Giornalista freelance, collabora come corrispondente per diverse testate su temi di politica francese e internazionale.
Francia: il macronismo dopo Macron
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La promessa iniziale era quella di superare il vecchio dualismo destra-sinistra, non di spazzarlo via lasciandone solo le macerie. Almeno questo sembra essere il risultato dopo la rielezione di Emmanuel Macron in Francia. E pensare che nel 2017 il programma dell’allora candidato di En Marche! alla sua prima corsa per l’Eliseo sembrava incarnare una nuova sintesi: un concentrato di politiche economiche liberali con qualche sfumatura sociale, condito da un tocco protezionista in salsa europea e un pizzico di ecologia.
Una débâcle generale
Tanto è bastato per dare il colpo di grazia al Partito socialista e ai Repubblicani, entrambi già sofferenti da tempo. Le due formazioni tradizionali, eredi di una lunga tradizione politica, oggi si ritrovano a raccogliere i cocci rimasti dopo il primo turno delle ultime presidenziali. La candidata del centro-destra Valérie Pécresse è arrivata quinta con un misero 4,7%, davanti all’ambientalista Yannick Jadot (4,63%), il comunista Fabien Roussel (2,28%) e la socialista Anne Hidalgo, crollata all’1,7%.
Una débâcle generale ampiamente annunciata dai sondaggi, frutto anche della strategia di Macron, che negli ultimi anni ha rimodellato il paesaggio politico francese incentrandolo sul duello con la rivale del Rassemblement National, Marine Le Pen. Un capovolgimento totale rispetto al passato, quando le realtà radicali si trovavano agli estremi. Forte della sua esperienza da Ministro dell’Economia durante la presidenza del socialista François Hollande che gli ha garantito una certa credibilità a sinistra, l’attuale inquilino dell’Eliseo nel 2017 ha formato un governo pescando ministri di diversi orientamenti, con una predilezione per i Repubblicani. Un modo per rafforzare la sua immagine super partes mostrandosi aperto ad altre sensibilità politiche, tutte ovviamente riunite sotto il suo ombrello.
Nel corso degli anni, però, il Presidente è stato accusato più volte di aver spostato gradualmente il baricentro verso destra, con un’attenzione particolare alla sicurezza e a misure economiche che sembravano rubate dal programma dei Repubblicani. Un atteggiamento pragmatico, rivolto verso l’elettorato conservatore moderato per spazzare via quel che rimaneva di una famiglia politica orfana di una vera leadership.
Tuttavia, le ragioni della crisi non dipendono solo dallo zampino del Presidente, come ricorda anche il politologo Dominique Reynié, professore all’università Sciences Po di Parigi e direttore della Fondazione per l’innovazione politica: “Questi partiti erano già in difficoltà prima dell’arrivo al potere di Macron, che si è trovato uno spazio utile per candidarsi ed essere eletto nel 2017”.
Destra e sinistra esistono ancora?
Ma allora in Francia destra e sinistra esistono ancora? “Non c’è più la stessa chiarezza partitocratica del passato”, afferma il politologo, aggiungendo che l’arrivo de La République en marche, partito di Macron, ha gettato “una sorta di oscurità” sulla politica francese. È un’organizzazione effimera – dice il professore − che durante il precedente quinquennio non è veramente esistita e molto probabilmente non esisterà nemmeno in questo che comincia”.
Le elezioni legislative di giugno appaiono quindi come una tappa cruciale. Da una parte i Repubblicani, che temono un esodo dei propri dirigenti verso la sponda macroniana, nonostante le garanzie del presidente Christian Jacob sulla “indipendenza totale” del partito. La formazione neo-gollista si ritrova lacerata in varie correnti interne, tra chi è disposto a tendere una mano al capo dello Stato sull’esempio del suo predecessore Nicolas Sarkozy, chi rimane intransigente e chi, invece, vedrebbe di buon occhio un avvicinamento a Le Pen o all’ultraconservatore Eric Zemmour. Ma la famiglia di centro-destra deve ritrovare soprattutto la propria identità. La candidatura di Pécresse ha fatto emergere la mancanza di una linea chiara. Troppi errori di comunicazione, tentennamenti nelle proposte e mancanza di originalità. Nel corso della campagna elettorale, la candidata repubblicana è rimasta goffamente schiacciata tra le proposte liberali di Macron e quelle identitarie di Le Pen, senza presentare una valida alternativa ai due favoriti.
Sul fronte opposto, invece, si cerca di ricomporre una galassia sempre più atomizzata. All’indomani delle elezioni si è aperto un dialogo su un’eventuale coalizione guidata da Jean-Luc Mélenchon, unico candidato di sinistra in posizione di forza dopo il 22% incassato alle presidenziali. Tutti gli altri partiti si sono trovati costretti a scegliere tra l’appoggio al “tribuno” della gauche e il rischio di scomparire definitivamente dai radar. Ma le trattative tra separati in casa sono sempre complicate. I punti programmatici presentano forti divergenze gli uni dagli altri e di certo le negoziazioni non sono state agevolate da una figura invasiva come quella di Mélenchon, che sui volantini elettorali delle legislative chiede addirittura di essere eletto “Primo Ministro”. Alla fine i socialisti hanno sottoscritto le proposte della France Insoumise in vista di un accordo e, nel momento i cui scriviamo, i Verdi si mostrano ottimisti per un’unione.
Secondo l’esperto “è una situazione molto particolare, ma è certo che l’esistenza di questi partiti è minacciata”. Reynié parla di due “test” cruciali da cui dipenderà l’esistenza della destra e della sinistra in Francia: “Il primo è rappresentato dalle legislative. Se i Repubblicani riusciranno a non sciogliersi nel macronismo sopravviveranno fino alla tappa successiva, mentre i socialisti rischiano di scomparire nel caso di un’alleanza con la France Insoumise di Mélenchon”.
