[BARCELLONA] è giornalista. Scrive su Il Messaggero, Affari Internazionali e Rassegna Sindacale. Ha collaborato con l’Unità e Il Fatto Quotidiano.
L’equilibrio militare in un decennio pericoloso
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Nell’agosto del 1975, 33 Stati firmavano le conclusioni della Conferenza di Helsinki inaugurando una fase di distensione tra Est e Ovest. L’atto finale proponeva un insieme di principi fondamentali, tra i quali il non ricorso alla minaccia o all’uso della forza, l’inviolabilità delle frontiere, l’integrità territoriale degli Stati, la composizione pacifica delle controversie e il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Da quell’appuntamento, anni dopo nacque l’Osce (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa), di cui fanno parte i paesi europei, gli Stati Uniti, il Canada, la Russia e gli Stati nati dalla dissoluzione dell’Urss e della ex Jugoslavia. Quasi cinquant’anni dopo, di quello che fu allora definito lo “spirito di Helsinki” rimane ben poco. La Nato, col sostegno della diplomazia europea, ha dato il via libera alla revoca da parte degli Stati membri della restrizione all’uso delle armi inviate all’Ucraina fuori dal suo territorio. In risposta la Russia, che nel conflitto armato si sta spingendo sempre di più a ridosso del confine, ha minacciato di ricorrere a misure nel campo della deterrenza nucleare.
Il rischio di escalation militare è coerente con la corsa al riarmo che ha contagiato i diversi continenti. Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), nel 2023, nel mondo si sono spesi 2.440 miliardi di dollari in armamenti, il 6,8% in più rispetto all’anno precedente, finiti in investimenti di modernizzazione e innovazione degli arsenali. Per avere un ordine di grandezza nel confronto tra diversi flussi di spesa, basterà dire che la spesa militare è stata circa dieci volte superiore a quella in aiuti internazionali e assistenza allo sviluppo.
Nella scorsa legislatura europea è iniziato un processo di cambiamento sostanziale del progetto comune, con l’obiettivo di fare della Ue una potenza geopolitica. In più di un’occasione si sono consolidate le capacità comuni, anche a costo di varcare quelle che un tempo erano considerate linee rosse invalicabili, per rafforzare il principio di “sovranità europea”. E’ successo nel caso dell’indebitamento pubblico e dell’acquisto di farmaci in pandemia, in quello dell’approvvigionamento di fonti energetiche alternative a quella russa, nel campo della difesa con l’avvio di meccanismi di coordinamento nell’industria degli armamenti e la facilitazione di invio di armi in Ucraina. Nell’ambito della difesa, gli ultimi cinque anni hanno visto la Ue impegnata, oltre l’Ucraina, in sette operazioni militari comuni, compresa quella nel Mar Rosso per proteggere le navi mercantili dagli attacchi degli Houthi.
L’incremento della spesa militare è stato generalizzato nei diversi paesi dell’Unione. Una corsa al riarmo che rappresenta una tendenza globale, concernente tanto gli armamenti convenzionali come quelli nucleari e che ha trovato nell’Europa un interprete particolarmente attivo. L’International Institute for Strategic Studies, nel suo ultimo rapporto relativo al 2023 (IISS, “The Military Balance 2024”) sostiene che la guerra in Ucraina, il conflitto in Medio-Oriente, le tensioni con la Cina e l’incertezza sul prossimo titolare della Casa Bianca hanno creato lo scorso anno “un contorno di sicurezza altamente volatile”, annunciando “un decennio più pericoloso”.
Sono dieci i paesi, guidati da Stati Uniti, Cina e Russia, ad aver speso in armamenti, lo scorso anno, la maggior parte dei 2.440 miliardi di dollari segnalati dal SIPRI, l’istituto indipendente con sede a Stoccolma, creato nel 1966 per commemorare i 150 anni di pace ininterrotta in Svezia. Una cifra peraltro analoga a quella proposta dall’IISS, think thank con sede a Londra, fondato nel 1958 – 2.200 miliardi di dollari – nel suo rapporto sopra indicato. La spesa militare, secondo l’istituto svedese, è aumentata nel 2023 per il nono anno consecutivo e per la prima volta in tutti i continenti, con incrementi importanti in Europa, Asia, Oceania e Medio Oriente.
Lo scorso anno, i paesi della Nato hanno consumato il 55% del totale della spesa militare, 1.340 miliardi di dollari. Tra questi, gli Stati Uniti hanno aumentato la spesa in armamenti del 2,3%, fino a raggiungere la cifra di 916 miliardi, il 68% della spesa militare dell’Alleanza atlantica, il 37,5% della spesa militare mondiale. La gran parte dei paesi europei membri hanno aumentato la propria spesa militare, tanto da rappresentare il 28% della spesa totale della Nato.
La Cina, con i suoi 296 miliardi di dollari, determinati da un incremento di spesa del 6% rispetto all’anno precedente, è il secondo paese al mondo con maggiore spesa militare (il 12,1%).
La spesa in armamenti in Russia è invece cresciuta, nel 2023, del 24% rispetto all’anno precedente, per un ammontare stimato di 109 miliardi di dollari, il 57% in più rispetto al 2014, il 4,5% della spesa militare globale. Un ammontare di risorse che rappresenta il 16% della spesa pubblica totale del paese e pesa sul Pil russo per il 5,9%.
In relazione ai conflitti in corso, nel 2023 sono aumentate significativamente anche le spese in armamenti di Ucraina e Medio Oriente. In particolare, in Ucraina la spesa per il riarmo è aumentata del 51% rispetto al 2022, rappresentando il 58% della spesa pubblica totale e una percentuale sul Pil del paese del 37%. La guerra della Russia in Ucraina ha determinato un aumento del bilancio militare dei paesi della Nato pari al 16%, con una spesa media del 2,8% sul Pil, superiore alla soglia del 2% fissata nel 2014 dall’Alleanza atlantica. Mentre in Medio Oriente la spesa militare stimata è aumentata del 9%, l’incremento maggiore nell’area negli ultimi dieci anni. Il Medio Oriente è l’area nel mondo in cui si registra anche l’onere militare sul Pil più alto: il 4,2% contro il 2,8% dell’Europa, l’1,9% dell’Africa, l’1,7% di Asia e Oceania e l’1,2% delle Americhe.
Il confronto tra le maggiori potenze nucleari quali sono gli Stati Uniti, la Cina e la Russia, in relazione alle guerre in corso, aumenta la possibilità che si arrivi a utilizzare le armi nucleari, anche se solo in via accidentale. Inoltre, va considerato il salto tecnologico nei sistemi militari dato dall’avanzare impetuoso dell’intelligenza artificiale.
E’ stata la guerra in Ucraina ad accelerare in modo così significativo la corsa al riarmo nel continente europeo. I paesi europei, infatti, percepiscono la loro inadeguatezza in scorte militari rispetto alla Russia e perciò si preoccupano di riportarle al livello precedente, mentre continuano a sostenere militarmente l’Ucraina, si legge nel rapporto del SIPRI. In particolare, la Polonia ha investito il 3,9% del Pil nel settore militare, con un aumento della spesa dedicata nel 2023 del 75%. Negli ultimi dieci anni, la spesa militare nella Ue è aumentata del 50%. I paesi che hanno generato un incremento maggiore di spesa militare sono quelli confinanti con la Russia, la Bielorussia e l’Ucraina.
Questa corsa al riarmo europeo, col ritorno alle regole del patto di stabilità, va a scapito delle altre componenti di spesa pubblica, modificando l’ordine delle priorità. Secondo il rapporto “Arming Europe” di Greenpeace, pubblicato nel novembre 2023, nell’insieme dei paesi Ue della Nato, tra il 2013 e il 2023, il Pil in termini reali è cresciuto del 12%, l’occupazione del 9% e la spesa militare del 46%. Perché, suggerisce il rapporto, se è vero che anche la spesa in armamenti, come qualunque spesa pubblica, aumenta la domanda globale, il suo impatto sulla crescita economica e sull’occupazione è minore rispetto alla spesa per l’ambiente o la sanità.
Secondo il rapporto SIPRI già citato, i produttori europei, comprese le aziende del Regno Unito, nel 2020 rappresentavano il 19,9% del totale delle vendite di armi delle prime 100 aziende che operano nel settore della difesa. Le prime tre imprese europee produttrici di armi erano, nel 2021, la britannica BAE, l’italiana Leonardo e la franco-tedesca-spagnola Airbus. Le aziende con sede in Europa sono 26 tra le prime 100 del settore militare nel mondo. L’Agenzia Europea per la Difesa (EDA), istituita nel 2004 come agenzia intergovernativa della Ue che promuove l’industria della difesa e la collaborazione degli Stati membri, stima il fatturato dell’industria europea della difesa in 84 miliardi di euro nel 2021, per un’occupazione diretta pari a 196.000 posti di lavoro e un indotto di 315.000 posti di lavoro.
L’Unione europea si è dotata di alcuni strumenti dedicati alla capacità di prevenire i conflitti, preservare la pace e rafforzare la sicurezza internazionale e la stabilità. E’ il caso della European Peace Facility (EPF), adottata dal Consiglio europeo nel marzo del 2021, che è stata dotata finora di fondi pari a 17.000 miliardi di euro, 11 dei quali sono stati impegnati a sostenere le forze armate ucraine, tra il 2022 e il 2024.
La Commissione si è dotata di un altro strumento per sostenere la ricerca e lo sviluppo nella difesa, l’European Defence Fund (EDF). L’EDF ha un budget 2021-2027 di circa 8.000 miliardi di euro, dei quali 2.700 miliardi per la ricerca comune nella difesa e il resto per sviluppare progetti comuni.
Il parlamento europeo appena eletto dovrà negoziare il prossimo bilancio pluriennale della Ue per il periodo 2028-2034: sarà quella l’occasione per verificare le posizioni dei diversi gruppi politici relativamente al potenziamento di strumenti comuni nel campo della difesa.
Crisi, emergenza o cambiamento climatico?
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Per metà dello scorso anno, le temperature sulla Terra hanno superato di oltre un grado e mezzo quelle che si osservavano nell’epoca preindustriale. Secondo dati del Servizio Europeo sul Cambiamento Climatico (C3S) presentati nel gennaio scorso, il termometro del pianeta ha registrato nella media dell’anno un’ascesa di 1,48 gradi C, un livello molto prossimo a quell’incremento dell’1,5 considerato nel 2015 dai governi di tutto il mondo il valore di soglia massimo sostenibile. Il cambiamento climatico, assieme all’arrivo del fenomeno El Niño, starebbe dietro questo aumento termico: il 2023 si è infatti chiuso con una crescita della concentrazione nell’atmosfera dei gas serra, considerati i principali responsabili del riscaldamento globale.
Gli effetti dell’emissione di combustibili fossili si potrebbero addirittura osservare sul pelo dei bisonti. Uno studio di un gruppo di scienziati polacchi, condotto in oltre un decennio nel bosco di Bialowieza in Polonia, (pubblicato sul Global Change Biology), alla ricerca di peli di animali autoctoni, ha dimostrato come il pelo dei bisonti sia cambiato negli ultimi settant’anni, modificandone le proporzioni di carbonio e di azoto. Ossia, l’aumento di anidride carbonica nell’atmosfera, incorporato nella vegetazione del bosco, sarebbe passato agli animali al momento di nutrirsi.
Dal 1995, i governi del mondo si riuniscono ogni anno per discutere del clima, concordando obiettivi e politiche da applicare. L’ultima conferenza mondiale, la Cop 28, celebrata nel 2023 a Dubai, ha concluso i suoi lavori indicando la transizione come processo per passare da un mondo di combustibili fossili a un mondo liberato da questi e realizzare così l’obiettivo di zero emissioni nette nel 2050. Queste conferenze annue sono non vincolanti ma piene di buoni propositi, a volte inadeguati ad affrontare l’emergenza. E quando siano efficaci resta da vedere quanto realmente incidano sui comportamenti dei governanti, dal momento che per raggiungere l’obiettivo di riduzione di circa la metà delle emissioni in questo decennio, le emissioni di gas serra sarebbero dovute diminuire lo scorso anno del 5% e invece sono aumentate. E quanto le loro conclusioni appaiano credibili agli occhi della popolazione, quella più giovane soprattutto, protagonista negli ultimi anni di un movimento generale per la salvaguardia del pianeta.
