[SANTIAGO DEL CILE] Economista e consulente della Cepal (Commissione economica per l’America Latina).
Ora la Colombia chiede pace, verità e riforme
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Da dieci giorni la Colombia è attraversata da incessanti proteste e da una violenta repressione statale. I manifestanti chiedono un nuovo patto sociale e vogliono lasciarsi alle spalle le ferite della guerra interna, raccontata sulle colonne di questo giornale da Mario Paciolla, alias Astolfo Bergman, cooperante internazionale morto un anno fa nel sud della Colombia, in circostanze che rimangono misteriose e inquietanti.
L’innesco delle proteste lo scorso 28 aprile, quando uno sciopero nazionale ha messo con le spalle al muro il Presidente conservatore, Iván Duque, e lo ha costretto a ritirare la riforma tributaria, pomo della discordia tra Governo e manifestanti. Nonostante il passo indietro del Governo, le proteste non si sono fermate. E nemmeno la violenza delle forze dell’ordine. Nei dieci giorni di proteste, si contano 47 morti, 548 scomparsi, 12 casi di violenza sessuale e un migliaio di feriti tra civili e forze dell’ordine, secondo i dati raccolti dalla Ong Temblores.
Le manifestazioni sono state in larghissima parte pacifiche, benché non siano mancate aggressioni contro la polizia, saccheggi ai supermercati, danni al trasporto pubblico e alle banche. Il Governo ha fatto di tutta l’erba un fascio e trattato i manifestanti come teppisti da reprimere. L’ex Presidente Alvaro Uribe (2002 -2010), uomo forte della destra colombiana, ha twittato a favore dell’uso di armi da parte delle forze dell’ordine. La brutale violenza statale, in particolare dell’ESMAD – il nucleo antisommossa delle Polizia – e dei gruppi paramilitari, ha portato alla condanna unanime dell’Onu, dell’Unione europea, di numerosi Paesi e di molte Ong. In molte città del mondo si sono svolte manifestazioni in solidarietà al popolo colombiano e in difesa del diritto di manifestazione.
Conti in ordine, costi quel che costi
La riforma tributaria presentata da Duque, e dal suo partito centro-democratico di destra, fondato dall’ex Presidente Uribe, puntava a risolvere la crisi del debito che attraversa il Paese, piegato dalla pandemia. Il testo prevedeva un aumento della pressione fiscale con l’obiettivo di generare un gettito di circa 6000 milioni di dollari per risanare le finanze pubbliche ed evitare un declassamento del debito pubblico da parte delle agenzie di rating internazionali.
La riforma prevedeva alcune misure originali (esenzioni iva sugli assorbenti e reddito minimo per i ceti popolari) ma con un modello fiscale regressivo. Si prevedeva difatti un aumento e un’estensione dell’iva a nuovi prodotti, inclusi alcuni beni essenziali, come acqua ed elettricità. “Si chiede di pagare la crisi alla classe media, non a chi ha di più”, dichiara a eastwest Ricardo Hincapié, sviluppatore di software e manifestante dalla città di Calì.
Calì, il centro delle violenze
È in questa città, il più importante centro economico del sud-ovest del Paese, che si sono verificati gli scontri più violenti e il maggior numero di morti. “Di giorno l’ESMAD ci reprime. Di notte se ne vanno e arrivano i paramilitari”, racconta Hincapié che ci concede questa intervista appena terminata l’assemblea dei manifestanti della Universidad del Valle, centrale di organizzazione dei manifestanti e della minga, il collettivo degli indigeni della zona, della regione Sur del Valle del Cauca. L’assemblea è stata interrotta perché gruppi armati hanno iniziato a sparare contro i manifestanti nei pressi dell’Università, racconta Hincapié. “La città è distrutta. Da giorni non si raccoglie la spazzatura, il trasporto pubblico è al collasso, i supermercati sono quasi vuoti e i prezzi aumentano, – spiega Hincapié – ma qui c’è una forte autorganizzazione, grazie a una “razza di indios coraggiosi”, i giovanissimi resistono a militari e paramilitari. E le signore del quartiere li difendono suonando le pentole (i cacerolazos, famosi in tutta l’America Latina) e portandogli cibo. È qualcosa di nuovo, mai visto prima. C’è una grande solidarietà nel quartiere”.
Una protesta diversa dal passato
Da almeno cinque anni il Paese vive cicliche ondate di proteste. Ma stavolta sembra diverso, gli effetti del Covid si fanno sentire, c’è meno paura e più disperazione. Gli assalti ai supermercati, secondo Hincapié sono atti di “disperazione di un popolo miserabile che ha toccato il fondo. Si ruba riso, uova e lenticchie perché riso, uova e lenticchie che non si possono più comprare”.
C’è poi una crescente diffidenza verso i mezzi di informazione ufficiali, in quanto “legati al potere del partito centro-democratico, al grande capitale. Non sono canali di informazione ma di propaganda. Sono passati dal sostenere il para-militarismo a creare la para-realtà”, afferma Hincapié. E prosegue: “La nostra società ha una struttura simile a quella dei tempi della colonia. Viviamo ancora nel Medioevo, non siamo mai passati al capitalismo”. Le proteste puntano il dito verso il modello sociale del Paese, denunciando i privilegi della classe imprenditoriale. E chiedono la riforma della polizia, nata nel contesto del conflitto armato che ha caratterizzato il Paese per decenni.
L’illusione della pace
Il conflitto con le Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia – FARC (1964 -2010) ha prodotto 220mila morti, di cui 177mila civili. E quasi otto milioni di sfollati. Cifra che fa della Colombia il Paese con il maggior numero di rifugiati interni al mondo.
Quando nel 2016, la guerriglia attiva più grande della regione firmò l’accordo, molti si illusero che fosse arrivata la pace. Ma da quel giorno 238 firmatari del testo sono stati uccisi. Duque, delfino politico di Uribe, sta ostacolando in ogni modo il processo di pace. Uribe era riuscito a normalizzare la violenza sulla base di un patto più o meno esplicito: uno Stato forte per garantire la sicurezza contro il nemico interno, le FARC e i narcos. Creando una guerra permanente che ha prodotto il fenomeno dei ‘’falsi positivi”: 6402 civili innocenti uccisi dall’esercito colombiano, presentati come aderenti ai narcos o alle FARC, secondo le cifre del JEP, il tribunale speciale per la pace. Oggi sappiamo che non si tratta di casi isolati, ma di una politica del Governo Uribe.
“Vogliamo pace”
La Colombia sta cambiando. L’uribismo e la sua normalizzazione della violenza ha sempre meno sostenitori. E crescono le forze alternative al potere storico dell’uribismo e delle élite del Paese, come mostra il risultato alle presidenziali del 2018 di Gustavo Petro, candidato della sinistra sconfitto al secondo turno da Duque. Cresce la domanda per un Paese libero dagli incubi della guerra interna. “Ora chiediamo la vita, prima di tutto. Questo è un Paese violento, pieno di armi e di ignoranza, vogliamo pace. E poi una nuova riforma tributaria, ma in senso progressivo. E un processo di verità di quel che è successo in questi dieci giorni, quando manifestanti pacifici sono stati schiacciati dal pugno duro di una dittatura”, conclude Hincapié.
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Usa, Ue, America Latina insieme: un sogno?
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Tom Shannon è uno degli statunitensi che meglio conoscono l’America Latina. Ha trascorso 35 anni della sua vita nel Dipartimento di Stato del suo Paese, coprendo tutte le tappe del cursus honorum della diplomazia, fino a diventare sottosegretario di Stato agli Esteri e uno dei pochi funzionari a ricevere il prestigioso titolo di “ambasciatore di carriera”. Il suo percorso è cominciato a metà anni ’80 in Guatemala, poi Brasile e Venezuela; ha servito dieci segretari di stato e sei presidenti, da Reagan a Trump. È con quest’ultimo Presidente, nel 2018, che ha deciso di congedarsi dal servizio diplomatico, per ‘ragioni personali’, ha dichiarato alla stampa.
Oggi si dedica alle consulenze per una società privata, offre consigli sulla politica internazionale. In questa intervista, presenta una panoramica sui principali temi di politica estera degli Stati Uniti nella regione, da Cuba al Venezuela. E racconta del suo sogno: un triangolo transatlantico tra Stati Uniti, America Latina ed Europa, fatto di scambi economici e valori condivisi.
Cosa possiamo aspettarci dalla politica estera del Presidente Biden verso l’America latina?
Biden ha un’esperienza e una conoscenza dell’America Latina inedita per un Presidente degli Stati Uniti. Non solo per il suo lavoro nella commissione esteri del Senato, ma anche come vicepresidente, quando aveva nel suo portafoglio la politica estera nella regione. Ha svolto almeno 16 viaggi istituzionali e visitato quasi tutti i paesi. Nessuno deve spiegargli perché il Messico o il Centroamerica sono importanti nella vita quotidiana degli Stati Uniti. L’America Latina è già dentro l’agenda della politica estera di Biden. Oggi, con la gestione della crisi migratoria alla frontiera con il Messico per le provenienze dai paesi del Triángulo norte, cioè Honduras, Guatemala, El Salvador. Ma presto, nell’agenda entreranno anche Cuba, Venezuela e Nicaragua, tre nazioni guidate da governi socialisti. E poi si dovranno rinnovare le relazioni, soprattutto sul piano economico, con i grandi paesi del Cono Sud, Argentina e Brasile. Sullo sfondo si staglia la presenza cinese. Vedrete: la relazione Usa-America Latina non avrà le prime pagine nei giornali, ma per quanto riguarda i nostri interessi e i nostri valori, sarà fondamentale.
