Analista di affari internazionali, geografia politica e tendenze globali. Da sempre si occupa del rapporto tra persone, territorio e arena pubblica.
A cosa si deve il successo ventennale di Orbán?
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Venti anni di potere: tanti saranno alla scadenza del quarto mandato consecutivo appena ottenuto. Più di Angela Merkel, più di Xi Jinping. Un Paese ai suoi piedi, che gli consegna grandi maggioranze parlamentari, e che in cambio viene trasformato a sua immagine e somiglianza. “Il nostro trionfo è così grosso che si vede anche dalla Luna, quindi si vedrà bene anche da Bruxelles”, si beava Viktor Orbán alla fine dello spoglio, mentre scorreva le congratulazioni dei dirigenti nazional-populisti, dentro e fuori l’Europa. Cosa spiega il successo del premier ungherese, ormai punta di diamante di quell’internazionale sovranista aggregatasi negli ultimi anni, benché a capo di un Paese di neanche dieci milioni di abitanti? La sua abilità principale è nell’intrecciare un’instancabile politica di opposizione alle istituzioni europee e al liberalismo occidentale, con un’implacabile e pragmatica conquista e gestione del potere in Ungheria: dosando sapientemente l’una e l’altra, si è costruito una posizione blindata dalla quale appare impossibile scalzarlo.
I rapporti con la Russia e la Cina
Sul piano internazionale, il premier ungherese viene spesso associato a Vladimir Putin, di cui certo è un amico in Europa. Orbán ha condannato l’aggressione all’Ucraina, e ha pure accettato le pesanti sanzioni finanziarie europee. Se non si fosse allineato all’iniziale reazione occidentale, sarebbe stato l’unico nella Ue a non farlo: una posizione in cui una vecchia volpe come lui non si è certo fatto cogliere. Ma subito dopo, è tornato a disallinearsi; “Gli imperi d’Oriente sono il futuro” − ribadiva da tempo, riferendosi a Mosca, Pechino, Ankara. “Io vi proteggerò dalle follie dei partiti di opposizione che ci porteranno in guerra per la Nato”, ha detto agli ungheresi, che hanno apprezzato, e votato di conseguenza. “Abbiamo vinto anche contro Zelensky e la sua resistenza utile solo a compiacere gli Stati Uniti”, ha ribadito, negando persino l’evidenza del massacro di Bucha (“prove manipolate”). “Il gas lo paghiamo in rubli. E nessun’arma della Nato passerà dall’Ungheria”. Putin non poteva chiedere di più.
E con la Cina, rapporti “non ortodossi” e tutt’altro che simbolici vanno avanti da tempo. C’è stato l’acquisto di vaccini da Pechino al di fuori del piano immunitario europeo. E c’è l’accordo con l’università Fudan per costruire un campus alle porte di Budapest del valore di 1,5 miliardi di euro, quasi tutti capitali cinesi − mentre dalla capitale veniva espulsa la Central European University, fondata da George Soros e conosciuta per il suo insegnamento liberale nelle scienze sociali. Infine, a completare il quadro ideologico internazionale, c’è il solido ponte costruito con la destra americana di ispirazione religiosa e trumpiana. Tra i tanti che fanno la spola con Budapest, ad esempio alla conferenza internazionale sulla “sostituzione etnica”, l’ex vicepresidente Mike Pence, e un codazzo di editorialisti di Fox News, attivisti, predicatori, polemisti. Il 3 gennaio, Donald Trump twittava il suo auspicio di una riconferma di Orbán.
Una vittoria sulla società ungherese
A livello nazionale, quella di Orbán può definirsi una vittoria sulla società ungherese. L’Ungheria di trent’anni fa voleva “tornare in Europa”, smaniava per essere ammessa nella Nato, non voleva sentirsi “diversa”. Oggi non è più così. Orbán sa costruire e imporre l’agenda e conosce i suoi elettori. I media che controlla al 90% illustrano a spron battuto i vantaggi di un Paese “illiberale, conservatore e cristiano”. Chi non si allinea paga: centinaia di figure indipendenti tra cui giornalisti, attivisti, politici, editori sono stati spiati dal Governo. Quando durante gli Europei di calcio del 2021 negli stadi tedeschi furono esposte bandiere arcobaleno in protesta contro una legge omofoba passata a Budapest, i club del Paese, molti dei quali presieduti da politici di Fidesz, come il celebre Ferencvaros, risposero addobbando tutti gli stadi di bandiere ungheresi.
Tre mesi prima delle elezioni, poi, sono arrivati un sostanzioso aumento del salario minimo e il blocco dei prezzi degli alimentari di base. Orbán si presentava così: l’unico punto fermo nel quadro internazionale mutevole e spaventoso della guerra e della pandemia. Non a caso l’ultima vera vittoria dell’opposizione era arrivata nell’autunno del 2019, la conquista del municipio di Budapest. Ma l’operazione, ritentata alle politiche, non ha funzionato: mentre Orbán completava la trasformazione della sua ex liberale Fidesz in un partito-Stato, unico fornitore di identità culturale e protettore di interessi economici al di fuori della bolla di Budapest, anche grazie a molti anni di buoni risultati economici, i partiti di opposizione si perdevano tra le loro beghe lasciando il loro candidato unitario, Peter-Marky Zay, da solo a schiantarsi.
La vicinanza con la Polonia
Orbán ha vinto anche grazie al suo alleato in seno alla Ue: la Polonia guidata dal partito Diritto e Giustizia (PiS), che non ha mai fatto mistero di considerare l’Ungheria orbaniana un modello. Eppure, salta all’occhio un’immediata differenza. In Ungheria, è Orbán a guidare come un monarca assoluto lo Stato, e la cosa gli consente margini di manovra e discrezionalità. In Polonia, è invece la dimensione partitica a prevalere: gli uomini che controllano il potere sono diversi − c’è il Presidente della Repubblica Andrzej Duda, il capo del Governo Mateusz Morawiecki, il capo del partito Jaroslaw Kaczynski. Nel quadro di un partito populista nazionalista “pluricefalo”, l’importanza della dimensione ideologica cresce. Ne è prova il lungo braccio di ferro con Bruxelles sullo stato di diritto: lo scorso ottobre, dopo una serie di sentenze europee che condannavano il tentativo del governo polacco di mettere la museruola all’indipendenza dei giudici, la Corte costituzionale polacca ha negato la supremazia del diritto comunitario su quello nazionale, principio alla base dell’appartenenza alla Ue.
La decisione ha portato il conflitto al parossismo: “La corte polacca non è più imparziale”, ha dichiarato il Commissario Paolo Gentiloni, lanciando la procedura d’infrazione, e la multa di un milione di euro al giorno, finché i giudici della corte, politicamente fagocitata dal PiS fin dal suo arrivo al potere nel 2015, non saranno sospesi. “Siete come l’Urss”, ha reagito il premier Morawiecki: non paghiamo, la nostra corte non si tocca. E allora non avrete i soldi del Recovery Fund, ribattono dalla Ue. La solidarietà di Orbán a Varsavia è arrivata. Ma intanto, nello stesso periodo, la corte costituzionale ungherese rifiutava una simile interpretazione. Per Budapest, rinunciare ai fondi europei è fuori discussione − proprio con quelli Fidesz cementa il suo potere − ed è fuori discussione anche offrire un assist, un tema unificante, all’opposizione.
Invece, i partiti di opposizione polacchi, ben più vigili, ora guidati dall’ex Presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, sono subito scesi sul piede di guerra, accusando il Governo di portare la Polonia fuori dall’Ue. Solo la guerra in Ucraina ha impedito la resa dei conti. Il comune, profondo sentimento anti-russo ha unito la politica polacca, a cominciare da due elementi cruciali: l’accoglienza dei milioni di rifugiati, e il transito delle armi Nato. Non solo: Varsavia è diventata lo snodo chiave, la base europea, del crescente sostegno americano a Kyiv. “Se non vede le prove dei crimini russi, Orbán vada dall’oculista”, ha dichiarato Kaczynski; davvero la massimalista Polonia è disposta a sacrificare persino l’asse con l’Ungheria?