Le emissioni di gas serra in Europa
Due studi realizzati in Europa, il primo in Norvegia dell’Istituto di ricerca sul Clima Cicero, il secondo elaborato dall’Università di Exeter nel Regno Unito, “Global Carbon Budget 2023”, pubblicati alla fine dello scorso anno, hanno evidenziato per il 2023 un aumento delle emissioni globali di anidride carbonica attorno all’1% rispetto al 2022, con valori assoluti di crescita compresi tra i 36 e i 41 miliardi di tonnellate. Lo studio britannico attribuisce l’1,1% di aumento complessivo delle emissioni di CO2 al petrolio (+1,5%), al carbone (+1,1%) e al gas naturale (+0,5%). In particolare, Cina e India hanno aumentato le loro emissioni (+4% e +8,2% rispettivamente); mentre Stati Uniti e Unione Europea ne avrebbero ridotto il volume, nell’ordine, del 3% e del 7,4%.
Secondo dati Eurostat, la Spagna è stato il paese europeo in cui più è cresciuto il Pil tra quelli che hanno ridotto la contaminazione. Lo studio dell’Osservatorio spagnolo sulla Sostenibilità (“Evolución de las emisiones de gases de efecto invernadero en España”) segnala come le emissioni di gas serra nel 2023 siano diminuite di oltre il 5% rispetto all’anno precedente, una riduzione dovuta all’aumento dell’energia idraulica e delle energie rinnovabili, specie quella voltaica. E per la prima volta in un decennio Barcellona, lo scorso anno, ha ridotto i livelli di contaminazione entro i limiti stabiliti dall’Unione Europea, grazie soprattutto all’istituzione della Zona di Basse Emissioni voluta dall’ex sindaca Ada Colau.
In Italia, secondo un’analisi dell’Enea sul primo semestre dello scorso anno, si sarebbe avuta una diminuzione delle emissioni di anidride carbonica pari al 9%, dovuta a una riduzione dei consumi energetici, mentre le rinnovabili sarebbero cresciute nel periodo del 20%. In Germania, le emissioni di CO2 si sono fermate a 673 milioni di tonnellate nel 2023, 73 milioni in meno rispetto all’anno precedente, il 46% in meno rispetto al 1990, il livello più basso dagli anni Cinquanta. Una riduzione che sarebbe però dovuta più a fattori contingenti che all’adozione di politiche di tutela del clima.
Ruolo dell’Europa nella lotta al cambio climatico
Nel 2021, il parlamento europeo ha approvato la Legge Ue sul Clima, che porta l’obiettivo di riduzione delle emissioni nette dei gas serra dal 40% al 55% entro il 2030, rendendo vincolante il raggiungimento della neutralità climatica entro il 2050. La legge fa parte del cosiddetto Green Deal europeo su cui spicca il pacchetto legislativo “Pronti per il 55%”. Le misure che la Ue sta adottando, riguardano il sistema di scambio di quote di emissione per il settore industriale, il taglio delle emissioni dei trasporti pubblici e privati, la riduzione delle emissioni del settore energetico, l’aumento delle energie rinnovabili, la gestione delle foreste e la riduzione dei gas serra oltre la CO2.
La ministra spagnola per la Transizione Ecologica Teresa Ribera, avendo la Spagna la presidenza del Consiglio europeo, ha rappresentato la Ue nell’ultima conferenza mondiale sul clima, a Dubai. In questo ruolo, Ribera è stata una dei protagonisti dell’accordo finale che parla di “transitare lasciando indietro i combustibili fossili nei sistemi energetici”, così “da raggiungere l’obiettivo di zero emissioni nette nel 2050”. La Ministra si è dichiarata molto soddisfatta di questo risultato, perché segnala direttamente i combustibili fossili come responsabili delle emissioni che si vogliono ridurre e indica la strada da percorrere nei prossimi anni. Diverse associazioni ambientaliste, invece, hanno denunciato la mancanza di ambizione dell’accordo.
La storia delle COP
La Conferenza delle Parti sul clima, conosciuta con l’acronimo Cop, è l’organo che si riunisce ogni anno dal 1995, a parte quello della pandemia, per assumere le decisioni opportune in applicazione della Convenzione. La prima riunione si celebrò a Berlino, preceduta da un vertice tenutosi a Rio de Janeiro in Brasile nel 1992, il cosiddetto Summit sulla Terra. L’obiettivo di questa prima riunione era quello di prendere degli impegni per stabilizzare le concentrazioni di gas serra nell’atmosfera a un livello sufficientemente basso per evitare un’emergenza climatica. Si creò la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, la Unfccc, sulla base della quale ci si impegna a organizzare annualmente una conferenza per decidere le misure da adottare contro il riscaldamento globale.
Ripercorrendo la storia delle Cop, gli appuntamenti più importanti sono quelli celebrati nel 1997, nel 2015, nel 2018 e nel 2022. Le Conferenze del 1997 e del 2015 sono quelle che costituiscono il nocciolo fondamentale dell’iniziativa multilaterale in difesa del clima. A Kyoto, nella Cop 3 del 1997, viene adottato l’omonimo Protocollo, in cui per la prima volta è imposta la riduzione di emissioni di CO2 nell’atmosfera per i paesi più industrializzati, che sono i più responsabili della situazione, pari al 5% in media nel periodo 2008-2012 rispetto agli anni Novanta. Il problema è che la sua entrata in vigore ha richiesto sette anni, rendendone obsolete le indicazioni.
Nella Cop 21 del 2015, si approva l’Accordo di Parigi, dal nome della città ospite. I 196 paesi convenuti decidono che la temperatura media globale dovrà crescere ben al di sotto dei 2 gradi. E’ a Katowice, nel 2018, nella Cop 24, quando il mondo assiste alla nascita ufficiale di Fridays for Future, il movimento della giovane generazione per la difesa del pianeta, la cui leader più visibile è l’adolescente svedese Greta Thunberg. In questo stesso anno è pubblicato il rapporto del Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici formato da scienziati e climatologi, che indica il cammino da intraprendere per non superare il grado e mezzo di crescita del riscaldamento nel pianeta.
Nella Cop 27 del 2022, a Sharm el-Sheik, si crea il fondo “loss and damage” per cui finalmente i paesi industrializzati dovranno riparare i danni subiti dai paesi in via di sviluppo più colpiti dal cambio climatico, ma meno responsabili. Questo fondo viene definitivamente messo in funzione nella Conferenza dello scorso anno, con un ammontare di 700 milioni di dollari.
La comunicazione sul cambio climatico
La comunicazione gioca un ruolo fondamentale nella percezione della gravità della sfida climatica e della credibilità delle politiche adottate. La scelta dei termini conta, perciò nel 2018, il quotidiano britannico The Guardian consiglia ai propri giornalisti di parlare di “crisi” o “emergenza climatica”, piuttosto che di “cambiamento climatico”. Le Nazioni Unite raccomandano di usare un’informazione scientifica accreditata, comprovando le fonti, evitando informazioni erronee e avendo attenzione al cosiddetto greenwashing. Suggeriscono anche di trasmettere il problema assieme alle soluzioni, ossia di spiegarne le dimensioni veicolando però al contempo un messaggio di speranza.
La comunicazione delle Cop vive più o meno sempre lo stesso schema: le conferenze non si concludono mai entro i tempi stabiliti e già il solo raggiungimento di un accordo appare come un risultato al di là del merito. Le decisioni adottate dalle Cop non sono vincolanti e spesso entrano in vigore quando già sono superate. Gli interessi coinvolti sono elevati e può darsi che, fare una Cop per il superamento dei combustibili fossili in uno dei paesi tra i principali produttori di petrolio al mondo, come lo scorso anno, non aiuti a rafforzarne la credibilità. Ma il metodo multilaterale proposto dal sistema Cop sembra ancora quello più valido, per quanto ne andrebbero almeno potenziati i meccanismi di verifica e ridotti drasticamente i tempi di applicazione delle decisioni.
Il Semestre spagnolo e le elezioni anticipate
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Lo scorso 1 luglio la Spagna ha assunto, per la quinta volta e dopo 13 anni dalla precedente, la presidenza del Consiglio dell’Unione europea per il secondo semestre dell’anno. Una presidenza cosiddetta d’oro, perché è l’ultima della legislatura comunitaria che si celebrerà completamente prima delle elezioni dell’Europarlamento previste tra il 6 e il 9 giugno del 2024. Il governo spagnolo ha lavorato alla sua realizzazione per diversi mesi, con incontri bilaterali con i diversi Paesi membri dell’Unione e alcuni di quelli del continente sudamericano, i cui capi di Stato saranno convocati a luglio a Bruxelles per il vertice tra la Ue e la CELAC (Comunidad de Estados Latinoamericanos y Caribeños).
La novità delle ultime settimane, intervenuta a modificare parzialmente i lavori di inizio del semestre spagnolo, è data dalla convocazione anticipata delle elezioni in Spagna per il prossimo 23 luglio, decisa dal Presidente Pedro Sánchez dopo i risultati delle elezioni regionali e municipali dello scorso 28 maggio che hanno registrato una sconfitta delle sinistre oggi al governo del Paese.
Per questa ragione, per lasciare fuori dal dibattito nazionale un’istituzione come il Parlamento europeo, Sánchez ha chiesto e ottenuto di posticipare la presentazione nell’eurocamera delle priorità della presidenza spagnola a settembre, altrimenti prevista il 13 luglio, in piena campagna elettorale. D’altra parte, la Presidente dell’Europarlamento, la conservatrice Roberta Metsola, ha rinviato senza data il viaggio in Spagna che si sarebbe dovuto realizzare alla fine del mese di giugno, decisione approvata con la contrarietà del gruppo socialista e i voti favorevoli del PPE e delle destre europee.
La celebrazione di elezioni in un paese che ospita un semestre di presidenza europea è qualcosa che accade con sufficiente normalità in Europa. Ma per quanto il governo spagnolo insista nel sostenere che la presidenza è un progetto di paese e non dell’Esecutivo, la preoccupazione del ministro degli Esteri spagnolo José Manuel Albares è che qualcuno voglia politicizzarla. Gli occhi delle cancellerie europee sono tutti puntati infatti sugli esiti delle elezioni spagnole di luglio, che potrebbero prefigurare un cambiamento di ciclo politico nel paese iberico e quindi, con le elezioni europee del prossimo anno, modificare sensibilmente gli equilibri politici nella Ue.
Un Paese dell’Unione rispettato e affidabile
La Spagna partecipa al progetto europeo dal 1 gennaio del 1986, con l’arrivo della democrazia il Paese iberico sollecitò la sua adesione nel 1977, aspirazione soddisfatta con il Trattato d’adesione firmato a Madrid il 12 giugno del 1985. La Spagna ha già ospitato la presidenza del Consiglio dell’Unione europea nel 1989, 1995, 2002 e 2010. Nel frattempo, e particolarmente con l’ultimo governo di coalizione progressista, la Spagna è cresciuta in autorevolezza dentro la Ue. La buona gestione della pandemia e delle sue conseguenze economiche con la costruzione di uno scudo sociale e l’utilizzo efficiente dei fondi del Next Generation, la capacità di far fronte alla crisi energetica con l’introduzione di un tetto al prezzo del gas e il progetto sull’idrogeno verde, la buona performance economica che la colloca alla guida della ripresa in Europa: tutto ciò ha fatto della Spagna un Paese dell’Unione rispettato e affidabile. Ed è con questa consapevolezza che il Paese affronta la sua quinta presidenza europea.
Il programma di un prossimo semestre europeo si conosce solo una quindicina di giorni prima della sua apertura, per non interferire in alcun modo sulla presidenza in corso. E Sánchez ne ha illustrato le priorità in conferenza stampa lo scorso 15 giugno. Un programma che si dipanerà in iniziative previste in tutte le Comunità autonome spagnole.
“L’Europa è stata la nostra porta per la modernità e sarà il cammino che ci condurrà al futuro migliore”, ha affermato Sánchez, introducendo i quattro assi attorno ai quali si svilupperà il programma del semestre spagnolo: reindustrializzare la Ue e garantire la sua autonomia strategica aperta; avanzare nella transizione ecologica; consolidare il Pilastro Sociale; rafforzare l’unità europea.
Il programma del semestre spagnolo
Il primo asse strategico significa proporre una strategia comune della Ue per garantirne la leadership sull’economia a livello globale. Si tratta perciò di recuperare quel tessuto industriale e crearne uno nuovo per allentare la dipendenza europea da paesi terzi in ambiti cruciali come l’energia, la sanità o l’alimentazione. Avanzare sul piano dell’autonomia strategica aperta vuol dire anche diversificare le relazioni commerciali europee, privilegiando, ad esempio, quelle con l’America Latina. In questo senso, rilevante appare il prossimo Vertice tra la Ue e la CELAC.