L’ombra cinese si allunga su tutta l’America Latina. Pechino è il primo partner commerciale di tutti i Paesi a Sud del Rio Grande. Ha erogato prestiti a molti paesi della regione e costruito ferrovie, autostrade, centrali nucleari, miniere e dighe in tutte le latitudini latinoamericane. Huawei fornisce i mercati degli smartphone e della tecnologia; vi sono basi militari cinesi in Patagonia. Anche il giardino di casa degli Usa è diventato terreno di contesa nella battaglia geopolitica con il dragone?
La presenza cinese nella regione è un riflesso della globalizzazione in questi paesi. E ciò è irreversibile: la Cina non si può escludere. Il punto è come si comporta Pechino nell’emisfero e come rispondono gli Stati Uniti. Noi abbiamo un vantaggio strategico: oltre un secolo di relazioni commerciali ed investimenti. Oggi la presenza delle imprese statunitensi in America Latina è legata ad attività economiche ad alto valore aggiunto, nella manifattura, nel settore scientifico, nei servizi. Non solo, come per la Cina, all’acquisto delle materie prime. E per i paesi latinoamericani che vogliono affermarsi nell’economia del XXI secolo, sono necessari la tecnologia e il finanziamento offerti dalle nostre imprese. Nella concorrenza con la Cina, dobbiamo approfittare di questo peculiare intreccio commercio-investimenti per guadagnare influenza politica nella regione.
Come giudica il ruolo e la politica dell’Unione Europea in America Latina, in particolare rispetto alla crisi venezuelana?
Gli Usa e l’Ue condividono una visione strategica e valoriale per l’America Latina. Dico di più: in un mondo perfetto, sogno un triangolo Usa, Europa e Sudamerica fatto di flussi commerciali, finanziari e fondato sui comuni valori della democrazia e dell’economia di mercato. Il commercio può essere uno strumento per costruire questo triangolo transatlantico, un modello vantaggioso per tutti i suoi membri e che può limitare la presenza cinese nella regione. Per quanto riguarda il Venezuela, l’Ue deve costruire la propria politica mediando tra paesi membri che hanno interessi diretti e altri che ne hanno molto meno. Finora ha svolto un ruolo importante, soprattutto per quanto riguarda i diritti umani e la democrazia. Ci sono state frizioni con gli Stati Uniti a guida Trump sull’utilizzo delle sanzioni, ma con la presidenza Biden si ridurranno le differenze e si potrà costruire una politica comune per risolvere la crisi di Caracas.
Lei conosce bene il Venezuela, dove è stato ambasciatore negli anni ’90, durante il primo governo Chavez e più di recente, nel 2016, come inviato del governo del suo paese. Sul piano politico, sembra si sia arenata l’iniziativa del governo ad-interim di Juan Guaidò, riconosciuto da molti Paesi europei e Stati Uniti ma criticato da parte dell’opposizione interna. Quale può essere la soluzione allo stallo venezuelano, per un Paese che continua a pagare costi alti in termini economici e umanitari e la cui crisi appare senza fine?
L’approccio degli Usa alla crisi di Caracas deve partire dal benessere del popolo venezuelano, benessere fisico, psicologico e politico. Per quanto riguarda la politica, mi riferisco alla possibilità di svolgere libere elezioni. E ciò, attualmente, è semplicemente impossibile. Il governo ad-interim di Juan Guaidó, ciò che rappresenta per l’opposizione, rimane la soluzione più percorribile e l’amministrazione Biden lo appoggerà. Ma, allo stesso tempo, gli Usa cominceranno a ricostruire una rete di relazioni multilaterali per supportare la transizione democratica e affrontare l’emergenza umanitaria. Quest’ultima è la vera priorità: si tratta di aprire canali per fare entrare medicinali e cibo. La comunità internazionale deve mostrare al popolo venezuelano che il piano umanitario è prioritario, spesso purtroppo scomparso dal dibattito politico quotidiano.
La sua carriera diplomatica è iniziata in Centroamerica. Dal “Mediterraneo Americano”, come è stato ribattezzato dagli studiosi di geopolitica statunitensi, si origina la crisi migratoria più grande degli ultimi decenni. Sono riprese le carovane di migranti che bussano alla frontiera sud degli Stati Uniti. Biden è accusato dai Repubblicani di aver alimentato le carovane con un “effetto chiamata”, mentre da sinistra lo criticano per le brutalità dei rimpatri forzati. Di recente, il dipartimento di stato statunitense ha nominato un inviato speciale per il Triángulo norte, per gestire i quattro miliardi di dollari di aiuti all’America Centrale come strategia di lungo termine per risolvere le crisi migratorie all’origine. Quale sarà l’atteggiamento di Biden rispetto a questo dossier?
Ho avuto l’onore di lavorare con Biden, quando tra il 2014 e il 2015, abbiamo assistito a una crisi simile a quella attuale, con l’arrivo di migliaia di minori non accompagnati e madri con bambini alla nostra frontiera sud. Ci trovammo impreparati e Biden ci lavorò molto tempo, sia con le agenzie Usa responsabili della frontiera, sia con il Messico e i paesi centroamericani, sia con le istituzioni multilaterali, come il Banco Interamericano di Sviluppo (IDB) e l’Organizzazione degli Stati Americani (OEA). Biden conosce bene il problema, sapeva che avrebbe affrontato qualcosa di simile una volta arrivato alla Casa Bianca. Si tratta di una crisi annunciata: le tendenze migratorie degli ultimi anni ci dicevano che sarebbe avvenuta presto, soprattutto considerando lo stato delle economie dei paesi del triangolo e il loro sistema sanitario. Ma sfortunatamente l’amministrazione Trump aveva cancellato tutto il sistema di assistenza e intervento per aiutare i paesi centroamericani a limitare l’esodo dei loro cittadini. Biden sta procedendo in modo umano ed intelligente. I minori non vengono più maltrattati e si sta tentando di proteggerli, ma allo stesso tempo di rafforzare la frontiera, cooperare con gli altri paesi, incluso il Messico, perché i migranti non partano. Questa crisi non è cominciata oggi e non finirà domattina, è un lavoro di lungo periodo.
Parliamo di Cuba: con Trump si è bruscamente interrotto il disgelo avviato da Obama. Sull’isola governa una generazione, nata dopo la rivoluzione del 1959, sta sorgendo un prototipo di classe media che avanza richieste di libertà economiche e di espressione, e si è avviato il superamento del sistema della doppia moneta. Come vede il futuro di Cuba e la relazione tra il suo paese e l’isola?
È un tema importante sia per la politica interna che estera degli Stati Uniti. In Florida, la comunità cubano-americana ha una voce importante, si è tradizionalmente dedicata alla libertà e ai diritti umani e spera che un giorno arrivi la transizione. Il nostro ruolo è definire come avverrà l’apertura politica. Biden, credo, procederà con cautela. Vorrebbe riaprire le comunicazioni, soprattutto per le famiglie residenti negli Stati Uniti con parenti a Cuba, facilitare le rimesse e gli invii di prodotti. Ma prima c’è un problema da risolvere nella relazione tra i nostri due governi. Mi riferisco agli attacchi sonici contro i nostri diplomatici (si riferisce a misteriosi attacchi di cui sono stati vittime i diplomatici statunitensi in Cina e a Cuba, che hanno sofferto problemi permanenti all’udito e alla memoria, causati da attacchi di microonde di energia, secondo un rapporto pubblicato dalla National Academy of Sciences, nda). Cuba nega le proprie responsabilità ma io conosco i nostri diplomatici, non è un’invenzione. Se Cuba vuole una nostra ambasciata che funzioni a pieno regime, deve assicurare sicurezza e integrità ai nostri diplomatici. C’è molto lavoro da fare per normalizzare i rapporti.
Biden ha chiarito la sua intenzione di subordinare la relazione con i Paesi sudamericani, specialmente quelli amazzonici, all’applicazione di politiche ambientali di preservazione del principale polmone del globo. Intanto, la foresta amazzonica brucia e si riduce. Lei è stato Ambasciatore in Brasile: come vede il futuro di quel grande Paese?
Il Brasile storicamente è un attore globale sui temi ambientali, fin dal 1992, quando Rio de Janeiro ospitò il primo Summit della Terra, promosso dalle Nazioni Unite. Con l’elezione di Jair Bolsonaro, il paese ha dato le spalle alle questioni ambientali, e grazie al supporto di Trump ha potuto ignorare quei paesi che chiedevano conto della deforestazione in Amazzonia. Oggi questo supporto è caduto e il ruolo di Biden, ed in particolare del suo inviato speciale per il clima, John Kerry, sarà convincere il Brasile a riacquisire il suo ruolo mondiale positivo nei dialoghi mondiali.
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Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
A Cuba finisce l’era Castro
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Da dieci giorni a Cuba non c’è più nessun esponente della famiglia Castro al potere. Dopo la morte di Fidel (2016), anche Raul, riformatore discreto ma concreto, esce di scena. Il Governo della rivoluzione è in mano a una nuova generazione che deve affrontare sfide interne e definire il rapporto con la nuova amministrazione statunitense. Che ne sarà di Cuba?
L’VIII congresso del Partido Comunista Cubano (PCC) ha eletto segretario generale Miguel Díaz-Canel. Non si tratta di un congresso qualunque: con l’assemblea conclusasi domenica scorsa a La Habana, per la prima volta dal 1959, alla guida dell’isola caraibica non ci sarà nessun esponente della rivoluzione dei barbudos. Díaz-Canel succede a Raul, segretario del partito dal 2011, ma già dal 2006, guidava l’isola come Presidente, con l’uscita di scena del fratello Fidel.