Nel frattempo, per ritorsione alla procedura di infrazione, il Governo di Varsavia ha votato contro la decisione europea di tassazione comune sui profitti delle multinazionali − che senza l’unanimità degli Stati membri non può passare. Abbiate il coraggio di venirci contro adesso che non potete fare a meno di noi, sembrano dire da Varsavia. Intanto, la Corte di Giustizia Ue ha validato il dispositivo legale che condiziona il versamento dei fondi europei al rispetto dello stato di diritto.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
La crisi della Sinistra mediterranea
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Al momento di entrare in Parlamento a votare la nuova legge sul lavoro, il deputato spagnolo Alberto Casero non si sarebbe certo aspettato di diventare un eroe della sinistra europea. La riforma, voluta dal Governo socialista di Pedro Sánchez e scritta dalla vice-premier Yolanda Díaz, comunista e affiliata a Podemos, era un provvedimento cardine del governo di coalizione di Madrid. Coalizione, appunto, tra sinistra tradizionale e sinistra radicale; alleanza cementata dal declino della prima e dal rinvigorirsi della seconda, negli anni passati, grazie alle devastanti conseguenze sociali ed economiche della crisi scoppiata in tutto il mondo dopo il 2008, ma pesantissime in un’Europa meridionale caratterizzata da economie fragili e indebitate. E paralizzata dalle ricette economiche restrittive decise da Bruxelles.
Gli indignados cominciarono proprio allora a mostrarsi. Se fu la Spagna a battezzare la parola, quello che sarebbe diventato un movimento transnazionale nacque in Portogallo. I manifestanti della Geração à Rasca (generazione che non ce la fa) riempiono le piazze di Porto e Lisbona per mesi, a partire dal marzo del 2011. Il 15 maggio, alla Puerta del Sol di Madrid appare un grande accampamento: la tendopoli dura un mese ed è uno dei centri simbolici della protesta. Il 15 giugno, il capo del Governo catalano deve raggiungere il Parlamento di Barcellona in elicottero per le proteste che infuriano all’esterno. Il 29 giugno, mentre il Parlamento greco approva il pacchetto di austerità dettato dall’Unione europea, Atene viene scossa da manifestazioni e scontri, per giorni. Queste fiammate sono le principali ma non certo le uniche di un’ondata che dura per due anni.
Non riesce a ottenere il suo scopo: a Bruxelles gli equilibri politici non si modificano nell’immediato. È abbastanza ironico, oggi che le regole sul debito sono state cambiate e un meccanismo di finanziamento comune è stato messo in opera dall’Unione europea, fare l’elenco delle “scuse” e delle “conversioni” arrivate in tempi più recenti: Jean-Claude Juncker, ex Presidente della Commissione: “abbiamo calpestato la dignità dei popoli”. Jeroen Dijsselbloem, ex Presidente dell’Eurogruppo: “erano misure estreme che hanno distrutto le aspettative sociali”. Christine Lagarde, ex Presidente del Fondo monetario internazionale: “abbiamo sottostimato l’effetto recessivo delle nostre ricette”. Ma nel 2011 l’austerità era indiscutibile, e l’anno si chiuse con le dimissioni a catena dei Governi Sócrates in Portogallo, Zapatero in Spagna, Berlusconi in Italia e Papandreu in Grecia, travolti dalla crisi del debito sovrano. I socialisti che guidavano i primi due furono puniti nelle urne e il timone passò alla destra. Gli ultimi due, conservatori, furono sostituiti da “grandi coalizioni” incaricate di portare avanti i provvedimenti indicati dall’Unione europea.
Visto che le strade dei partiti tradizionali erano sbarrate, le convinzioni degli indignados trovarono altri spazi. Nel 2012 in Grecia nasceva l’alleanza di sinistra radicale Syriza, alla sua testa il trentottenne Alexis Tsipras. Nello stesso anno, la trentanovenne Catarina Martins rivitalizzava il Blocco di Sinistra in Portogallo. All’inizio del 2014 in Spagna il trentaseienne Pablo Iglesias fondava Podemos. Quei partiti sarebbero tutti arrivati, in modalità diverse, alla sfida di tradurre le nuove idee in esperienze di Governo e politiche in discontinuità con il tanto criticato presente.
Il primo è Alexis Tsipras: la crisi greca è talmente grave che le elezioni del gennaio 2015 spazzano via il governo di coalizione di Atene, distruggono lo storico Pasok e trasformano Syriza nell’unica grande forza di sinistra su piazza. Cominciano allora i celebri duelli tra il nuovo premier Alexis Tsipras e il suo ministro dell’Economia Yannis Varoufakis contro l’ortodossia finanziaria europea, impersonata dai tedeschi nei pari ruoli Angela Merkel e Wolfgang Schäuble, ma condivisa per forza o per amore dalla stragrande maggioranza degli altri Stati. Alla Grecia vengono presentate da Commissione, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale delle condizioni in cambio del riscatto finanziario: Tsipras e Varoufakis le dichiarano irricevibili e in una mossa disperata per cercare di evitarle, chiamano il popolo a esprimersi via referendum. I greci dicono di no (61%). Tuttavia, con una clamorosa svolta realista, con i mercati finanziari che spingono Atene alla bancarotta, un mese dopo Tsipras decise di accettare le condizioni della famigerata Troika. Varoufakis, disgustato, se ne va sulla sua moto. Ma il premier indice un voto anticipato e riottiene dai rassegnati greci la maggioranza per governare. Tsipras traghetterà la Grecia in salvo – il “piano di aiuto” si conclude tre anni dopo – e contribuirà in maniera decisiva alla sopravvivenza dell’eurozona. Viene sconfitto alle elezioni del 2019, pur mantenendo però con il 33% l’egemonia sulla sinistra greca.
Il 2015 è cruciale anche in Portogallo. Al Governo sale il socialista António Costa, con l’appoggio esterno in Parlamento del Blocco di Sinistra – che alle elezioni aveva raddoppiato i voti – più Comunisti e Verdi. Il nuovo esecutivo, pur in un clima di disciplina fiscale, cancella le precedenti politiche di austerità: i portoghesi confermano la formula alle urne nel 2019. Alla fine del 2021 però Blocco di Sinistra, Comunisti e Verdi decidono di togliere il sostegno a Costa, accusato di aver presentato una finanziaria troppo poco sociale ed ecologista. Questa mossa alla Bertinotti porta alle elezioni anticipate, che il 30 gennaio del 2022 vedono i portoghesi dare la maggioranza assoluta a Costa e punire severamente la sinistra radicale. Gli elettori ora vogliono: stabilità.
Benché in Italia il dissenso di quegli anni non sfociasse in soluzioni politiche simili, tutte le anime della nuova sinistra mediterranea hanno legami importanti con il nostro Paese, a cominciare da quelle spagnole. Il ventiduenne Pablo Iglesias, Erasmus a Bologna, era a Genova nel 2001, così come la sindaca di Barcellona Ada Colau. Entrambi crescono politicamente con il mito di Enrico Berlinguer, e tentano di riprodurre nella loro azione politica le caratteristiche del suo partito comunista, radicale e popolare allo stesso tempo.
In appoggio esterno dal 2018, poi dentro l‘esecutivo Sánchez dall’inizio del 2020: oggi i ministri di Podemos (ora Unidas Podemos) governano la Spagna. Non è più la celebrity Iglesias il capo del partito: dopo una furiosa campagna dalle tinte orwelliane orchestrata dalla destra nei suoi confronti, il fondatore ha lasciato il testimone alla ministra del Lavoro Yolanda Díaz. La maggioranza parlamentare di sinistra a Madrid si regge su una manciata di deputati di piccole forze regionaliste e autonomiste, eppure ha superato indenne i due anni della pandemia.
