Corrispondente ed editorialista del Corriere della Sera. Scrive su temi internazionali e di economia. È membro del Comitato scientifico di eastwest.
Ue, no a modifiche al Pnrr: quali rischi per l’Italia e l’Europa
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Mentre Mario Draghi parlava davanti al Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini, il 24 agosto, molti italiani avranno tenuto le dita incrociate. L’intervento del Presidente del Consiglio, ancora in carica, è stato tra le altre cose un momento di ottimismo sul futuro dell’Italia. Qualsiasi sia il risultato delle elezioni del 25 settembre. Ottimismo parzialmente obbligato, forse, da parte di un leader che ha realizzato molto (e lo ha rivendicato) in 17 mesi di Governo ma che, in quello che è stato il suo ultimo, rilevante discorso pubblico, non ha voluto lasciare tracce di amarezza e ancora meno di rancore. Soprattutto, però, un messaggio fondato sulla capacità che l’Italia ha sempre mostrato di avere nei momenti di maggiore difficoltà. Cuore oltre l’ostacolo, dunque, e speranza che le energie del Paese non si siano affievolite in questi anni di crisi a ripetizione. Gli italiani, però, hanno fatto bene a tenere le dita incrociate: ci sono anche cose che Draghi non ha voluto dire. E non sono belle.
Il giorno successivo al discorso di Rimini, il Financial Times pubblicava un articolo nel quale notava che gli hedge fund internazionali hanno accumulato scommesse contro i titoli dello Stato italiani in una misura che non si registrava dal 2008, anno della grande crisi finanziaria. Molti commenti italiani hanno parlato, come fanno sempre, di “speculazione” da parte della finanza globale. In realtà, si tratta semplicemente di mercato in funzione che scruta il futuro: così come gli investitori hanno premiato i titoli italiani quando Draghi è diventato capo del governo, allo stesso modo li stanno penalizzando quando se ne va. Il mercato è come il canarino nella miniera: avverte di un pericolo. E di pericoli in Italia ce ne sono. Quelli che arrivano da fuori sono condivisi da tutta l’Europa: l’invasione russa dell’Ucraina, il prezzo dell’energia, l’inflazione, le scosse di assestamento post-pandemia. Anzi, rispetto ad alcune di esse, ad esempio la diversificazione delle forniture energetiche e lo stoccaggio di gas, l’Italia è messa meglio di altri Paesi, grazie alla velocità di reazione del Governo nei mesi scorsi. Il problema che porta i mercati a non condividere l’ottimismo di Draghi, e quindi a scommettere contro l’Italia, è tutto interno, nazionale, e riguarda il futuro della politica dopo le elezioni, in particolare la capacità di gestire il Piano di Nazionale Ripresa e Resilienza (PNRR).
La discussione intorno al Pnrr
Il Governo in carica ha impostato una serie di misure necessarie a portare avanti i 55 obiettivi del Piano che nel secondo trimestre 2022 l’Italia deve completare entro fine anno, come concordato a Bruxelles, per ricevere la terza tranche di denaro del Recovery Fund, 21,839 miliardi. Sciogliendo le Camere, il Presidente Sergio Mattarella ha affermato che le procedure in corso di sviluppo riguardanti il Pnrr rientrano negli affari correnti che il Governo può sbrigare e su questa strada Draghi e il Ministro dell’Economia Daniele Franco si sono mossi. Sarà però quasi impossibile realizzare i 55 obiettivi: le Camere saranno formate attorno alla metà di ottobre e, presumibilmente, un Governo sarà operativo non prima di novembre. I nuovi Ministri avranno bisogno di un po’ di tempo per prendere possesso pieno dei loro dicasteri.
Nel frattempo, il Governo uscito dal 25 settembre avrà di fronte l’obbligo di preparare e discutere la Legge di Bilancio 2023, impegno non da poco e separato dal Pnrr. Le strutture tecniche per la realizzazione di quest’ultimo restano attive e non cambiate, al di là di ogni crisi politica, fino al 2026, data di scadenza del Recovery Fund. Ma per tutta una serie di decisioni servono impulsi e decisioni politiche e i tempi sono tiranni. In discussione e a rischio di non andare avanti sono il contrastato disegno di legge annuale sulla Concorrenza, i decreti attuativi in materia di Giustizia, la riforma fiscale delegata al Governo, il codice della Proprietà industriale, misure strutturali nel settore della Sanità e altro.