Riforme e sfide
Il nuovo corso cubano dovrà far fronte innanzitutto ai problemi economici endemici nell’isola: la scarsità di beni di prima necessità, l’unificazione monetaria, l’attrazione di investimenti esteri e la diversificazione della produzione per ridurre la dipendenza dalle importazioni. Per ridare ossigeno all’economia dell’isola nel futuro prossimo, si conta sulla diffusione del vaccino anti Covid-19 Soberania 02, l’unico di produzione interamente latino-americana, e la riapertura del settore turistico.
La prima è la convivenza tra Stato e privato nel mercato. A Cuba vige un’economia pianificata ma stanno aumentando gli spazi di iniziativa privata, con le migliaia di nuovi cuentapropistas: lavoratori autonomi, piccoli proprietari di un affittacamere, un ristorante, un’automobile. Un embrione di economia di mercato nell’economia socialista caraibica. Sono loro la base della “classe media” cubana – concetto da maneggiare con cautela ai tropici, ma che rende l’idea del fenomeno – che prospera grazie al sistema della doppia valuta. Ma l’allargamento degli spazi all’iniziativa privata avverrà col contagocce, poiché “ci sono limiti che non possiamo superare, perché altrimenti distruggeremmo il socialismo”, ha chiarito Raul Castro alla platea congressuale.
L’altra sfida è concretizzare il progetto di unificazione monetaria, avviato dal 2011. Sull’isola, com’è noto, esistono due monete: il peso cubano, CUP, e il peso convertibile, CUC, equivalente al dollaro. La maggioranza della popolazione riceve il salario e compra in CUP, mentre il settore turistico e le esportazioni si transano in CUC. L’unificazione, accelerata a inizio 2021, ha generato un aumento contemporaneo di prezzi e salari. L’inflazione è stata molto più alta per i primi che per i secondi e la riduzione del potere d’acquisto ha scatenato il malcontento dei cubani.
Continuità politica
Quella di Díaz-Canel è una scelta di transizione ordinata. Su di lui si concentrano le due cariche apicali del potere cubano, Presidente della Repubblica e segretario dell’unico partito di Governo. Egli “non è il risultato dell’improvvisazione, ma di un’attenta selezione di un giovane rivoluzionario che ha tutte la carte in regola per ascendere al potere”, ha spiegato Raul Castro ai trecento delegati del Congresso. Díaz-Canel manterrà l’incarico per i prossimi due anni e dovrà poi passare la mano. L’alternanza del potere e i limiti di età per ricoprire cariche apicali sono state alcune delle riforme volute da Raul Castro. Quest’ultimo ha avviato delle riforme graduali ma concrete, ha interpretato il potere in maniera collegiale, ben diversa dal Governo autoritario e carismatico di Fidel. Insieme a Raul fanno un passo indietro tutti gli esponenti, ormai ottantenni, delle vittorie rivoluzionarie nella Sierra Maestra. Díaz-Canel avrà dunque più libertà di manovra, ma dovrà tener conto della cupola militare, rappresentata nell’ufficio politico del PCC da Luis Alberto Rodríguez López-Calleja, Presidente del consorzio economico Gaesa, che controlla oltre il 60% dell’economia dell’isola.
Non vi sono sostanziali novità sulle libertà d’espressione e politiche, l’opposizione politica continua a essere repressa, com’è avvenuta recentemente con il movimento San Isidro.
Le relazioni con gli Usa
La variabile esterna più importante è la relazione con il vicino nordamericano. Raul Castro ha proposto di restaurare le relazioni tra i due Paesi, sulla base del mutuo riconoscimento di sovranità, lasciandosi dunque alle spalle il quadriennio di Trump. Con The Donald alla Casa Bianca è stato rafforzato l’embargo, sancito dalla legge Helms-Burton, e le relazioni diplomatiche azzerate. Basti pensare che l’ambasciata statunitense a Cuba non fornisce visti di accesso, cosicché i cubani devono recarsi agli uffici diplomatici in Guyana. Sembra passato un secolo dal marzo 2016, quando a Plaza de la Revolucion suonarono i Rolling Stones e arrivò in visita ufficiale nella capitale il primo Presidente Usa dal 1928, Barack Obama. Il quale, riferendosi ai rapporti con Cuba e a quelli con l’intera regione, dichiarò: “Non sarò un prigioniero del passato”. Oggi sembra essere tornato il passato, i rapporti tra Stati Uniti e Cuba sono ridotti ai minimi storici. Biden ha chiarito che le relazioni con Cuba non sono una priorità. Lo scoglio principale, almeno da parte degli Stati Uniti, sembra la vicenda degli attacchi sonici subiti dal personale diplomatico statunitense di stanza a Cuba. I diplomatici hanno riscontrato problemi d’udito e di memoria dovuti a misteriosi attacchi di micro onde soniche – secondo uno studio dell’agenzia National Academy of Sciences – e Cuba nega a riconoscere la propria responsabilità per l’accaduto.
Riforma graduale o shock esterno?
A Díaz-Canel e all’ufficio politico del PCC tocca definire il futuro dell’isola. Il rinnovamento del regime può passare da un socialismo di mercato, sul modello cinese di Xiaoping degli anni 1980, ma per il quale servono capacità di guida e controllo dello Stato che oggi Cuba sembra non avere. All’estremo opposto, si prospetta una soluzione di normalizzazione, come auspicata da molti cubani emigrati in Florida, la transizione al capitalismo per chiuderebbe definitivamente l’anomalia cubana, la cui rivoluzione aveva suscitato tante speranze tra i cubani e nel mondo sessanta anni fa. Che ne sarà di Cuba?
Elezioni andine: come è andato il voto in Ecuador e in Perù
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Domenica scorsa si sono svolte le elezioni presidenziali in Ecuador e Perù. Nei due Paesi andini, fortemente colpiti dalla pandemia di Covid-19 e dalla crisi economica, le urne hanno rinnovato lo scenario politico. L’Ecuador sceglie un banchiere e pone fine al ciclo della sinistra sviluppista; ballottaggio inatteso in Perù, tra un maestro di sinistra e la figlia del dittatore degli anni ’90.
L’Ecuador sceglie un banchiere
Il nuovo Presidente dell’Ecuador è Guillermo Lasso. Il candidato conservatore e con un’agenda economica neoliberale, sostenuto dal movimento CREO e dal Partito sociale cristiano, ha vinto il ballottaggio presidenziale con il 52,5% dei voti contro il 47,5% del candidato del centrosinistra Andrés Arauz. Lasso centra la vittoria al terzo tentativo di candidatura. Banchiere, principale azionista del Banco Guayaquil, una delle maggiori banche del Paese, imprenditore, è stato poderoso Ministro dell’Economia nel 1999, durante la crisi finanziaria conclusasi con un colpo di stato e la dollarizzazione dell’economia ecuadoriana. Durante la campagna elettorale, i principali punti di dibattito sono stati la crisi sanitaria, la situazione economica e il debito estero. Lasso ha promesso di vaccinare la metà della popolazione nei primi cento giorni di Governo (oggi solo il 2.6% dei cittadini ha ricevuto almeno una dose, uno dei dati peggiori dell’America Latina). Il nuovo Presidente ha poi dichiarato di voler negoziare nuove tariffe doganali per promuovere le esportazioni dei prodotti agroalimentari e onorare gli impegni con i creditori internazionali. Il Paese ha un debito estero pari al 45% del Pil e Lasso si è impegnato ad appianarlo, tramite un piano di tagli di spesa pubblica e una riforma fiscale. Lasso non avrà la maggioranza nell’Assemblea Nazionale, dove potrà contare solo su 30 deputati su 137.
Il partito di maggioranza relativa nell’emiciclo è Unes (Unión por l’Esperanza), con 49 deputati, blocco a supporto dello sconfitto Arauz, candidato benedetto da Rafael Correa, Presidente dell’Ecuador tra il 2007 e il 2017. Correa, benché assente dal Paese, dal 2018 si trova in Belgio, è stato presente nella campagna elettorale e nello scenario politico del Paese. La sua agenda, definita socialismo del XXI secolo, è stata un intreccio di politiche di welfare e investimenti per modificare il sistema produttivo e liberare il Paese dai vincoli con il Fondo monetario internazionale (fu sotto il suo Governo che il Paese dichiarò default nel 2008).
Lo scenario politico ecuadoriano si definisce sull’asse correismo vs. anti-correismo. Correa ha vinto tutte le elezioni negli ultimi quindici anni, la sconfitta di domenica potrebbe essere il suo tramonto politico.
Il terzo gruppo in parlamento è il Movimento de Unidad Plurinacioal Pachakutik, con 27 legislatori. Il partito indigenista, con il suo candidato Yaku Perez, è stata la sorpresa del primo turno, con il miglior risultato di sempre, frutto della capitalizzazione politica delle proteste di ottobre 2019, quando le piazze del Paese si riempirono contro i piani di austerità del Governo per fare fronte al debito contratto con il Fmi. Al ballottaggio di domenica scorsa, tra il banchiere Lasso e il correista Arauz, l’indigenismo – che non divide la politica su un asse destra-sinistra – si è schierato per il voto nullo. In Ecuador il voto è obbligatorio (pena una multa pari al 10% del salario minimo) e la consegna è valsa 1.7 milioni di schede nulle, circa il 18%. Lasso ha beneficiato di questa scelta e degli accordi con altri candidati esclusi dal secondo turno. E adesso, dovrà trovare la chiave di volta in un Parlamento in cui Pachakutik può essere la soluzione al problema della governabilità.