Progredire nella transizione ecologica e l’adattamento ambientale permetterà un risparmio di oltre 130 miliardi di euro in importazioni di combustibili fossili fino al 2030 e la creazione di circa un milione di posti di lavoro in questo decennio per l’aumentata competitività delle imprese europee. La presidenza spagnola promuoverà una riforma del mercato elettrico che acceleri il dispiegamento delle energie rinnovabili.
L’obiettivo di una maggiore giustizia sociale ed economica si realizza nel consolidamento del Pilastro Sociale dell’Unione europea. La Spagna lavorerà per stabilire alcuni standard minimi comuni fiscali per le imprese e combatterà l’evasione fiscale delle multinazionali. S’impegnerà per realizzare una riforma delle regole fiscali che metta fine alle politiche di austerità e per avanzare nel Pilastro Europeo sui Diritti Sociali.
La quarta strategia, infine, riferita al rafforzamento dell’unità europea, comporterà un’iniziativa per l’approfondimento del mercato comune, il completamento dell’unione bancaria e dei mercati di capitali. Si lavorerà anche al consolidamento di strumenti comuni come i fondi del Next Generation e per avanzare nella gestione coordinata dei processi di migrazione e asilo.
Nel corso della conferenza stampa è stato presentato anche il logo del semestre spagnolo, dove la E di Ue è una bandiera spagnola stilizzata con tre strisce orizzontali, rossa, gialla e rossa.
L’agenda internazionale di Sanchez
In vista del semestre europeo, Sánchez ha moltiplicato la sua iniziativa e visibilità a livello internazionale. Non solo in Europa, ma anche negli Stati Uniti, dove si è recato a metà maggio, rafforzando col Presidente Joe Biden la cooperazione bilaterale tra i due Paesi in diversi settori tra cui l’emergenza climatica, lo sviluppo di scienza e tecnologia e i fenomeni migratori. Qualche settimana dopo, a giugno, nel palazzo della Moncloa, il Presidente del governo spagnolo riceveva Gina Raimondo, segretaria del Commercio degli Stati Uniti, per affrontare alcuni problemi in materia di commercio e tecnologia.
In Europa Sánchez ha realizzato un giro di consultazioni con i diversi Paesi membri. Iniziando dal Portogallo, con cui la consuetudine alla cooperazione si è rafforzata negli ultimi anni. Con António Costa, il Presidente del governo spagnolo condivide le priorità da proporre al dibattito europeo, che li ha visti realizzare l’intesa con la Ue sul price cap mesi prima di quanto avvenuto tra tutti i paesi dell’Unione. La buona sintonia tra i due governi è caratterizzata dalla triplice appartenenza europea, iberoamericana e mediterranea. Rafforzata anche la collaborazione con la Francia in vista della presidenza spagnola, con cui assieme al Portogallo, condivide il progetto H2Med (a cui si è aggiunta successivamente l’adesione della Germania), che comporta la definizione di un corridoio nel Mediterraneo per il trasporto dell’idrogeno verde mettendo in connessione la penisola Iberica col resto del continente europeo. Tra gli altri, Sánchez ha incontrato la Presidente del governo italiano Giorgia Meloni, discutendo temi quali la competitività, la riforma del mercato elettrico e il Patto sulle Migrazioni e l’asilo.
Negli ultimi mesi sono andati in visita in Spagna anche i presidenti di alcuni Paesi sudamericani, come il colombiano Gustavo Petro, l’argentino Alberto Fernandez il brasiliano Lula da Silva. Sánchez ha confermato il suo appoggio al processo di pace avviato da Petro in Colombia. Petro ha parlato dell’importanza che l’area Iberoamericana abbia una voce internazionale propria, perciò la conferenza tra Unione Europea e America Latina e Caribe prevista all’interno del semestre spagnolo i prossimi 17 e 18 luglio, rappresenta un’occasione imperdibile. Tra l’altro, in quello stesso periodo, il Brasile ospiterà la presidenza del Mercosur, di cui sono Stati membri Argentina, Brasile, Paraguay, Uruguay e Venezuela (quest’ultimo successivamente sospeso, e a cui si sono associati Bolivia, Cile, Perù, Colombia ed Ecuador).
L’Unione europea ha deciso di realizzare un salto qualitativo nelle sue relazioni politiche e diplomatiche con il Sudamerica e il Caribe, un’area di 33 paesi e 700 milioni di abitanti su cui si va estendendo con successo l’influenza cinese e russa. Innanzitutto con un pacchetto di investimenti al quale la Spagna contribuirà con 9,4 miliardi di euro. E poi con l’idea di stabilire un organo di relazioni permanente tra le due entità geografiche e politiche. Perciò, la Presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha realizzato a metà giugno un viaggio diplomatico nel continente sudamericano. Il vertice tra Ue e Celac di luglio è il primo che si celebra dopo otto anni e la Ue vorrebbe fissare già un prossimo appuntamento di alto livello nel 2025, in Colombia. Obiettivo dell’Unione europea è rilanciare gli accordi commerciali e di associazione come quelli con il Messico e il Mercosur e completare le procedure del patto con il Cile, e quelli che ha già firmato con il Centroamerica e con l’asse Colombia-Perù-Ecuador.
In vista delle prossime elezioni…
Le elezioni locali in Spagna dello scorso 28 maggio hanno certificato il sorpasso del Pp sul Psoe. I socialisti non hanno perso molti voti (400.000 rispetto al 2019), ma hanno perduto molto potere: il governo di sei Comunità autonome e delle principali città del Paese; mentre Unidas Podemos non è riuscita a entrare nei consigli regionali e municipali di Madrid e Valencia. Il leader del Pp, Alberto Núñez Feijóo, prova senza complessi l’alleanza con Vox, che potrebbe risultare vincente il 23 luglio e governare il Paese nella prossima legislatura.
Le sinistre che hanno governato in coalizione negli ultimi quattro anni possono vantare una performance dell’economia spagnola particolarmente positiva, che la colloca alla testa dei paesi dell’eurozona. Sia per quanto riguarda la crescita del Pil (il 2,1% previsto dall’Ocse per il 2023), che per la riduzione dell’inflazione (stimata inferiore al 4% per quest’anno); mentre l’occupazione supera un nuovo record (20,8 milioni di lavoratori a maggio), sempre più con contratti di lavoro a tempo indeterminato. Sánchez ha anticipato le elezioni a luglio con l’intenzione di mobilitare l’elettorato progressista e impedire così la formazione di una maggioranza di governo a guida popolare con la presenza dell’estrema destra. Alla sinistra del Psoe, la novità è data dalla costituzione di un’unica lista nella coalizione elettorale Sumar, guidata dalla vicepresidente e ministra del Lavoro Yolanda Díaz.
Tra un anno ci saranno le elezioni europee, perciò il risultato che verrà dalle prossime elezioni spagnole avrà un grande impatto sugli equilibri futuri della Ue. In vista dell’appuntamento europeo, l’estrema destra lavora per una candidatura unica, o almeno a un patto con il Partito popolare europeo di Manfred Weber, andato già più volte a Roma a incontrare Giorgia Meloni, come presidente del gruppo dei Conservatori e Riformisti europei.
Le destre governano nella gran parte dei paesi europei, ma i popolari non sono al governo di nessuna delle principali economie europee. Perciò la Spagna è particolarmente ambita, perché potrebbe rappresentare l’esperimento di un patto con l’estrema destra da replicare nel 2024 a Bruxelles.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di Luglio/Settembre di eastwest
Spagna e Portogallo: energia, l’eccezione Iberica
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Nel dicembre scorso, il vulcano Mauna Loa, nelle Hawaii, ha ripreso la sua attività mettendo in crisi il sistema di misurazione della concentrazione di diossido di carbonio nell’atmosfera. Questo cratere, il più grande del mondo, è infatti il riferimento mondiale nel registrare la situazione climatica del pianeta.
Da quando si è iniziato a contabilizzarli, nel 1960, i livelli di CO2 nell’atmosfera sono cresciuti del 23%: la differenza, secondo l’Organizzazione Mondiale di Meteorologia, è dovuta soprattutto ai gas liberati nell’aria dall’uso di combustibili fossili. L’alto prezzo del gas in Europa e il rischio di una sua scarsità derivanti dalla crisi pandemica e dalla guerra in Ucraina, hanno allarmato i paesi europei sia sul versante dell’inflazione che su quello dell’approvvigionamento. Spingendoli alla ricerca di nuovi partner per la fornitura di gas e alla diversificazione delle fonti energetiche. L’Ue, poco prima di Natale, ha vinto le resistenze interne, decidendo la creazione di un meccanismo d’intervento sul mercato del gas attraverso un price cap. Alcuni mesi prima, l’alleanza tra Spagna e Portogallo aveva già ottenuto il riconoscimento da parte della Ue della cosiddetta “eccezione iberica”, permettendo di fissare un tope al gas fin dal giugno scorso. E la Spagna, soprattutto grazie a questa misura, può vantare ora uno dei tassi d’inflazione più bassi d’Europa.
Il riconoscimento dell’eccezione iberica
Secondo l’art. 122 del Trattato Ue, le regioni che rispettino certi criteri potranno limitare temporaneamente i prezzi dei combustibili fossili usati per produrre elettricità, senza compromettere il funzionamento del mercato unico. Le condizioni si riferiscono alla scarsa interconnessione elettrica di queste regioni con il resto dell’Unione (2,8% nel caso di Spagna e Portogallo) e alla produzione di un’alta percentuale di elettricità proveniente dalle rinnovabili che, in Spagna, è del 47%. Perciò, l’Ue ha considerato la penisola Iberica una “isola energetica”, consentendo a Spagna e Portogallo, lo scorso 25 marzo, di adottare le misure di emergenza per un tempo limitato.
Già dall’estate precedente, il presidente del governo spagnolo avvisava la Commissione di un aumento anomalo delle fatture elettriche, per effetto della crescita incontrollata del prezzo del gas. In Spagna, il gas occupa solo il 15% del mercato ma determina il prezzo dell’elettricità, incidendo sull’intera economia. Il pressing congiunto di Sánchez e del primo ministro del Portogallo riuscì a convincere la presidente von der Leyen della situazione molto specifica della penisola Iberica. Lo strumento scelto da parte di Spagna e Portogallo è stato fissare un tetto massimo per il gas utilizzato nella produzione di energia elettrica, applicato per la prima volta il 15 giugno scorso.
El tope al gas è una misura transitoria per sganciare il prezzo dell’elettricità da quello del gas, abbassando così il prezzo della bolletta della luce. Si applicherà nei due paesi fino al 31 maggio 2023 e durante i primi sei mesi, il prezzo del MWh sarà pari a 40 euro, per poi crescere fino a raggiungere una media di 48 euro per MWh. I più beneficiati dalla misura risultano i consumatori che hanno un contratto della luce con tariffa regolamentata, il 34% della popolazione spagnola.
Il risparmio derivante dal tetto al prezzo del gas
Secondo l’Operatore del Mercato Ibérico de la Electricidad (OMIE), il prezzo medio dell’elettricità nel mercato all’ingrosso il 15 giugno fu inferiore del 22,6% a quello del giorno precedente. Gli effetti veri e propri però si sono notati, in Spagna, nei mesi successivi. I benefici sono stati evidenti già a settembre, con una riduzione significativa delle fatture elettriche (-21%, grazie anche alla fine dell’estate) e una conseguenza diretta sull’inflazione. Dal 15 giugno fino ad allora, i cittadini spagnoli hanno pagato un prezzo per la luce inferiore del 37% rispetto a quello francese, 42,6% rispetto all’italiano e 28% rispetto a quello tedesco. Ma il risparmio record si è avuto il 14 dicembre scorso, quando il prezzo della luce sul mercato all’ingrosso è risultato inferiore del 58,6% di quello che sarebbe stato senza l’eccezione iberica, costando 93,8 euro per MWh mentre in Francia, Italia e Germania superava i 400 euro per MWh.
Si è quantificato il risparmio per i consumatori, tra giugno e novembre, in oltre 3,8 miliardi di euro. La bolletta della luce per un consumatore con tariffa regolamentata è stata, a novembre, di 53 euro. L’inflazione di novembre in Spagna è stata del 6,8%: dovuta alla riduzione del prezzo dell’elettricità e all’abbattimento del costo del trasporto pubblico. In Portogallo, il risparmio medio per i consumatori, nel primo periodo di applicazione del tetto al prezzo del gas, è stato di oltre il 15% sul prezzo dell’energia elettrica.
La fissazione del price cap sul gas in Europa
Dopo vari tentativi andati a vuoto, i ministri dell’Energia dei paesi Membri della Ue hanno deciso, lo scorso 19 dicembre, di applicare un tetto comunitario al prezzo del gas di 180 euro per MWh, a partire dal prossimo 15 febbraio. La discussione in Europa era iniziata con una lettera inviata a settembre da 15 Stati membri alla Commissione, tra cui Spagna, Italia e Francia, reclamando una regolazione del prezzo del gas. A opporsi, un gruppo di paesi, tra cui Germania e Olanda, preoccupati che una misura del genere potesse produrre problemi di carenza di gas.
