno a mantenere un buon livello di attrattiva in virtù delle precipitazioni, della loro sufficiente altitudine e distanza dal mare. Per la questione riguardante l’accoglienza, dipende. Penso che il Regno Unito stia realizzando di non voler perdere talenti e certo accetterà un numero maggiore di arrivi. Il Canada manifesta l’ambiziosa strategia di voler triplicare la propria popolazione, quindi si dimostra oltremodo accogliente. La Russia presenta una geografia molto vivibile ma pochissimi abitanti; pur tuttavia, rimane poco inclusiva nei confronti degli stranieri occidentali. L’ironia suprema è che l’Europa si connota come una regione resiliente al clima ma la sua popolazione sta precipitosamente declinando. Trovo che siamo fuori tempo, poiché la crisi demografica peserà quanto la crisi climatica: i vari Paesi si renderanno conto di dover ricevere più migranti. Il divario tra Nord e Sud si sta erodendo da un paio di decenni, grazie agli scambi di alta qualità nei Paesi in via di sviluppo. In termini di entrate nazionali, il Sud sta di certo soffrendo, ma coloro che dispongono di una buona condizione economica sono ancora in grado di mantenere la propria soglia di benessere. Credo che, a causa della combinazione nefasta di regressione economica, pandemia e cambiamento climatico, la situazione sarà peggiore al Sud piuttosto che al Nord, anche se in larga parte ne soffriremo tutti le conseguenze, a causa dell’impatto che la crisi climatica ha sulle infrastrutture o il fatto che la bassa fertilità in Occidente sta rallentando la strada.
Cosa potrebbero fare le global cities riguardo l’integrazione dei migranti e quali sono, ad oggi, i modelli migliori realmente praticati?
Le global cities fanno realmente del loro meglio per l’integrazione dei migranti, e lo testimonia la percentuale crescente di residenti nati all’estero a New York, Toronto, Londra, Berlino o anche a Tokyo. Le global cities non mostrano grandi difficoltà nel riservare posti ai migranti, diventando più diversificate ma al tempo stesso rimanendo stabili. Questa è la promessa delle global cities. La domanda è: più luoghi possono diventare così? Milano, ad esempio, è oggi una città molto diversificata; d’altro canto, Milano non è politicamente instabile quanto la stessa Italia. Una volta che le persone giungono in una global city, realizzi che esse si sentono accettate: permettere che arrivino, governare gli ingressi in maniera credibile, reca un indubbio vantaggio. Penso che questo costituisca un ciclo molto positivo di auto-rafforzamento.
Quale ruolo avranno le cosiddette città-Stato nello stabilire relazioni tra potenze commerciali e indirizzare il futuro sviluppo internazionale?
Nel libro ho parlato del ritorno della Lega anseatica, l’associazione commerciale europea medievale fra potenti Città-Stato, che si contraddistinse per l’aumento del libero scambio reciproco pur rimanendo protetta e sicura contro le ingerenze del Sacro Romano Impero. Penso che ci stiamo muovendo verso quei luoghi che ho avuto modo di definire ‘isole di stabilità’. L’espressione ‘isole di stabilità’ non rimanda letteralmente a un’isola in senso concreto, quanto piuttosto a una zona stabile: la Svizzera, ad esempio, è un”isola di stabilità’ pur senza essere propriamente un’isola. Si diffonderanno così networks di zone verdi, di enclavi stabili come Amburgo e Zurigo, Helsinki e Londra, e io ritengo che ciò dipenderà principalmente dall’insieme delle relazioni, ovvero da quanto verrà permesso a persone, beni e talenti di spostarsi in modo da navigare fuori dall’instabilità del resto del mondo.
Riguardo la mobilità urbana?
La mobilità urbana sta registrando interessanti sviluppi: stiamo assistendo a un maggiore spostamento per mezzo di biciclette, veicoli pedonali ed elettrici e scooter. La gente cambia modalità di lavoro, ma vive vicino a dove lavora. Prendiamo come riferimento uno spazio di cinque isolati: nel raggio di cinque isolati nel quale vivete disponete di spazi verdi, di cibo, di possibilità d’intrattenimento o di qualunque altra cosa risulti necessaria? Le persone vorranno vivere in posti dove, in caso di lockdown, pandemia o qualsiasi altra situazione, le risorse di cui avranno bisogno saranno a portata di mano. Stimo che ciò costituirà un importante trend della mobilità.
A proposito delle popup-cities: anche le città e le infrastrutture dovranno migrare?