Possibili scenari futuri
A questa fase ne seguirà una seconda: le elezioni locali dei prossimi anni, come le municipali, le regionali o le dipartimentali. A differenza de La Republique en marche di Macron o del Rassemblement National, i partiti storici ancora vantano un forte ancoraggio territoriale, unico punto di forza in tutto il Paese sul quale possono contare. “Se non manterranno una presenza locale forte come quella di oggi, entrambi i partiti saranno finiti perché in quel caso perderanno i loro ultimi baluardi”, dice Reynié
In un simile scenario, Macron porta a compimento l’opera lanciata il primo giorno della sua avventura presidenziale. In uno scenario politico ormai strutturato in tre grandi blocchi, con Le Pen e Mélenchon agli estremi, l’inquilino dell’Eliseo deve rafforzare la sua posizione centrista attirando a sé il maggior numero di moderati in vista del voto di giugno. “Magari ci sarà anche qualcuno che si unirà a lui per ammirazione o convinzione ma molti lo faranno per opportunismo”, afferma il politologo. L’obiettivo è quello di formare un fronte più compatto possibile, “impedendo alle realtà rimaste isolate di organizzarsi per lanciare una ricomposizione parziale della destra e la sinistra”, afferma il professore. Lasciare gli estremi marginalizzarsi il più possibile, inglobando quel poco che resta per avere il controllo su tutte le altre realtà, da tenere buone almeno in vista del prossimo voto. Un’attenzione particolare va poi anche agli astensionisti, il “quarto blocco” dell’attuale scenario secondo Reynié, che ricorda il 28% raggiunto al ballottaggio delle presidenziali, il dato più alto degli ultimi cinquant’anni: “si tratta di elettori che possono stravolgere la situazione nel momento in cui decidono di tornare a votare”.
Destra e sinistra si trovano così costrette a lottare per non scomparire del tutto, almeno nei prossimi cinque anni, al termine dei quali il presidente non potrà più candidarsi per la terza volta.
“Tutto dipenderà dalla capacità di Macron di far vivere il macronismo, che senza il suo fondatore difficilmente continuerà ad esistere”, spiega Reynié. “Una volta giunto al termine del secondo mandato il capo dello Stato non potrà più presentarsi e a quel punto ci sarà una sorta di liberazione della classe politica tradizionale che si chiederà cosa fare”.
La lotta per l’erede del macronismo, quindi, potrebbe cominciare prima di quanto si creda.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
Francia, tre sfumature di destra
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“Ne destra, né sinistra”. Quello che nel 2017 era diventato quasi un mantra per l’allora candidato Emmanuel Macron, oggi risuona come una musica di altri tempi. In vista delle imminenti elezioni presidenziali del 10 e 24 aprile, in Francia si suona ormai un’altra solfa.
Tre sfumature di destra
Basta dare un’occhiata ai sondaggi per capirne l’orientamento. Mentre stiamo per andare in stampa, Macron non ha ancora ufficializzato la sua candidatura [Macron ha annunciato la candidatura il 3 marzo, dopo l’uscita del numero] sebbene sia dato tra il 23 e il 25%. Dietro segue compatto il gruppo degli inseguitori, con l’ultraconservatore Eric Zemmour, la repubblicana Valérie Pécresse e la leader del Rassemblement National Marine Le Pen, tutti a sgomitare tra il 14 e il 17%. Tre sfumature di una destra in cerca del secondo turno. Così, mentre la sinistra vaga smarrita sotto la soglia del 10%, i principali sfidanti di Macron polarizzano il dibattito su alcuni dossier, come spiega Jean-Yves Camus, co-direttore dell’Osservatorio sulle radicalità politiche alla fondazione Jean Jeaurès di Parigi, esperto di populismi ed estrema destra: “È una situazione paradossale. Si parla solo di identità nazionale e immigrazione nonostante tutti i sondaggi mostrino l’interessamento dei francesi a tematiche sociali ed economiche come quella del potere d’acquisto”. Proprio quest’ultimo punto a fine febbraio veniva considerato come il più importante dal 70% degli elettori secondo un sondaggio Ifop.
L’irruzione di Zemmour nella corsa all’Eliseo ha stravolto uno scenario che sembrava ormai scritto da tempo. Il leader di Reconquete!, famoso per le sue posizioni radicali che in passato gli sono valse alcune condanne per istigazione al razzismo e incitamento all’odio, si è posizionato all’estrema destra dello scacchiere politico nazionale, andando ad occupare il posto una volta detenuto da Marine Le Pen. In questa campagna elettorale, dove in diversi momenti è stato dato al secondo turno contro Macron, l’ex giornalista del Figaro ha continuato a cavalcare i suoi cavalli di battaglia con sparate contro l’Islam, la “lobby Lgbt” e gli immigrati.
Il tutto mentre la candidata del Rassemblement National finalizzava il processo di normalizzazione del vecchio Front National ereditato dal padre Jean-Marie nel 2011. Dopo avergli cambiato il nome e smussato le posizioni identitarie più estreme, Le Pen oggi presenta il suo partito come una forza pronta a governare. Ma Zemmour resta una spina nel suo fianco. L’ex opinionista punta all’elettorato popolare più radicale, quello rimasto orfano dopo la trasformazione del partito. Nell’attesa, ha cominciato a scippare alla rivale alcuni nomi di spicco del Rassemblement National. L’avvocato Gilbert Collard e il portavoce Nicolas Bay sono due degli esponenti più in vista del partito lepenista ad aver fatto il grande passo unendosi all’équipe di Zemmour. Episodi che non dovrebbero avere grandi ripercussioni in termini elettorali, secondo Camus: “Si tratta di politici poco conosciuti dal grande pubblico. Per Marine Le Pen queste defezioni rappresentano più un danno morale che scuote il suo partito all’interno”. Una guerra di nervi, con il chiaro intento di sfinire l’avversaria. “È tutto tempo perso a parlare di lui – continua lo specialista − Le Pen aveva previsto una strategia orientata contro Macron, come se il passaggio al secondo turno fosse cosa fatta, e invece si ritrova a dover fare campagna al primo turno per giustificarsi contro il candidato ultraconservatore”.
Ma Zemmour è riuscito a portare sul suo terreno di caccia anche la repubblicana Valérie Pecrésse. Schiacciata tra la linea liberale di Macron e quella più reazionaria dei candidati sovranisti, la candidata della destra neogollista ha cercato goffamente di emergere evocando durante il suo primo meeting parigino la teoria della “grande sostituzione” cara alla destra più reazionaria e complottista. Un concetto elaborato dal filosofo Renaud Camus, conosciuto per le sue teorie xenofobe e anti-Islam, secondo il quale la popolazione francese si sta facendo rimpiazzare dagli immigrati. Una strizzata d’occhio all’elettorato dell’estrema destra che però ha accecato di rabbia molti all’interno dei Repubblicani, tanto da costringere Pécresse ad aggiustare maldestramente il tiro nei giorni seguenti. “Nel suo partito c’è chi considera gli elettori dell’estrema destra come gente della stessa famiglia politica, magari più arrabbiata, che bisogna far ritornare. Quello di Pécresse è stato un errore di valutazione”, sostiene Camus.