All’inizio del 2022 appare all’orizzonte lo scoglio più insidioso: l’approvazione di una riforma che per la prima volta in decenni aumenta invece di diminuire i diritti dei lavoratori. Contestatissima, la legge si avvia alle forche caudine del voto parlamentare, mentre giorno dopo giorno gli alleati si ritraggono: prima i partiti catalani, poi quelli baschi e infine di sorpresa il giorno del voto anche quelli navarri dicono no. Si fanno i conti: il Governo andrà sotto, 175 voti contro 174. Sánchez cadrà, l’alleanza di sinistra esploderà, si rivoterà con l’elettorato pronto al castigo. E invece, il tabellone elettronico segna sì 175, ma a favore. Un deputato conservatore schiaccia il pulsante sbagliato: Alberto Casero, eletto per il PP in Extremadura. Grazie a un dito ballerino resta in piedi l’ultima esperienza di governo di sinistra-sinistra ancora al potere in Europa, erede della stagione degli indignados. Ai suoi protagonisti, il compito di allungarne la vita. In un’Europa che oggi politicamente appare molto diversa, e dove nella regione mediterranea sono le forze di destra a crescere, i miracoli non si ripeteranno.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
Germania, dal gas di Mosca all’idrogeno di Marrakech
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Due eventi hanno reso la Germania il Paese europeo dove più si discute di transizione energetica e cambiamento climatico. Lo scorso luglio, le devastanti inondazioni nella Valle del Reno, che hanno provocato 180 tra morti e dispersi, ma anche un grande shock in un Paese abituato a pensarsi come efficiente, organizzato e al riparo da un certo tipo di catastrofi. E in aprile una pronuncia della Corte costituzionale, secondo cui le politiche ambientali sin lì dispiegate dai vari Governi nazionali erano insufficienti a garantire le libertà fondamentali alle generazioni a venire, e dovevano essere subito aggiornate. Alcuni dunque pronosticavano un trionfo dei Verdi, alle elezioni di settembre. Il trionfo non c’è stato, ma il 14,8% dei voti ha consentito alla capolista Annalena Baerbock di ottenere il Ministero degli Esteri, e all’altro capo del partito Robert Habeck di diventare Ministro dell’Economia e del Clima – dicastero creato per l’occasione – nel nuovo Governo di coalizione guidato dal socialdemocratico Olaf Scholz. Due assi non da poco, per influenzare la politica tedesca e di conseguenza quella europea.
Le idee dei Verdi
Partiamo dalla carta più debole: è vero, il partito ecologista dirige il Ministero dell’Economia, ma non è da lì, non inganni il nome, che in Germania si controllano le politiche di spesa. Lo si fa piuttosto dal Ministero delle Finanze, dominio incontrastato del principe dell’austerità Wolfgang Schäuble dal 2009 al 2017; il suo erede, proprio Olaf Scholz (2018-21), nel confermare nonostante il cambio di colore le politiche del suo predecessore dichiarò significativamente, scatenando le reazioni della Francia: “Cosa vi aspettavate? Un Ministro delle Finanze tedesco è un Ministro delle Finanze tedesco”.
La conferma del rigore budgetario è valsa all’ostentatamente moderato e sobrio Scholz la vittoria elettorale – un discreto erede di Angela Merkel, hanno pensato i tedeschi, scartando il cristianodemocratico Armin Laschet e le sue gaffe. E al Ministero delle Finanze non sono andati i Verdi e le loro idee di una transizione energetica ed ecologica tutta da spingere a colpi di interventi dello Stato, a partire magari da un’emissione speciale di buoni del tesoro “verdi”. No: alle Finanze c’è Christian Lindner, il capo del Partito liberale – che con il 10,4% è la terza gamba della coalizione – ancor più rigorista. Per lui, lo stretto limite dello 0,35%/pil di deficit strutturale deve restare una barriera invalicabile. “Transizione energetica? – dice Lindner – Benissimo: lasciamo fare al mercato e tutto andrà per il meglio”. La potente industria nazionale dell’auto ha già accettato la svolta elettrica: l’Audi smetterà di produrre auto a benzina entro il 2033.
Non sarà semplice modificare i meccanismi di spesa pubblica della Germania come vorrebbero i Verdi. La variante Omicron, poi, ha colto la Germania in una posizione scomoda. Il Pil nell’arco del 2021 è cresciuto solo del 2,4%, contro il 6,3 dell’Italia. L’economia esportatrice della Germania registrava segnali preoccupanti già dal 2019, per le conseguenze delle tensioni internazionali sul commercio, oggi peggiorate dai blocchi nelle catene di approvvigionamento, dall’aumento dei prezzi dell’energia e dagli effetti della pandemia sui consumi. È vero che l’emergenza potrebbe essere usata per scardinare i limiti di indebitamento; ma è vero anche che le diverse anime del governo litigheranno di più, per dirigere la spesa dove vogliono: i socialdemocratici soprattutto verso i provvedimenti sociali, i liberali verso gli aiuti alle imprese. “Non c’è problema, dateci 2300 miliardi di euro e ve la facciamo noi la transizione energetica”, ha detto la Confindustria tedesca. I sussidi alle imprese, oltre a essere molto apprezzati a Bruxelles perché in consonanza con le scelte politico-economiche della Ue, che su fisco e stipendi non può intervenire, hanno il vantaggio agli occhi della società tedesca di non alimentare il temutissimo ritorno dell’inflazione.
La politica energetica sul fronte internazionale
È invece sul posizionamento internazionale della Germania, che incide e molto anche sulla politica energetica, che i Verdi – dal Ministero degli Esteri – potranno giocare la carta migliore. Lo si è già visto in maniera eclatante nei rapporti con la Russia, virati al peggio nel giro di pochi mesi. Mentre tra Berlino e Mosca si susseguono trame di spie degne di un libro di John Le Carré, il vero elefante nella stanza resta Nord Stream 2, il condotto che passando sotto il Baltico raddoppia la fornitura diretta di gas dalla Russia alla Germania. Il condotto è pronto ma non è stato ancora aperto, e il caloroso sostegno arrivato dagli Stati Uniti ai Verdi di Annalena Baerbock si spiega anche con la contrarietà della Ministra ecologista alla sua apertura. È la stessa posizione di Washington, da sempre opposta all’opera finanziata da Gazprom (Russia), Shell (Olanda-UK), E.ON (Germania), OMV (Austria) e Engie (Francia). “È un progetto del settore privato, su cui non possiamo mettere bocca”, ha commentato con evidente imbarazzo il Cancelliere Olaf Scholz. Nel frattempo l’Agenzia tedesca per l’energia, dopo aver bloccato l’apertura per un vizio giuridico di forma, ha fatto sapere di aver bisogno di altri sei mesi per prendere una decisione.
Resta dubbio se sia davvero possibile bloccare il Nord Stream 2. Habeck, il Ministro verde dell’Economia, ha tentato di condizionarne l’apertura al comportamento della Russia in Ucraina: “non possiamo escludere nulla, nel caso di una nuova violazione dell’integrità del territorio ucraino”, ha dichiarato facendo riferimento alla possibilità di un’avanzata russa fino a Kiev. Un’altra presa di posizione sicuramente apprezzata a Washington – che la reclamava fin dall’arresto di Alexei Navalny – e molto meno a Parigi, da dove Emmanuel Macron non smette di invitare alla distensione.
L’Europa verso un’autonomia strategica?
L’idea di un’autonomia strategica dell’Unione europea, che la Francia sostiene a spron battuto e che continuerà a sponsorizzare parlando di “esercito europeo” per tutta la durata del suo semestre di presidenza Ue (gennaio-giugno 2022), non è infatti compatibile con una Russia aggressiva: impossibile rinunciare alla protezione della Nato in Europa orientale. Ma perché la Ue possa approntare le sue strutture di difesa convenzionali e le forze di intervento rapido, servirebbe senza dubbio un grande impegno economico da parte della Germania, l’unico grande Paese con sufficiente margine di manovra. Negli uffici di Berlino, però, guardano i conti degli investimenti per la transizione energetica, quelli delle politiche sociali e dei sussidi da erogare per evitare che i costi siano scaricati sulle fasce più deboli (nessuno vuole rivedere i gilet gialli nelle piazze), quelli delle pensioni di una popolazione sempre più anziana, quelli degli aiuti alle imprese… La situazione rende più probabile che a Bruxelles la Germania si schieri a favore di un “booster” di Recovery Fund, tarato sugli obiettivi della transizione, invece che dedicarsi alle spese militari.
Il prezzo del gas è aumentato di sei volte rispetto allo scorso anno, di certo anche grazie alle manovre del Cremlino: Nord Stream 2 o no, la Germania deve liberarsi dalla dipendenza dal gas russo. Ad esempio, in cerca di fonti alternative, la Ministra Baerbock ha già fatto passi importanti verso il Marocco, Paese decisivo per lo sviluppo delle rinnovabili e dell’idrogeno verde, rivedendo la posizione diplomatica tedesca sulla critica questione del Sahara Occidentale e allineandola a quella degli Stati Uniti. In tanta incertezza, non va dimenticato un punto fermo: il radicato atlantismo dei grandi partiti e degli ambienti militari della Germania. Nel groviglio geopolitico che il nuovo governo rosso-verde-giallo si trova ad affrontare, e che si aprirà con la presidenza tedesca del G7, il pendolo si sta muovendo verso la sicurezza offerta dai tradizionali accordi con gli Stati Uniti piuttosto che verso le ambizioni propugnate dall’Eliseo.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
Paesi Bassi, un narco-Stato ben organizzato
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Un missile anti-carro lanciato contro la redazione di un settimanale. Un camion in fiamme scagliato sulla sede di un grande quotidiano. Granate nelle zone portuali. Terra bruciata e catena di morti attorno ai pentiti. Sembra lo stillicidio di attentati tipico di una mafia sanguinaria in una delle tante roccaforti criminali in giro per il mondo, ma si tratta di fatti di cronaca avvenuti tra Amsterdam e Rotterdam solo negli ultimi due o tre anni.