Le popup-cities sono un argomento che ho trattato nel libro e riguarda la mobilità delle infrastrutture. Un esempio: i campi profughi e le nuove città circolari, di dimensioni contenute, che fanno uso di energia rinnovabile, di raccolta di acqua di riciclaggio, che producono il proprio cibo attraverso colture idroponiche: tutto ciò è permesso a città che si rivelino autosufficienti e che possano anche, letteralmente, essere spostate: case realizzate attraverso stampanti 3D idonee allo spostamento. Credo che, data la crisi climatica, può diventare necessario per le persone spostare le proprie abitazioni: penso ad esempio alle case andate distrutte nell’alluvione in Germania, poi riallocate altrove, sulle colline. Possediamo la tecnologia per realizzare ciò che ho chiamato “mobile real estate” [‘beni immobili mobili’].
Lei scrive che “Europa e America si tengono d’occhio l’una con l’altra per intercettare le idee migliori”. Cosa dovrebbero imparare l’una dall’altra?
In America esiste libertà di movimento all’interno del Paese. Anche l’Europa preserva tale libertà di movimento all’interno dell’area Schengen, nonostante le tensioni dovute alla crisi finanziaria, alla pandemia, e via dicendo: personalmente plaudo all’Europa per aver mantenuto la propria apertura. Essa è diventata un’unione fiscale molto forte: è ora in corso un processo che porterà a far sì che i vari Paesi europei convergano sempre più convintamente negli Stati Uniti d’Europa. Mentre i Green parties plasmano sempre più la politica europea, il Green Deal informerà la cooperazione con la Russia, la Turchia e l’Asia centrale, al fine di aggiornare le loro infrastrutture e il loro sistemi energetici e prepararsi così alle prossime migrazioni di massa. L’America ha bisogno di imparare a essere più accessibile, a concedere un maggior numero di ingressi, a costruire un sistema di welfare efficace, a dotarsi di migliori infrastrutture. Penso che vi sia molto ancora che l’Europa possa imparare dall’America e, viceversa, che l’America possa imparare dell’Europa, che entrambe abbiano da imparare dall’Asia e che la stessa Asia ha, a sua volta, imparato dall’Europa e dall’America. Questi tre principali sistemi – americani, europei e asiatici – rappresentano la maggioranza della popolazione umana e le pratiche migliori, che dovrebbero essere condivise tra loro e a livello globale.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
Saman Abbas, dov’è lo Stato? Intervista a Loredana Gemelli
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“Coltivo la speranza, che spero non sia vana, che lo Stato si faccia sentire e prenda posizione”. L’augurio viene espresso da Loredana Gemelli, avvocato penalista da sempre attiva sul fronte dei diritti civili e dell’antimafia, in riferimento alla tragica vicenda di Saman Abbas, la diciottenne pachistana scomparsa da oltre un mese per essersi opposta al matrimonio combinato dai genitori, vicenda che le richiama alla mente, con drammatica precisione, quando nel 2006 prese le parti di Giuseppe Tempini, fidanzato di Hina Saleem, altra giovane pachistana assassinata dal padre e dagli zii, che pagò con la vita il prezzo di non essersi voluta conformare agli usi tradizionali della cultura d’origine.
Da Hina a Saman: qualcosa è cambiato?
Parliamo di Saman e penso a Hina. In questi sedici anni non è cambiato assolutamente nulla e lo Stato continua impotente ad assistere a fenomeni di questo genere. Per iniziare a dare un segnale forte della sua presenza, sarebbe sufficiente che in questi processi ci fosse la costituzione di parte civile dell’Avvocatura dello Stato e degli organi istituzionali, quali Comune e Regione. L’unico caso in cui ho rilevato un segnale di tal genere da parte dello Stato risale a diversi anni fa, quando l’allora Ministro per le Pari Opportunità Mara Carfagna schierò l’Avvocatura dello Stato nel procedimento relativo all’omicidio della 46enne pachistana Begm Shnez, uccisa a mattonate dal marito geloso mentre la figlia Nosheen le faceva scudo con il proprio corpo. Mi auguro che la cosa cambi con questo processo.
Cos’altro dovrebbe fare lo Stato in casi come questo?
Quando un minore, in una famiglia, vive una condizione di disagio, lo Stato, attraverso gli assistenti sociali, monitora la situazione e può adottare misure invasive, arrivando a portare via il minore dalla famiglia. Con le differenze del caso, dovrebbe succedere qualcosa di analogo anche in circostanze come questa.