La corsa di Emmanuel Macron
E mentre gli inseguitori continuano la corsa, Macron si mostra occupato a fare il Presidente. Lo rimarrò “fino alla fine”, prometteva a inizio febbraio. Il coinvolgimento diplomatico nella crisi ucraina gli ha permesso di giustificare il ritardo, rafforzando al tempo stesso la sua statura internazionale, ultimamente messa sotto pressione dal ritiro delle truppe francesi in Mali. Il presidente in carica preferisce rimanere distaccato il più possibile dal caos dell’arena elettorale. “Non ha nessun interesse nel candidarsi”, sostiene Camus. “Dopo le proteste dei gilet gialli, una gestione della pandemia del coronavirus particolarmente complicata durante la quale sono stati commessi degli errori e le manifestazioni contro alcune misure del governo, Macron è ancora in testa nei sondaggi. Il tutto, avendo alle spalle una formazione, la République en marche, che dopo cinque anni ancora non è strutturata come un partito politico. È quasi un miracolo”.
L’inquilino dell’Eliseo nel corso del suo mandato si è progressivamente allontanato dalla rotta inizialmente prevista, virando verso una destra di stampo liberale. La soppressione dell’Imposta sulla fortuna (la patrimoniale), la riforma dell’immigrazione, la legge sulla sicurezza globale o la svolta a favore del nucleare sono tutte misure che hanno contribuito a costruire l’immagine di un “Presidente di destra”. Una tendenza dettata più da uno scaltro pragmatismo che da una convinzione ideologica, a cui si è unita una scarsa capacità di comunicazione. Come quando nel 2018 redarguiva un ragazzo disoccupato garantendogli di potergli trovare un lavoro semplicemente attraversando la strada. Un eccesso di sicurezza sfociato in arroganza agli occhi di molti elettori, che adesso vedono il loro presidente con occhi diversi rispetto al 2017.
Tuttavia, nonostante i sondaggi, la conferma all’Eliseo potrebbe non essere così facile, come ricorda il politologo: “Per Macron il principale pericolo al secondo turno potrebbe emergere in caso di sfida contro Le Pen o Zemmour. Gli elettori di sinistra, soprattutto quelli rimasti delusi dopo aver votato l’allora candidato di En Marche nel 2017, potrebbero disertare le urne, per non concedere una vittoria troppo netta al presidente uscente”.
Nelle prossime settimane Macron proverà quindi a riequilibrare la sua immagine, cercando il maggior numero possibile di endorsement dalla sinistra. Frammentata in cinque principali candidati, che vanno dalla socialista Anne Hidalgo all’ambientalista Yannick Jadot, passando per l’ex guardasigilli Christina Taubira e il “tribuno” Jean-Luc Mélenchon, la gauche francese a fine febbraio raccoglieva a malapena il 25%.
La sua posizione di forza gli consentirà di non dover scendere troppo a patti, limitandosi a ricordare nei pochi giorni di campagna che lo separano dal voto le misure più emblematiche agli occhi di quell’elettorato. Tra queste l’apertura della Procreazione medicalmente assistita a tutte le donne o la strategia del “costi quel che costi” applicata durante la pandemia con decine di miliardi di euro sbloccati per frenare i fallimenti. Ma sarà difficile convincere prima del voto. “È una questione di decenza – spiega Camus − Non si può abbandonare la sinistra mentre si trova così in basso nei sondaggi. Ma dopo il primo turno bisognerà arrendersi all’evidenza. Ci saranno quelli che vorranno ricostruire la socialdemocrazia in Francia ma ci sarà anche chi vorrà pesare nella futura maggioranza per impedire che i suoi futuri orientamenti non vadano troppo a destra”.
Una direzione, almeno per il momento, diventata a senso unico in Francia.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
La Francia alla presidenza del Consiglio dell’Ue, la grande occasione di Macron
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Proprio alla fine del suo mandato, Emmanuel Macron si ritrova tra le mani la presidenza del Consiglio dell’Unione europea. Un appuntamento cruciale per l’inquilino dell’Eliseo, arrivato con un timing impeccabile: nel bel mezzo del semestre guidato da Parigi, che inizierà il primo gennaio, si terranno le elezioni presidenziali francesi, fissate al 10 e 24 aprile. Per Macron, ancora non candidato ufficialmente nel momento in cui scriviamo, si tratta della più ghiotta delle occasioni, utile a rilanciare il suo progetto europeo agli occhi di Bruxelles ma anche a quelli degli elettori francesi. “È una carta importante da giocare”, spiega Sylvain Kahn, professore all’università Sciences Po di Parigi ed esperto di questioni europee. Con questa presidenza Macron “potrà rafforzare la sua statura internazionale, che è un elemento solitamente molto apprezzato nella politica francese”, afferma Kahn, ricordando i benefici tratti da Nicolas Sarkozy nel 2008, l’ultima volta che la Francia ha guidato il semestre di Bruxelles.
Cosa vuole Macron
“Rilancio, potenza, appartenenza”, è lo slogan annunciato durante la conferenza stampa tenuta a inizio dicembre per presentare gli orientamenti del semestre francese. Tre concetti per riassumere la sfilza di cantieri da portare avanti, che di certo non potranno essere chiusi in un tempo così ristretto. Il Presidente francese punta a finalizzare il suo progetto europeo illustrato nell’ormai celebre discorso tenuto alla Sorbona nel 2017 e mai realmente decollato. Quello di una maggiore autonomia strategica, capace di creare una “Europa potente nel mondo e pienamente sovrana” in grado di resistere alle tensioni internazionali e alle minacce esterne.
In questo quadro, il rafforzamento di un’Europa della Difesa complementare alla Nato risulta essenziale, e secondo il prof. Kahn anche più facile da portare avanti visti i progressi fatti negli ultimi tempi, in campo industriale e strategico: “Sull’Europa della Difesa si parte da lontano, quindi non possono che esserci dei progressi. È un tema sul quale non ci sono particolari attese, né opposizioni all’interno dell’Ue. Inoltre c’è un’attesa nell’opinione pubblica europea su questo che emerge da tutti i sondaggi dell’Eurobarometro”.