La proposta iniziale della Commissione fissava il limite a 275 euro per MWh sul TTF, il mercato olandese che rappresenta il riferimento europeo per lo scambio del gas naturale, considerato troppo elevato e poco realistico. Successivamente, la presidenza ceca avanzava una nuova proposta, riducendo il tetto a 200 euro per MWh, considerato ancora eccessivo da paesi come la Spagna. Finalmente, il meccanismo accordato si attiverà quando, per tre giorni consecutivi, il prezzo nel TTF giunga a 180 euro per MWh e superi per 35 euro per MWh il prezzo medio dei mercati internazionali di gas naturale liquefatto. Allora, funzionerà un “limite di prezzo dinamico”, calcolato come la somma del prezzo dei mercati internazionali di gas naturale liquefatto più 35 euro per MWh (145+35). Così il sistema risulta attraente per il mercato europeo, senza però mostrarsi disponibili ad acquistare il gas a qualunque prezzo. Dal punto di vista dell’eccezione iberica, il meccanismo europeo incorpora un prezzo massimo addizionale al gas. Con il tope al gas, infatti, s’impone un limite alla fattura elettrica, ma va comunque pagato l’intero prezzo del gas a chi lo ha utilizzato per generare elettricità e la fattura del gas non potrà superare i 180 euro per MWh.
Il piano di risparmio energetico in Spagna e Portogallo
Alla fine del luglio scorso, i governi spagnolo e portoghese vincevano la loro battaglia nell’Ue contro l’obiettivo obbligatorio di riduzione del consumo di gas del 15%, una percentuale insostenibile per entrambi i paesi, colpiti la scorsa estate da una grave siccità che aveva fatto precipitare la produzione di energia idroelettrica. Accordandosi su una riduzione volontaria del 7%, sulla cui base predisporre il piano di risparmio energetico. Tanto più che la Spagna è poco dipendente dal gas russo e invia gas a Portogallo e Francia. E, differentemente dalla Germania, Spagna e Portogallo sono impegnate nel campo delle energie rinnovabili.
Il piano portoghese per limitare il consumo di energia prevede misure di contenimento negli edifici della Pubblica Amministrazione e una campagna di sensibilizzazione rivolta a famiglie e imprese. Quello spagnolo raccoglie un insieme di misure di riduzione dei gradi di temperatura per l’aria condizionata e il riscaldamento negli edifici pubblici, del commercio e della ristorazione, lo spegnimento notturno delle vetrine dei negozi e la gratuità totale o parziale delle tariffe del trasporto pubblico. Inoltre, alla fine di novembre, il parlamento spagnolo ha approvato un’imposta speciale sui profitti delle imprese energetiche.
Il corridoio mediterraneo per l’idrogeno verde
Lo scorso dicembre, in occasione della Conferenza Med9 celebrata ad Alicante, Sánchez, Costa e Macron hanno avviato il progetto H2Med, col patrocinio dell’Ue che lo finanzierà per il 50% come Progetto d’Interesse Comune. Si tratta della definizione di un corridoio nel Mediterraneo che trasporterà idrogeno verde mettendo in connessione la penisola Iberica con il resto del continente europeo. Il progetto si articola in due parti: il tracciato che collega il Portogallo e la Spagna per 248 km e quello che va da dalla Spagna alla Francia, connettendo Barcellona a Marsiglia, attraverso un tubo sottomarino nel Mediterraneo lungo 455 km. Il suo costo sarà di 350 milioni di euro per la prima tratta e di 2,5 miliardi per quella sottomarina. Il corridoio sarà operativo nel 2030 e trasporterà idrogeno verde prodotto in Spagna per due milioni di tonnellate l’anno, corrispondente al 10% del suo consumo nell’Ue. L’H2Med trasporterà idrogeno verde, ottenuto attraverso l’uso di energie rinnovabili, in un processo di elettrolisi che scompone la molecola dell’acqua.
La penisola iberica diventerà uno dei grandi hub energetici dell’Europa e Barcellona sarà il porto di uscita dell’idrogeno dalla Spagna verso l’Europa. Col doppio obiettivo di rafforzare la sicurezza energetica della Ue e riaffermare l’ambizione europea della neutralità climatica.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/marzo di eastwest
Cop 27, attenzione all’Africa
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Alla fine dello scorso agosto, la Commissione europea analizzava gli effetti di un’estate particolarmente calda nel vecchio continente, affermando che l’Europa stava soffrendo la peggiore siccità degli ultimi 500 anni. Già nel 2021, l’Onu denunciava il rischio che la siccità si sarebbe convertita nella prossima pandemia. La Cop 27, in Egitto a novembre 2022, ha aperto la seconda settimana di lavori mettendo al centro del dibattito il tema della scarsità dell’acqua.
La Cop 27: risultati e impegni
La Cop, Conference of Parties, è la riunione annua dei paesi che hanno ratificato la Convenzione Quadro dell’Onu sui Cambiamenti Climatici, firmata a Rio de Janeiro nel 1992, che punta alla riduzione dei gas serra, identificati come la causa del riscaldamento globale del pianeta. Il primo protocollo che propone limiti obbligatori all’emissione di CO2 nell’atmosfera è quello sottoscritto a Kyoto nel 1997. Nel 2015, a Parigi, viene firmato il primo patto globale contro il riscaldamento del pianeta, fissandone l’aumento massimo, a fine secolo, al di sotto di 1,5° C, obiettivo che richiede il raggiungimento della neutralità climatica, ossia emissioni zero, entro il 2050. Ci si aspettava che la Cop 27 facesse menzione esplicita, nelle sue conclusioni, della graduale riduzione di tutte le fonti fossili, entro il 2025. E invece, ci si è limitati a ribadire l’obiettivo di contenere il riscaldamento globale a 1,5°, deludendo così Ue e Onu.
“L’umanità deve prendere una decisione: cooperare o perire. Si tratta o di un patto di solidarietà climatica o di un patto di suicidio collettivo”, è stato l’ammonimento di Antonio Guterres, Segretario generale Onu, in apertura dei lavori della Cop 27, cui hanno partecipato oltre 35.000 persone, tra governanti, osservatori e rappresentanti della società civile, e 197 paesi più l’Ue. Monito non sufficiente a vincere le resistenze delle oltre 600 lobby del gas e del petrolio e dei petro-Stati vicini dell’Egitto. Importante, invece, il risultato raggiunto per i paesi in via di sviluppo. Su impulso dell’Egitto, infatti, che ha voluto fare di questa assise una Cop “africana”, la dichiarazione finale annuncia la creazione di un fondo di compensazione per perdite e danni, Loss and damage, rivendicato da decenni dai paesi che più patiscono gli effetti del cambio climatico e che sono arrivati più tardi degli altri a inquinare il pianeta.
Una soluzione salutata da Guterres come “un segnale politico assolutamente necessario per ricostruire la fiducia infranta”. A cui i paesi ricchi, da sempre responsabili delle emissioni di gas serra, si erano fin qui opposti. Ma il tema è stato proposto al primo punto dell’agenda della Conferenza e il G77+Cina (gruppo che rappresenta 134 paesi in via di sviluppo) si è mostrato compatto in trattativa. L’accordo si è reso possibile, quando nel testo ci si è riferiti ai paesi “più vulnerabili” e all’allargamento della base dei paesi donanti. Perché Usa, Europa, Canada, Giappone, Australia e Nuova Zelanda non vogliono essere i soli a pagare e vogliono che venga inclusa anche la Cina tra i donatori. Quali saranno i paesi vulnerabili e quali quelli donatori verrà deciso nella prossima Cop di Dubai.
Il ritorno del Sudamerica alla lotta contro il cambio climatico
La Cop 27 ha segnato anche il ritorno del Sudamerica alla lotta contro il cambio climatico. Nel 2019, la Cop 25 si sarebbe dovuta tenere in Brasile, ma l’allora presidente Bolsonaro non volle accoglierla. Si propose allora il Cile, ma le mobilitazioni di piazza di quell’anno suggerirono al governo cileno di rinunciarvi. Alla fine, la Cop 25 si celebrò a Madrid. Tre anni dopo, molti governi sono cambiati in Sudamerica e alla Cop 27 erano presenti i nuovi presidenti del Brasile e della Colombia.
Il presidente colombiano ha proposto un decalogo di iniziative, assicurando che la crisi climatica planetaria “si risolve se il mondo lascia indietro il petrolio e il carbone”. “Il Brasile è tornato”, ha detto Lula, proponendo all’Onu che la Cop 30, del 2025, si celebri in Brasile, in una delle regioni dell’Amazzonia.
La siccità nel mondo. Le donne leader della lotta per l’acqua
Il 40% della popolazione mondiale è colpita dalla scarsità di acqua. La sicurezza dell’acqua è sempre più condizionata dai disastri ambientali prodotti dal cambio climatico, con conseguenze severe per 3,6 miliardi di persone che vivono nelle zone dove il suo impatto è maggiore. Si è osservato che il 74% dei disastri naturali, tra il 2001 e il 2018, era in relazione all’acqua (dati Onu). La siccità ha contribuito alla morte di circa 650.000 persone nello stesso periodo, specialmente in Africa. Gravi anche le conseguenze economiche, con una riduzione di Pil mondiale prevista nel 2050 dello 0,5%. L’area del Mediterraneo è tra le più interessate al fenomeno: sono circa 180 milioni le persone afflitte dalla penuria di acqua.
La gran parte delle acque dolci del pianeta risiede nel continente sudamericano, concorrendo a quel 2,5% di acqua nel mondo disponibile per il consumo. Secondo Greenpeace, il Cile è il paese dell’emisfero occidentale che soffre la maggior crisi idrica, col 76% del territorio povero di acqua. Colpa della scarsità di piogge, ma anche del regime di proprietà delle acque, in mano per l’80% alle imprese agricole (con la coltivazione di avocado), minerarie e dell’energia. In Bolivia, il 51% del territorio è affetto da desertificazione per l’urbanizzazione, il cambio climatico e l’attività mineraria illegale. Critica anche la situazione nel Corredor Seco, l’area che va dal Nord del Centroamerica all’Ovest di Panamá, dove risiede il 90% della popolazione centroamericana, soggetta alla violenza delle catastrofi naturali.
La Ong Actionaid insiste nel denunciare come i gravi danni causati dall’impatto climatico abbiano conseguenze devastanti per donne e bambine, anche sul piano della violenza sessuale. E le donne che vivono nelle aree del mondo più compromesse dal cambio climatico, come Sudamerica, Africa e Asia, si organizzano per far fronte al problema. In Cile, nella provincia di Petorca, flagellata dalla siccità, nel 2017 è nata l’organizzazione Mujeres Modatima (Movimiento de Defensa del Agua, la Tierra y la Protecciòn del Medio Ambiente), che denuncia gli effetti perversi sulla vita delle donne della mancanza d’acqua. Nel 2014, l’attuale vicepresidente colombiana Francia Márquez guidò una marcia di donne nere verso Bogotà contro l’estrazione illegale, quando le acque del fiume risultarono avvelenate da residui di mercurio. In Ciad, l’Associazione delle donne Peul e dei popoli autoctoni si batte per difendere i diritti dei popoli nomadi e proteggere l’ambiente, mobilitandosi contro chi sfrutta la terra fino a esaurirne le risorse.
L’Alleanza internazionale per resistere alla siccità
Nel corso della Cop 27, il presidente del governo spagnolo Pedro Sánchez e il presidente del Senegal Macky Sall hanno presentato la nascita dell’Alleanza Internazionale per la Resilienza contro la siccità, iniziativa sostenuta dalla Convenzione dell’Onu per Combattere la Desertificazione, cui hanno aderito oltre 25 paesi, tra cui Usa, Cina, UAE e Ue e 20 organizzazioni. Un’alleanza globale già annunciata a settembre durante l’assemblea Onu, per costruire una piattaforma politica e di collaborazione che riduca la vulnerabilità dei paesi più esposti alle siccità estreme, ridurre l’insicurezza alimentare e idrica, evitare la perdita di vite e di biodiversità e fenomeni di migrazione coatta. Perciò, andranno consolidate iniziative regionali contro la siccità e ci si dovrà avvalere di innovazione e trasferimento di tecnologia. Il progetto conta con un fondo di risorse iniziale di 5 milioni di euro.