Il fratello di Saman, Ali Haider, ha confessato. Lo trova un buon segnale?
Il fratello fa parte delle nuove generazioni, più pronte al cambiamento. Una volta allontanato dalla famiglia, ha elaborato la situazione, collaborando con gli organi inquirenti e rivedendo in maniera critica quanto avvenuto.
Ha intenzione di costituirsi parte civile insieme all’associazione “Al posto tuo”?
Mi auguro che si costituisca anche l’associazione ADMI (Associazione Donne Musulmane d’Italia). Stiamo valutando se costituirmi parte civile io con l’associazione ADMI e far costituire una collega per l’associazione “Al posto tuo”, che ho fondato con alcune sodali per combattere i femminicidi in tutta Italia.
A cosa mira con questa iniziativa?
A sensibilizzare ulteriormente sulla questione: non è possibile che, di fronte a fatti di questo genere, che hanno un’eco nazionale, non venga ritenuta opportuna la costituzione di parte civile da parte dell’Avvocatura dello Stato.
Leggi l’intervista di Orlando Trinchi al politologo indiano Parag Khanna.
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Quali sono i meccanismi che garantiscono la stabilità economica? La seconda parte dell’intervista di Orlando Trinchi al Professore Associato di Diritto Internazionale Giulio Peroni
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Il Covid-19 ridisegna il mondo
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“La risposta pandemica ha messo in luce come alcune società quali Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong e Singapore abbiano saputo esprimere quella valida combinazione di leadership affidabili, competenze indipendenti, consultazione pubblica, preparazione alla crisi e resilienza nazionale che ci aspettiamo dai migliori Governi del mondo”. Le parole del politologo indiano naturalizzato statunitense Parag Khanna – che attualmente vive a Singapore e, confida, avrebbe intenzione di continuare a viverci anche nel prossimo futuro – tratteggiano in maniera decisa e articolata il modello offerto dalle sofisticate e funzionali società asiatiche, al centro di suoi recenti lavori come La rinascita delle città-stato. In che direzione dovrebbe andare l’Europa? (2017) e Il secolo asiatico? (2019), editi in Italia da Fazi.
Affabile, misurato nei modi, il 42enne esperto di politiche internazionali nonché fondatore e socio amministratore di FutureMap – società di consulenza strategica basata su dati e scenari – riflette sulle diverse modalità attraverso cui si sta affrontando, e, in alcuni casi, gradualmente arginando, la diffusione del coronavirus, rimarcando la necessità, al riguardo, di un adeguato impiego della tecnologia, che non sia lesivo della privacy e si inscriva in un orizzonte culturale di equilibrio dei poteri e trasparenza democratica.
Parag Khanna, in base anche a quella multipolarità asiatica da lei analizzata nel suo recente libro “The Future is Asian”, la Cina – da cui pure il contagio è partito – e la Corea del Sud hanno fornito entrambe risposte differenti ed efficaci all’emergenza. Cosa potremmo imparare dal loro approccio?
I Governi di Corea del Sud, Hong Kong, Taiwan, Singapore e Giappone hanno fatto meglio in quanto possiedono sistemi di assistenza sanitaria molto efficienti e sono molto attenti alle fasce più anziane. Non bisogna dimenticare che, circa vent’anni fa, hanno avuto esperienza dell’epidemia di Sars. I loro cittadini hanno fiducia nel Governo, così che, quando i medici professionisti impartiscono istruzioni, abitualmente vengono ascoltati. Ricordiamo che uno ogni dieci o, al massimo, uno ogni venti membri del Parlamento di Singapore è un medico, quindi sa di cosa si sta parlando: la popolazione segue le loro logiche direttive, affidandosi in tal modo a esperti del settore. Mentre l’Occidente guarda all’Asia con una certa superficialità e sufficienza, penso che sia tempo di analizzare in modo adeguato le loro sofisticate società, cosa che ho fatto anche in alcuni miei lavori. Abbiamo molto da imparare riguardo la gestione di talune problematiche attraverso quella che ho definito la ‘via tecnocratica’. In un mio libro del 2017, La rinascita delle città-stato (Fazi Editore), ho percorso il mondo alla ricerca delle migliori pratiche di governance inclusiva e reattiva e ho costruito un modello chiamato “tecnocrazia diretta”, che combina insieme un esecutivo a presidenza collettiva e un Parlamento multipartitico di tipo svizzero con un’amministrazione pubblica come quella riscontrabile a Singapore.