Macron vuole però mostrare concretezza ai cittadini, soprattutto sugli aspetti sociali. L’applicazione di un salario minimo a livello europeo è tra le priorità di Parigi, insieme a una parità di stipendi tra uomo e donna. Segnali chiari, mandati a un elettorato francese che secondo i sondaggi considera il potere d’acquisto tra i principali temi della campagna elettorale.
Come l’immigrazione, cavallo di battaglia della destra d’oltralpe, dai Repubblicani guidati da Valérie Pécresse agli estremi ultraconservatori incarnati da Marine Le Pen ed Eric Zemmour. I primi tre sfidanti in ordine di preferenze secondo i sondaggi, che a fine dicembre ancora davano l’attuale presidente favorito. Dopo la crisi vista alla frontiera tra Polonia e Bielorussia, la minaccia terroristica e la crisi del Covid-19, Macron vuole mettere al sicuro i confini dell’Unione con una riforma dello spazio Schengen destinata a creare una “guida politica” dell’area e un meccanismo di sostegno per fronteggiare le crisi attraverso l’agenzia Frontex. Una linea incarnata dal progetto presentato a dicembre dalla Commissione, sulla quale però sarà difficile trovare un’intesa, come dimostra anche la lentezza con la quale avanzano le discussioni sul Patto migrazione e asilo. Un punto, quest’ultimo, che Macron spera di accelerare rilanciando i rapporti con l’Unione africana. “Le probabilità che questo dossier evolva sono molto deboli. È il tema sul quale ci sono più antagonismi in Europa, per questo sarà difficile trovare compromessi”, dice Kahn.
Una nuova Europa
All’Europa che protegge e sostiene, Macron vuole affiancare un’Europa che cresce attraverso una nuova governance. I vincoli imposti dal Patto di stabilità e congelati durante la crisi sanitaria sono visti come dei “tabù” da “superare”. L’Italia offre la sponda ideale soprattutto dopo il Trattato del Quirinale, come testimoniato dall’editoriale congiunto firmato da Macron e dal Presidente del Consiglio Mario Draghi sul Financial Times, dove si è lanciato un appello all’abbassamento dell’indebitamento senza tasse o tagli alla spesa sociale. Adesso bisogna investire in settori strategici che daranno all’Europa maggiore indipendenza come l’idrogeno, il cloud, i semi-conduttori o le batterie. Il modello è il Next Generation EU da 750 miliardi di euro lanciato per lanciare la ripresa.
In quest’ottica, l’asse franco-tedesca sarà, ancora una volta, decisiva. Macron dovrà confrontarsi con il Cancelliere Olaf Scholz, successore di Angela Merkel, con la quale i rapporti non sono sempre stati idilliaci negli anni passati. La volontà comune di rilanciare il progetto europeo si è già manifestata, almeno in base alle dichiarazioni rilasciate dai due leader, su diversi dossier come la crisi in Ucraina, l’immigrazione o la difesa.
“Sulla carta i pianeti sono allineati – afferma Kahn – Oggi gli esecutivi a Berlino e a Parigi sono molto pro-europei e hanno voglia di avanzare. C’è quindi da aspettarsi proposte comuni destinate a alla costruzione europea. Le rispettive classi politiche sono ben consapevoli delle differenze ma il periodo che si apre potrebbe essere caratterizzato da una voglia condivisa di approfondire l’Europa considerandola una parte della soluzione”.
Ma Parigi e Berlino hanno anche punti di divergenza, soprattutto sulla questione energetica. Nonostante le promesse fatte prima di sbarcare all’Eliseo sullo sviluppo delle rinnovabili, Macron negli ultimi mesi è diventato un fervente difensore del nucleare in Francia, tanto da arrivare a promettere un investimento da 1 miliardo di euro per la creazione di nuovi mini-reattori modulari Smr. La difesa dell’atomo è un tema tradizionale caro alla destra francese, attenta a difendere la sovranità energetica del primo produttore e consumatore europeo di elettricità proveniente dalle centrali. Macron, che giocherà la sua partita elettorale nel campo della destra, spinge in questo senso anche a livello europeo, chiedendo insieme ad altri Paesi come Finlandia e Polonia, l’inserimento del nucleare nella tassonomia verde che decide le attività green da finanziare. Contraria la Germania, che da una decina di anni ha lanciato il processo di abbandono del nucleare e guida il gruppo degli ostili in cui figura anche l’Austria.
Gli obiettivi della transizione ambientale che prevedono una riduzione del 55 % delle emissioni di gas ad effetto serra entro il 2030 restano però invariati. Proprio in questo quadro Macron punta all’applicazione di una tassa carbone alle frontiere.
In questo semestre Macron renderà la presidenza del Consiglio Ue un palco dove mettere in scena il suo impegno europeo, da contrapporre all’euroscetticismo dei suoi rivali nella corsa all’Eliseo. Il rischio è quello di una sovrapposizione dei piani, come denunciato a viva voce dalle opposizioni transalpine, che criticano una strumentalizzazione politica della situazione. Con Scholz appena arrivato alla guida della cancelleria di Berlino, Macron può finalmente assumere la tanto bramata leadership di Bruxelles, mostrando quanto fatto fino ad oggi, soprattutto ai francesi, sempre più divisi sul tema secondo alcuni sondaggi. Per questo sarà necessario realizzare “una Europa umana”, più “democratica” e semplice” per essere compresa da tutti e soffocare l’emergere di nuovi populismi.
Se la minaccia di una Frexit è stata scongiurata dai programmi elettorali dei candidati, resta la volontà di riformare un’unione giudicata “ingenua” dalla repubblicana Pécresse o criticata per la sua “onnipotenza” dalla leader del Rassemblement National Marine Le Pen.