Probabili scenari futuri sul Pnrr
Se il nuovo Governo non riuscirà a centrare tutti i 55 obiettivi, come è altamente probabile, potrà chiedere un rinvio a Bruxelles, in ragione delle elezioni anticipate che hanno rallentato l’attività legislativa. Difficilmente la Ue lo negherebbe. Una cosa, però, è un rinvio a contenuti fermi, un’altra è un rinvio accompagnato dalla richiesta di introdurre cambiamenti al Pnrr. Il centrodestra, dato dai sondaggi in netto vantaggio, ritiene che questi cambiamenti siano necessari in quanto il Recovery Fund – cioè la madre del Pnrr – è stato pensato e deciso per rispondere alle conseguenze della pandemia da Covid-19 mentre ora le crisi si sono moltiplicate e sono cambiate di qualità. Che Parlamento europeo, Commissione Ue e Consiglio europeo siano disposti a rivedere significativamente i contenuti del Pnrr italiano è però molto ma molto improbabile. Il commissario Ue all’Economia Paolo Gentiloni lo ha già detto chiaramente, gli spazi di cambiamento sono minimi: è vero che è un uomo di partito, il Pd, ma è altrettanto vero che ben pochi in Europa sono disposti a riaprire un dossier che è stato uno dei punti più alti dell’azione della Ue negli ultimi vent’anni.
Il nuovo Governo dovrà dunque da subito camminare sui gusci d’uovo per quel che riguarda la terza tranche del Pnrr (quella legata alle riforme del secondo semestre 2022). Una volta ottenuta questa terza tranche, dovrà impostare il lavoro per le altre, dal 2023 al 2026. È un impegno enorme da compiere con scadenze molto strette e precise. Vista la situazione politica prima delle elezioni del 25 settembre, l’ottimismo tende ad attenuarsi. Se vincerà il centrodestra in misura netta, si aprirà la questione con Bruxelles e con le altre capitali europee. Con esiti molto incerti. Se vincerà il centrosinistra, lo farà probabilmente con una maggioranza molto risicata, probabilmente incapace di imporre le riforme necessarie per rispettare il Pnrr. Un primo scenario, quello che piace a Draghi e agli italiani che hanno incrociato le dita, vede il prossimo Governo abbracciare il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza e attuarlo, magari con qualche rinvio concordato con la Ue. Un secondo scenario vede la rinegoziazione del Pnrr, il che significherebbe tempi lunghi e un braccio di ferro con Bruxelles: la probabile perdita di una parte dei 191,5 miliardi che il Recovery Fund ha destinato all’Italia. Anche perché rallentare nelle riforme e quindi nell’esborso dei fondi da parte di Bruxelles significherebbe non arrivare in tempo a realizzare l’intero Piano, che scade nel 2026.
Un terzo scenario è la rottura con la Ue. Sarebbe una catastrofe per l’Italia e per l’Europa. Bruxelles non solo cesserebbe di erogare i fondi al nostro Paese ma potrebbe chiedere la restituzione di quelli già erogati. Per l’Unione europea sarebbe di fatto il fallimento del Recovery Fund, un quarto dei fondi del quale è destinato all’Italia. I Governi europei che hanno chiesto ai loro cittadini di finanziare un progetto che mette in comune le risorse e le convoglia soprattutto ai Paesi ritenuti più fragili, Italia per prima, sarebbero irritatissimi, oltre che in imbarazzo verso i propri elettori, se l’operazione saltasse a causa del suo maggiore beneficiario. Si tratterebbe di un colpo duro all’intera Europa.
Questo terzo scenario non si può naturalmente escludere ma sembra poco probabile, in realtà. Forse per la prima volta da anni, nella campagna elettorale italiana nessuno dei partiti maggiori si è posto come grande avversario l’Unione europea. Un po’ proprio grazie ai fondi del Recovery Fund, un po’ per la situazione internazionale che non consiglia l’isolamento, a volere rompere con Bruxelles sono rimaste forze elettoralmente piccole. Forse, Draghi fonda il suo ottimismo nell’avere conosciuto, in questi mesi, i politici da vicino, alla prova dei fatti meno peggio di come appaiono in campagna elettorale. Incrociamo le dita. Gli hedge fund, ai quali non è consentito di incrociarle, fanno invece il loro lavoro: misurano in euro il “Rischio Italia”.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
Le sfide degli anni Venti per l’Italia e l’Europa
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No, non sarà una passeggiata l’anno che corre tra ora e le elezioni della primavera del 2023. Succede sempre così e non solo in Italia: i mesi precedenti le Politiche sono tesi, i partiti si posizionano, litigano, se hanno prebende da distribuire lo fanno, se non ne hanno le promettono. Questa volta, però, è diverso. Molto diverso. C’è un Governo strano, fatto di avversari. C’è un Pnrr da portare avanti. E soprattutto c’è la guerra di Putin, che non sarà un affare da poco in questo 2022 e oltre. Tutto sta cambiando rapidamente – e drammaticamente – in questi Anni Venti che si speravano ruggenti per ragioni diverse dalle aggressioni di Vladimir Putin.