Ballottaggio tra due estremi in Perù
In Perù, i risultati del primo turno delle elezioni presidenziali sono stati una vera sorpresa. Smentendo tutti i sondaggi, il primo classificato, con il 19%, è Pedro Castillo (sinistra), che accede al ballottaggio insieme a Keiko Fujimori (destra), con il 13.3%. La scelta al secondo turno, previsto per il prossimo 6 giugno, sarà fra due estremi dell’arco politico peruviano.
Il quadro politico del Paese inca è estremamente frammentato: tra i diciotto candidati al primo turno, quattro si sono giocati il secondo posto, in una forchetta di meno di quattro punti percentuali. La frammentazione elettorale è il riflesso dell’instabilità politica, che ha prodotto quattro Presidenti negli ultimi quattro anni. La grande volatilità politica non ha mai messo in discussione il modello economico adottato a inizio anni ’90 e che ha garantito una crescita ininterrotta. Si basa su uno Stato debole, poche regole per i grandi investitori, un mercato del lavoro che ha raggiunto il 68% di lavoratori informali nel 2020. Tale sistema è parte del lascito dell’autocrate Alberto Fujimori (Presidente dal 1990 al 2000), che lo impose insieme alla Costituzione del 1993, tutt’ora vigente.
Chi punta a cambiare la Costituzione del 1993 e il modello economico è proprio Castillo, che promette “non più poveri in un Paese ricco”. Maestro di scuola, portavoce di coloro storicamente dimenticati dal potere, leader sindacale, esponente di Perù Libre, della sinistra ortodossa con posizioni retrograde riguardo ai diritti delle donne. Si è fatto conoscere come leader nazionale di un lunghissimo sciopero dei maestri del 2017 che ottenne diverse concessioni dal Governo. L’attuale candidato a Presidente era a capo di una delle correnti più agguerrite della Federazione Nazionale degli Educatori del Perù, che rifiutarono le condizioni imposte dal Governo di Lima per i negoziati. Sottostimato da tutti i sondaggi, dove non aveva mai superato il 6% delle intenzioni di voto, sembra sorpreso lui stesso dal risultato, tanto da dichiarare “abbiamo partecipato alle elezioni, non ad un sorteggio”.
Al ballottaggio sfiderà la figlia dell’ex dittatore Fujimori, espressione del partito di destra Fuerza Popular. Keiko Fujimori è espressione delle classi agiate, di coloro che hanno maggiormente beneficiato dell’attuale modello di sviluppo e supportato le pratiche totalitarie di Fujimori padre. Keiko, proiettata sulla scena politica nazionale dal padre che la scelse come première dame, è stata candidata Presidente già due volte prima delle elezioni dello scorso 11 aprile. Nel 2016, Fuerza Popular ottenne la maggioranza assoluta, lei andò al ballottaggio ma perse, ostacolata dal forte sentimento antifujimorista nel Paese. Ma oggi la partita è un’altra. Difatti, Fujimori ha già fatto un appello di unità agli altri candidati conservatori per bloccare il passo all’estrema sinistra di Castillo. Il suo appello è rivolto a Hernando de Soto, economista liberista e già consulente di Fujimori, e a Rafael López Aliaga, imprenditore, si definisce il Bolsonaro del Perù, membro dell’Opus Dei, ha dichiarato di praticare la castità e utilizzare abitualmente il cilicio. Entrambi hanno registrato l’11.6% dei consensi al primo turno. Castillo dovrebbe poter contare sull’appoggio di Verónika Mendoza, psicologa francoperuana, ha ottenuto il 7.8% al primo turno. Chiunque vinca, non potrà contare sulla maggioranza in Parlamento, dove il partito di Castillo è maggioranza relativa, con appena 32 parlamentari su 130. Il Paese è profondamente diviso, ci vorrà molta creatività politica per inventare un progetto stabile per il Perù per il futuro.
I 30 anni del Mercosur: un bilancio
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Pochi giorni fa il Mercosur (Mercado Común del Sur in spagnolo) ha festeggiato trent’anni di vita. L’accordo di integrazione regionale tra Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay, rappresenta 260 milioni di cittadini, un Pil di 2.2 trilioni di euro. Si tratta del più ambizioso progetto di integrazione per l’America Latina, caratterizzata da una complicatissima, quanto inefficace, spaghetti bowl di accordi commerciali.
All’inizio degli anni ’90 la regione rifiatava dopo i decenni bui delle dittature militari. La politica economica era guidata dal decalogo neoliberista del Washington Consensus, la globalizzazione mostrava i vantaggi del libero scambio e fiorivano le piattaforme di integrazione regionali. Fino a quel momento, i tentativi di integrazione dei mercati dei Paesi del Cono Sud americano (ALALC tra gli anni 1960 e 1980 e ALADI, nato nel 1980) erano naufragati, e il Mercosur – firmato nella capitale paraguaiana, Asuncion, il 26 marzo 1991 – puntava a superare i fallimenti del passato. Il progetto era ambizioso: una zona di libero commercio (libera circolazione di beni e servizi tra i Paesi membri) e un’unione doganale (una tariffa unica per le importazioni dai Paesi terzi).
Un progetto troppo ambizioso?
Molto, forse troppo a giudicare dal risultato. Anche perché il peso dei soci era molto eterogeneo, il Brasile da solo rappresentava il 77% della produzione, l’Argentina il 20%, Uruguay e Paraguay insieme appena il 3%.
Inoltre, con un occhio al mercato comune europeo, all’integrazione economica si sommò una clausola ‘valoriale’: il mantenimento dei sistemi democratici, per scacciare per sempre i fantasmi dei regimi dittatoriali. Le aspettative erano grandiose, l’applicazione molto più modesta: non arrivarono i grandi investimenti attesi, né si consolidarono le catene produttive regionali. Anche il commercio intra-regionale si ridusse col tempo, era il 25% del totale degli scambi nel 1997, oggi è appena il 14%. Certo, gli scambi con i Paesi terzi sono cresciuti esponenzialmente, ma si tratta soprattutto di esportazione di commodities verso la Cina, ritorna cioè la vecchia dipendenza dalle materie prime, da cui il Mercosur voleva affrancare i suoi soci.
L’anniversario è agrodolce anche sul piano delle regole: l’unione doganale è ferma, le tariffe interne, seppur ridotte, resistono. I tentativi di rilancio durante il ciclo dei Governi di sinistra (2005-2015), come l’allargamento al Venezuela nel 2012 (attualmente sospeso), si sono rilevati fallimentari. E anche con i successivi Governi di destra, con Temer in Brasile e Macri in Argentina, i passi in avanti sono stati minimi. Oggi, nessun Paese membro sembra pronto a cedere sovranità e (quasi) tutti mettono in discussione l’adesione all’accordo, senza però presentare un’alternativa. Anche a livello globale, il Mercosur sembra ormai l’ombra di un’idea, di un mondo multipolare costituito da macroregioni, oggi superata dal bipolarismo muscolare Cina-Usa.
L’accordo con l’Unione europea
La grande sfida per il Mercosur passa dalla ratifica dell’accordo commerciale con l’Unione europea. I Paesi sudamericani non sono entusiasti dell’accordo, firmato nel giugno 2019, dopo vent’anni di negoziazioni. L’opposizione si estende anche alle organizzazioni della società civile dei due blocchi, 450 delle quali hanno sottoscritto un appello “Stop UE-Mercosur” contro la ratifica del controverso trattato commerciale. Il quale “incentiverà ulteriormente la distruzione e il collasso della biodiversità in Amazzonia, attraverso l’aumento delle quote di importazione per carne bovina ed etanolo, perpetuando un modello estrattivo di agricoltura incarnato dal pascolo intensivo, dall’espansione delle aree recintate per l’allevamento e dalle monocolture dipendenti dalla chimica. Approvare il trattato darebbe un forte segnale politico: che gli orribili abusi dei diritti umani legati alle filiere coinvolte sono ritenuti accettabili”, scrivono le Ong.
Il testo, in attesa di ratifica da parte dei Paesi membri, è stato criticato anche dalla Francia, che punta il dito contro il Brasile per il mancato rispetto degli Accordi sul clima. È un paradosso, perché il gigante lusofono ha fatto della partecipazione al Mercosur la stella polare del suo inserimento internazionale sin dalla fine della dittatura, tanto con il Governo di centro-destra di Henrique Cardoso negli anni ’90, quanto con i Governi di sinistra di Lula e Roussef. Oggi con Bolsonaro la musica è diversa, la deforestazione dell’Amazzonia prosegue a ritmi incessanti, per colpa di un Governo inerme quando non complice, e ciò, secondo i critici, fornisce alla Francia un pretesto per non siglare l’accordo e difendere così i propri agricoltori dalla concorrenza dei prodotti sudamericani. Sulla firma dell’accordo si gioca il vivere o morire del Mercosur, il tentativo più ambizioso per l’integrazione regionale latino-americana e la partecipazione di quest’ultima nello scenario globale come attore di primo piano. Tentativo tanto ambizioso quanto frustrato.
America Latina: l’intreccio perverso tra politica e giustizia
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In Bolivia la ex Presidente Añez è in carcere preventivo, accusata di golpismo. In Brasile, Lula, dopo il carcere e un processo mediatizzato, è stato assolto dalle accuse. In Argentina, il nuovo Ministro della Giustizia annuncia di voler smontare il lawfare contro la ex Presidente CFK. Storie diverse, ma con un elemento comune: l’uso politico della giustizia e l’uso giudiziario della politica.