Il Presidente uscente imporrà al centro del dibattito politico la tematica europea, fino ad oggi snobbata dagli altri candidati, che saranno così costretti a seguirlo sul suo territorio. Una mossa strategica, a condizione che interessi anche gli elettori.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
Francia, nostalgia di Indochine
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Nella regione dell’Indo-Pacifico, la Francia naviga in cattive acque. A portare fuori rotta Parigi ci ha pensato l’Australia, che a metà settembre ha fatto colare a picco un contratto da 56 miliardi di euro firmato nel 2016 che prevedeva la fornitura di 12 sottomarini francesi a Canberra. Una decisione unilaterale, arrivata all’improvviso, che ha mandato su tutte le furie il presidente Emmanuel Macron. Quello che agli occhi dell’Eliseo appariva come un partner affidabile ha preso il largo in direzione di Stati Uniti e Regno Unito, con i quali ha stretto l’alleanza Aukus (acronimo di Australia, United Kingdom e United States): un accordo strategico in chiave anti-Cina che porterà Washington a rifornire l’Australia di sottomarini a propulsione nucleare con la collaborazione dei britannici.
Uno schiaffo diplomatico per Macron, che da un giorno all’altro si è ritrovato all’angolo senza neanche sapere come. Dopo i primi momenti di smarrimento, la Francia ha alzato la voce, ha denunciato una pugnalata “alla schiena” e ha richiamato gli ambasciatori da Washington e Canberra. A far più male sono stati soprattutto i modi, almeno a detta dei francesi, che hanno lamentato il fatto di essere stati avvisati all’ultimo minuto. Molto rumore per nulla: mentre nei corridoi dei Ministeri della Difesa e degli Esteri di Parigi regnava lo smarrimento più totale, dall’altra sponda dell’Atlantico arrivavano dichiarazioni concilianti, con toni che irritavano ancora di più i funzionari francesi.
Gli animi si sono calmati dopo che Macron ha parlato al telefono con l’omologo statunitense Joe Biden e con il premier britannico Boris Johnson. L’inquilino della Casa Bianca ha riconosciuto che la crisi si sarebbe potuta evitare con “consultazioni aperte” e il presidente francese ha rinviato a Washington il suo ambasciatore, così come il suo collega di Canberra alcuni giorni dopo. E mentre l’articolo va in stampa, arriva la notizia ufficiale che Macron e Biden, abbiano previsto un bilaterale a margine del G20 di Roma proprio per affrontare il dossier.
Ma lo strappo resta, e per ricucirlo ci vorrà del tempo. La perdita del “contratto del secolo” con l’Australia per la Francia non rappresenta solamente un danno economico (risarcito con modalità che verranno negoziate per mesi). Macron ha visto affondare da un giorno all’altro la sua strategia geopolitica nell’Indopacifico, costruita grazie ad un lungo e paziente dialogo iniziato all’indomani del suo arrivo all’Eliseo, con l’obiettivo di spianare la strada ad una “terza via” capace di posizionare la Francia tra i due grandi protagonisti: Stati Uniti e Cina.
“Il concetto di terza via si sviluppa nella strategia indopacifica della Francia per tre ragioni: gestire la Cina, garantire l’alleanza americana e premunirsi di strumenti adatti a contenere la rivalità cino-statunitense”, spiega Frédéric Grare, ricercatore allo European council of foreign relations (Ecfr). Macron stava quindi seguendo la sua solita linea improntata sul multilateralismo e il dialogo già vista in molti altri dossier internazionali. “In quest’ottica si sviluppano rapporti con i Paesi della zona, si continua a cooperare nell’Alleanza atlantica mantenendo un obiettivo nella regione e si ha nei confronti di Pechino una politica con elementi di dissuasione, ma anche di cooperazione”, aggiunge l’esperto.
Ma la Francia adesso si ritrova vaso di coccio in mezzo ai colossi, e il rischio di finire in frantumi arriva proprio dalla sponda occidentale. La nonchalance dimostrata da Biden nell’accantonare l’alleato francese ha spiazzato Parigi, che di certo non ha la stazza diplomatica per ingaggiare un braccio di ferro con Washington. Nell’obiettivo di contenere l’avanzata della Cina, gli Stati Uniti si sono rivolti a un partner naturale rimanendo su un asse anglosassone che ha incluso anche il Regno Unito. “La politica di Biden si inserisce nella continuità con quella del suo predecessore Donald Trump: ha una formazione anti-cinese e resta limitata su mezzi quasi esclusivamente militari”, sostiene Grare.
Canberra si doterà così di sottomarini che, contrariamente a quelli di classe Attack proposti dalla Francia, avranno una propulsione nucleare.
“L’Australia li avrebbe potuti acquistare anche da Parigi. La vera questione che si pone con la scelta dei modelli americani riguarda la sovranità del Paese, che non ha un’industria nucleare civile e a priori non è in grado di gestire una simile tecnologia. Viene da chiedersi cosa trasferiranno gli Stati Uniti, tradizionalmente reticenti a questo tipo di operazioni”, dice l’esperto di Asia, e sicurezza marittima della regione.
“Adesso − spiega Grare − la Francia si adatterà a questo nuovo scenario, ridefinirà il ruolo dell’Australia nell’architettura che stava costruendo”, insieme al rapporto con gli Stati Uniti nell’area. “Non si tratta di riacquistare un peso, perché la Francia è già presente nella zona”, aggiunge, facendo riferimento al fatto che nell’Indopacifico vivono 1,6 milioni di cittadini francesi in dipartimenti, collettività e regioni d’oltremare. Parigi conta poi 7mila militari stanziati nella regione e possiede una Zona economica esclusiva (Zee) da 10,2 milioni di chilometri quadrati, la seconda più grande al mondo.
Forte di questo suo posizionamento, Parigi farà leva sui rapporti con gli altri Paesi della zona, primi fra tutti Giappone e India, con i quali intrattiene delle relazioni già forti. Alcuni giorni dopo lo scoppio della crisi diplomatica, Macron ha avuto un colloquio telefonico con il premier indiano Narendra Modi, durante il quale è stata confermata la “volontà di agire in modo congiunto in uno spazio indopacifico aperto e inclusivo”, ha fatto sapere dall’Eliseo, senza fare riferimento ad Aukus. Un alleato essenziale per il presidente francese, che in passato si è rivelato essere anche un cliente di primo piano nel settore della Difesa con il contratto firmato nel 2016 per l’acquisto di 36 caccia Rafale. Nuova Delhi è al centro del gioco soprattutto grazie al suo status di membro del Quad (Quadrilateral Security Dalogue) insieme a Stati Uniti, Australia e Giappone. Il formato, che si è riunito in presenza a Washington a fine settembre, potrà avanzare in parallelo con Aukus, come uno strumento complementare che Biden sfrutterà contro la Cina con modalità che vanno al di là degli aspetti strategici e militari.