La battaglia per il Quirinale di gennaio ha scosso il panorama politico, ha lasciato alcuni leader e partiti indeboliti e forse nessun chiaro vincitore. Nel complesso, il mondo della politica non ne è uscito bene e questo potrebbe influire sul desiderio degli elettori di presentarsi ai seggi, in una situazione nella quale la disaffezione per le urne dà chiari segni di crescere. In questo quadro, ci sono spinte evidenti alla rottura dell’accordo di maggioranza che sostiene il Governo Draghi e altre, forse più forti, che spingono a sostenere l’esecutivo.
Che ci siano differenze di opinione nella compagine governativa viene alla luce quasi ogni giorno, dalla necessità di introdurre la concorrenza in settori regolati dallo Stato all’obbligo del Green Pass fino alla posizione da tenere sull’invasione dell’Ucraina. Non sono frizioni e disaccordi solo dovuti a giochi di potere: ci sono interpretazioni diverse delle cose da fare e delle posizioni da prendere. Certo, sempre, da qualsiasi parte, con un occhio al posizionamento preelettorale.
A sconsigliare di mettere in crisi il Governo è naturalmente il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Come ha ricordato il “neo” Presidente Sergio Mattarella, l’Italia è “al centro dell’impegno di ripresa dell’Europa”: il Pnrr è cioè l’occasione della vita, per il Paese, di fare quello che non fa da decenni – riforme e investimenti – ed è anche decisivo per il successo delle politiche dell’Unione europea. L’Italia beneficia di oltre un terzo dei fondi messi a disposizione dal Next Generation EU, li deve usare sulla base degli accordi e della tempistica stabiliti con Bruxelles e se dovesse uscire dai binari concordati provocherebbe una crisi seria in Europa e un balzo indietro delle prospettive d’integrazione. Qualcosa che, in questo momento più che in ogni altro, l’Europa non può permettersi. Non tutti lo danno a vedere o lo ammettono, ma tutti sanno che provocare una crisi di Governo nei prossimi mesi, una crisi che metterebbe in discussione l’esborso delle rate del Next Generation EU, sarebbe punito dagli elettori. Chi dovesse fare cadere il Governo Draghi sarebbe ad alto rischio di perdere le elezioni, soprattutto se queste si tenessero subito, senza che Mattarella cercasse di trovare un altro esecutivo (come pare probabile).
Detto in termini diversi, la politica italiana camminerà tra ora e le primavera del 2023 su un sentiero stretto. Il ciclo elettorale è sfasato rispetto alle esigenze del Pnrr. Il Piano, infatti, impegna l’Italia a fare un certo numero di riforme (milestones) e a raggiungere una serie di obiettivi (targets) in tempi stabiliti da scadenze precise. Se questa tabella di marcia, che dura fino al 2026, sarà rispettata, l’erogazione dei fondi arriverà secondo le scadenze previste. Diversamente, i fondi potrebbero essere congelati dalla Commissione Ue con l’accordo dell’Ecofin. Se non per responsabilità, almeno per evitare un rischio di caduta elettorale, i partiti hanno dunque il vincolo di non eccedere negli scontri interni alla maggioranza. In più, vale sempre il blocco dei deputati e senatori che vogliono arrivare a fine legislatura sapendo che nella prossima non saranno rieletti, anche perché il numero dei parlamentari sarà ridimensionato sensibilmente.
Non si tratta di una garanzia assoluta di stabilità. A primavera avanzata si terranno elezioni amministrative e si dovrà capire come si andrà a votare sui cinque referendum che interessano la Giustizia. Sia le une che gli altri sono passaggi delicati che non faciliteranno la tranquillità dei rapporti nella maggioranza. Ci sono poi questioni che il Governo è impegnato ad affrontare, molto serie. L’emergenza legata al caro bollette, costosa. Le nuove regole sulle restrizioni da pandemia, con la riduzione dell’uso del Green Pass. La concorrenza. Le pensioni. Il fisco. In parallelo, i partiti hanno di fronte una montagna che potrebbero non riuscire a superare, la legge elettorale con la quale sostituire quella in vigore (Rosatellum). Potrebbe essere una questione esplosiva: in questi casi, nessuno vuole prendere rischi e, se la soluzione scelta vede qualcuno penalizzato, la tensione può facilmente riverberare sulla tenuta del Governo.
Al momento, le posizioni sono fluide. La Lega e Fratelli d’Italia propendono per un sistema maggioritario, almeno così sembra. Il Movimento 5 Stelle, Italia Viva, Azione, +Europa e parti di Forza Italia sono per un sistema proporzionale. Esponenti del Partito democratico paiono orientarsi verso un proporzionale con sbarramento abbastanza alto, al 5%. Se non si trovasse l’accordo e un gruppo di partiti imponesse la sua soluzione, la coesione (si fa per dire) della maggioranza vacillerebbe.