Si stima che, nel 2030, in Africa, 118 milioni di persone si troveranno in rischio di povertà estrema per la crescita del livello del mare, le inondazioni e le siccità. Secondo Oxfam International, oltre 44 milioni di persone residenti in Africa Centrale, Orientale e del Corno d’Africa necessitano di aiuti umanitari per effetto di crisi climatiche sempre più estreme che hanno ridotto la disponibilità di alimenti e acqua, distruggendo coltivazioni e decimando il bestiame. Oltre 13 milioni di persone sono state costrette a spostarsi per cercare nuove condizioni di vivibilità. Nella fascia del Sahel, la desertificazione si è molto approfondita negli ultimi decenni, per il ridursi delle piogge e l’aumento della popolazione. Si prevede anche che, se non si agisce per tempo, il 75% della penisola Iberica sia destinato al rischio estremo di desertificazione. Dopo un’estate molto calda e asciutta, la situazione idrica in Spagna continua a essere critica. Le piogge autunnali sono diminuite del 27%, lasciando i bacini del Guadalquivir e del Guadiana molto al di sotto delle loro capacità. La Catalogna ha dichiarato lo stato di allerta per siccità. Interessati sono 550 municipi tra cui Barcellona, ove risiede quasi il 90% della popolazione catalana. Le restrizioni non riguardano l’acqua da bere, ma le attività agricole, industriali e l’irrigazione di parchi e giardini. Il governo spagnolo ha deciso di investire 350 mln di euro per recuperare il Parque Nacional de Doñana, in Andalusia, una delle zone umide più importanti d’Europa, invertendo la situazione di degrado ambientale in cui attualmente versa questa importante area naturale.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/marzo di eastwest
Puoi acquistare la rivista in edicola, sul sito o abbonarti
Portogallo verso le elezioni, il premier Costa cerca la maggioranza
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
L’elettorato portoghese andrà nuovamente alle urne il prossimo 30 gennaio, interrompendo la legislatura cominciata appena un paio di anni fa, poco prima dello scoppio della pandemia da Covid-19. Elezioni convocate dal Presidente della Repubblica Marcelo Rebelo de Sousa, dopo la bocciatura della legge finanziaria del Governo socialista di António Costa da parte delle altre sinistre un tempo alleate con i socialisti nella geringonça, la coalizione progressista che, nella crisi del 2008, seppe risanare le finanze pubbliche del paese salvaguardando la coesione sociale.
Elezioni inaspettate che nessuno voleva, né a destra né a sinistra: la destra tradizionale, fino a poco tempo fa impegnata in una battaglia interna per la leadership, il Partito comunista indebolito dalla recente consultazione municipale, il Bloco de Esquerda stabile con una tendenza al ribasso. L’unico partito a beneficiarne, secondo i sondaggi, sarebbe l’estrema destra di Chega, mentre i socialisti sono dati vincitori ma senza maggioranza assoluta e perciò obbligati a intese successive per governare.
La geringonça, cui Costa faceva ancora appello nelle elezioni del 2019, è così definitivamente tramontata. Costa ha governato in questi due anni con un esecutivo di minoranza, facendo accordi puntuali con le altre formazioni della sinistra. Nella prima parte dello scorso anno ha gestito, con successo, la presidenza di turno del Consiglio dell’Unione europea. Ha dovuto misurarsi con le conseguenze della pandemia fin dall’inizio del suo mandato e il Portogallo è stato tra i Paesi che più hanno spinto per uscire dalla crisi pandemica con un’Europa più solidale, i fondi comunitari che gli competono per la ripresa economica ammontano nel complesso a 26,5 miliardi di euro. La pandemia, in Portogallo, ha fin qui registrato oltre 18.500 vittime mortali, il Paese ha il tasso di vaccinazione più alto d’Europa, con percentuali attorno all’88% della popolazione.
“La sinistra può essere molto di più dell’opposizione alla destra, può anche esprimere un Governo responsabile capace di trasformare il Paese”, rispondeva Costa alle critiche di comunisti e Bloco al progetto di bilancio per il 2022. Che gli contestavano una scarsa volontà di dialogo sui contenuti, la sottovalutazione dell’emergenza nazionale rappresentata dal basso livello dei salari, la necessità di proteggere la contrattazione collettiva e la crisi del sistema sanitario nazionale, resa esplicita dal fatto che un milione di persone, nel Paese, non dispone di un medico di famiglia.
Nessuno, in Portogallo, si sarebbe aspettato che la legislatura precipitasse così in fretta e sono in molti a ritenere che il voto cada in un momento poco opportuno, anche considerando l’alta, consueta percentuale di astensione nell’elettorato portoghese. Quando cominciò a sembrare chiaro che la finanziaria non avrebbe avuto l’appoggio sufficiente per passare in parlamento, Rebelo de Sousa minacciò il ricorso alle elezioni, magari pensando di favorire così un ripensamento delle sinistre. “Questa non è una finanziaria qualunque né questo momento lo è”, disse il presidente della repubblica per giustificare lo scioglimento del parlamento.
Appena cinque mesi prima, Costa aveva chiuso con successo il semestre di turno della presidenza europea, dando la priorità all’applicazione del pilastro sociale della Ue con la dichiarazione della Conferenza Sociale di Porto. La convocazione di elezioni anticipate rappresenta invece un danno d’immagine a livello internazionale per il Portogallo e ora ci s’interroga sul perché si sia arrivati a questo punto. Si dice che abbiano pesato considerazioni strategiche nei partiti della sinistra, oltre alla loro critica sui contenuti di merito della finanziaria. Il fatto, cioè, che un appoggio oltre tutto poco visibile ai Governi socialisti, abbia comportato una perdita di voti per quei partiti della sinistra che dall’opposizione traevano invece maggiore forza. Negli ultimi anni, la coalizione comunista-verde Cdu ha perso centinaia di migliaia di voti nelle elezioni europee e politiche del 2019 e in quelle municipali del settembre scorso. Il Bloco de Esquerda ha perso di meno, ma dal 2016 al 2021, 300.000 voti hanno abbandonato la formazione di Catarina Martins. In questo quadro, tornare all’opposizione potrebbe migliorare le loro prospettive elettorali.
Le ultime elezioni municipali sono state vinte per la terza volta consecutiva dal Partito socialista con circa il 33% dei voti, ma con la perdita di Lisbona, finita nelle mani dell’ex-commissario europeo e candidato del Psd, il partito della destra tradizionale, Carlos Moedas. Vittorioso ma colpito dalla perdita della capitale di cui fu sindaco, Costa potrebbe approfittare della nuova convocazione elettorale per conquistare finalmente l’obiettivo della maggioranza assoluta. Perciò la sua strategia è quella d’incolpare gli ex-alleati della crisi politica, beneficiandosi al contempo della fragilità del principale partito di opposizione, il Psd.
In un’intervista concessa alla RTP, radio televisione portoghese, Costa respinge l’idea che un’eventuale maggioranza assoluta possa rappresentare un rischio per la democrazia, aggiungendo però che nel caso questa non fosse raggiunta “mi adopererei per un’intesa duratura con i nostri partner”. Soprattutto l’obiettivo è “poter governare in una condizione di stabilità”, ascoltando con “umiltà” il messaggio dell’elettorato portoghese. Costa ha anche annunciato di volere realizzare la regionalizzazione del Paese bloccata dal 1976, da ratificarsi con una referendum nel 2024, ricordando che il Portogallo è il Paese più centralizzato della Ue. Il presidente è dato vincente nei sondaggi, con una distanza importante dal suo principale avversario, ma non sembra riuscirà neppure questa volta a realizzare la maggioranza assoluta. Il leader comunista Jerónimo de Sousa riconosce che fare la geringonça valse la pena per ciò che riuscì a conquistare: “La geringonça non fu una parentesi, ma una fase della vita politica nazionale e non si ripeterà più negli stessi termini”. Il Bloco de Esquerda chiede agli elettori di “impedire la maggioranza assoluta del Ps”, e ancora di più di rendere impossibile “la maggioranza assolutissima” che potrebbe derivare da un accordo di Governo tra Ps e Psd, che servirebbe per avviare un nuovo ciclo di privatizzazioni.
Per quanto riguarda lo schieramento conservatore, la contesa aperta all’interno del partito socialdemocratico tra il Presidente del partito Rui Rio e l’eurodeputato Paulo Rangel si è risolta con la conferma della leadership del primo dei due. Osteggiato dall’apparato interno e dai maggiorenti del partito, Rio è riuscito a imporsi nel voto dei militanti che hanno così preferito optare per la moderazione. Rui Rio infatti difende l’intesa con alcuni partiti della destra, ma non con l’estrema destra di Chega; la sua scommessa è nella costruzione di un blocco di centro, per il quale ha già annunciato che proporrà ai socialisti un patto di governabilità. In apertura del congresso del partito celebratosi a dicembre, Rio ha affermato di volere vincere le elezioni per “governare il Portogallo con rigore e coraggio”, quello che il Ps non avrebbe avuto negli ultimi sei anni. Chega, invece, è il grande favorito delle prossime elezioni, potrebbe sestuplicare il voto del 2019, quando elesse un unico deputato, André Ventura che, prima di fondarlo, aveva militato nelle file del partito conservatore. Il suo armamentario ideologico raccoglie le espressioni più reazionarie proprie dell’estrema destra europea, come dimostra il sostegno che gli hanno espresso Matteo Salvini della Lega e Santiago Abascal, leader di Vox.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
Vox, l’Europa dei patrioti riparte dalla Spagna?
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
All’indomani dell’attacco squadrista alla sede nazionale della Cgil e a una settimana dal ballottaggio per il sindaco di Roma, la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, si recò a Madrid per incontrare Santiago Abascal e partecipare alla convenzione del suo partito, Vox, la formazione politica che in Spagna incarna il neofranchismo. Meloni aveva incontrato Abascal in occasioni precedenti, confermando il suo impegno a un lavoro comune per costruire “l’Europa dei patrioti, un’Europa alternativa di Stati liberi e sovrani”.
Sempre di più si parla dell’esistenza di un’internazionale neofascista anche in Europa, sulla scia del movimento americano QAnon, qualcosa di cui c’erano segnali già prima dell’epidemia da Covid-19. I sindacati europei ne hanno coscienza da tempo e cercano di capire come si possa fronteggiare un fenomeno che inizia ad avere un suo radicamento anche nei luoghi di lavoro.
Il partito Vox
Vox non è un partito indistinto della destra spagnola. Il suo leader sostiene che il Governo di Pedro Sánchez è il peggiore della storia spagnola degli ultimi ottant’anni e ammette la presenza nel suo partito di estimatori dell’opera di Franco. Il programma che ha recentemente presentato nella sua Agenda España in alternativa all’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, conferma la piattaforma politica degli inizi: ostilità nei confronti dei movimenti delle donne e Lgbtiq, soppressione dei diritti di cittadinanza, negazione della violenza di genere, rifiuto della Memoria democratica, xenofobia contro la presunta minaccia d’islamizzazione, liberismo economico, ricentralizzazione dello Stato e sovranismo giudiziario contro la preminenza del diritto comunitario.
L’entrata di Vox nelle istituzioni dello Stato inizia con le elezioni andaluse del 2018 dove ottiene 12 seggi, diventando indispensabile per un Governo delle destre nella Comunità. Nella ripetizione delle elezioni politiche spagnole celebrate nel novembre 2019, Vox è votato da oltre tre milioni e mezzo di persone, quasi un milione in più rispetto alle elezioni dell’aprile precedente e, con 52 seggi, diventa la terza forza politica dell’arco parlamentare. Il partito di Abascal porta in parlamento rappresentanti di quasi tutte le Comunità Autonome, con l’eccezione di Paesi Baschi, Galizia, Navarra e La Rioja. Da quel momento, il suo è un percorso ascendente nelle istituzioni spagnole.
Nelle elezioni delle Comunità Autonome celebrate prima, nel maggio 2019, Vox si era presentato ovunque, ottenendo rappresentanza in dieci di loro. Alcune Comunità però avrebbero tenuto le loro elezioni solo successivamente. Come la Galizia e i Paesi Baschi, nel luglio 2020, che fruttano a Vox un’unica parlamentare basca. O come la Catalogna, nel febbraio 2021, con l’elezione di ben 11 parlamentari per Vox, che si converte nel quarto partito del parlament. Anche la Comunità di Madrid torna anticipatamente al voto nel maggio 2021: la popolare Isabel Díaz Ayuso trionfa quasi ovunque, arrivando prima nella totalità dei distretti della capitale e in 177 dei 179 comuni della Comunità, anche nella cintura rossa del Sud dove la sinistra conserva una maggioranza indebolita. Per governare però, Ayuso ha bisogno del voto di Vox, che nelle elezioni ha conquistato 13 seggi. Come in Andalusia, nella Comunità di Madrid Vox è in maggioranza ma non in giunta.