In un mondo sempre più interconnesso, anche le risposte a minacce come il Covid-19 dovrebbero essere globali, coerenti e ben strutturate? E, a suo avviso, quando si troverà una cura o un vaccino da impiegare contro il virus, sarà alla portata di tutti o prevarranno i diversi nazionalismi?
A mio avviso, in ambito internazionale non bisognerebbe perseguire il modello di una struttura centralizzata ma, al contrario, pensare a come sviluppare capacità a livello locale, a implementare la connessione di rete, la condivisione di informazioni attraverso i vari organismi preposti, in modo da permettere la diffusione di conoscenze e risorse e preparare ogni Stato a reagire in maniera efficace. Mi ero già soffermato sull’argomento in un mio libro pubblicato nel 2011, Come si governa il mondo (Fazi Editore). Per quanto concerne la disponibilità per tutti del vaccino quando se ne sia trovato uno, ritengo che essa dipenda dalla regolamentazione che ne normerà la produzione. Allo stato attuale, sono stati messi a punto test farmaceutici che possono fornire una lettura definitiva, positiva o negativa, in cinque minuti. Resta tuttavia da valutare il riscontro effettivo dei test, ovvero se, alla prova dei fatti, essi saranno o meno diffusi rapidamente in tutto il mondo. Credo che le industrie farmaceutiche siano ovviamente interessate a riscontrarne l’impatto all’interno del mercato internazionale, poiché esiste senza dubbio competizione fra i vari laboratori. Storicamente, la fase di ricerca di un vaccino è diventata sempre una questione mondiale: abbiamo assistito a partnership fra produttori nazionali e produttori generici, mentre i Governi si mostravano impegnati ad assicurare che esso fosse ampiamente disponibile, come dimostra ad esempio il caso della penicillina. Nonostante il nazionalismo si riveli essere oggi un sentimento molto forte, non credo comunque che, in termini di soluzione del problema, avranno la meglio i diversi nazionalismi: è, infatti, in corso un’intensa condivisione di risorse, apparecchiature di test, ventilatori e mascherine chirurgiche.
Quanto hanno influito, per quanto concerne la situazione attuale, gli errori di comunicazione e le iniziali sottovalutazioni circa l’entità del problema?
Gli errori di comunicazioni hanno avuto una forte incidenza. Si è verificata un’attiva soppressione di informazioni da parte della Cina – e ciò è stato ampiamente criticato e continua a essere oggetto di critiche – ma, successivamente, anche nei Governi nazionali si sono imposti errori di comunicazione che hanno alimentato la confusione: è quanto, con tutta evidenza, è accaduto negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in tutti quei Paesi in cui si stanno rincorrendo ogni giorno nuove comunicazioni che promuovono la quarantena, il lockdown, invitando i cittadini a stare in isolamento. Possiamo rilevare come, nei Paesi asiatici, il distanziamento sociale sia considerata la medicina migliore, il metodo più valido di prevenzione, che può essere attuato senza alcuna assistenza medica, semplicemente mantenendo le distanze per un paio di settimane e stando da soli: ciò ha depotenziato la rapida trasmissione del virus.
Per far fronte all’emergenza coronavirus, alcuni Stati europei hanno quasi completamente chiuso le loro frontiere, in deroga agli accordi di Schengen. Pensa che un tal modello di Stato chiuso basato sull’autosufficienza possa sopravvivere anche alla fine della situazione drammatica che stiamo vivendo?
Un mio libro del 2016, Connectography (Fazi Editore), era dedicato a spiegare come le infrastrutture e le catene di approvvigionamento costituiscano un nuovo livello di geografia funzionale che trascende la nostra geografia politica dei confini. Stiamo assistendo quotidianamente al modo in cui questa connettività consente tanto i flussi di merci quanto la diffusione di malattie, mentre l’attrito delle frontiere si pone a garante della nostra sicurezza. In questo caso, tuttavia, il punto non è bloccare le frontiere quanto comporre fra loro le varie politiche adottate. Se il mondo applica politiche di distanziamento sociale, e intendimenti di questo tipo vengono estesi in ogni Paese, allora non ci sarà bisogno di chiudere i confini perché la gente non avrà alcun bisogno di attraversarli. Credo che stiamo aderendo a una visuale dall’alto in basso, invece di adottare una prospettiva orizzontale. I Governi avrebbero dovuto concordare nello stesso tempo di applicare questo genere di politiche, in modo da non dover sbarrare i confini, mentre, ora che alcuni focolai epidemici si sono dimostrati peggiori delle aspettative, alcuni leader, come quello spagnolo, hanno avanzato richieste di chiusura delle frontiere.