Sopra a tutto questo, la questione delle questioni: il cambiamento di stagione nel mondo, e immediatamente in Europa, provocato dall’aggressione di Putin. Subito, il Governo e i partiti dovranno dare segno di unità e adeguarsi alla risposta che la Ue, gli Stati Uniti e persino le democrazie asiatiche stanno dando al Cremlino: le sanzioni. Non è scontato che avvenga. L’analisi del regime al potere in Russia che fanno Lega, Fratelli d’Italia e parte di Forza Italia e dei 5 Stelle non è la stessa dell’analisi che fanno il Pd e i partiti cosiddetti di centro. In più, ci sono settori dell’economia che commerciano con la Russia e che in Russia hanno investito: la loro azione di lobbying si farà sentire. Passata l’emozione per l’attacco all’Ucraina, le differenze e i contrasti emergeranno. Ci sarà l’aumento del costo dell’energia, per famiglie e imprese, che difficilmente potrà essere affrontato solo con forme di “ristoro”: il dibattito su cosa fare – compresa l’idea, avanzata da Enrico Letta, di rinviare il ritorno in vigore del Patto di Stabilità previsto al momento per il 2023 – sarà intenso e non scontato.
E ci saranno scelte fondamentali riferite al nuovo quadro strategico, decisive per il lungo periodo ma da impostare subito, nei prossimi mesi. Sull’Europa sta scendendo una nuova cortina: è finita la vacanza dalla Storia durata trent’anni, è terminato il periodo nel quale si dava per scontato che i confini non si cambiassero con la forza, è ritornata la stagione della competizione tra potenze. È l’intera architettura dell’Europa e dell’Unione europea che dovrà adeguarsi alla nuova situazione. Nessun Governo e nessun partito, nel continente, può illudersi che si possa andare avanti come prima. Non sarà solo questione di aumentare le spese per la Difesa e per la Sicurezza. Di base, si tratta di cambiare subito mindset, di spiegare all’opinione pubblica che siamo entrati in un periodo storico nel quale, per quanto possa sembrare assurdo, ritornano le guerre in Europa e ritornano i poteri minacciosi.
In questo passaggio, l’Italia ha il vantaggio di avere in Mario Draghi un Presidente del Consiglio con un’enorme conoscenza degli affari internazionali e con una credibilità indiscussa, nonostante le critiche recenti che gli sono arrivate da giornali anglosassoni per la sua non rapida risposta alla guerra di Putin. La sua potrebbe essere una voce importante a Bruxelles e tra i Paesi della Nato per adeguare le politiche dell’Occidente alla nuova situazione. Washington, tra l’altro, ritiene in questo momento l’Italia un partner di assoluto rilievo, strategico, molto più di quanto lo è stata negli scorsi tre decenni. Riusciranno, in questo 2022, i partiti, le istituzioni, il mondo degli affari, i sindacati, l’accademia, gli intellettuali, i media a sollevarsi all’altezza della sfida?
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
Legge di Bilancio 2022, non proprio come la voleva Draghi
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La Legge di Bilancio 2022 dell’Italia non è precisamente quella che Mario Draghi sognava. Sognava, si fa per dire: difficile chiamare il Presidente del Consiglio “sognatore” e infatti, nel suo pragmatismo, ha probabilmente valutato che il testo approvato fosse, nelle condizioni date, il massimo ottenibile dal Ministro dell’Economia Daniele Franco. Ha però voluto chiarire in pubblico che ci sono scelte e spese che non gli piacciono. E probabilmente sospetta che non piaceranno fino in fondo nemmeno alla Commissione Ue.
Nella conferenza stampa di fine 2021, Draghi ha ammesso di non gradire il Superbonus edilizio che crea “distorsioni” nel settore e produce “un aumento straordinario dei prezzi dei componenti necessari alle ristrutturazioni”. Quota 100 avrebbe probabilmente voluto abolirla e il compromesso con i partiti che ha prodotto Quota 102 è sub-ottimale dal punto di vista dell’economia italiana. Così come il rifinanziamento senza riforma del Reddito di Cittadinanza. E in più, una serie di provvedimenti e norme volute dai gruppi parlamentari che gli anglosassoni chiamano pork barrell: misure locali acchiappavoti che hanno fatto arrivare il testo della manovra (da 32 miliardi in deficit) a 358 pagine e 1.015 commi.
Detto questo, la Legge di Bilancio è uno stimolo all’economia, la quale nel 2022 è prevista dall’Istat in crescita poco sotto al 5%. La riduzione da cinque a quattro delle aliquote Irpef e un calo della pressione fiscale tra i sette e gli otto miliardi sono il primo passo verso una riforma complessiva del sistema di tassazione. È previsto uno sconto (limitato) dei contributi previdenziali. Viene abolita l’Irap per più di 800mila contribuenti. Ci sono interventi sull’età pensionabile al di là della Quota Centodue. È introdotto l’assegno unico famigliare per i figli. E parecchio altro.