Pochi associano i Paesi Bassi alla presenza mafiosa, e men che meno a una mafia penetrante, sanguinaria, sfuggente – come poteva essere la Cosa Nostra di Totò Riina negli anni ’80. E invece è proprio in uno dei Paesi d’Europa meglio valutati per qualità della vita, libertà personale e trasparenza nel mondo della politica e degli affari, che una temibile associazione a delinquere ha saputo crescere, prosperare e radicarsi, fino a spaventare ai più alti livelli: dalla fine di settembre, anche il Primo Ministro Mark Rutte è sotto un regime di protezione speciale, dopo le minacce di attentato e rapimento che i servizi di sicurezza hanno considerato legate alla mocro-maffia.
È questo il nome dato alla costellazione di bande che nel 2014 cominciarono a far parlare di sé con una guerra intestina – tra la componente belga e quella olandese – che lasciò sul campo oltre cento morti. “Mocro” indica gli immigrati di origine marocchina: oggi ne fanno parte persone di ogni provenienza, ma la “maffia” è stata fondata da un gruppo di olandesi figli di immigrati dal Marocco, e uno di loro ne è ancora e sempre il capo dei capi: Ridouan Taghi, un 43enne cresciuto in un sobborgo di Utrecht e capace di restare fino a soli cinque anni fa del tutto sconosciuto alla polizia.
La foce del Reno offre diversi vantaggi a un’organizzazione criminale. Per cominciare, due tra i porti più grandi del mondo: Rotterdam e Anversa, che secondo Europol sono diventati i primi centri d’ingresso della cocaina in Europa. Le tante industrie chimiche e farmaceutiche della regione sono strutture fenomenali per la lavorazione delle droghe sintetiche; se oggi l’Olanda è il paradiso della produzione di crystal meth e ecstasy, lo deve a una tradizione industriale iniziata negli anni ’80 con le anfetamine. Non le roulotte alla Walter White, ma le case galleggianti sui canali vengono usate come laboratori di meth, con tanto di esperti messicani a insegnare come si fa. L’innovazione tecnologica, fiore all’occhiello dell’agricoltura olandese, che riempie gli scaffali di frutta e verdura dei nostri supermercati, è stata usata anche sulle piante di marijuana, tanto da farne una specie di droga pesante. Le autostrade senza pedaggio sono invece percorsi ideali (non per il costo, ma per l’assenza di controllo all’entrata e all’uscita) per una veloce distribuzione. Infine, la legislazione dei Paesi Bassi, resi ormai una specie di paradiso fiscale dalla deregulation finanziaria, consente di riciclare i proventi del crimine in tutta tranquillità e sicurezza, offrendo anche lautissimi profitti: le mafie di tutto il mondo sono rappresentate sulla piazza finanziaria di Amsterdam.
È così che una street gang dedita a rivendere in Europa l’hashish del Marocco si trasforma in una mafia internazionale con la struttura di una holding finanziaria a scatole cinesi. E si sente così potente da aver abbandonato il classico profilo basso, la regola d’oro delle organizzazioni criminali in Nord Europa: vivi, ma non farti vedere. Oggi usano i diamanti di Anversa per pagare la droga. Taghi è stato sì arrestato a fine 2019 in una villa a Dubai, ma comanda anche dall’ex lager nazista riconvertito in carcere di massima sicurezza in cui è detenuto. E sulle persone che gli danno fastidio pende la condanna a morte, così come su chi si pente: Wie praat, die gaat – Chi parla muore.
Condanna a morte che non si esita ad applicare. Una sera di questa estate il celebre criminologo Peter R. de Vries camminava in una tranquilla stradina di quelle fotografate dai turisti, a pochi passi dal Prinsengracht, il più bel canale di Amsterdam, quando viene colpito da cinque colpi di pistola alla testa. De Vries da poco aveva accettato di fare da consulente a Nabil B., pentito e testimone chiave del processo “Marengo”, il procedimento in corso contro Taghi e altri affiliati. Ma sembra uno di quei processi in cui i giudici hanno più paura degli imputati: due anni fa, anche l’avvocato di Nabil B. era stato ucciso, sotto casa, sempre ad Amsterdam. L’anno prima, il fratello del pentito. Un sicario costa 3000 euro. Trenta tra giudici, avvocati e testimoni sono sotto protezione.
La mocro-maffia è feroce, ma anche globalizzata e tecnicamente avanzata. Non solo perché è già protagonista di una serie tv. Quando è stato smantellato un servizio di messaggeria cifrata usata dai criminali, si sono scoperte 70mila identità digitali fittizie, contatti con le altre mafie del mondo, dall’Italia al Sud America alla Russia. Il sistema investigativo olandese non è ferrato sulle mafie. A settembre, all’Aja, un ignaro turista inglese è stato arrestato nel ristorante di un hotel: la polizia credeva che fosse Matteo Messina Denaro venuto a incontrarsi con la mocro-maffia, benché parlasse con uno spiccato accento di Liverpool e non di Trapani.
La sua struttura di potere è fatta di sezioni separate: armi, produzione della droga, finanza, traffico, eccetera, in modo tale da salvaguardare la tenuta dell’intero complesso se una parte viene scoperta – un modus operandi mutuato dalle associazioni terroristiche. Ma non c’è solo questo a spiegare la crescita della mafia olandese.
La politica e l’opinione pubblica hanno sottovalutato il fenomeno: mancano una legislazione antimafia e un’azione processuale adeguata. E le vittime degli attentati erano indifese. De Vries ad esempio aveva rifiutato la scorta – mentre ora il primo ministro Rutte, famoso per le sue pedalate in solitaria per le strade dell’Aja, l’ha accettata: si è scoperto che qualcuno spiava i suoi movimenti.
Ma i boss continuano a dare ordini dal carcere. I loro patrimoni non vengono toccati. Le strutture d’indagine sono inesperte e sguarnite. I controlli coprono solo il 2% delle merci che entrano nei porti: secondo un pentito della ‘ndrangheta a Rotterdam arrivano almeno 6-8000 kg di cocaina l’anno, poi stivati ad Amsterdam. Con un carico solo si guadagna come in quarant’anni di lavoro di una persona normale, e c’è una parte per tutti: poliziotti, doganieri, portuali. I regolamenti di conti sono sempre più frequenti e sanguinosi: nelle ultime retate sono stati trovati container trasformati in camere di tortura. Ma gli attentati ai media sono forse un segnale ancora più preoccupante. Il missile anti-carro lanciato contro la redazione del settimanale Panorama e il camion in fiamme contro quella del quotidiano De Telegraaf − entrambi si erano occupati della mocro-maffia − sono le fiammate più evidenti di quelle che i giornalisti definiscono minacce “regolari”. Un reporter e un Pm hanno dovuto accettare il programma di protezione massimo e cambiare identità.
Eppure, il fenomeno non riesce davvero a diventare una priorità nazionale, almeno finora, perché la gente comune non vuole credere – come hanno ammesso funzionari del Ministero dell’Interno olandese – di vivere in un “narco-Stato”. Dove è facile reclutare nuovi giovani effettivi, come il dodicenne arrestato con un chilo di cocaina sotto braccio, che accettano la legge dell’omertà. Non può succedere qui, dicono tutti, pensando che un narco stato è un posto dove regna il caos e le strade sono occupate da gente armata di kalashnikov. No: un narco-Stato è dove prolifera l’economia della droga, la corruzione, l’impunità e l’infiltrazione. E i Paesi Bassi rischiano di corrispondere a questo profilo. Le elezioni si sono svolte a marzo, ma il nuovo Governo ancora non c’è; quello uscente ha preso l’impegno, però applicabile solo dal 2022-23, di spendere 400 milioni di euro in più nella lotta alla mafia.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di novembre/dicembre di eastwest.