L’elettorato di Vox
Il profilo del votante di Vox si basa su tre elementi: altezza del reddito, presenza di immigrazione e tradizione conservatrice. Per lo più, si tratta di un elettorato che risiede in municipi ricchi o nei quartieri più abbienti delle grandi città, nelle aree dove maggiore è la presenza dell’immigrazione e nei comuni della Spagna dove il voto della destra è storicamente più forte. Come nella Spagna cosiddetta “svuotata”, quella dell’interno con scarsa e anziana popolazione, che in passato votava per il Partido Popular.
Le elezioni del novembre 2019 confermano la relazione diretta tra il voto al partito dell’estrema destra spagnola e i comuni dove vive una quota maggiore di migranti non europei. Così almeno si osserva in varie Comunità come Andalusia, Castilla-La Mancha, Comunità Valenciana, Murcia ed Extremadura. Nelle ultime politiche si nota una tendenza all’estensione del voto di Vox anche a municipi con redditi medio-bassi, che però non incide sulle aree di consenso tradizionale delle sinistre. Fondamentalmente perché il programma economico di Vox è liberista e perché la sua apparizione sulla scena politica, come fu inizialmente quella di Ciudadanos, più che altro ha frazionato l’elettorato del Pp, radicalizzandolo sull’estrema destra.
Con la vittoria di Ayuso nella Comunità di Madrid, il Pp recupera la fiducia di poter tornare presto al Governo e si lancia in una campagna elettorale all’insegna della competizione per la leadership nel campo delle destre. Inizialmente, il Presidente del Pp Pablo Casado tenta un ritorno a una logica centrista. Ma, dopo le elezioni di Madrid, a Vox si somma la concorrenza interna di Ayuso, il cui discorso è analogo a quello dell’estrema destra e Casado sceglie allora di cavalcare le spinte più reazionarie del suo partito. La convenzione del Pp celebrata in ottobre conferma questa opzione politica: rientrato ormai quasi completamente il voto di Ciudadanos, Casado punta direttamente all’elettorato di Vox, recuperando con enfasi il concetto di “hispanidad” e proponendo un programma incentrato sul neoliberismo economico, il centralismo territoriale e il tradizionalismo sociale.
E sembra avere ragione, perché la gran parte dei sondaggi segnala che se le elezioni si celebressero ora, il Pp le vincerebbe e sarebbe possibile un governo delle destre col sostegno di Vox. Anche l’ultimo sondaggio del Centro de Investigaciones Sociológicas, pur dando ancora in testa i socialisti, sottolinea un recupero importante del Pp. A due anni dalle prossime elezioni politiche, il risultato dipenderà dalla seconda parte della legislatura, virtualmente iniziata col dopo Covid.
Il Governo Sánchez
Il Governo di coalizione progressista ha affrontato la crisi sanitaria attivando un’efficace campagna di vaccinazione e approvando una serie di misure per combatterne le conseguenze socio-economiche. In Spagna poco meno del 90% della popolazione sopra i 12 anni è già vaccinato; in difesa del reddito e dell’occupazione il Governo ha prorogato fino alla fine di febbraio gli Erte (Cassa integrazione), aumentato il salario minimo inteprofessionale e istituito il reddito minimo vitale. Ha portato all’approvazione del Parlamento le leggi sull’eutanasia e sui diritti delle persone trans e Lgtbiq. Ha riavviato il tavolo di negoziato con la Generalitat per la soluzione del conflitto catalano.
Le previsioni per il prossimo anno indicano una crescita del Pil di poco inferiore al 6% (Banco de España), mentre la disoccupazione alla fine del 2023 dovrebbe situarsi al di sotto del livello pre-Covid. Dopo l’accordo tra Psoe e Unidas Podemos, il Governo ha presentato il progetto di finanziaria per il 2022, che prevede il livello di spesa pubblica più alto della storia. Per approvarla in parlamento, sarà necessario il voto di tutta la maggioranza, in particolare quello degli indipendentisti catalani e baschi.
In vista delle prossime elezioni, Sánchez ha rinnovato la componente socialista del Governo, mettendo insieme le diverse anime del partito, a cominciare da quelle che tempo fa avevano lavorato a un’altra leadership interna. Cinque anni dopo la sua defenestrazione e il ritorno alla guida come segretario, Sánchez ha voluto un congresso del Psoe all’insegna dell’unità. Nelle sue conclusioni, il Presidente del Governo ha rilanciato la socialdemocrazia come paradigma essenziale per il cambiamento, rivendicando al suo partito di essere il soggetto che rappresenta “la stabilità e la centralità del sistema politico spagnolo”.
Unidas Podemos, dal canto suo, sotto la leadership della vicepresidente del Governo e Ministra del Lavoro Yolanda Díaz, lavora alla costruzione di un “fronte ampio” per mobilitare tutta la sinistra alternativa al Psoe.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di novembre/dicembre di eastwest.
Intervista esclusiva a Luis Zapatero
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
José Luis Rodríguez Zapatero è stato Presidente del Governo spagnolo dal 2004 al 2011, dopo aver vinto le elezioni come leader del Psoe nel 2004 e nel 2008. Tra le sue politiche più simboliche figurano la ritirata delle truppe dall’Iraq, la legge sul matrimonio omosessuale e il processo di dialogo con l’Eta. Dalla sua idea di “Spagna plurale” nasce il nuovo Estatut catalano nel 2006, poi manomesso dalla sentenza del Tribunal Constitucional. Per affrontare la crisi del 2008 Zapatero ricorre a una politica di tagli della spesa sociale, che lo costringe ad anticipare le elezioni da cui il Psoe esce sconfitto. A 60 anni, fuori dalla prima linea della politica, dice di sentirsi molto in pace con se stesso, perché “il potere è temporaneo, il potere in democrazia si esercita in maniera contenuta e non c’è nulla di peggio che credere di avere una missione trascendentale”, convinto che “in democrazia è meglio non avere né eroi né martiri”. E oltretutto “quando sei e Presidente hai la possibilità di dire quello che pensi pubblicamente e questo è un privilegio”. Vive con speranza il Governo di coalizione delle sinistre e invita i giovani politici a “Leggere, leggere e leggere”. Perché “la cultura è quella che permette di arrivare al potere con una visione umile della vita come destino condiviso”. Parliamo con lui dei diritti di cittadinanza, della fine del terrorismo, della crisi di allora e di quella di oggi, del conflitto catalano e dei nuovi equilibri mondiali, specie nel continente americano, con l’avvento di Biden alla presidenza degli Stati Uniti.
Presidente, la Spagna con lei diventa pioniera nell’affermazione dei diritti di cittadinanza, come ci riuscì?
La Spagna democratica aveva sete di libertà e di diritti dopo una dittatura che ci fece vivere nel ritardo storico fuori dall’Europa e dalla modernità. Il mio progetto politico è di un socialismo dei cittadini, l’eguaglianza come aspirazione passa per l’esercizio pieno delle libertà individuali, la non discriminazione e l’abolizione delle ingiustizie storiche. Rappresentai un progetto molto repubblicano che era di estensione dei diritti di cittadinanza come la più trasformatrice delle leve.
Perché nel Paese che per primo legifera sul matrimonio omosessuale un rapper finisce in carcere per le sue canzoni?
La giustizia è indipendente e i giudici hanno applicato una sentenza che ovviamente è discutibile. Ma chissà che non si debba modificare la legislazione perché non s’intenda che c’è una limitazione e una criminalizzazione della libertà di espressione. Il Governo ha annunciato una riforma legislativa e speriamo che possa risolvere questo caso che ha generato un enorme dibattito e protesta in Spagna.
Il suo Governo fu il primo in Europa a essere paritario tra uomini e donne. In Italia c’è polemica sul nuovo Governo per la presenza femminile.
Fummo il primo Governo paritario in Europa col 50% di donne e 50% di uomini. Mi sembra una condizione essenziale nella democrazia del secolo ventuno che i Governi abbiano tanti uomini quante donne. Dovrebbe essere una regola scritta e non scritta, la Ue dovrebbe averla come condizione. E devo dire, con tutto il rispetto per il Governo italiano e il Primo Ministro Draghi, che prima o poi dovrà cambiare questa situazione. Perché non può esserci un esercizio intelligente delle politiche pubbliche se non ci sono donne e uomini ugualmente rappresentati.
L’organizzazione terrorista Eta si è dissolta nel 2018: quanto ha influito sulla sua fine il processo di pace con la banda terrorista?
L’Eta abbandona la violenza nel 2011. Il nostro processo di dialogo comincia nel 2005, con l’attentato al terminal T4 di Barajas nel 2006 non finisce, s’interrompe, ma poi riprende discretamente fino al 2011. La fine dell’Eta è il prodotto del dialogo. È il grande acceleratore che consegue che la banda terrorista metta fine alla violenza. E perciò per me, come esperienza politica e personale, il dialogo diventa imprescindibile nella soluzione di qualunque conflitto: il dialogo è lo scopo, il dialogo è il metodo.
Anche lei ebbe il suo “Whatever it takes”: nel 2010 annunciando i tagli disse “Me cueste lo que me cueste”. Come pensa oggi a quella stagione?
La crisi finanziaria nel 2008 fu affrontata dall’Europa con una ricetta sbagliata. Magari ci fosse stato Draghi, perché se allora si fosse fatto quello che ha fatto la Bce negli ultimi anni e in questa crisi, non avrei dovuto fare i tagli che feci. Li feci per obbligo: c’erano una serie di paesi come la Spagna, l’Italia e il Portogallo con un deficit alto e dovevamo dare un messaggio perché l’Europa mettesse le risorse per aiutare la Grecia. La crisi comincia a vincersi nei paesi del Sud Europa quando Draghi pronuncia quella famosa frase. Per fortuna si è appresa la lezione e adesso, col Next Generation e quanto sta facendo la Bce, l’Europa è all’altezza delle circostanze e ci siamo ritrovati con il progetto europeo.
Perché lei riuscì a governare in minoranza trovando via via le maggioranze, mentre in Italia questo sembra impossibile?
L’Italia è un Paese che trovo molto affascinante, non capisco però la sua vocazione per l’instabilità politica. In Spagna, nell’epoca in cui c’era il bipartitismo, quando io dovevo cercare la maggioranza in Parlamento, partivo da un numero di deputati molto alto. Ma io credo che ci sia più cultura di stabilità in Spagna che in Italia. Governare in minoranza esige dedicare molto tempo e un grande sforzo sincero al dialogo. E poi, la Spagna è un Paese maggioritariamente di centro-sinistra. I partiti nazionalisti sono piuttosto di centro-sinistra. La parte più conservatrice della società spagnola e alcuni settori fuori della Spagna non capiscono la singolarità del nazionalismo spagnolo. È vero che la maggioranza dei partiti nazionalisti nel mondo sono partiti di destra, ma in Spagna non è così e questo ha una spiegazione: il nazionalismo si oppose a Franco. È una singolarità della realtà spagnola che fa sì che il centro-sinistra con i nazionalisti superi sempre il 50% dell’elettorato spagnolo.
Cosa pensa delle recenti elezioni catalane?
Il risultato è interessante. Si mantiene l’equilibrio tra nazionalisti e non nazionalisti, perciò dev’esserci un accordo, perché nessuno riesce a imporsi in modo chiaro elettoralmente. Ma la cosa più interessante è che nei due blocchi indipendentista e non indipendentista chi ha occupato la prima posizione sono quelli che vogliono favorire il dialogo, i socialisti catalani e Esquerra Republicana e questo augura una nuova fase. E il tavolo di dialogo deve riempire di contenuti quel re-incontro che i catalani hanno votato.
È possibile la soluzione del conflitto catalano con i leader indipendentisti in carcere o in esilio?
È certamente un fattore che rende più difficile il dialogo, ma non dev’essere paralizzante, il dialogo deve prodursi. Speriamo che nel processo che si apre ci sia la possibilità di una soluzione alla questione dei leader indipendentisti in carcere. Tutti i temi che hanno dato luogo a sentenze o a situazioni giuridiche che comportano la non presenza in libertà o in Catalogna dei leader indipendentisti devono essere affrontati e risolti nel rispetto dello Stato di diritto, ma con una visione di generosità democratica che io difendo e non ho dubbi che il Governo spagnolo ce l’abbia in agenda. Come difendo che debbano esserci impegni da parte dei nazionalisti, che hanno tutto il diritto alle loro idee, al rispetto delle regole e delle leggi.
C’è spazio per l’ipotesi di un referendum?