2022, l’anno decisivo per l’economia italiana?
A questo punto, ci sono due domande che aprono il 2022, entrambe rilevanti, forse decisive, per l’economia italiana. La prima: quello che il Governo Draghi ha seminato nel 2021, soprattutto la dose di fiducia nella possibilità dell’Italia di riformarsi, darà frutti nell’anno nuovo? Sarà davvero l’Italia la sorpresa positiva del prossimo futuro? Al di là della Legge di Bilancio, il Pnrr – decisivo per l’impresa che il Paese ha di fronte – è impostato e va avanti. Ma per essere finanziato da Bruxelles nei prossimi cinque anni e arrivare in porto con tutte le riforme e tutti gli investimenti avrà bisogno di un quadro politico con una certa stabilità. E con parecchia credibilità. Qui, alcuni dubbi iniziano a circolare e forse il recente allargamento dello spread tra i titoli di Stato italiani e i Bund tedeschi è il segnale di qualche nervosismo da parte degli investitori.
L’impressione è che i partiti politici, tendenzialmente tutti anche se in gradazioni diverse, si siano – per dirlo brutalmente – stancati di Draghi e l’idea di averlo per sette anni al Quirinale, da garante verso l’Europa, a loro sembri troppo. Anche la sua permanenza a Palazzo Chigi dopo le elezioni del Presidente della Repubblica sembra problematica se non sarà trovato un candidato accettato da tutta l’attuale maggioranza di governo. Nei momenti di crisi, sin dagli Anni Novanta l’Italia si affida a figure di salvataggio esterne al mondo della politica: Carlo Azeglio Ciampi, Mario Monti, ora Mario Draghi, tutti garanti verso l’Europa. Ma proprio grazie al prestigio nazionale e internazionale di Draghi il Paese e soprattutto il mondo dei partiti hanno l’impressione di essere usciti da una crisi (pandemia a parte), ragione per la quale l’uomo di prestigio ma estraneo diventa meno utile.
Sia che il Governo oggi in carica piaccia o non piaccia, è evidente che l’uscita di scena repentina di Draghi darebbe un colpo violento alla credibilità del Paese. La fiducia sui mercati finanziari, in buona parte riconquistata, si frantumerebbe. A Bruxelles rischierebbero di saltare i nervi. A Parigi e a Berlino, i piani (già incerti) di rilancio della Ue finirebbero contro un muro. Il Pnrr rischierebbe. Il tutto con conseguenze estremamente pesanti per l’Italia. Non è detto che debba andare così, naturalmente. Ma la prima domanda che molti si fanno in questo inizio d’anno riguarda la capacità del Paese di mantenere la traiettoria virtuosa imboccata.
Il futuro dell’Europa
La seconda domanda è relativa al futuro dell’Europa. E qui il terreno non è meno scivoloso. Ancora una volta, è sul tavolo una questione tutta interna ai meccanismi di funzionamento delle istituzioni, in particolare di quelle dell’Eurozona. Per quanto nel mondo la competizione tra potenze sia la dominante del momento (e dei prossimi anni) l’Europa è di nuovo alle prese con faccende interne, per lo più di regole. Draghi ed Emmanuel Macron hanno lanciato, con un articolo a due mani, il dibattito sul futuro del Patto di Stabilità e Crescita. Oggi, le famose norme che riguardano i limiti di deficit e di indebitamento di un Paese sono sospese per dare ai governi mano libera nella risposta alla pandemia. Ma nel 2023 dovrebbero tornare. Modificate significativamente, dicono però Draghi e Macron: per fare sì che la riduzione dei debiti pubblici avvenga attraverso la crescita economica, e quindi grazie a riforme e spesa pubblica, invece che attraverso l’imposizione di tetti ai bilanci degli Stati.
Il dibattito sulla “stupidità” versus “l’intelligenza” del Patto di Stabilità per i membri dell’area euro è in corso da anni. Ma – fanno intendere i leader italiano e francese – la pandemia ha cambiato la situazione e spinge verso una riforma delle regole. “Così come alle regole non è stato permesso di ostacolare la nostra risposta alla pandemia, così esse non dovrebbero impedirci di fare gli investimenti necessari”. Draghi e Macron non sono scesi nei dettagli della loro riforma ma una delle idee che circolano prevede l’introduzione di una golden rule che consentirebbe di non conteggiare ai fini del Patto di Stabilità certi tipi di investimento – ad esempio quelli destinati a progetti ambientali, ma non solo. La proposta è stata presentata in maniera forte e ora dovrà trovare le gambe per camminare. Ci sono però due problemi.