Germania: il dopo Merkel è verde?
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
“Sono la speranza d’Europa e il nemico numero uno dell’estrema destra”: non poteva essere più chiaro il sostegno del New York Times ai Verdi tedeschi, il partito che ha più possibilità degli altri di chiudere la lunga stagione di dominio della Cdu di Angela Merkel sulla Germania e, di conseguenza, sulla politica europea.
Se è vero l’aforisma di Gramsci per cui la storia di un partito è quella, in piccolo, di una nazione, andare alle origini delle cose ci permetterà di capire meglio perché il mondo liberal vede con tanta simpatia i Grünen. Fu alla fine degli anni Settanta che si raggiunsero le condizioni ottimali per la condensazione tra gli elementi della sinistra contestataria sessantottina, quelli del neonato movimento ambientalista che protestava contro l’inquinamento urbano e le piogge acide che distruggevano le secolari foreste tedesche, e quelli del pacifismo impegnato contro l’istallazione dei missili nucleari Pershing II puntati contro il Patto di Varsavia. A manifestare c’erano anche i genitori dell’attuale leader del partito Annalena Baerbock, due hippies di Hannover che avevano lasciato la città per vivere in una fattoria.
Non c’era molta scelta, per questa sinistra irregolare: il partito comunista era sciolto, i socialdemocratici erano al governo e rimanevano orgogliosamente la forza di riferimento della classe operaia. Nacquero così i Verdi: per lo scioglimento della Nato, per il disarmo, per la chiusura delle centrali nucleari. Una forza anti-autoritaria, decentralizzata, perfino favorevole al ritorno a forme di vita più tradizionali contro la “grande macchina” del capitalismo. “Lunatici marxisti-leninisti in pensione” li vedeva all’epoca il New York Times, preoccupato che un loro successo alle elezioni del 1983 avrebbe spinto l’Urss a invadere una Germania ovest smilitarizzata. Ma il “partito anti-partito”, che prendeva decisioni strabilianti per l’epoca – come l’assoluta eguaglianza nelle cariche interne tra uomini e donne – in poco tempo riuscì a stabilizzarsi sui 3-4 milioni di voti.
Tra gli ingredienti del successo dei Grünen, per prima cosa l’eclettismo. L’assenza di una rigidità politico-dottrinaria e di un legame preferenziale con certe classi sociali hanno permesso al partito di riemergere dalle tempeste successive alla caduta del Muro. Questa flessibilità ha fatto crescere dentro i Verdi una classe politica pragmatica e allenata al compromesso, che al contrario di altre forze libertarie o radicali europee ha saputo consolidarsi nel sistema istituzionale.
Il pragmatismo inossidabile dei Verdi tedeschi si deve forse a un sottile filo di contatto con gli Stati Uniti che ne ha caratterizzato i momenti chiave. Petra Kelly, la prima leader, era bambina quando il patrigno, un ufficiale americano di stanza in Germania Ovest con cui sua madre si era risposata, la tolse dal convento cattolico in cui l’avevano rinchiusa i genitori. In America, dove la portò, la futura fondatrice dei Verdi scoprì la politica: i suoi modelli non furono Marx o Lenin, ma Bob Kennedy, Martin Luther King e i contestatori della guerra in Vietnam: “padrini” che possono sopravvivere alla fine delle ideologie. Nel 1998 i Verdi guidati da Joschka Fischer vanno al governo della Germania in coalizione con i socialdemocratici di Gerhard Schröder: un altro momento chiave. E’ appena scoppiata la guerra del Kosovo. Fischer, che è anche ministro degli Esteri, già prima delle elezioni era stato informato da Bill Clinton. Non solo accetta che dalle basi tedesche partano i bombardamenti sulla Serbia, ma giunge anche a promuovere l’idea dell’invasione via terra: non possiamo permettere che i serbi facciano in Kosovo “una seconda Auschwitz”, diceva. Al congresso del partito, Fischer sarà assalito da un gruppo di contestatori della base e cosparso di vernice rosa; tuttavia la linea della “guerra giusta” passerà a leggera maggioranza, a riprova di una svolta non solo dei vertici ma anche tra i quadri dei Verdi. E Fischer potrà così sostenere, nel 2001, anche l’attacco Nato all’Afghanistan dopo l’attentato alle Torri Gemelle.
Oggi, a poche settimane dalle elezioni tedesche, il filo riappare. Se Trump fosse stato rieletto, non ci sarebbe stato alcun riavvicinamento tra Berlino e Washington. Ma per l’amministrazione democratica l’idea che i Grünen siano centrali nel dopo-Merkel è fondamentale per almeno tre motivi. Il primo: i Verdi sono favorevoli ad agevolare la transizione ecologica mediante grandi interventi pubblici, sussidi alle imprese e sostegni ai cittadini. Un’idea che ben si adatta alle intenzioni di Joe Biden per gli Stati Uniti e per il resto del mondo, dove il mega-programma di investimenti Build Back Better World dovrà costituire un’alternativa alle Nuove Vie della Seta cinesi. Il secondo: i Verdi sono contro il principio del pareggio di bilancio a livello europeo: non è un caso che si siano attirati le ire dell’ex ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble, campione dell’austerità. E da sempre gli Usa spingono perché la Germania e la Ue adottino una politica economica più espansiva, sia perché vantaggiosa per l’America, sia perché necessaria a rilanciare la malconcia eurozona. Il terzo: i Verdi hanno sposato la linea dura “atlantica” contro la Russia e la Cina. Vogliono ridurre i legami economici europei con Pechino, e sono contro il completamento del gasdotto Nord Stream 2, che raddoppia il gas esportato dalla Russia alla Germania ed è osteggiato in tutti i modi da Washington. Baerbock ha riconosciuto pure la necessità di avvicinare l’Ucraina alla Nato e alla Ue e aumentare le spese militari: musica, alle orecchie di Biden. Ma anche di sviluppare i progetti militari europei: musica, alle orecchie di Macron, che spera nell’aiuto della Germania nelle guerre in Sahel che la Francia sta perdendo.
Mentre i socialdemocratici declinavano nel loro crepuscolo operaio, negli ultimi anni i Verdi crescevano (sono al governo in 11 Land su 16, in coalizioni di ogni tipo) grazie a una nuova immagine declinata in chiave professionale, aperta, innovativa, che funziona specialmente tra i giovani, gli abitanti dei centri urbani, gli elettori più indecisi – alla ricerca di novità dopo 16 anni di Angela Merkel, ma che sia novità “con giudizio” e nella continuità. “Voglio una Germania nel cuore dell’Europa, un paese in cui la protezione del clima garantisce la prosperità, la libertà, la sicurezza”, dice Baerbock. Chi non sarebbe d’accordo?
I Verdi, ancora oggi guidati insieme da un uomo e una donna in nome dell’originaria parità di genere, hanno scelto di candidare “la donna” proprio per l’abbondanza di uomini tra gli avversari. Annalena Baerbock ha preso la tessera nel 2005, dopo una laurea alla London School of Economics e uno stage al parlamento europeo. E sottolinea: “io sono il cambiamento, gli altri lo status quo”; eppure in un certo modo è impossibile non vederla come “la seconda” Angela Merkel. Baerbock, cosciente della popolarità della Cancelliera, non la attacca mai personalmente; ed è stata persino sorpresa nel gesto delle mani a losanga tipico di Merkel.
Nessuno può prevedere se i Verdi saranno il partito più votato a settembre, e in questo caso Baerbock sarà Cancelliera, o se arriveranno secondi e dunque governeranno con il centrodestra in qualità di partner minore, come già accade in Austria e probabilmente anche nei Paesi Bassi. Formare un governo, comunque, sarà difficile: la CDU orfana di Merkel non accetterà facilmente di fare da stampella. Se i Verdi dovessero cercare un’altra coalizione, a disposizione ci sarebbero i socialdemocratici, ma con l’obbligata aggiunta o dei radicali della Linke, o degli ultraliberali della FDP. Risolvere questo rebus sarà il primo test per i nuovi Verdi degli anni Venti.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di luglio/agosto di eastwest.
Francia: le sfidanti di Macron alle elezioni
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Manca un anno alle presidenziali francesi, e possiamo ormai considerare che il duetto da tutti pronosticato tra Emmanuel Macron e Marine Le Pen si rivelerà alla fine un triangolo. Anne Hidalgo, sindaca di Parigi, ha annunciato che correrà: è l’unico nome che può unire la sinistra. Le due sfidanti e il Presidente dovranno ricucire attorno alla propria figura almeno una parte delle spaccature sociali, culturali e politiche del Paese, se vorranno offrire alla Francia una sintesi vincente.