Bolivia, il processo ‘golpe de Estado’
Da sabato scorso la ex Presidente ad interim della Bolivia, Jeanin Áñez, è in carcere preventivo per quattro mesi, accusata di essere responsabile del golpe del 2019. È attorno alla definizione di golpe che si consuma la frattura tra le parti in Bolivia. A novembre 2019, Áñez ha assunto la presidenza del Governo, a seguito delle elezioni presidenziali dell’ottobre dello stesso anno. Furono quelle elezioni a scatenare la spirale di ostilità tutt’ora in corso. Alle urne di ottobre risultò vittorioso il tre volte Presidente Evo Morales, del MaS – Movimento al Socialismo. L’opposizione lo accusò di brogli e un documento dell’Organizzazione degli Stati Americani (OEA) presentò evidenze di irregolarità.
Añez era all’epoca vice Presidente del Senato boliviano. Dopo l’esilio forzato del Presidente e il suo vice ha assunto il Governo, grazie a un’interpretazione molto contestata della Costituzione. Anche il suo giuramento è materia d’accusa: si svolse in una seduta parlamentare priva del numero legale, si legge nella richiesta di cattura della procura.
Durante il primo mese di Governo Añez, si scatenarono gravi scontri tra i sostenitori dei due fronti, seguiti da una feroce repressione militare. I militari sono accusati di aver commesso gravi crimini, sostiene un rapporto della Commissione per i diritti umani dell’Onu. Vi furono 36 morti, decine di denunce di torture, stupri e violenze commesse dalle forze dell’ordine. Morales lasciò il Paese, Áñez assunse la presidenza con la promessa di portarlo a elezioni al più presto, ma non lesinò scelte importanti in materia economica. Intanto, col tempo si scoprì che il documento della OEA era assai lacunoso e parziale. Infine, a novembre 2020, la Bolivia tornò a votare e scelse Luis Arce, ex Ministro e leader del partito MaS di Morales. L’arresto di Áñez e dei suoi Ministri è l’ultima tappa delle ostilità tra il Governo del MaS di sinistra e l’opposizione di destra, divisi sull’interpretazione degli avvenimenti degli ultimi due anni. Sull’arresto, i sostenitori di Morales dicono che non si tratta di vendetta ma di giustizia per le vittime del golpe del 2019. Di tutt’altro avviso la diretta interessata, Jeanin Áñez, che accusa: “Il Mas decide e il sistema giudiziario obbedisce: mi condannano per un golpe che non c’è mai stato”, scrive sul suo profilo Twitter.
L’Alto Commissario per i diritti umani in Bolivia ha chiesto garanzie per un “processo giusto, imparziale e indipendente” per Áñez. Gli hanno fatto eco sia l’Unione europea, sia l’Organizzazione degli Stati Americani, con la richiesta di una commissione internazionale d’inchiesta. Le prese di posizione dell’OEA sul caso boliviano ne hanno fatto un attore ritenuto non imparziale dalla maggioranza degli osservatori.
Brasile, Lula libre
Sembra essere finita l’odissea giudiziaria di Luiz Inacio Lula da Silva, incarcerato per corruzione in un processo che ha raccolto l’attenzione del mondo.
Il giudice del Tribunale Supremo Federale del Brasile ha annullato le sentenze emesse dal 2017 contro l’ex Presidente nell’ambito delle indagini dell’operazione Lava Jato, la maxinchiesta contro la corruzione della politica brasiliana. Secondo il giudice del Supremo Tribunale, il tribunale federale di Curutiba, che ha emesso le sentenze contro il leader della sinistra, non aveva giurisdizione nel caso, e l’intera indagine dovrà dunque ripartire da capo nelle aule federali della capitale Brasilia.
La vicenda giudiziaria di Lula è spesso indicata come un caso di lawfare, la persecuzione giudiziaria – altamente mediatizzata – con finalità politica.
Nell’ambito dell’operazione Lava Jato, che portò alle dimissioni l’ex Presidente Dilma Rousseuf, si aprì un periodo di “stato di eccezione giurisdizionale”, scrivono i giuristi Rafael Valim e Rubens Casara. È in tale contesto che nel 2016 l’ex Presidente Lula venne accusato di aver ricevuto tangenti tramite la compagnia statale Petrobras. Il giudice Sergio Moro, Presidente del tribunale di Curitiba, lo condannò a nove anni e mezzo di carcere per aver ricevuto un immobile in una località di villeggiatura in cambio di favorire alcune aziende in gare d’appalto statali. Lula passò 580 giorni in una cella dell’edificio della polizia federale di Curutiba, fino alla sua scarcerazione a fine 2019. Moro, assurto alle cronache nazionali, divenne Ministro della Giustizia del Governo di estrema destra di Jair Bolsonaro. Oggi la Corte Suprema indaga il ruolo di Moro e la sua faziosità. Sono emersi messaggi tra pubblico ministero e il giudice, orientati pregiudizialmente alla condanna di Lula, in modo da escluderlo dalle elezioni presidenziali del 2018, in cui era ampiamente favorito. Moro intanto ha lasciato il Governo di Bolsonaro, dopo un forte scontro col Presidente sul ruolo delle forze di sicurezza. Lula potrà quindi presentarsi alle elezioni del 2022, per le quali conta su un forte appoggio popolare.
Argentina, giustizia che divide
Il neo Ministro della Giustizia, Martín Soria, ha assicurato che cercherà di “smontare il lawfare” in atto nel suo Paese, riferendosi al processo per corruzione contro la ex Presidente Cristina Kirchner. Ha specificato che non ha nessuna intenzione di “rimuovere i giudici” e ha affermato che la vice Presidente “vuole che sia la giustizia a scagionarla dalle accuse”.
Soria ha accusato il Governo precedente, di Mauricio Macri, di una relazione perversa con i giudici ai quali chiedeva condanne e assoluzioni in tempi rapidi, una giustizia ad personam. “Deve esserci una relazione istituzionale e trasparente tra i poteri dello Stato. Uno dei nostri obiettivi principali è porre fine alla giustizia a tavolino”, ha detto il Ministro.
È insorta l’opposizione, che accusa Soria di voler “trasformare la causa di corruzione kirchnerista in persecuzione politica. Noi difendiamo la verità e l’indipendenza della giustizia: chi ruba, paga”, ha scritto su Twitter Patricia Bullrich, Presidente del partito di centrodestra Propuesta Republicana (PRO).
Il caso colombiano
Il processo “golpe de Estado” in Bolivia, la vicenda di Sergio Moro, le notizie che vengono dall’Argentina, benché raccontino di Paesi e vicende diverse, sono manifestazioni di un fenomeno simile, di violazione sia del principio dell’indipendenza e imparzialità della giustizia, sia di quello della separazione dei poteri, garanzia del giusto processo e dello stato costituzionale di diritto.
In un’America Latina divisa da mille fratture, la relazione giustizia-politica è uno dei problemi indicati come di urgente soluzione. Ma vi sono anche vari casi virtuosi. Tra questi, quello forse meno conosciuto è la Colombia. Un Paese che si etichetta frettolosamente come Narco-Stato ha in realtà una magistratura autonoma ed efficace, come ha dimostrato in più occasioni, perseguendo sia grandi narcotrafficanti sia potenti politici, come nel caso dell’ex Presidente Alvaro Uribe.
America Latina: a che punto è la campagna vaccinale
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Il primato cileno
Il Cile è stato il più veloce ed efficace nella vaccinazione della popolazione: con 18 vaccinati ogni cento persone è il primo Paese in America Latina e il quinto a livello mondiale, davanti all’Italia (7.2) e superiore anche alla media europea (7.5). La chiave del successo di Santiago è un mix di lungimiranza politica, accordi commerciali con laboratori sparsi in mezzo mondo e un sistema sanitario solido.
A inizio 2020, il Governo di Sebastian Piñera ha puntato al ‘chi fa da sé, fa per tre’, scartando le proposte di collaborazione latinoamericane avanzate da altri Paesi, come l’Argentina. La strategia solitaria si è dimostrata vincente: in tre settimane dall’avvio della campagna vaccinale, tutti i cittadini con più di 65 anni hanno avuto già la prima dose e, da inizio marzo, stanno ricevendo la seconda. Il pragmatismo di Piñera ha puntato a differenziare gli accordi commerciali, siglando contratti con vari laboratori per minimizzare i rischi. “Nel 2020 eravamo in uno scenario incerto, non sapevamo come sarebbero andati gli esperimenti vaccinali, non c’erano normative e i laboratori stavano iniziando le loro catene di produzione. Ma a volte le scommesse funzionano e fortunatamente con Sinovac è stata un’ottima scommessa. E anche quella con Pfizer è andata bene, anche se per una quantità minore di dosi”, spiega Rodrigo Yáñez, Sottosegretario cileno alle Relazioni Economiche Internazionali.
Gli accordi con i laboratori cinesi, canadesi e statunitensi sono stati supportati dalla struttura economica aperta al commercio internazionale, grazie agli oltre trenta accordi di libero scambio che legano il Paese andino alle principali economie mondiali.
Vi è poi un elemento interno: il sistema di salute pubblico. Si tratta di una delle poche strutture pubbliche sopravvissute alle privatizzazioni della dittatura militare di Pinochet (1973-1989), presente in maniera omogenea in tutto il Paese, capace di gestire catene di distribuzione complesse come quelle di una campagna vaccinale.
Il vaccino cubano
Sempre sul fronte dei primati, Cuba vanta la prima produzione nazionale di un vaccino in America Latina e nei Caraibi. Il Paese caraibico lavora su quattro tipologie distinte: finora la più avanzata è la Soberana 02, giunta con successo alla terza – e ultima – fase dei test, prima di essere distribuita alla popolazione. Il vaccino Soberana 02 è stato somministrato a 150mila volontari cubani e iraniani e adesso anche il Messico si candida a partecipare alle prove della terza fase.