“Ma le relazioni non devono essere presentate in termini di opposizione”, avverte Grare. “L’India ha buoni contatti con i membri del Quad, ma anche con la Francia, che fa lo stesso anche se in questo momento si trova in una situazione più complessa”.
E per riorganizzarsi nell’Indopacifico, la Francia farà leva soprattutto sull’Unione europea, che ha avuto bisogno di qualche giorno prima di schierarsi apertamente al fianco di Parigi, seppur con qualche riserva da parte di alcuni Stati membri, come ad esempio la Danimarca. La notizia della nascita di Aukus è arrivata in contemporanea con la presentazione della strategia europea nell’Indopacifico, che si basa essenzialmente sul piano economico per stringere maggiormente i legami con un’area che genera il 60% del Pil mondiale. Secondo Grare, “Aukus non contraddice il contenuto della strategia di Bruxelles e le sue intenzioni, ma indebolisce la posizione della Francia, che rappresenta il legame principale tra l’Ue e la regione”.
Con la presidenza francese del Consiglio dell’Ue che comincerà a gennaio, Macron porrà sicuramente il dossier al centro delle discussioni. Il ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan prima, seguito dal dossier dei sottomarini dovrebbero dare un nuovo impulso a Bruxelles, sempre più consapevole del bisogno di rafforzare il processo di autonomia strategica che ad oggi avanza a passi di elefante.
L’inquilino dell’Eliseo potrebbe inoltre consumare la sua vendetta nei confronti di Canberra rallentando le discussioni sul Trattato di libero scambio (Ale) tra Australia e Ue, già rinviate a novembre su pressioni di Parigi dopo la rottura del contratto. Una ritorsione che di certo non basterebbe a risanare la crisi che si è aperta.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di novembre/dicembre di eastwest.
Ue, i cantieri della Difesa europea
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La costruzione di un’Europa della Difesa passa anche per i matrimoni di convenienza. Francia, Germania e Spagna a metà maggio hanno annunciato l’accordo decisivo per lanciare il Sistema di combattimento aereo del futuro (Scaf). Un progetto presentato nel 2017 dal Presidente Emmanuel Macron e dalla Cancelliera Angela Merkel, che prevede lo sviluppo di un complesso programma, composto da droni, un cloud e un caccia di sesta generazione destinato a sostituire i Rafale e gli Eurofighter dal 2040. Il tutto, per una spesa complessiva stimata tra i 50 e gli 80 miliardi di euro.
L’intesa trovata da Parigi, Berlino e Madrid è arrivata al termine di lunghe trattative, segnate da attriti diplomatici e rivalità industriali. Al centro delle tensioni, i dossier riguardanti la divisione e il trasferimento delle proprietà intellettuali del sistema tra i tre gruppi implicati nel progetto: Dassault Aviation, Airbus e Indra. Preoccupate dal dover consegnare nelle mani dei rispettivi concorrenti informazioni strategiche riservate, le aziende partner hanno negoziato duramente per mesi prima di giungere ad un compromesso. La Francia mantiene la leadership dei lavori del programma, che è stato suddiviso in diversi “pilastri”, ognuno guidato da un gruppo. Un perfetto equilibrio tra le parti, sul quale poggia la fase di studi “1B”, che durerà fino al 2024 con un costo complessivo di 3,5 miliardi di euro equamente divisi. In seguito si aprirà la “fase 2”, che dovrebbe mandare in cielo il primo dimostratore per il 2027.
Lo Scaf sembra ormai sulla buona strada. Dopo gli insuccessi del passato, Parigi e Berlino hanno provato a rilanciare una cooperazione con un programma faraonico, destinato a superare il piano bilaterale per inserirsi a livello europeo. “Lo Scaf è la base della difesa aeronautica europea. Se il programma arriverà al termine ci saranno effetti su tutto il settore industriale, anche perché il sistema è destinato ad aprirsi ad altri paesi”, afferma Edouard Simon, direttore di ricerca sulle questioni di sicurezza e difesa all’Istituto delle relazioni internazionali e strategiche (Iris) di Parigi.
Ma le trattative dei mesi scorsi hanno fatto emergere le difficoltà legate allo sviluppo di una maggiore integrazione europea della difesa. Nato da un’iniziativa franco-tedesca, con la Spagna subentrata solamente nel 2019, il progetto si è scontrato con ostacoli di natura politica e culturale, oltre che industriale, emersi tra i due principali partner.
Sul piano operativo, le esigenze di Francia e Germania divergono radicalmente, con la prima orientata verso un equipaggiamento adatto alle operazioni esterne a differenza della seconda, più concentrata sulla sicurezza interna e continentale, nonostante un sempre maggiore interessamento ai teatri internazionali. “Nei programmi di cooperazione degli armamenti il punto più difficile consiste nel mettersi d’accordo sui bisogni”, spiega Simon. “Generalmente si cerca di non omogeneizzare il programma, creando diverse versioni in base alle necessità. Nello Scaf la sfida consiste nel far convergere le necessità e questo sarà possibile solo attraverso un’armonizzazione parziale del sistema”, aggiunge lo specialista.
Il dialogo è stato rallentato anche dalle differenti amministrazioni. Mentre Parigi ha affidato il dossier alla Direzione generale dell’armamento (Dga), organo del ministero della Difesa responsabile degli equipaggiamenti, Berlino ha dovuto attendere il via libera del Bundestag arrivato in extremis a fine giugno, seppur con qualche riserva. Il Parlamento tedesco ha autorizzato i finanziamenti della fase “1B”, lasciando però in sospeso quelli per il periodo successivo destinato a sviluppare il dimostratore. Un gesto percepito dall’altra parte del Reno come un ulteriore segnale di diffidenza, sintomo di uno scetticismo latente che di certo non giova alla cooperazione.