Le “fratture francesi”, descritte per la prima volta dal geografo politico Christophe Guilluy nel 2010, sono diventate una formula fissa se si parla di impoverimento o successo economico, rabbia o soddisfazione, opportunità o emarginazione, comportamento elettorale e sociale. È una formula evocativa, a cui facilmente aderiamo in un’epoca in cui la denuncia delle diseguaglianze è tornata alla ribalta. Non è detto sia però quella giusta per capire la Francia: la critica più acuta nota come il Paese sembri sì spaccato, ma è accomunato invece da un declino socio-economico collettivo, verso cui le varie fasce sociali scendono forse con diverse velocità, ma tutte nella stessa direzione. È un fatto che gli indicatori socio-economici puntino verso la “serie B” dell’eurozona; la conflittualità degli ultimi anni ne è una prova netta, con in più l’incognita delle conseguenze della pandemia.
Divisioni o no, ogni cinque anni la politica francese viene per forza ricondotta a un minimo comun denominatore dal voto presidenziale. Anne Hidalgo ha quattro assi da giocare. Il primo è che i francesi vogliono novità: sette su dieci non desiderano rivedere il duello Macron – Le Pen. Il secondo è la sua capacità di emergere sugli infiniti litigi e gelosie della sua parte politica, dimostrata nelle due elezioni con cui ha vinto e riconfermato la mairie di Parigi (2014 e 2020). Non è un talento da poco, non solo in Francia. Il terzo è che i rivali a sinistra non sono in gran forma. Il radicale dalla sciarpa rossa Jean-Luc Mélenchon, già alla terza candidatura, sta perdendo smalto, mentre i Verdi stanno sciupando gli ultimi successi con provvedimenti come eliminare la carne dalle mense delle scuole a Lione, o non piantare, per non farlo morire, l’albero di Natale a Bordeaux. L’ultimo asso: Anne Hidalgo conosce come nessuno i rituali, le strettoie, le idiosincrasie della sinistra francese, perché ci naviga dentro da un quarto di secolo.
Chi è Anne Hidalgo
La sua carriera politica inizia appunto al ministero del Lavoro alla fine degli anni ’90, quando il dicastero – potentissimo, tanto da essere chiamato l’empire – è governato da Martine Aubry. Al Governo c’è il socialista Lionel Jospin, all’Eliseo il gaullista Jacques Chirac. Le riforme di Jospin faranno epoca, le famose 35 ore o la copertura sanitaria universale, e la trentottenne Hidalgo si getta anima e corpo nei compiti affidati alla legione di giovani funzionari che devono elaborare i provvedimenti e assistere la ministra: sarà questa una formidabile scuola di lavoro collegiale, battaglia politica e sopravvivenza nel partito: tra i feudi e le correnti socialiste, o ci si fa largo o si soccombe.
Hidalgo, che troverà nell'”impero” anche il suo secondo marito, si lega a Martine Aubry. Il passaggio dalla funzione tecnica in un ministero alla politica di partito è un classico in Francia. Un tipico terreno di consolidamento è invece la funzione di sindaco in un comune importante. Nel 2001 Aubry capisce che il vento sta cambiando – l’anno dopo infatti Jospin verrà superato persino da Jean-Marie Le Pen alle presidenziali – lascia il Ministero, e paracaduta la sua protetta Hidalgo nella politica parigina. È lì che Bertrand Delanoë sta preparando l’assalto socialista al municipio della capitale, dominato dalla destra fin dal 1977, da quando cioè la carica di sindaco era stata reintrodotta dopo oltre cent’anni di commissariamento prefettizio in seguito alla Comune di Parigi. La “piccola Anne”, come la chiamavano i suoi avversari interni, scala tutte le posizioni, viene nominata vicesindaca: ruolo di facciata, pensato per garantire pro-forma la parità di genere, che lei trasforma in un feudo inespugnabile, fino a prendere il posto di Delanoë nel 2014.
In una Francia che a gran voce contesta lo squilibrio tra la capitale e il resto del Paese, la sindaca di Parigi dovrà combattere l’immagine ecologista-chic che la caratterizza sui media internazionali. Eppure, Ana María Hidalgo Aleu è nata in un paesino dell’Andalusia: da lì i suoi sono emigrati a Lione, dove è cresciuta e si è laureata. Di lei sono molto più “parigini“ Emmanuel Macron e Marine Le Pen, che ora si sfidano in uno strano gioco tra opposizione e simmetria.
Marine Le Pen di nuovo in campo
Per Marine Le Pen è il terzo tentativo, l’ultimo: deve scrollarsi una volta per tutte il mantello ideologico che l’accompagna da sempre e crea un numero di elettori pronti a votare per chiunque purché lei perda. Mi dimetterò dal partito, io sono oltre destra e sinistra, ripete: farò un governo dei “bons“, dei competenti insomma, che rilanceranno la Francia. L’euro va bene, Schengen pure. E moltiplica gli omaggi a un mito come Charles De Gaulle, “grand’uomo di cui solo noi raccogliamo il testimone”. Nel partito-clan di cui la Le Pen è l’erede, è una grande rottura: papà Jean-Marie aveva riempito il Front National di filo-nazisti, già inorriditi lo scorso anno quando Marine riconobbe le responsabilità del regime di Vichy nell’Olocausto, e di militari golpisti che consideravano De Gaulle un traditore della Francia. “No, era super partes come me”, dice oggi la figlia.
Marine Le Pen vuole abbassare la pressione, conquistare il centro, essere “come gli altri”. Emmanuel Macron è impegnato a piene mani ad aumentarla, per togliere il terreno sotto i piedi alla rivale e mobilitare i suoi tanti fan delusi. Il presidente vuole condurre una Kulturkampf, una guerra culturale, in cui apparire come l’araldo del patriottismo e della laicità in chiave anti-islamica, in un Paese estenuato dagli atti di violenza di matrice integralista, da Charlie Hebdo fino alla decapitazione di Samuel Paty passando per un crescente antisemitismo. Macron ha un modello, Nicolas Sarkozy: nel 2012 la sua martellante campagna nazional-securitaria fatta di appelli a “snidare la feccia delle banlieue con l’idropulitrice”, a tagliare i sussidi agli immigrati parassiti, a rimandare i rom in Europa orientale, fu musica per le orecchie dell’elettorato dell’estrema destra, che in quell’occasione si spostò su di lui e lo fece vincere.
Sarkozy poche settimane fa è stato condannato a tre anni per corruzione e traffico di influenze, ma l’équipe di Macron pullula di suoi ex collaboratori. La Francia resta bloccata dalle restrizioni e l’economia collassa a livelli più bassi di quella italiana: un dibattito centrato sui temi sociali o sulla gestione della pandemia sarebbe una via crucis per il presidente, anche perché salderebbe l’opposizione di destra e di sinistra. Dunque, il governo ha lanciato una durissima legge contro il fondamentalismo islamico, tema totalizzante e polarizzante. Il faccia a faccia in tv tra il ministro dell’Interno Gérald Darmanin e Marine Le Pen ha mostrato tutto il paradosso della situazione. Alla Le Pen che indicava come “liberticide” e “colpevolizzanti di un’intera religione” le nuove norme, Darmanin ribatteva: “che le succede, onorevole? La vedo un po’ molle sull’Islam!”. E Marine Le Pen restava con un palmo di naso: questo non gliel’aveva davvero mai detto nessuno.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
Olanda: la sfida “scandalosa” di Rutte
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Il 2021 non è cominciato al meglio per l’Olanda, o meglio i Paesi Bassi, denominazione ufficiale che da pochi mesi tutte le istituzioni devono adottare senza eccezioni. I Paesi Bassi a capodanno erano già in lockdown da tre settimane, tanto che gli amati/odiati petardi e fuochi d’artificio sono stati proibiti del tutto. Lockdown duro: scuole chiuse, restrizioni eccezionali anche alle visite tra familiari, almeno fino a marzo.