Il primo è che il futuro politico di entrambi i proponenti non è scontato (Macron affronta le elezioni presidenziali in primavera). Il secondo è che il rilassamento delle norme del Patto di Stabilità rimane controverso in alcune capitali e anche tra alcuni commissari Ue. Come si orienterà il nuovo governo tedesco sarà decisivo. Il ministro delle Finanze Christian Lindner è sembrato fare qualche apertura sulla riforma: dice che per l’Eurozona è “consigliabile” rimanere legati “all’idea di stabilità” ma ammette che questa va accompagnata da crescita e investimenti. Visto il gonfiarsi dei debiti pubblici degli ultimi due anni, Lindner ha comunque aggiunto che “dobbiamo evitare in futuro la dominanza fiscale”, cioè una situazione nella quale gli alti debiti forzino la Banca centrale europea a tenere bassi i tassi d’interesse anche quando l’inflazione dovesse chiedere di aumentarli.
I Paesi nordici, storicamente attenti a non lasciare correre i debiti, si opporranno probabilmente a ogni eccesso di riforma del Patto, anche se uno di essi, l’Olanda, sembra meno rigido che in passato. Per parte sua, a differenza di Draghi e Macron, il vicepresidente esecutivo della Commissione Ue, Valdis Dombrovskis, sostiene che la traiettoria di riduzione dei debiti elevati dovrebbe riguardare tutto lo stock di debito, nessuna posta esclusa.
Anche nel 2022, prudenti con i sogni, occhi aperti.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
Quanto costa un’Olimpiade?
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Il giorno più imbarazzante nelle competizioni per ospitare un’Olimpiade fu probabilmente il 7 novembre del 1970. Nel maggio precedente, il Comitato olimpico internazionale aveva assegnato i Giochi Olimpici invernali del 1976 alla città di Denver, Colorado. In fondo, si sarebbe trattato di un doppio anniversario da celebrare degnamente: non solo i duecento anni dell’indipendenza degli Stati Uniti, anche un secolo dalla nascita del Centennial State, appunto il Colorado. Quel 7 novembre, però, gli elettori non erano di buonumore e, preoccupati dai costi della manifestazione e dal probabile impatto ambientale, respinsero l’iniziativa. La prima e unica volta che una città vinceva il contest e rifiutava l’assegnazione. L’imbarazzo, però, non terminò quel giorno.
Dopo il ritiro di Denver, il Comité International Olympique (Cio) offrì i giochi ad altre città. Whistler, nella canadese British Columbia, declinò l’offerta; così pure la svizzera Sion, che nella gara per la conquista dell’onore olimpico era arrivata seconda. Si fece avanti Salt Lake City, nello Utah, che però poi fece un passo indietro per lasciare il posto a Lake Placid, nello Stato di New York, ma anche in quel caso niente da fare. Si arrivò al 1973, quando i Giochi Invernali del 1976 furono assegnati a Innsbruck, Austria. E lì si tennero: l’Unione Sovietica si prese 13 medaglie d’oro e la Germania est sette, contro le tre americane.
La vecchia vicenda degli anni Settanta dovrebbe essere tenuta in conto quando si decide se ospitare un’Olimpiade. A maggior ragione se questa è estiva, il che di solito (ma non se c’è di mezzo Vladimir Putin) comporta costi e interventi maggiori rispetto a giochi su neve e ghiaccio. La prudente Svizzera, per dire, ha ospitato due volte i giochi invernali (nel 1928 e nel 1948, sempre a Sankt Moritz) ma mai un’olimpiade estiva. Non a caso, provare ad aggiudicarsi un’olimpiade è sempre una scelta controversa, come sanno i romani che ricordano il No del 2016 di Virginia Raggi alla candidatura della città per i Giochi del 2024. Soprattutto, come si stanno rendendo conto i giapponesi in questi giorni.
I costi
Il problema maggiore della manifestazione di luglio a Tokyo è naturalmente la pandemia da Covid-19 che ha costretto al rinvio di un anno, all’assenza di spettatori internazionali e alla limitazione del numero di quelli giapponesi, a misure sanitarie straordinarie. Con un costo aggiuntivo che gli organizzatori stimano tra i 2,8 e i tre miliardi di dollari. Ma c’è di più dei danni da virus. Il comitato promotore dei Giochi Olimpici 2020 (poi posticipati) nel 2013 aveva previsto un costo di 7,3 miliardi di dollari, poi salito a 12,6 miliardi alla fine del 2019. Ma l’Ufficio nipponico per la contabilità nazionale prevede ora una spesa superiore a 22 miliardi, con alcune stime che arrivano a 26. Il 75% della quale sarà sostenuta da denaro pubblico. E qui si entra in un territorio di grandi dispute. L’analisi costi/benefici di un’olimpiade sembra infatti un’equazione irrisolvibile: dipende dove e da dove guardi.