Tra schermaglie diplomatiche e industriali, i due partner sono riusciti a mantenere i nervi saldi, tessendo nel giro di pochi anni una cooperazione fondamentale per il futuro dell’industria militare europea, ad oggi frammentata ed eterogenea. “Pochi paesi in Europa hanno una visione contrapposta come Francia e Germania. Ma quando questi due partner raggiungono una posizione comune, si crea una base sulla quale si può costruire un consenso condiviso da molti”, sostiene Simon. Nell’ottica di un rafforzamento dell’autonomia strategica, l’obiettivo è quello di costruire un’architettura inclusiva, capace di aumentare l’indipendenza dell’Europa nel settore degli armamenti, soprattutto nei confronti dell’alleato statunitense. Un’impresa che deve fare i conti anche con la concorrenza.
Lo Scaf, infatti, non è l’unico super-caccia in cantiere nel Vecchio continente. A competere con il “sistema dei sistemi” c’è il Tempest, altro velivolo di sesta generazione sviluppato dal Regno Unito, in collaborazione con Svezia e Italia. “In Europa siamo in grado di far coesistere due sistemi?”, si chiede Simon, sottolineando che questa situazione mostra “la sfida in termini di capacità di investimento e di rischi industriali”. I due progetti viaggiano su rotte parallele, anche se non è da escludere una futura convergenza, al momento fuori dai radar.
Lo sviluppo della sovranità europea nel settore della Difesa, però, non passa solamente per i cieli. Parigi e Berlino sono impegnate anche nel Main Ground Combat Sistem (Mgcs): un programma guidato dalla Germania e destinato a realizzare un nuovo carro armato che andrà a sostituire i Leopard 2 tedeschi e i Leclerc francesi nel 2035. Ma il dossier ha accumulato ritardo, per motivi simili a quelli che hanno rallentato il “cugino” Scaf.
Macron ha puntato tutto sull’asse franco-tedesca nel quadro dello sviluppo di una “Europa della Difesa” destinata a dare maggiore indipendenza all’Unione. Un concetto in divenire, ancora soggetto a fraintendimenti tra i partner, soprattutto quando si parla di rapporti con la Nato, come emerso anche dalla querelle a mezzo stampa che nel novembre dello scorso anno ha contrapposto Macron alla Ministra della Difesa tedesca, Annegret Kramp-Karenbauer, secondo la quale “gli europei non potranno sostituire il ruolo capitale che hanno gli Stati Uniti come garanti della loro sicurezza”. Un “controsenso della storia”, per il presidente francese, che ha ricordato l’importanza di essere “sovrani” con la “propria difesa”.
Dietro questo botta e risposta si cela una lampante dimostrazione della divergenza di vedute. Il dinamismo mostrato da Macron nei rapporti transatlantici ha dovuto fare i conti con la prudenza della Cancelliera Merkel, più attenta nell’evitare strappi con Washington. Il Presidente francese respinge ogni volontà di entrare in rotta di collisione con la Nato, ma non lesina stoccate, come quando nel 2019 denunciò lo stato di “morte cerebrale” dell’Alleanza transatlantica in un’intervista rilasciata all’Economist. Un modo per dare uno scossone ai rapporti tra Ue e Stati Uniti, senza spingersi troppo in là come fece il suo predecessore, Charles de Gaulle, che nel 1966 fece uscire Parigi dal comando integrato della Nato. L’Europa “che deciderà il destino del mondo” profetizzata dal Général è ancora un miraggio, per questo Macron punta su una maggiore sovranità continentale per consolidare la sicurezza europea, senza dimenticare le priorità francesi.
“Le posizioni di Francia e Germania non hanno le stesse radici, ma si trovano d’accordo sul fatto che gli europei devono fare di più, anche per rafforzare la relazione transatlantica. L’autonomia strategica europea non ha la vocazione di tagliare i ponti con la Nato”, spiega Simon. “La posizione della Francia, verso la quale si stanno avvicinando sempre di più Germania e i paesi dell’Europa dell’est, punta ad una maggiore autonomia europea perché Washington si sta concentrando sempre di più nella regione del Pacifico e un’escalation di tensione tra Cina e Stati Uniti porterebbe ad un disimpegno americano dal continente europeo”, continua lo specialista. Ma la strada verso la costruzione di un’Europa della Difesa sembra essere ancora lunga.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
Macron: il ruolo della Francia nella geopolitica globale
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A poco più di tre anni dal suo ingresso all’Eliseo, il Presidente francese Emmanuel Macron continua a portare avanti una politica estera improntata su un dinamismo diplomatico utile a mantenere Parigi al centro dei principali dossier geopolitici. Una strategia che vede il dialogo come principale pilastro su cui basare i rapporti, anche se dopo lo slancio iniziale c’è stata una battuta d’arresto quasi fisiologica per motivi congiunturali.
Fin dall’inizio del suo mandato, Macron si è attivato su diversi fronti per riportare la Francia al centro dello scenario internazionale. Il Presidente ha cercato di colmare i vuoti trovati sullo scacchiere mondiale vestendo spesso i panni del mediatore, anche nei dossier dove la Francia non aveva un reale peso, come quello del nucleare iraniano. Un atteggiamento che si inserisce nella falsariga della Quinta Repubblica e resta fedele a quella visione di grandeur che la Francia continua a proiettare su se stessa.
Il rapporto con l’Europa
In quest’ottica, Macron mantiene l’Europa al centro della sua visione, considerandola come il campo dove giocare le principali partite geopolitiche per portare il risultato all’interno dei confini nazionali. La Cancelliera tedesca Angela Merkel resta un alleato fondamentale, nonostante i rapporti non siano sempre dei migliori. Parigi ha scommesso tutto sul rilancio dell’asse franco-tedesco, imprescindibile per realizzare il progetto europeo annunciato durante l’emblematico discorso alla Sorbona nel settembre del 2017. “La parte iniziale del suo mandato è stata dominata dalla priorità europea, ma poi si è reso conto che trattare con i tedeschi non era così semplice e ha avuto bisogno di tempo prima di avere una risposta al suo discorso sul futuro europeo”, ricorda Christian Lequesne, professore di Scienze politiche all’università Sciences Po di Parigi. I primi passi sono stati fatti solamente in questi ultimi mesi, con il Recovery Fund da 750 miliardi di euro approvato nell’ambito della crisi del coronavirus.
Ma sul piano internazionale Macron deve fare i conti soprattutto con il Presidente turco Recep Tayyip Erdogan, diventato un ostacolo onnipresente.