Potrebbe l’utilizzo della tecnologia delle reti mobili essere utile a fermare il progredire del contagio? Come potrebbe accordarsi con il diritto alla privacy?
Sì, assolutamente. Ciò che alcuni Paesi hanno fatto è stato identificare le persone basandosi sul riconoscimento di pattern, tracciare i loro spostamenti, per accertarsi che stiano seguendo i provvedimenti di quarantena e altre misure analoghe. Ritengo siano misure estremamente importanti per avere successo nella lotta al virus. Possiamo rilevare diversi modi in cui la tecnologia è stata usata in tal senso. A Singapore utilizziamo un’app chiamata TraceTogether; è anonima e gli unici dati che vengono utilizzati, qualora una persona risulti positiva al test, permettono di determinare, attraverso l’uso della registrazione dei segnali bluetooth, se tale persona si sia trovata nelle tue vicinanze nelle ultime due settimane: solo in questo caso verresti contattato, in quanto potresti essere stato esposto a un possibile contagio. Penso che sia un’applicazione molto utile e sensata: la tecnologia non dev’essere intesa, ovviamente, come un’infrazione nei confronti della privacy della gente quanto invece nell’ottica di protezione del bene comune. Tutti i dati ottenuti, infatti, verranno immediatamente distrutti nel momento in cui non saranno più necessari. Credo che, per quanto attiene all’uso delle tecnologie mobili, ciò crei il giusto equilibrio fra il bene pubblico e la privacy.
Riguardo l’uso di metodi di sorveglianza digitale annunciato dal Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, lo storico e scrittore Yuval Noah Harari ha dichiarato in un’intervista alla CNN: “Uno dei rischi di questa epidemia è che giustifichi misure di sorveglianza biometrica, che dopo la crisi rimangano con noi”. È d’accordo?
In termini di sorveglianza, dobbiamo evidenziare come dagli attentati dell’11 settembre 2001 la tecnologia abbia fatto molti passi in avanti: nel corso dei vent’anni successivi agli attacchi terroristici si sono diffuse in ogni dove telecamere di sorveglianza che permettono l’identificazione facciale e altri strumenti analoghi sono stati adottati nell’ambito della sicurezza. Contestualmente, si è manifestato il rovescio della questione, attraverso riflessioni sui privilegi e i poteri che i Governi hanno o dovrebbero avere. Ciò riguarda anche quanto potrebbe avvenire in questo momento. Penso che la questione interessi la regolamentazione della tecnologia piuttosto che problematiche inerenti la salute, la sicurezza o l’economia. Chiaramente, tutto ciò chiama in causa la fiducia riposta nella tecnologia, e la fiducia nella tecnologia è costantemente aumentata perché la tecnologia si è costantemente evoluta. Vi sono Paesi in cui è presente uno spiccato desiderio di autorità che altrove sconfina nell’abuso, ed è perciò necessario un dialogo molto determinato a livello nazionale che riguardi la cultura della democrazia, della trasparenza e dei meccanismi di equilibrio dei poteri, in modo da evitare possibili scorrettezze da parte dei Governi. Molti Paesi ci stanno dimostrando proprio ora di non essere quel genere di posto.
I ricercatori del Global Preparedness Monitoring Board rilevano l’arretratezza delle tecnologie impiegate per la produzione di vaccini anti-influenzali, in quanto “sono costose e richiedono molto tempo”. Si deve fare di più al riguardo?
L’uso della tecnologia in campo medico segna un deciso discrimine fra il passato e il futuro. In passato, con tutta evidenza, non abbiamo fatto abbastanza sforzi nel produrre rapidamente vaccini, a causa del ritardo della tecnologia e delle relative conoscenze. Oggi, invece, la tecnologia conosce un maggiore utilizzo: vi è un rilevante ed esteso impiego dell’intelligenza artificiale nel campo della genomica mentre, all’interno dei laboratori, il lavoro è computerizzato e interessa la simulazione e la produzione di vaccini. Ciò ci è di grande aiuto in questa circostanza e potrà ovviamente continuare a esserlo in futuro. Si riscontra un diffuso apprezzamento circa il ruolo che le tecnologie mediche rivestono nell’alveo delle scienze biologiche e bisognerebbe senz’altro indirizzare ad esse maggiori investimenti.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di giugno/luglio di eastwest.