Uno studio pubblicato lo scorso novembre sul Social Science Research Network da tre accademici dell’università di Oxford – Brent Flyvbjerg, Alexander Budzier e Daniel Lunn – è arrivato alla conclusione che i costi dei Giochi estivi e invernali dal 1960 al 2016 sono andati sopra al budget di previsione in media del 172%, con un minimo del 2% per quelli di Pechino nel 2008 e un massimo del 720% per quelli estivi di Montreal del 1976 (dell’80% quelli invernali di Torino nel 2006). I Giochi estivi più cari sono stati quelli di Londra del 2012, 15 miliardi di dollari, mentre il record assoluto spetta a quelli Invernali di Sochi, la città amata da Putin sul Mar Nero, nel 2014, a 21,9 miliardi (potrebbe essere battuto da Tokyo in luglio). Le entrate da sponsor, pubblicità, diritti televisivi, biglietti, merchandiser tendono a non coprire i costi. I ricavi dalla vendita dei diritti tv per l’Olimpiade di Londra, per esempio, sono ammontati a 2,6 miliardi di dollari. Le entrate da sponsorizzazioni per i Giochi di luglio a Tokyo superano i tre miliardi (da più di 60 imprese giapponesi) ai quali si aggiungono altre centinaia di milioni dalle partnership speciali con Toyota, Bridgestone e Panasonic. Parecchio ma solo una porzione dei costi.
I benefici
Per quel che riguarda i benefici, il calcolo è più aleatorio. Dopo l’Olimpiade del 2012, il Governo britannico commissionò un meta-studio a un consorzio di ricerca guidato dalla Grant Thornton, il quale calcolò che l’impatto sulla città in termini di valore aggiunto lordo sarebbe ammontato fino a un massimo di 41 miliardi di sterline, contando anche la rigenerazione di alcune aree di Londra est. In più, dice il rapporto, i Giochi motivarono i britannici a fare più sport, soprattutto bambini e adolescenti, migliorarono la gestione e la sostenibilità delle manifestazioni sportive, riqualificarono aree della città e molto altro. Influenze sulle quali non è facile mettere numeri.
Lo studio sui costi dei tre accademici di Oxford si prende comunque la briga di avanzare alcuni consigli alle città che pensano di avanzare la loro candidatura, sia per l’inverno sia per l’estate. Consigli di questo genere: possiamo rischiare di finire con costi di tre volte più alti del previsto rispetto a spese di base già multimiliardarie? “Se la risposta a questa domanda è sì, allora procedi e diventa l’ospite; se la risposta è no, molla”. In più, mettono in guardia da sei elementi tipici di ogni candidatura una volta che la si è lanciata. È irreversibile o quasi, dopo che si è vinta la gara per conquistarla, il caso di Denver è unico; ha tempi fissi, non ci possono essere ritardi, il che aumenta i costi; la qualità delle opere è definita a livello internazionale e lascia poco spazio a risparmi; la pianificazione a lungo termine apre le porte a imprevisti; il Cio non è interessato a risparmiare perché i costi in eccesso sono in capo a chi ospita; l’esperienza nell’impresa olimpica di solito non c’è perché i Giochi cambiano posto ogni quattro anni.
A questo studio il Cio ha reagito vivacemente. Ha sostenuto che mischia le spese strettamente necessarie per i Giochi con le infrastrutture che poi restano alla città. E ha portato come contro-argomentazione un’analisi del 2019 di due accademici tedeschi, Holger Preuss e Maike Weitzmann dell’università di Mainz, e di un francese, Wladimir Andreff della Sorbona, dalla quale risulta che dal 2000 tutti i Giochi hanno raggiunto il break-even o hanno generato un profitto. La discussione è insomma aperta non solo tra i politici e amministratori che vogliono tagliare nastri opposti a politici e amministratori che si sentono austeri. Anche nel mondo accademico sui Giochi Olimpici ci si divide. Chi rischia di più, in ogni caso, sono i sindaci e i politici, i quali ultimamente vanno con i piedi di piombo e prima di muovere il passo consultano i cittadini. Anche con bocciature sonore. Il ritiro di Denver, infatti, è unico perché arrivato dopo l’assegnazione ufficiale ma non è il solo caso di ritirata dalla corsa.
Nel settembre 2017, proprio gli elettori di Innsbruck, che aveva beneficiato della rinuncia di Denver nel 1976, votarono contro una nuova candidatura della propria città. Amburgo avanzava fiduciosa nella sua offerta di ospitare i Giochi estivi del 2024 con sondaggi che registravano un consenso popolare sopra al 60%; ma al momento del voto vinse il No. Oslo avrebbe voluto ospitare l’Olimpiade Invernale dell’anno prossimo, ma come Stoccolma, Cracovia, Leopoli si è ritirata in tempo.