Se anche questa dovesse andare a buon fine, Cuba punta a produrre 100 milioni di dosi del vaccino entro la fine del 2021, diventando così uno dei primi Paesi a vaccinare l’intera popolazione (11,2 milioni di abitanti). La restante parte sarà esportata o fornita ai turisti, come è stato annunciato da fonti governative. Difatti, turismo e medicina sono le fonti principali di attivo per la bilancia commerciale di Cuba, che nel 2020 aveva inviato personale medico in molti Paesi, compresa l’Italia, per supportare la lotta al Covid-19.
Il risultato, se confermato, è la riprova dei successi scientifici dell’isola caraibica. Un apparente paradosso per un Paese dove spesso mancano prodotti di prima necessità, ma che si posiziona all’avanguardia mondiale per la ricerca nel settore delle biotecnologie farmaceutiche: “Non è un miracolo: ci sono un notevole sviluppo scientifico a Cuba e 30 anni di esperienza nella produzione di vaccini”, afferma José Moya, rappresentante a Cuba dell’Organizzazione panamericana della sanità (OPS/OMS), ricordando che l’isola è stata il primo Paese a sviluppare un vaccino contro il meningococco e a produrne uno contro l’epatite B, poi diffuso in America Latina e Africa.
Il Brasile tra emergenza e negazione
Il Brasile è tornato a essere il focolaio mondiale della pandemia da Covid-19, con 250mila morti e terzo al mondo per numero di casi (10,55 milioni), dietro a Stati Uniti (28,6 milioni) e India (11,1 milioni). Mentre si diffondono le nuove varianti, il sistema sanitario è alla deriva: a Manaus si muore per mancanza di bombole di ossigeno; nello Stato di San Paolo si registrano cento nuovi ricoveri giornalieri in terapia intensiva, il che porterebbe al collasso il sistema, sia pubblico sia privato, nei prossimi 20 giorni, secondo le stime del Governo Doria; a Brasilia il governatore, Ibaneis Rocha, ha decretato il lockdown a partire da domenica scorsa. “Nella prima ondata, le regioni metropolitane sono state le prime vittime. Poi, le città medie e piccole. C’era una gerarchia. Adesso, sta accadendo tutto nello stesso momento”, spiega il medico Christovam Icict. La mancanza di letti di terapia intensiva porta i governatori ad adottare nuove misure restrittive o a rafforzare quelle già applicate. Ciò alimenta il malcontento della popolazione (che è anche scesa in piazza per protestare), supportata dal Presidente Jair Bolsonaro, il quale continua a negare la pericolosità del virus: “Quando chiudi i negozi e ti costringono di nuovo a rimanere a casa, arriva la disoccupazione di massa con conseguenze disastrose per il Paese”, ha scritto pochi giorni fa su Twitter.
Vaccino: “affare di famiglia” in Ecuador e Perù
Il virus ha colpito duramente anche i Paesi andini, come Ecuador e Perù, dove non sono mancate vicende di nepotismo e corruzione. Sia a Lima che a Quito, gli esponenti dei rispettivi Governi – che condividono i ritardi nella campagna vaccinale e una gestione quantomeno maldestra dell’emergenza – sono passati agli onori delle cronache per aver beneficiato del vaccino ben prima del personale sanitario e delle categorie considerate a rischio: è il caso sia dell’ex Presidente peruviano Martín Vizcarra, sia del Ministro della Sanità dell’Ecuador, Juan Carlos Zevallos, che ha lasciato il suo incarico travolto dalle polemiche.
L’asse Buenos Aires-Città del Messico
Argentina e Messico, accomunate da Governi di tendenza progressista, ad agosto dello scorso anno hanno siglato un accordo di cooperazione per la produzione e diffusione del vaccino in tutta la regione. L’accordo prevede la fornitura del vaccino AstraZeneca, grazie anche alla collaborazione con l’Università di Oxford. Il gigante farmaceutico ha rinunciato agli utili delle vendite del vaccino per un anno e i costi di produzione sono andati a carico della fondazione del magnate messicano Carlos Slim, che ha posto come condizione la produzione del siero in territorio latinoamericano. La fabbricazione avviene nel laboratorio argentino mAbxience (con una capacità di produzione di 18 milioni di dosi al mese), il liquido viene poi travasato nelle fiale del laboratorio messicano Liomont, nel municipio di Ocoyoacac, vicino alla capitale.
Ma la catena di produzione è in ritardo a causa di un boom di domanda e di un’offerta che non riesce a tenere il passo dell’emergenza; mancano soluzioni saline, siringhe, boccette.
L’asse Messico-Argentina per una produzione di vaccino Made in Latin America è certamente una buona notizia per lo scenario regionale, caratterizzato da oltre 20 milioni di contagi e circa 650mila morti, con le campagne vaccinali che viaggiano a velocità molto diverse. Un’ultima speranza è riposta sul piano Covax dell’Oms, che distribuirà circa 337 milioni di dosi ai Paesi di reddito medio-basso: tra queste 10 milioni al Brasile, 885mila all’Ecuador e altrettante ad Haiti.
Carlos Menem: luci e ombre dell’Argentina degli anni ’90
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Si è spento a novant’anni in una clinica di Buenos Aires, l’ex Presidente argentino Carlos Saul Menem. I suoi Governi (1989-1999) hanno trasformato profondamente il Paese, applicando aggressivamente le politiche del Washington Consensus e, in politica estera, basate sulle “relazioni carnali” con gli Usa. Figura controversa, sia nel pubblico sia nel privato, la sua eredità divide l’Argentina, tra omaggi e critiche.
Decalogo menemista
La sua parabola racconta la storia argentina degli anni ’90: un periodo di cambio radicale nella politica economica, con l’adozione del Washington Consensus, un decalogo di politiche economiche di stampo neoliberista promosse dal Fondo monetario internazionale, dalla Banca mondiale e dal Tesoro statunitense, per supportare la crescita nei Paesi in via di sviluppo. Menem applicò in maniera aggressiva tali politiche – in netto contrasto con la sua tradizione politica, il peronismo, fondato sui principi della giustizia sociale – e le reinterpretò in chiave argentina. “Nulla di quel che dovrebbe esser statale rimarrà nelle mani dello Stato”, fu il primo punto del decalogo menemista da lui stesso stilato e presentato nel 1989 come la principale speranza di riscatto per gli argentini.
Con Menem e il suo Ministro dell’Economia, Domingo Cavallo, il Paese si aprì al commercio internazionale e al libero movimento di capitali; vennero privatizzate le imprese pubbliche (i fondi pensione, la linea aerea di bandiera, l’intera rete ferroviaria, la principale azienda petrolifera del Sudamerica, i servizi di gas, luce, telefono, acqua), si ridusse il ruolo dello Stato come agente regolatore e si riformò il sistema fiscale. Durante il Governo di Raul Alfonsin, predecessore di Menem, l’inflazione era esplosa: nel 1990 si assestò al 2314%.
A partire da allora, per circa un decennio, si vivrà un periodo di stabilità dei prezzi, grazie alla ‘convertibilità’, l’introduzione di una nuova moneta e la parità cambiaria tra peso e dollaro (el uno a uno). Si ottenne una certa stabilità economica e crescita – la ‘pizza con champagne’ secondo il linguaggio argentino, a indicare l’ascesa di una nuova classe media – ma i costi per l’economia reale furono altissimi: l’apertura al commercio estero schiacciò molte piccole e medie imprese; la disoccupazione si assestò tra il 17,5% (1995) e il 19,7% (2002); alla fine del secondo mandato di Menem, poco meno di un terzo della popolazione viveva sotto la soglia di povertà. E poi arrivò il terribile 2001, la crisi dei tango-bond e il default più grande della storia del capitalismo, causato dall’impossibilità del Paese di far fronte a un’enorme mole di debito emesso in dollari statunitensi. L’eredità di politica economia del decennio Menem è quasi scomparsa ed è associata a ricordi dolorosi condivisi sia da chi rimase escluso dai benefici della crescita degli anni ’90, sia da chi perse tutto con la crisi del 2001.
Relazioni carnali
In politica estera, Menem applicò pedissequamente il concetto di realismo periferico, altrimenti detto delle ‘’relazioni carnali” con gli Usa, basato sul riconoscimento dell’egemonia di Washington nella regione e sulla ricerca di qualche vantaggio dalla condizione di Paese subordinato. L’Argentina abbandonò dunque i processi di integrazione regionale, il Movimento dei Paesi non allineati e nel 1990, con l’operazione Bishop, mise a disposizione degli Usa navi militari ed elicotteri per l’invasione dell’Iraq. In cambio, venne ammessa nel primo G20 nel 1999. Sempre guidato dai principi del realismo periferico – e in contrasto con il nazionalismo argentino, normalmente incarnato dalla tradizione peronista – ristabilì le relazioni diplomatiche con il Regno Unito, interrotte dal 1982, dopo la sconfitta nella guerra per le isole Falkland/Malvinas che portò al collasso della dittatura militare. Con la “clausola dell’ombrello”, l’Argentina riattivò i contatti con Londra su tutti i fronti che non implicassero la discussione sulla sovranità delle isole del Sud Atlantico.
Dal poncho alla Ferrari
Menem aveva fama di bon vivant e Don Giovanni. ‘’El turco’’, come lo chiamavano per le sue origini siriane, ascese alla scena pubblica nazionale dopo la fine della dittatura militare come caudillo di periferia, governatore della La Roja – zona rurale andina del nord-ovest – con poncho ed esagerate basette, un omaggio a Facundo Quiroga, leader ‘800 della medesima regione.