La rivalità con Ankara
L’ultimo capitolo di una querelle che va ormai avanti da mesi è stato scritto a fine ottobre, quando Erdogan ha consigliato al suo omologo francese di fare dei “controlli mentali”, provocando così le ire dell’Eliseo, che ha richiamato il suo ambasciatore ad Ankara. A far scattare l’ennesima scintilla in una relazione già infuocata sono state le posizioni prese da Macron dopo l’uccisione di Samuel Paty, il professore decapitato fuori Parigi per aver mostrato in classe le caricature di Maometto pubblicate da Charlie Hebdo.
In nome del principio di laicità, pilastro della République, Macron ha difeso la libertà di espressione e di poter fare caricature. Una risposta forte e chiara, indirizzata soprattutto ai francesi dopo l’ennesimo attentato, ma che ha assunto un carattere internazionale in seguito all’ondata di proteste arrivata dal mondo arabo. Dall’Iran al Marocco, passando per l’Algeria, il Bangladesh e l’Arabia Saudita: un movimento di contestazione cavalcato da Erdogan, che ha dato prova di un cinico opportunismo ergendosi a difensore dell’Islam.
Con il suo progetto di legge contro il “separatismo islamista”, concepito per strutturare il culto musulmano in Francia e prevenire la minaccia terroristica, Macron punta, tra i vari obiettivi, a mettere fine alla pratica degli imam stranieri inviati in Francia per formare nuovi predicatori. Un sistema opaco, gestito dai paesi di provenienza degli imam, che spesso arrivano senza neanche conoscere il francese. Dei circa trecento attualmente presenti sul territorio, la metà sono stati inviati dalla Turchia, che con la nuova legge perderebbe un’importante presenza in Francia.
Un problema di politica interna ha assunto così un carattere transnazionale, con appelli al boicottaggio di prodotti francesi. Erdogan ha eretto il suo rivale occidentale a nemico numero uno, mentre l’Unione europea ha fatto blocco attorno a Parigi, allargando ulteriormente quel solco già profondo che la separa da Ankara. Una mossa apparentemente da “uomo forte”, ma che a guardare meglio rivela tutta la fragilità di un leader sempre più isolato sul piano regionale e debole agli occhi dell’elettorato.
Gli scontri tra Macron ed Erdogan
Erdogan cerca di portare il suo rivale occidentale nel proprio campo, anche se le schermaglie tra Parigi e Ankara in questi ultimi mesi si stanno consumando in diversi teatri, primo fra tutti la Libia. L’arrivo della Turchia al fianco del Governo di accordo nazionale (Gna) guidato da Fayez al-Sarraj e riconosciuto dall’Onu ha scombinato gli equilibri, provocando forti malumori a Parigi che, seppure ufficialmente è schierata dalla parte di Tripoli, ha sostenuto in modo indiretto anche il campo opposto: l’Esercito di liberazione nazionale (Lna) del generale Khalifa Haftar. Gli attriti sono esplosi con la momentanea uscita della Francia dalla missione Sea Guardian della Nato, decisa a luglio in seguito ad una manovra giudicata da Parigi “estremamente aggressiva” compiuta da alcune navi turche ai danni della fregata Le Courbet, durante il controllo su un’imbarcazione sospettata di trasportare armi. Anche in Libia Erdogan gioca da solo, arrivando a dubitare della tenuta del cessate il fuoco firmato a Ginevra il 23 ottobre sotto l’egida delle Nazioni Unite, che impone la partenza di mercenari stranieri entro tre mesi.
Ma il braccio di ferro tra Parigi e Ankara cominciato in Libia si è esteso fino al Mediterraneo orientale, dopo che la scorsa estate la nave da ricerca turca Oruç Reis è stata inviata nelle acque rivendicate dalla Grecia per effettuare delle esplorazioni alla ricerca di idrocarburi. L’iniziativa ha portato le tensioni tra Grecia e Turchia alle stelle in un dossier da tempo al centro di un’aspra contesa. Macron si è schierato immediatamente al fianco di Cipro, ma soprattutto Atene, che dal canto suo ha ringraziato l’alleato con una commessa per 18 caccia Rafale.
Il Presidente francese non ha perso tempo per inserirsi all’interno di un contenzioso dove fino ad alcuni anni fa erano gli Stati Uniti a svolgere un ruolo da mediatore.
Il conflitto nel Nagorno Karabakh
“Quella di Macron è una strategia francese al servizio degli interessi francesi, anche se certe volte parla in nome dell’Ue”, spiega Jean-François Perouse, ex responsabile dell’Istituto francese degli studi anatolici. Ma Parigi non è l’unico attore europeo ad essere intervenuto. Anche la Germania si è intromessa, adottando però un atteggiamento più diplomatico con la Turchia che ha permesso una distensione. “La grande differenza tra Francia e Germania riguarda la potenza militare di Parigi, che gli permette di sviluppare una diplomazia basata sulla forza. Un elemento che non possiede la Germania, orientata sul mantenimento delle relazioni con la Turchia, che è un partner fondamentale per l’economia europea, con il quale Berlino non si può permettere di giocare, visti anche i milioni di cittadini tedeschi di origini turche presenti in Germania”, conclude Perouse.
Francia e Turchia continuano così a scontrarsi in vari teatri, arrivando fino al Caucaso meridionale, con il riaccendersi del conflitto nel Nagorno Karabakh, territorio sotto il controllo all’Azerbaijan con una forte presenza di armeni, che ne rivendicano l’autodeterminazione. Anche qui Erdogan e Macron si ritrovano sui due fronti opposti, con Ankara che sostiene apertamente Baku mentre dietro ad Erevan ci sono Parigi e Mosca, entrambi co-Presidenti insieme agli Stati Uniti del Gruppo di Minsk dell’Osce. “La Francia ha una relazione storica con l’Armenia. L’ha sempre sostenuta soprattutto durante il genocidio avvenuto tra il 1915 e il 1916. Ma a questo si aggiunge anche un fattore geopolitico che consiste nell’impedire a Erdogan di agire come vuole”, dice Lequesne. Un altro scenario dove la Turchia ha giocato a carte scoperte dando un forte sostegno militare all’Azerbaijan, mentre Macron l’ha accusata di aver portato nella crisi dei combattenti jihadisti provenienti dalla Siria.
Una partita sempre più delicata, dove i due avversari si contendono spazi strategici troppo stretti per contenere entrambi.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di novembre/dicembre di eastwest.