Nella Costituzione non c’è spazio per un referendum. Ma anche prescindendo da questo, le esperienze di referendum binari per creare un quadro di convivenza territoriale portano alla radicalizzazione, perché non è un tema che si possa risolvere con un sì o con un no, soprattutto quando la società catalana è divisa più o meno a metà. L’esperienza ci dice che in questo genere di referendum chi perde per poco – e sempre perderà per poco – vuole una rivincita, come in Scozia o in Quebec e non c’è mai stabilità. Perciò l’alternativa è un accordo tra nazionalisti e costituzionalisti che incorpori innovazioni e riforme, da sottoporre eventualmente a referendum.
Che ne pensa della fuga dell’ex re Juan Carlos all’estero?
Mi ha molto sorpreso e deluso e penso che agli spagnoli sia dovuta una spiegazione, disponibili ad ascoltarla con il rispetto che si deve a chi ha fatto molto per la democrazia spagnola. Credo anche che sia il momento di aprire una nuova regolamentazione della Corona che risolva le lacune esistenti. La monarchia parlamentare è uno dei principi del consenso costituzionale, non c’è la possibilità di riformarne il Titolo senza il centro-destra. L’opzione di una monarchia parlamentare è perciò solida e allora dobbiamo fare in modo che sia il più possibile al servizio dell’interesse generale.
Che cos’è il golpismo dell’estrema destra nel secolo XXI?
Lo abbiamo visto nel suo momento più intenso al Campidoglio negli Stati Uniti. La politica negli Stati Uniti, specie nell’epoca di Trump, è stata il culmine della teoria della Alt-Right che inizia nel Tea Party, con le sue derivazioni nel movimento Qanon ed è molto preoccupante che questo accada nella prima democrazia del mondo. L’assalto al Campidoglio è Trump, è l’apice della sua politica. In Sudamerica l’amministrazione Trump aveva già fatto dei test in questo senso, con la rottura delle regole del diritto internazionale, il metodo di cooptazione delle élite istituzionali e politiche e il ritorno alla dottrina per cui i paesi sudamericani hanno i problemi che hanno per la loro inferiorità civica, legittimando perciò qualunque intervento. Una riedizione delle dottrine più reazionarie, con in aggiunta il fatto di prodursi in un momento storico in cui gli Stati Uniti soffrono una certa decadenza della loro leadership, che si manifesta in quanto successo al Campidoglio, negli errori in Medio Oriente e nei fallimenti in Sudamerica.
Che sta succedendo in Sudamerica?
La politica protezionista di Trump, sostenuta dal ragionamento che bisognasse finirla col Muro di Berlino in Sudamerica rappresentato da Nicaragua, Venezuela e Cuba, ha finito col produrre esattamente il contrario: c’è stata una reazione a favore della sinistra. La sinistra ha vinto in Argentina, in Messico, in Bolivia, vincerà in Ecuador, vediamo che succederà in Cile, cosa accadrà in Colombia dove sembra possa determinarsi un cambio di Governo. Tutti i Governi e i partiti che hanno seguito Trump sono stati sconfitti in modo strepitoso. Ed è necessario che la sinistra in Sudamerica converga, che abbia un programma comune e ambizioso.
Cambierà la situazione con Biden?
Vedremo se l’amministrazione Biden affermerà i valori democratici nelle relazioni internazionali, rispettando la legalità internazionale, l’Onu, la soluzione pacifica dei conflitti. Poiché ho seguito le politiche di Trump in Sudamerica molto da vicino, non mi ha sorpreso quanto successo al Campidoglio: il movente ideologico è lo stesso e così i metodi. La sinistra sudamericana deve provocare il dibattito con l’amministrazione Biden. Un dibattito ideologico e politico in cui si dimostri agli Stati Uniti perché perdono il ruolo di guida.
Il Sudamerica anticipa quello che succede nel resto del mondo?
La crisi della pandemia avrà effetti non solo sull’economia internazionale ma anche sui referenti ideologici, culturali e politici. È tutto ancora aperto e all’inizio, non sappiamo se sorgeranno nuove ideologie o se qualcuna soccomberà. Non sappiamo se questo acutizzerà la decadenza degli Stati Uniti o favorirà la potenza crescente della Cina. Perciò mi sembra molto necessario che la sinistra, almeno in Sudamerica e magari anche in Europa, abbia la capacità di generare un programma comune, una visione con un minimo di proposte di base condivise. In Sudamerica esiste un germe sempre più importante che è il Grupo de Puebla (forum politico nato a Puebla nel 2019, ndr) che, in modo efficace in due anni, sta agglutinando tutta la sinistra sudamericana. L’ideologia che anticipi una visione solida e condivisa da molti partiti nell’uscita da questa crisi avrà l’iniziativa e sarà vincente.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
Sudamerica: le prove di Biden
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Il neo Presidente Joe Biden ha designato il procuratore generale della California Xavier Becerra, di origini messicane, alla guida del Dipartimento della Sanità e Servizi Umani, da dove gestirà la lotta contro la pandemia. La nomina sarebbe arrivata per placare le critiche del gruppo dei congressisti democratici di origine ispanica sulla scarsità di rappresentanza latina nel futuro gabinetto del Presidente. Un’attenzione nei confronti di questa parte della popolazione statunitense che è risultata ancora insufficiente in quest’ultima campagna elettorale democratica, forse nella convinzione poco fondata che i latini avrebbero votato comunque per i democratici piuttosto che per i repubblicani. Mentre invece il voto latino si è polarizzato, come si è polarizzata l’America. E le prime reazioni dei Governi dei Paesi latino americani, all’indomani del voto, si sono mosse tra le congratulazioni e la prudenza.
L’America latina oggi
Il Sudamerica che eredita Biden assomiglia poco a quello di quattro anni fa quando fu eletto Presidente Donald Trump. La regione è in preda a una grave crisi economica, con una riduzione del Pil attesa per quest’anno superiore all’8% per effetto della pandemia che l’ha colpita con forza, specie in Brasile, Perù, Colombia, Messico e Argentina. Trump, troppo occupato nella politica domestica, ha gestito nell’area una strategia di basso profilo, centrata sulla riduzione dei flussi migratori dal Messico e la pressione politica su Cuba e Venezuela. Ma nel frattempo sono andati cambiando gli scenari politici interni ai Paesi. A cominciare dal piano elettorale, come è successo in Bolivia, dove la destituzione forzata di Evo Morales è stata rigettata dal voto di novembre con l’elezione di Luis Arce, suo ex Ministro; o in Argentina, dove il peronista Alberto Fernández ha vinto le elezioni contro il conservatore Mauricio Macri; o come in Messico, in cui le elezioni sono state vinte dal progressista Andrés Manuel López Obrador.
Soprattutto, in questi anni è cresciuta la mobilitazione sociale: è stato così in Argentina, dove la lotta delle donne ha fatto approvare in Parlamento la legge per l’interruzione volontaria della gravidanza che depenalizza l’aborto; in Cile, in cui le proteste dei giovani dell’ultimo anno e mezzo hanno favorito la bocciatura della Costituzione di Pinochet sottoposta a referendum; in Brasile, che ha visto il Presidente Jair Bolsonaro perdere le amministrative di novembre, mentre cresce una nuova sinistra guidata dal giovane Guilherme Boulos, già leader del movimento per la casa; o come avvenuto in Perù, Colombia ed Ecuador con i giovani tra i 18 e i 30 anni protagonisti della protesta. E a La Paz, in occasione della cerimonia d’insediamento del nuovo presidente della Bolivia, dove su impulso di quest’ultimo, del vice Presidente del Governo spagnolo Pablo Iglesias e del Presidente argentino, è nato il manifesto “In difesa della democrazia”, perché “la principale minaccia alla democrazia e alla pace sociale nel XXI è il golpismo dell’estrema destra”. I firmatari, tra i quali si noverano gli ex Presidenti José Luis Rodríguez Zapatero, Evo Morales, Dilma Rousseff, Rafael Correa e Alexis Tsipras, affermano “l’impegno storico a lavorare insieme per la difesa della democrazia, della pace, dei diritti umani e della giustizia sociale” e lo fanno proprio in Bolivia, paese convertitosi in un esempio nel mondo “della risposta popolare al golpismo”.
I voti dei latinos alle elezioni presidenziali
Negli Stati Uniti erano 32 milioni le persone di origine latina con diritto a votare alle ultime elezioni presidenziali, in rappresentanza di oltre il 13% dell’elettorato statunitense, per la prima volta la minoranza etnica più numerosa: il 59% di messicani o di origine messicana, il 14% di portoricani, il 5% di origine cubana e il 22% di altre origini ispaniche. Da qui al 2040, si stima che ogni anno un milione di latini s’incorporerà nel censo elettorale statunitense. In queste elezioni, la campagna elettorale di Biden ha destinato 20 milioni di dollari a pubblicità in radio e televisioni in lingua spagnola, contro i 9 milioni della campagna di Trump. Il Partito democratico ha pensato per molto tempo che il voto latino fosse garantito come il voto dei neri. Ma nelle elezioni di novembre, il voto latino non si è espresso come un blocco monolitico e ha sostenuto opzioni opposte da un lato all’altro dell’Unione. Florida a sud-est e Arizona a sud-ovest hanno rappresentato gli Stati simbolo di questa polarizzazione del voto latino. Nel 2016, Trump non vinse lo Stato di Florida per il voto di Miami; quest’anno, invece, la Florida si è colorata di rosso, sembra proprio per il voto urbano e latino, con una presenza importante di statunitensi di origine cubana, venezuelana e forse anche colombiana. Mentre lo Stato di Arizona, tra quelli determinanti nella vittoria di Biden, è diventato azzurro per l’alleanza tra aree metropolitane e popolazioni di origne latina, soprattutto del Messico.
Cosa ha significato l’elezione di Biden
Alle congratulazioni tempestive dell’argentino Fernández al tandem Biden-Harris, si è contrapposto il silenzio di Bolsonaro e la cautela di Obrador. Per il Presidente del Brasile l’elezione di Biden è un colpo duro da sopportare, tanto da mettere a rischio la sua ricandidatura nel 2022. Bolsonaro, considerato l’epigono di Trump in Sudamerica, il “Trump tropicale”, si è sempre dichiarato un ammiratore del Presidente repubblicano e ora si trova spiazzato dalla sua sconfitta che lo isola a livello internazionale. Biden, inoltre, ha intenzione di tornare agli Accordi di Parigi sulla lotta al riscaldamento globale e questo significa che la difesa dell’Amazzonia diventerà nuovamente centrale nell’agenda americana contro il cambio climatico. Anche per reggere la competizione con l’altro gigante sudamericano, l’Argentina, Bolsonaro è però obbligato a mantenere buone relazioni con gli Stati Uniti.
L’Argentina di Fernández non si è pronunciata in campagna elettorale, ma l’elezione di Biden rappresenta una buona notizia, dopo la tensione con Washington generata dall’imposizione da parte di Trump del suo candidato a dirigere il Banco Interamericano de Desarrollo, la prima volta di una direzione non sudamericana. Obrador ha preferito mantenersi prudente all’indomani delle elezioni; col tempo, infatti, il Presidente del Messico era riuscito a intessere buone relazioni con Trump, tanto da andare a trovarlo alla Casa Bianca, poco prima dell’appuntamento elettorale. Felicitazioni immediate per Biden da numerosi altri Paesi dell’area, tra cui Bolivia, Cuba, Ecuador, Venezuela. Ma anche dal Perù dell’ex Presidente Martín Vizcarra, diventato dal 2017 Paese con forte immigrazione venezolana; dalla Colombia di Ivan Duque, partner privilegiato di Trump nei confronti del Venezuela e attivo nella conquista di voti in Florida per il candidato repubblicano; dal Cile di Sebastián Piñera, per cui gli Stati Uniti rappresentano il secondo Paese per l’import-export.