Arrivato alla Casa Rosada, dopo poco tempo abbandonò lo stile di caudillo di provincia, si mostrò come uomo di successo, girando con una Ferrari Testarossa per le strade di Buenos Aires e giocando a golf con George H.W. Bush. Reinventò il peronismo, cambiò la Costituzione per poter essere rieletto per un secondo mandato, fallì la terza elezione, gli succedette Nestor Kirchner, anch’egli del Partito giustizialista e peronista, che attivò una damnatio memoriae talmente forte che taluni credono che porti sfortuna pronunciare per intero il nome dell’ex Presidente. Il “menemismo” è scomparso molto prima del suo fondatore; pochi sono i politici argentini che rivendicano le decisioni prese durante quel periodo, benché moltissimi le sostennero pochi anni prima.
Nel 2005 venne eletto Senatore, incarico che conserverà fino alla morte e che gli permetterà di schivare le cause di una processo per corruzione e traffico d’armi verso Ecuador e Croazia, per il quale fu condannato a sette anni di carcere nel 2013 e per appropriazione indebita nel 2015.
Il suo ricordo
La sua figura e il suo ricordo dividono gli argentini. Per alcuni è stato espressione di una generazione che sin dagli anni Ottanta aspirava a un tenore di vita “da primo mondo”, incarnava il sogno di “vivere all’europea” per riscattarsi dai soprusi e dalle ingiustizie sofferte nella seconda metà del Novecento dalla classe media argentina. Menem è stato sicuramente il maggior interprete di questa visione, che ha portato migliaia di argentini a gustare i lussi intravisti negli spot che arrivavano dagli Usa, mentre altre decine di milioni di loro finivano nella povertà e nella miseria.
Per altri, Carlos Menem rappresenta un’epoca dell’Argentina di cui vergognarsi: sgrammaticato, maldestro, spregiudicato nello spianarsi la strada verso il potere, Menem ha incarnato la scalata di un Paese intero verso quella ricchezza tanto anelata da classi medie ed élite dominanti, che per arrivarci era disposta a tutto. Un desiderio che non è scomparso con il menemismo e non scomparirà con lui. Il Governo ha indetto tre giorni di lutto nazionale.
Cile: acqua pubblica o privata?
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Nella Regione Metropolitana di Santiago, 7 milioni di abitanti, da giorni è a rischio la fornitura idrica, a causa di fattori atmosferici e istituzionali. La crisi ha riaperto il dibattito sul modello privato di gestione dell’acqua, che ha garantito giganteschi guadagni a una ristretta élite e si mostra sempre meno efficiente. Il tema è in cima all’agenda per la nuova Costituzione.
Nei giorni scorsi, l’azienda Aguas Andinas ha annunciato l’allerta gialla nella fornitura idrica per 37 dei 38 comuni della regione metropolitana di Santiago. I fiumi si erano riempiti di terra, non si è riusciti a filtrare l’acqua e solo grazie alle cisterne il servizio non si è interrotto. L’unica interruzione è stata registrata nel comune Lo Barnachea, zona ponente di Santiago, uno dei comuni più ricchi del Paese, uno dei pochissimi in tutto il Paese dove ha trionfato il ‘No’ al cambio di Costituzione, nel referendum dello scorso 25 ottobre, per superare la Magna Charta adottata durante la dittatura militare.
Le autorità hanno chiesto di moderare il consumo e raccogliere l’acqua. Ma i rubinetti a secco nelle capitale, e in particolare nelle case delle élite del Paese, hanno riacceso il dibattito sulla gestione delle risorse idriche e rinnovato l’attenzione verso le tematiche ambientali, in vista della scrittura della nuova Costituzione, che comincerà ad aprile con le elezioni dei membri dell’Assemblea costituente.
Il Cile ha un problema profondo di siccità: il 40% dei comuni soffre difficoltà di accesso all’acqua, 400mila famiglie rurali non hanno acceso all’acqua potabile, 1 milione e mezzo di persone accede all’acqua tramite i camion cisterna.
Perché manca l’acqua
Il problema dell’acqua ha almeno due cause. Da una parte il cambiamento climatico: l’aumento delle temperature fa sì che nevicando meno, l’acqua scorra direttamente in forma di pioggia dalle montagne ai fiumi, trascinando una maggiore quantità di rocce e terra di come farebbe se avesse il tempo di trasformarsi da neve ad acqua. “Con fenomeni di isotermia 0°C su grandi altezze, le acque del fiume Maipo diventano estremamente torbide, ben più di quello che i siti di filtraggio possano gestire”, scrive Cristian Donoso sul sito ambientalista Ladera Sur.
Ma questa è solo una delle ragioni; la seconda ha a che fare con il modello di gestione dell’acqua. L’acqua in Cile è un affare di mercato: si può comprare, vendere o affittare. E rappresenta una delle più feroci facce della disuguaglianza. L’affare dell’acqua è una delle vene aperte del Paese: la gran parte del consumo idrico è destinato alle attività estrattive delle miniere e alle coltivazioni intensive, organizzate in forme di oligopolio e spesso di proprietà straniera (Aguas Andinas è controllata in prevalenza dall’impresa catalana Sociedad General de Aguas de Barcelona). C’è un settore privato che si è arricchito silenziosamente commerciando acqua, beneficiando di una legge promulgata durante il regime militare, che assicura alti margini di profitto e costi minimi, grazie ai diritti di sfruttamento delle fonti idriche ottenuti ai tempi di Pinochet per pochi pesos. E come ogni prodotto di mercato, come se fosse una tv o un’automobile, c’è chi lo può comprare e chi resta senza. Anche perché a Santiago l’acqua è una delle più care della regione: “Per gli abitanti di Santiago, il metro cubo d’acqua potabile è più caro che a Lima, San Paulo, Caracas e Roma”, afferma uno studio della Red Internacional de Comparaciones para Empresas de Agua y Saneamiento.
Di alti prezzi e scarsità ne sanno qualcosa nella provincia di Petorca, a nord di Valparaiso: terra di coltivazione dell’avocado. L’oro verde è un frutto tropicale, originario del Centro America, ma il Cile ha iniziato a produrlo già dagli anni ‘80 e oggi è diventato il terzo esportatore mondiale, soprattutto verso Cina ed Europa. I terreni coltivati ad avocado sono triplicati dal 1993 a oggi. Il costo di questo progresso è a carico di chi vive nella valle di Petorca, dove l’acqua è priorità per irrigare i campi di avocado e le famiglie devono aspettare i rifornimenti delle autobotti. In questo angolo del Cile è nato il Modatima Movimiento de Defensa del Agua la Tierra y la Protección del Medio Ambiente, che oggi, tramite il suo Presidente Rodrigo Mundaca Cabrera, rinnova la richiesta di un cambio di modello nella gestione dell’acqua: “Vogliamo che nella nuova Costituzione sia riconosciuto il diritto all’acqua potabile per tutti gli abitanti del Paese; l’accesso all’acqua è un diritto umano”, afferma Mundaca, oggi candidato a governatore della regione di Valparaiso.
Gli ambientalisti hanno colto la crisi idrica di Santiago come un simbolo per rinnovare le loro richieste di un cambio green e di risorse naturali come beni comuni, e sono determinati a portare le loro istanze nella nuova Costituzione. “Il Cile deve firmare l’accordo di Escazù – accordo per la difesa dell’ambiente tra i Paesi dell’America Latina – e definire come prioritario il consumo di acqua per l’uomo”, dice Nancy Duman, candidata indipendente alla Convenzione Costituente.
Ma le resistenze sono profonde, soprattutto da parte di chi ha guadagnato molto grazie a questo sistema e non vuole cedere nulla. Anche se dal suo rubinetto esce acqua color terra.
Effetto Biden: riparte la carovana dei migranti
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Domenica 17 gennaio: Km 177 della ruta al Atlantico, sud est del Guatemala, villaggio di Vado Hondo, Chiquimula. Tra i settemila e i novemila honduregni in marcia verso gli Stati Uniti sono stati bloccati da un cordone di polizia, con gas lacrimogeni e bastonate. Con il nuovo anno, sono ripartite le carovane migranti che risalgono a piedi l’America Centrale, cercando una nuova vita negli Stati Uniti. Ma per arrivarci bisogna attraversare 2431 km, Guatemala, Messico, polizia, blocchi militari, pericoli della natura e dell’uomo. E col rischio di essere rimandati indietro, al punto di partenza, dove nessuno vuole tornare. Tornare in Honduras significa ricadere nei problemi endemici del Paese – miseria, violenza, corruzione – aggravatisi nell’ultimo anno.
In fuga dalla miseria e dalla violenza
La crisi Covid-19 ha peggiorato le condizioni già disastrate del Paese, dove un cittadino su due vive in povertà e uno su cinque in povertà estrema (con meno di $1.9 al giorno). La crisi politica risale ai tempi del ritorno alla democrazia, nel 1980, ma si è acuita negli ultimi dieci anni, a causa del malgoverno del Presidente Juan Orlando Hernández e del crescente potere delle bande (pandillas) che gestiscono il narcotraffico, controllano il territorio e terrorizzano la popolazione. L’Honduras ha uno dei tassi di morte violenta più alti al mondo; “non stiamo emigrando, stiamo scappando dalla violenza”, racconta al giornale guatemalteco Prensa Libre Geovanni Ramírez, che ha raccolto le testimonianze dei migranti nella carovana. Ramirez, honduregno trentaquatrenne, sta cercando di raggiungere gli Usa insieme a moglie e figlia, e spiega che se le cose andassero meglio nel suo Paese, non prenderebbe il rischio di un viaggio così pericoloso, “solo vorrei che mia figlia possa crescere senza la paura che, una volta adolescente, venga arruolata da una pandilla. In quei casi non hai scelta: o la lasci andare o la uccidono”, conclude.