Lo scandalo dei sussidi
Il 15 gennaio, il Primo Ministro Mark Rutte ha presentato le dimissioni al re, in seguito allo “scandalo dei sussidi“. Lo Stato chiedeva arbitrariamente indietro a 26mila famiglie i contributi sociali regolari versati, adducendo accuse di frode pretestuose, per di più tinte di razzismo: i beneficiari erano spesso famiglie di origine straniera, a cui i sussidi servivano per pagare le scuole pubbliche dei figli, e a cui l’amministrazione negava anche le informazioni per difendersi o fare ricorso, mentre li obbligava al rimborso intero, immediato, di quanto versato loro negli anni, provocando sfratti, fallimenti, divorzi tra chi non riusciva a saldare. Le dimissioni sono arrivate, a due mesi dalle elezioni (17 marzo), soprattutto per evitare il dibattito e la sfiducia in Parlamento.
Rutte ha promesso risarcimenti, ma è riuscito a lasciar scivolare la colpa sui Ministeri e gli uffici, negando che ci fosse un qualsiasi indirizzo politico nella gestione dei contributi. È il punto di vista, invece, dei critici, che sottolineano come una “dottrina-Rutte” abbia sì condizionato l’azione della pubblica amministrazione, al fine di colpevolizzare e mettere il più possibile i bastoni tra le ruote ai cittadini che richiedono sussidi allo Stato.
Una settimana dopo le dimissioni, tre giorni di proteste e sommosse notturne contro l’inasprimento delle restrizioni sanitarie hanno colpito a macchia di leopardo, con saccheggi e incendi, assalti a centri ospedalieri, scontri con la polizia. Episodi dai contorni difficili da definire, a cavallo tra rabbia giovanile, esasperazione per le misure anti-Covid, provocazioni di estremisti, ma anche ribellione di negazionisti e no-vax, diffusi questi ultimi soprattutto nelle province dove domina l’ortodossia religiosa protestante – una realtà poco conosciuta, descritta dalle crude pagine di Marieke Lucas Rijneveld. Definite da Rutte “violenza criminale”, le sommosse sono state innescate dall’istituzione del coprifuoco alle 21, per alcuni un’assurda limitazione alla libertà personale.
Pericolo batosta elettorale? Non per Mark Rutte, che arriva alla vigilia del voto da favorito. Rutte è Primo Ministro dal 2010, e ha dimostrato di saper galleggiare alla perfezione tra le complessità della frammentata e variegata politica olandese. Vinse di un soffio le elezioni di quell’anno, emergendo come volto concreto, ragionevole, negoziatore, tre qualifiche molto apprezzate dall’elettore medio. E prima di dedicarsi del tutto alla politica gestiva le risorse umane nella multinazionale Unilever, altro bonus in un paese dalla mentalità imprenditoriale e materiale radicata.
Rutte riuscì allora a cucire un accordo di Governo insieme al Partito del Lavoro, la tradizionale forza di sinistra, ma con l’appoggio esterno del Partito della Libertà di Geert Wilders, ultraliberale e xenofobo. Nella legislatura successiva (2012-17), l’accordo fu solo con il Partito del Lavoro, che ne uscì annientato, un po’ come accadeva nello stesso momento nella Germania di Angela Merkel alla SPD. Dal 2017 a oggi, ha costruito una coalizione con un altro partito liberale, più progressista, e due partiti di ispirazione religiosa, i Cristiano-sociali (cattolici) e l’Unione cristiana (protestante).
La popolarità di Rutte era appannata all’inizio del 2020, anche per una serie di clamorose rivelazioni su regali concessi a varie multinazionali, a cominciare dall’anglo-olandese Shell, la cui sede nel 2005 è stata portata all’Aia, si è scoperto, in cambio di una sanatoria fiscale totale nascosta da artifici contabili. I Paesi Bassi risultano il quarto paradiso fiscale al mondo per le grandi imprese. Ma l’iniziale gestione della pandemia, fatta di restrizioni leggere e sussidi a pioggia, il “lockdown intelligente” istituito da marzo a maggio, chiamato così da Rutte stesso (ma l’auto-apprezzamento non è un problema nei Paesi Bassi), hanno rinverdito la reputazione del primo ministro e sono state applaudite da una società sensibile al tema delle libertà personali, e culturalmente propensa a vedere nel coronavirus non un‘emergenza di lungo periodo, ma un fastidio di cui liberarsi presto con qualche piccola precauzione.
Le incognite della campagna elettorale
Rutte ha interpretato l’animo della maggioranza dei suoi connazionali anche quando si è messo alla testa dei “frugali” per bloccare il Recovery Fund. L’intransigenza olandese (Rutte nel 2015 stava per essere sfiduciato dal Parlamento dopo aver votato nel Consiglio europeo in favore di un pacchetto di aiuti alla Grecia) sarà risultata antipatica a Parigi o a Roma, ma è di certo concorde con una disistima diffusa nell’opinione pubblica riguardo le capacità politiche, amministrative e contabili dell’Europa mediterranea.
Il Primo Ministro ha però ancora qualche incognita davanti a sé, prima della riconferma. La prima è la pandemia: il partito di Rutte ha vinto le elezioni del 2010, 12 e 17 rispettivamente con il 20, il 27 e il 21% dei voti, non certo un consenso oceanico, però sufficiente in un quadro politico ultra-frammentato: sono 37, un record, le liste presenti sulla scheda quest’anno. Il capolista del partito più votato è incaricato per la guida del Governo. La paura di uscire potrebbe condizionare l’affluenza, anche se nessuno sa prevedere come, e la campagna vaccinale procede a rilento, peggio della media europea. Di certo, se le restrizioni pesanti continuassero il sostegno per il premier uscente potrebbe affievolirsi: perciò non si escludono ammorbidimenti proprio alla vigilia del voto.
La seconda è l’economia. La situazione è in chiaro-scuro: i Governi sparagnini di Rutte hanno portato il debito pubblico sotto il 50% del Pil, e dunque c’è una grande solidità finanziaria su cui poggiare l’aumento della spesa pubblica dovuto alla pandemia. L’indebitamento privato invece è alto, grazie al boom dell’edilizia, della compravendita e dei prezzi delle case. Mentre l’immobiliare e il settore bancario correvano (troppo, secondo alcuni), il sistema produttivo esportatore dei Paesi Bassi era già in difficoltà nel 2019 per il calo del commercio internazionale, e ora sconta anche tutte le asprezze della pandemia e della Brexit.
Nella campagna elettorale si parla molto di disuguaglianze, in particolare tra quei lavoratori garantiti dai contratti migliori e invece i tanti indipendenti (1.4 milioni su 17 milioni di abitanti) che in un momento in cui l’occupazione e l’offerta di lavoro crollano non hanno infrastruttura sociale a sostenerli. D’altro canto, il mercato finanziario di Amsterdam sta volando grazie a operatori, scambi e agenzie che si sono spostate nei Paesi Bassi perché la Ue non riconosce più la City di Londra. Al Covid si deve invece invece la crisi nera di uno dei gioielli nazionali, l’aerolinea KLM (un terzo di capitale pubblico, e che ha già ricevuto aiuti per 3.4 miliardi), e degli aeroporti come Schipol, prima una vera macchina da soldi di gestione al 100% pubblica.
Dai tanti partiti disponibili, però, non emerge un’alternativa che riesca ad andare oltre l’orticello del proprio elettorato di riferimento – il più grande dei quali sembra quello di Geert Wilders, che a Bruxelles siede con Matteo Salvini e Marine Le Pen. A Rutte potrebbe di nuovo bastare meno di un quarto dei voti espressi per vincere. Tuttavia, come sta accadendo in molte altre parti del mondo, il futuro Governo non sarà semplicemente un nuovo esecutivo, ma dovrà affrontare le domande profonde e scomode che attraversano una società in trasformazione. Mark Rutte rischierà davvero il posto se e quando gli olandesi penseranno che non abbia le risposte giuste.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
L’Onu è ancora viva
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
“Le democrazie, paralizzate dalle lotte di potere, azzoppate dalla corruzione, indebolite da diseguaglianze estreme, riescono con grande difficoltà a farsi percepire utili alla vita delle persone. La paura dell’Altro è in crescita. E il sistema internazionale che avevamo costruito con tanta cura è ormai sfilacciato. Ricucirne le parti sarà un’impresa enorme”. Così scriveva Joe Biden già nel marzo 2020.
La crisi delle istituzioni internazionali, con l’Onu in prima fila, era in effetti evidente da tempo. Il quadriennio di Donald Trump, però, è risultato decisivo, una specie di scatto sul rettilineo finale, per chiudere la pagina della diplomazia così come l’avevamo conosciuta negli ultimi settant’anni, dalla fine della Seconda guerra mondiale.