Il piano di Biden per l’America latina
Ci si aspetta ora che la strategia di Biden nei confronti dei Paesi dell’America latina sia diversa da quella di Trump, anche perché Biden è un buon conoscitore della regione, avendo avuto responsabilità in politica estera come vice Presidente di Barak Obama. Oltre al ritorno della centralità dell’Amazzonia nella difesa dell’ambiente, è atteso un suo intervento sul “Remain in Mexico”, il provvedimento di Trump contro l’immigrazione messicana, eliminandolo e restaurando l’asilo per motivi fondati; così come è probabile che il nuovo Presidente ristabilisca relazioni con Cuba tornando sul solco tracciato da Obama. Anche dal Venezuela sperano che ci sia un cambio di attitudine di Washington nei loro confronti, considerando che le sanzioni economiche imposte da Trump al principio del 2019 hanno solo ampliato la crisi umanitaria del Paese caraibico. Infine, Biden potrebbe rilanciare, sotto altre spoglie, il piano “Alliance for Prosperity”, inventato nel 2014 da Obama, prevedendo risorse e investimenti per El Salvador, Honduras e Guatemala, così da diminuire le ragioni dell’immigrazione dall’America centrale. Anche se la sua efficacia sarebbe controversa, criticata sia nella capacità di rallentare il flusso migratorio, sia perché sarebbe condizionato alla liberalizzazione delle economie dei Paesi interessati.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
Intervista a John Carlin: da Trump a Brexit in era Covid
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
John Carlin è un giornalista e scritttore. Già corrispondente e collaboratore di diverse testate internazionali – tra cui The New York Times, The Independent, The Times, El País – è autore del libro “Playing the Enemy” (2008), da cui nel 2009 fu tratto il film “Invictus”, diretto da Clint Eastwood e interpretato da Morgan Freeman. Nato a Londra nel 1956, dove ha trascorso appena un quarto della propria vita, rivendica di essere britannico: “Mio padre era scozzese, mia madre spagnola. Ma il mio migliore amico in Argentina, che è uno psicoanalista, dice che io sono per il 50% britannico, per il 50% spagnolo e per il 50% argentino, perché ho vissuto a Buenos Aires tra i 3 e i 10 anni e poi vi sono tornato una volta finita l’università”. Due fasi molto importanti nella crescita di una persona, una permanenza molto formativa anche “perché capitai nel mezzo della dittatura militare e dopo avere vissuto una vita comoda e distante dai grandi drammi politici, d’improvviso mi trovai immischiato in questo paese, che sotto la dittatura era un luogo molto sinistro, molto più del Sudafrica dell’apartheid, e lì cominciai a lavorare nel giornalismo”. Ha vissuto in Sudafrica dall’89 al ’95, “il periodo più interessante che ho attraversato come giornalista, e per una volta con un finale felice”. Da un anno vive a Barcellona; per un periodo, prima di andare a Londra, ha vissuto a Sitges, la cittadina capitale del modernismo catalano sulla Costa Dorada, dove ha una casa e un appartamento “per la vecchiaia”. Di Maradona, all’indomani della sua morte, ha scritto su La Vanguardia che era “larger than life”, più grande della vita stessa.
Che ne pensa dell’accordo raggiunto sul Brexit?
Quello che mi sfugge è cosa ci guadagnino i britannici. Tutto questo putiferio per quattro anni e mezzo per ritrovarsi in una condizione peggiore da un punto di vista economico e commerciale. Perdono libertà di movimento, a me dà molta tristezza la situazione dei giovani britannici che non votarono per il Brexit e non avranno la possibilità che io ho avuto in tutta la mia vita come britannico, di vivere, studiare, lavorare in qualunque luogo dell’Europa. Per vincere poi cosa? Un’idea mitica di sovranità, di recupero del controllo, tutto piuttosto assurdo in un mondo globalizzato. Il Regno Unito ne esce complessivamente indebolito: fuori dall’Unione Europea è meno forte, meno influente.
Che pensa quando Boris Johnson dice: “Abbiamo recuperato il controllo del nostro destino”?
Gli inglesi non hanno una propria gastronomia, mangiano cibo di altre cucine seduti su mobili svedesi, guardano serie straniere su televisori coreani o giapponesi, vedono il calcio dove gli idoli sono spagnoli, francesi, tedeschi, italiani, guidano macchine tedesche o francesi, fuggono ogni anno dal loro Paese per andare in Spagna o in Italia, sognano di avere una casa in Toscana. Sono così, ma cosa li definisce? La sfiducia verso gli stranieri, molti di loro disprezzano gli altri europei perché pensano che sono dei codardi, che solo i britannici furono i salvatori nella Seconda guerra mondiale e faticano ad accettare che il tempo dell’impero è finito. È su questo sentimento che Johnson ha fatto leva per vincere il referendum del 2016 e fa ora uscire il Regno Unito dall’Unione europea. Con il Brexit tutti perdono, con l’accordo l’Unione europea è riuscita a limitare il danno che quest’uscita le provoca.
L’epoca di Trump volge al termine, che ne pensa di come sta gestendo la sua uscita?
Trump si sta convertendo in un personaggio da surrealismo magico di Gabriel García Marquez, mi ricorda “L’autunno del patriarca”, il dittatore solo asserragliato nel palazzo con orde di gente fuori a gridargli di andarsene e lui chiuso lì dentro, sempre più pazzo, con un gruppo di fedelissimi ogni volta più ridotto. Trump è una persona con un ego molto grande ma molto fragile, che non sopporta l’idea di perdere, di essere un loser.
L’ha mai preoccupata sul serio l’insistenza di Trump sulla frode elettorale?
Non mi ha sorpreso l’attitudine di Trump, peraltro aveva già avvisato in campagna elettorale che se avesse perso avrebbe messo in questione i risultati. Il fatto è che lui va sempre oltre… Recentemente incontrai negli Stati Uniti un congressista democratico che mi disse: “Con Trump ti aspetti ogni volta qualcosa di male e ti dà sempre qualcosa che è ancora peggio”. Trump ha chiesto molto danaro ai suoi fan ultimamente, ha accumulato 140 milioni di dollari così. Fino a un po’ di tempo fa m’inviava delle mail chiedendomi soldi, perché compilai un modulo per partecipare a un suo meeting e deve avere pensato che fossi uno dei suoi accoliti: mi arrivavano cinque, sei messaggi al giorno suoi, dicendomi “John, I need you”, come se fossimo amici, colleghi, “È tuo dovere di patriota darmi del denaro, John”. Diceva che questo denaro gli serviva per pagare le cause nei tribunali contro il risultato elettorale, ma magari lo stava conservando tutto per affrontare le sue cause personali di frode fiscale.
Ma lei confidava nel sistema democratico americano?
Il sistema ha retto perché Trump può dire tutte le bugie che vuole sulle reti sociali, ma poi quando la questione arriva ai tribunali s’impone la verità. Il sistema democratico suppone sempre un minimo di onore da parte dei politici e il momento democratico più importante è quando si perdono le elezioni, si ammette la sconfitta e si cede il potere e questo non è avvenuto. Ma il sistema ha tenuto e Biden ha risposto molto bene, con serenità, seguendo le regole e scegliendo la sua squadra.
Cos’è il trumpismo senza Trump?
Il trumpismo continuerà, come il peronismo senza Perón. Il trumpismo è il culto di una personalità, perché la cosa più inquietante di queste elezioni è che il messaggio di Trump in campagna elettorale era solo “Vota per me, perché altrimenti verranno i comunisti, i socialisti al potere”. Il trumpismo è Trump, è assolutamente autoreferenziale e Trump è un demagogo che fa appello ai risentimenti di un settore importante della popolazione, incarnandoli, contro le elite. Qualcosa che era presente già prima e che Trump ha fatto emergere. Trump ha una capacità di empatia nulla, ma allo stesso tempo entra in connessione con una parte importante dell’America. Il risentimento è un’emozione molto potente negli individui e nelle collettività, una sensazione di umiliazione capace di trasformarsi in molta energia. Questa gente che vota per Trump si sente emarginata, disprezzata dall’élite rappresentata da Barack Obama e Hillary Clinton. Negli ultimi cinquanta anni ci sono stati ovunque cambiamenti straordinari per quanto riguarda i diritti di cittadinanza e c’è un settore della popolazione americana che vota democratico sentendosi a proprio agio con tutto questo; un’altra parte invece non si sente comoda, è gente molto conservatrice, puritana, con grande presenza di evangelici. I populisti identificano una paura, la fanno emergere, lievitare e poi ti dicono “Io ti salverò da tutto questo”.
Il voto latino si è diviso su Trump.
Negli Stati Uniti c’è la tendenza a parlare del voto latino, del voto delle donne, del voto dei neri, ma non funziona così. Si è creduto, nella élite democratica, che quanta più popolazione ispanica votante ci fosse negli Stati Uniti tanto meglio sarebbe stato per il partito democratico, ma non necessariamente è così. Il voto latino non è un blocco omogeneo, dipende in che parte del paese si consideri: in Florida il voto latino è molto di destra per il tema cubano e quello venezolano, perché lì ci sono gli esiliati di questi paesi. Sembra che la maggioranza dei messicani abbia votato per Biden, ma pensare che da qui a quattro, otto anni gli americani di origine messicana voteranno sempre democratico è un errore, non è così facile incasellare le persone.
Quanto è intervenuto Trump nei Paesi del Sudamerica?
A Trump non importa nulla dell’America Latina, come non gli importa del resto del mondo. L’ironia è che sarebbe più possibile un intervento militare in qualche parte del mondo con Biden che con Trump. Allo stesso tempo, Biden capisce bene il Sudamerica, ebbe un ruolo importante nel processo di pace in Colombia, per esempio. In un certo qual modo, per quei paesi del Sudamerica che vogliono essere lasciati in pace dagli Stati Uniti forse Trump è un’opzione migliore. Quelli invece che vogliono che gli Stati Uniti giochino un ruolo interventista nell’area, nel senso buono del termine, sono contenti della vittoria di Biden.
Quanto si somigliano Boris Johson e Donald Trump?
Poco, si somigliano poco, hanno entrambi una capigliatura bionda e vistosa, ma per il resto sono molto differenti. Johnson è una persona molto intelligente e colta, ha scritto vari libri, ha un dominio del latino, conosce il greco antico. È vero che non ha molti principi, non penso che personalmente credesse nella Brexit, piuttosto che la utilizzò come strumento per arrivare al potere e diventare Primo Ministro, ma ci sono molti politici nel mondo senza principi saldi… E Johnson non è un pazzo, non manca del tutto di empatia, Trump è un narcisista malato. Johnson non arriverebbe mai a un punto d’irresponsabilità di perdere le elezioni e dire che non le ha perdute. Come persona, come politico, ma anche come democratico è ingiusto confrontare Johnson con Trump e io ho scritto peste e corna di Johnson, non sono un suo estimatore.
Lei che conosce la Scozia e vive a Barcellona: che differenza c’è tra l’indipendentismo scozzese e quello catalano?
La differenza più importante è il contesto politico di Spagna e Regno Unito. Il movimento indipendentista scozzese sta acquisendo molta forza, tutti i sondaggi lo danno avanti rispetto all’unionismo. Il prezzo di quello che Johnson celebra come “il giorno in cui recuperiamo il controllo”, aumenta la possibilità che il Regno Unito si converta in un Paese ancora più piccolo fuori dalla Ue, perché le possibilità che la Scozia si indipendentizzi sono cresciute molto. Questo è dovuto a diversi fattori: Boris Johnson è uno di questi e quello più importante è la Brexit, il fatto che li obblighino a uscire dall’Unione europea quando gli scozzesi votarono in maggioranza per rimanervi. Nella politica britannica si dà per scontato che se lo Scottish National Party vince le prossime elezioni di maggio in Scozia, prima o poi ci sarà un referendum. Perché se l’aspirazione maggioritaria degli scozzesi è celebrare un referendum, la democrazia esige che si faccia. Questa è la grande differenza tra i due Paesi. Inoltre, la Catalogna soffre una perdita netta di risorse economiche rispetto al resto della Spagna, la Scozia dipende invece molto di più dal danaro che viene da Londra. È una differenza importante questa ed è il principale argomento degli scozzesi che vogliono rimanere dentro la Gran Bretagna, che dicono “col Brexit perderemo economicamente, ma forse perderemmo di più separandoci dall’Inghilterra”.
Prima si parlava della paura, quanto incide la paura nella pandemia? La politica utilizza questa paura?
La paura incide molto, perciò prendiamo le misure che prendiamo, perché abbiamo paura della morte. Si potrebbe anche dire però che la politica stia rispondendo alla paura della gente, prendendo le misure che considera adeguate per provare a mitigarla.
Come hanno gestito la pandemia i Governi?
Credo che ci sia stata una sproporzione nella risposta, si è data priorità alla battaglia contro il virus senza tenere conto di altri elementi della vita e altri fattori di rischio della salute. Ma detto questo, simpatizzo abbastanza con i governi a cui è toccato gestirla, è qualcosa di assolutamente nuovo, la scienza si muove ancora in modo confuso, hanno fatto quello che hanno potuto. Supponiamo però di superare questo virus entro la prossima estate e che poi ne venga un altro, un anno dopo. Lo gestiremo nello stesso modo? Spero di no, spero che si trovi la maniera di tener conto dell’economia, dei giovani, delle altre malattie. Spero perciò che si trovi un sistema più equilibrato che non subordini tutto, assolutamente tutto, alla missione di sconfiggere questo particolare virus.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio 2021 di eastwest.