Riscaldamento globale e migrazione
La spinta decisiva alla carovana honduregna l’hanno data Eta e Iota, i due violenti uragani che a novembre 2020 che hanno colpito l’America Centrale, a distanza di due settimane l’uno dall’altro. “C’è ancora fango ovunque, tutto è stato distrutto, abbiamo perso tutto”, ha detto Ismael Eliazar all’agenzia di stampa Associated Press. Gli uragani, sempre più frequenti nella regione, sono un’altra delle conseguenze del cambiamento climatico, del riscaldamento delle temperature dei mari. Il 2020 è stato l’anno più caldo mai registrato da quando l’uomo prende la temperatura della terra, e anche per gli oceani è stato un anno da record, secondo uno studio pubblicato sulla rivista Advances in atmospheric sciences. “Rispetto all’anno precedente, è come se l’oceano avesse assorbito la quantità di calore prodotta da 630 miliardi di asciugacapelli in funzione giorno e notte per un anno intero”, spiegano i ricercatori. Oceani più caldi portano a un riscaldamento maggiore dell’atmosfera e quindi a piogge più intense, un numero maggiore di tempeste e uragani di maggiore intensità che aumentano anche il rischio di inondazioni.
Un problema regionale
La carovana di inizio 2021 è l’ultima – in ordine temporale – di un fenomeno esploso nell’ottobre 2018, che ha coinvolto migranti di El Salvador, Honduras, Guatemala e Nicaragua. Paesi con fragilità simili, basti citare un dato tra tanti: le iscrizioni dei bambini alla scuola primaria in Guatemala sono crollate del 14% tra il 2010 e il 2019; in Honduras del 17,3% tra il 2003 e il 2019; infine, El Salvador registra un calo del 21,21% dal 2007 al 2018 (Banca Mondiale).
Prima delle carovane del 2018, la migrazione irregolare era più silenziosa e incontrava meno ostacoli, ma da due anni i flussi sono aumentati e i Paesi del triangolo del Centro America, il Messico e gli Usa di Trump hanno posto barriere fisiche e giuridiche al movimento delle persone. Vi sono accordi sottoscritti tra Governi atti a ostacolare le carovane, sottoscritti anche dal Governo dell’Honduras. Ed è proprio il mancato rispetto degli impegni sottoscritti che ha acceso la polemica tra i Paesi centro-americani, Guatemala in testa, che accusa l’Honduras di lassismo e di mettere a rischio la sicurezza degli altri Paesi. Anche sul piano sanitario, poiché sono stati registrati 20 casi di positività al Covid-19 tra i membri della carovana.
L’effetto Biden
‘Carovana Biden’ è stata ribattezzata la carovana honduregna, a sottolineare le speranze suscitate nei migranti dal cambio di amministrazione a Washington. I quattro anni di amministrazione Trump avevano significato un giro di vite contro l’immigrazione irregolare e inutili atrocità a favore di telecamere, come la divisione dei figli dai genitori al confine con il Messico. Biden ha caratterizzato la sua campagna elettorale in netta discontinuità con la precedente amministrazione. Proprio ieri ha annunciato un piano per ottenere la cittadinanza in otto anni per coloro che sono entrati in maniera irregolare nel Paese, ma hanno poi pagato le tasse e avviato un percorso di integrazione. D’altra parte, fin da dicembre 2020, la nuova amministrazione ha messo le mani avanti, chiarendo che le condizioni di ingresso alle frontiere non potranno cambiare “come una luce che si accende e si spegne, è un processo lungo” ha spiegato Susan Rice, consigliere politico di Biden. E ancora in questi giorni, da Washington è arrivato un invito ai migranti a non mettersi in viaggio in condizioni di rischio. Invito che sembra caduto nel vuoto, a giudicare dalle immagini che arrivano dalle strade del Centro America.
L’Argentina ha legalizzato l’aborto: è svolta storica
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Lo scorso 30 dicembre, dopo dodici ore di discussione parlamentare, il Senato argentino ha approvato a maggioranza – 38 a favore, 29 contrari, 4 astenuti – la legge che rende legale l’aborto, entro la quattordicesima settimana di gravidanza. L’Argentina entra così nella ristretta lista dei Paesi latino-americani (insieme a Uruguay, Cuba, Guyana francese, Puerto Rico e alcune regioni del Messico) che riconosce tale diritto, indipendentemente dalla causa della gravidanza. Insieme all’interruzione volontaria della gravidanza, è stata approvata la ‘legge dei mille giorni’, che assicura sostegno medico ed economico per tre anni alle madri che, in situazioni di vulnerabilità economica, decidono di portare avanti la gravidanza.
Per Buenos Aires, si tratta di una vera innovazione. Nel 2018, infatti, un simile disegno di legge era stato respinto dalla Camera Alta, nonostante la mobilitazione poderosa del movimento dei fazzoletti verdi, simbolo del femminismo latino-americano. L’opposizione all’aborto era trasversale tra i peronisti e il centro-destra di Macrì e rifletteva l’opinione di una parte della società argentina, conservatrice e cristiana, soprattutto delle province del nord del Paese. Ma qualcosa è cambiato negli ultimi due anni.
Innanzitutto, il numero degli aborti illegali non è diminuito. Si stimavano tra 350mila e 500mila aborti clandestini nel 2005, dato non dissimile a quello attuale, secondo il Ministero della Salute. E solo nel 2018, trentacinque donne sono morte a causa di aborti illegali. Numeri che fanno il paio con i dati della Organizzazione mondiale della Sanità, secondo i quali i Paesi che hanno adottato leggi pro-aborto negli anni ’70 e ’80, accompagnate a campagne di informazione e alla diffusione di metodi contraccettivi, hanno tassi di interruzione di gravidanza più bassi rispetto ai Paesi privi di tali leggi.
Un voto storico
Ma, a parte i numeri, tre sembrano essere i fattori determinanti che hanno portato al voto storico di fine 2020. Innanzitutto, il ruolo chiave del Presidente peronista Alberto Fernández, che ha fama di mediatore, ma ha fatto sua la causa pro-aborto già durante la campagna elettorale e ha svolto un ruolo di moral suasion in Parlamento.
Il tema ha rimescolato gli schieramenti politici e le posizioni col tempo sono mutate. Un esempio è nella dichiarazione di voto di Gladys González, senatrice di Juntos por el cambio, in maggioranza su posizioni antiabortiste, che dichiarando il suo voto a favore, ha raccontato di aver perso la sua gravidanza nel 2018, due giorni dopo aver votato a favore della legalizzazione dell’aborto. “Ho pensato fosse una punizione di Dio per il mio voto’’ ha detto, accusando la Chiesa Cattolica di diffondere questo senso di colpa nelle donne. Mentre la ex Presidente Cristina Kirchner ha cambiato il suo voto rispetto al 2018, perché “mia figlia mi ha convinto’’ ha spiegato.
Ma la vera spinta al cambiamento è arrivata dalle centinaia di migliaia di donne, con i loro fazzoletti verdi, che aspettavano il verdetto con gli occhi fissi sugli schermi montati nelle strade di Buenos Aires. La marea verde è stata l’impulso principale per il potere legislativo, e più in generale per il cambio nell’opinione pubblica argentina: il sostegno all’aborto in precise circostanze è passato dal 64% al 75% tra il 2014 e il 2020, secondo i dati IPSOS di novembre scorso.
Non sono mancate aspre critiche all’approvazione della legge, soprattutto da parte delle chiese. La Conferencia Episcopal Argentina ha affermato che “aumenteranno le divisioni nel Paese’’ ed elogiato i parlamentari che “coraggiosamente hanno votato a favore della tutela di tutte le forme di vita’’. Gli ha fatto eco la Alianza Cristiana delle Chiese Evangeliche: “L’Argentina retrocede di vari secoli nella civilizzazione e nel rispetto al diritto fondamentale alla vita’’. Papa Francesco, vicino al Governo peronista, ha fatto ricorso alla sua formazione gesuita per evitare le polemiche: “I cristiani, come tutti i credenti, benedicono Dio per il dono della vita. Vivere è innanzitutto aver ricevuto la vita’’ ha dichiarato a margine dell’approvazione della legge nel suo Paese.
Il caso del Cile
Il caso argentino ha una valenza che travalica i confini nazionali, può dare forza ai fazzoletti verdi di tutta la regione, segnala un documento del gruppo di lavoro dell’Onu sulla condizione della donna.
Il Cile è il primo Paese dove si può vedere questo effetto di spinta. Lì, infatti, è in corso la redazione della nuova Costituzione e l’aborto attualmente è consentito solo per tre cause: violenza sessuale, rischio per la vita della madre, difetti congeniti nel feto che portano alla morte del nascituro. Anche in Cile, gli aborti clandestini sono una realtà rilevante: 300mila nel 2015, secondo le stime della Ong Corporacion Miles. E anche in quel Paese esiste un movimento femminista forte e creativo, che si fece conoscere nel novembre 2019 con il flash mob ‘Un violador en tu camino’ del collettivo di Valparaiso Las Tesis, poi replicato e tradotto in tutto il mondo. O ancora con la oceanica manifestazione dell’8 marzo 2020 che portò centinaia di migliaia persone in piazza, quasi esclusivamente donne. Sono loro che adesso, sentendosi, ancora più forti della vittoria femminista argentina, non vogliono perdere l’occasione del momento costituente che vive il Cile.