Istituzioni calpestate
In un periodo in cui l’approccio multilaterale alla soluzione delle controversie è stato calpestato quotidianamente dall’amministrazione Trump, quattro grandi strappi hanno lasciato il segno: l’uscita dall’Accordo di Parigi sul clima (COP-21), firmato da tutti i Paesi del mondo. L’abbandono del trattato con l’Iran sul nucleare (JCPoA), firmato con i Paesi del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e la Ue. Il ritiro dal trattato sui missili nucleari di medio raggio (INF) con la Russia. E il ritiro dall’Organizzazione mondiale della sanità, a cui tutti i Paesi del mondo partecipano, accusata di essere al soldo del Partito comunista cinese.
Anche in passato l’Onu aveva sofferto blocchi e condizionamenti dovuti allo scontro tra Usa e Urss. Ma la leadership americana non era mai venuta a mancare, come invece nel 2020 con la pandemia di coronavirus. La caduta dell’Unione Sovietica sembrava anzi avviare la sospirata età dell’oro delle istituzioni internazionali, ma nel frattempo la storia – dichiarata frettolosamente “finita” – ricominciava a muoversi in un’altra direzione.
Da un lato, cresceva l’impazienza americana di sbarazzarsi dei condizionamenti, dei tempi, degli obblighi di consenso dei consessi multilaterali, che toglievano slancio alle operazioni politico-ideologiche di Washington, a cominciare dalle guerre in Medio Oriente degli anni 2000. Negli anni di Obama quell’impazienza fu temperata sì, ma non corretta, data l’indisponibilità di quel Presidente a reindossare i panni di garante della sicurezza mondiale – dopo le catastrofi di Iraq e Afghanistan. Dall’altro lato, nelle istituzioni internazionali crescevano in parallelo le posizioni e l’influenza (e i contributi finanziari) della Cina.
“Non importa quale Paese, quale esercito e quanto potente sia. Lo colpiremo, lo colpiremo alla testa e pagherà il prezzo del sangue, se impedirà di crescere a quella parte del mondo che si sta sviluppando”. Così parlava il Presidente cinese Xi Jinping al Palazzo del Popolo di Pechino il 20 ottobre 2020, per il Settantesimo anniversario della Guerra di Corea, proprio mentre a Nashville Trump e Biden erano impegnati nel loro secondo faccia a faccia: quasi una “dichiarazione di voto”.
Non si comprende il ritiro americano, infatti, senza considerare l’ascesa cinese. A partire dal 1978, con il periodo riformista che sciolse l’isolamento del regime e gettò le basi della futura crescita, Pechino decise di accettare tutta una serie di impegni internazionali, convenzioni multilaterali e aperture commerciali. Ma la poderosa forza economica acquisita e il peso delle nuove relazioni intessute proprio dentro le istituzioni internazionali portarono a una svolta.
Diritto internazionale e sovranità
Non solo: non bisogna trascurare un concetto ben radicato nella diplomazia cinese. Il “diritto internazionale” è visto dalla Cina, uno dei due Paesi asiatici mai colonizzato dall’Occidente, ma comunque influenzato e sfruttato in maniera sostanziale nei decenni precedenti alla costruzione della Repubblica Popolare, come uno strumento di dominio politico di parte. Già nel periodo riformista, Pechino ha avuto cura di limitare al minimo possibile le concessioni di sovranità al sistema internazionale, pur accettandone molte. Dopo l’ingresso nell’Organizzazione mondiale del commercio (2001), ha smesso del tutto. Fu questa ad esempio una delle ragioni del fallimento degli Accordi sul Clima COP-15 di Copenaghen nel 2009; la Cina firmò invece quelli di Parigi del 2015 proprio perché erano stati eliminati tutti gli obblighi giuridici e i controlli esterni sul posto.
Il concetto di sovranità declinato a Pechino poggia su due pilastri. Il primo è la supremazia totale del diritto nazionale su quello internazionale. In tre gradi: sul territorio nazionale; all’estero quando ci siano cittadini o imprese cinesi coinvolte; e all’estero anche quando attività di terzi, seppure non cinesi, incidano però sulla sicurezza nazionale. Ad esempio, i contratti legati alle Nuove Vie della Seta, che investono tutta l’Eurasia, saranno dibattuti nei tribunali cinesi. E le leggi cinesi sulla cybersecurity hanno proiezione extraterritoriale.
Il secondo è lo smantellamento del sistema di “interferenze esterne” a livello internazionale, con una declinazione nuova di “multilateralismo”: va bene la cooperazione tra Paesi, ma senza cessioni di sovranità ad organi sovranazionali indipendenti. Pechino dev’essere libera di agire dovunque arrivi la continuità storica dei suoi insediamenti territoriali e delle sue comunità – quindi anche a Hong Kong e a Taiwan, per capirci. Per ottenerlo, la Cina non si è esclusa dalle istituzioni internazionali come gli Usa, ma ha deciso di modificarle dall’interno. Con successo.
Ad esempio, il 6 ottobre all’Onu la protesta di un gruppo di 39 Paesi guidati dalla Germania contro la violazione dei diritti umani nella regione dello Xinjiang non solo è stata rovesciata dal voto di 53 paesi che si sono schierati con la Cina – c’erano molti stati africani e del Medio Oriente, come Arabia Saudita ed Emirati – ma è stata accompagnata dalla reazione veemente dell’ambasciatore cinese. “Quando è troppo è troppo”, è sbottato Zhang Jun, “non accetteremo che il paese di George Floyd e dei 200.000 morti per coronavirus venga a farci la morale sui diritti umani”, sottintendendo (non a torto) una manina americana all’origine delle mozioni anti-cinesi.
Poco prima, il 20 luglio, il Ministro degli Esteri Wang Yi, inaugurando il Centro di studi sul Pensiero diplomatico di Xi Jinping, aveva attaccato le sanzioni Usa a Iran e Venezuela come ingiustificate infrazioni ai principi di “sovranità” e “integrità territoriale”. Donald Trump aveva risposto con un discorso breve quanto disastroso, aperto dalle recriminazioni sul “virus cinese”, riempito da roboanti rivendicazioni della supremazia americana nel campo dei diritti dell’uomo e dell’ecologia, e chiuso da un’invettiva sull’inutilità delle Nazioni Unite, pronunciata proprio alle Nazioni Unite.
Uno dei più plastici effetti del doppio movimento, ritiro americano versus ascesa cinese, è la firma (15 novembre 2020) del Partenariato regionale economico globale (RCEP), l’accordo commerciale più vasto del mondo. Ne fanno parte la Cina, gli Stati Asean, più – clamorosamente – quattro strettissimi alleati di Washington: Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda. L’India, forse il paese più di tutti vicino all’America di Trump, ne è rimasta fuori. “È una vittoria del multilateralismo e del libero scambio”, ha commentato beffardamente Li Keqiang, numero due del regime cinese. La RCEP scalza la Trans-Pacific Partnership, siglata a febbraio 2016 sotto l’egida degli Usa di Obama, che escludeva la Cina, e poi affondata per il ritiro americano nel gennaio 2017, uno dei primi atti della presidenza Trump.
Le azioni di Biden
Tra i primi atti della presidenza Biden, invece, c’è il rientro negli Accordi di Parigi sul clima. Ma il riflusso americano non si risolve con semplici marce indietro, perché poggia su tendenze sociali ed economiche profonde: l’onda protezionista e isolazionista è alimentata dagli squilibri gravi prodotti da una globalizzazione incompleta (sì delle merci, non dei diritti personali e sociali) e diseguale. Nel frattempo, la Cina usciva vincitrice dalle tre grandi crisi del primo ventennio del secolo: le guerre americane in Medio Oriente, il crack economico-finanziario, la pandemia.
La nuova amministrazione americana tenterà insomma – per forza – di recuperare quanto perduto, e i colpi del conflitto risuoneranno anche nelle stanze delle istituzioni internazionali. Sulle due sponde della piattaforma eurasiatica, gli Stati Uniti vorranno riallacciare i rapporti con l’Europa e mantenere il vantaggio strategico nel quadrante Asia-Pacifico, trovando però nuove formule di reciproco beneficio per la cooperazione internazionale modello Washington, che altrimenti non ripartirà. La transizione ecologica sarà di certo in cima alla lista.