Non tutte le Olimpiadi sono uguali anche dal punto di vista dei costi e dei benefici, naturalmente. Una metropoli come Londra può permettersi grandi spese e, alla fine, avrà ritorni da innumerevoli fonti. Diverso è il discorso per Paesi emergenti, i quali sono sempre più tentati di candidarsi: uno studio degli economisti americani Robert Baade e Victor Matheson ha segnalato che i tentativi di Paesi in via di sviluppo sono più che triplicati dopo il 1988. Ma venti miliardi di dollari per i Giochi del 2018 non sono poca cosa per Rio de Janeiro: c’è da pensarci bene.
Fatti i conti, c’è però qualcosa su cui non si può mettere il cartellino del prezzo: la fresca felicità dei Giochi Olimpici.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di luglio/agosto di eastwest.
Con il Pnrr, il futuro in Italia è ora
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Non si tratta di spendere. Si tratta di investire. Già questa è una cornice da sistemare attorno al Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) preparato dal Governo e approvato dalla Commissione Ue. Investire significa impiegare denaro – nel caso italiano 191,5 miliardi di fondi europei – con l’obiettivo di avere un ritorno. Lo si dice spesso ma questa volta non è semplice teoria o speranza. Il Next Generation EU – 750 miliardi – e il suo strumento principale di attuazione, la Recovery and Resilience Facility da 672,5 miliardi, verranno erogati ai Paesi europei sulla base dei risultati raggiunti, stabiliti in precedenza e vincolanti. Se non si rispettano gli obiettivi e le tappe predefinite per raggiungerli, ci si deve correggere, recuperare o altrimenti rinunciare alle tranche di aiuti. Fa eccezione il primo esborso, il prefinanziamento pari al 13% della cifra totale attesa che verrà versato dopo il Consiglio europeo di fine luglio che darà il via libera alle valutazioni della Commissione sui programmi presentati dai Paesi: per l’Italia saranno poco meno di 25 miliardi, nove in sovvenzioni a fondo perduto, quasi 16 in prestiti.
Il Pnrr è lì, insomma, se non scolpito nella pietra, chiaro e da rispettare. Per questa ragione occorre verificare che i risultati siano reali e raggiunti nei tempi previsti. Per questo motivo è importante la nomina dei sette economisti nel Nucleo tecnico sul coordinamento della Politica Economica presso il Dipartimento per la Programmazione (Dipe) a Palazzo Chigi. Contro la scelta dei sette – cinque uomini e due donne – 150 economisti hanno scritto una lettera a Mario Draghi per contestare la composizione del Nucleo, troppo liberale a loro dire. In realtà, la funzione del Nucleo sarà essenziale proprio nel giudicare l’efficacia delle misure prese, l’impatto degli investimenti effettuati, la coerenza con gli impegni presi con la Ue, oltre ad aiutare i Comuni nella realizzazione di progetti. Il fatto che tra i sette ci siano due figure liberali per fare valutazioni tecniche sull’uso del denaro pubblico proprio nel momento in cui questo denaro di Stato è molto, non è un limite, come dicono i 150, ma è anzi una garanzia di controllo che il denaro dei cittadini europei non venga sprecato e che fondi di Stato non tolgano aria ai fondi dei privati, anzi li stimolino. La funzione del Nucleo sarà dunque di grande rilevanza. Sostenuta, quando ce ne sarà bisogno, dalla Dg Reform di Bruxelles, guidata da Mario Nava, che mette a disposizione le sue competenze per aiutare i Paesi a rispettare obiettivi e tappe di avvicinamento (milestones).
Un’impresa titanica
In effetti, ci vorrà lo sforzo e la collaborazione più ampia per restare sui binari tracciati. L’impresa è qualcosa di mai provato finora. Non tanto per la difficoltà di impiegare i fondi, un business nel quale l’Italia non è mai stata un campione. Soprattutto perché gli investimenti devono avvenire in parallelo e in sintonia con un programma di riforme strutturali poderoso, in sostanza quelle evocate e mai fatte nei decenni passati. Da realizzare in tempi brevissimi. È l’elemento chiave affinché dalla Ue continuino ad arrivare le tranche di fondi previste. Per esempio, dopo i quasi 25 miliardi che arriveranno in estate, entro l’anno ne dovrebbero arrivare altri 24,1, 11,5 in sussidi e 12,6 in prestiti. Ma contemporaneamente e obbligatoriamente, entro dicembre l’Italia dovrà avere messo in campo la riforma della Giustizia civile e penale, la riforma della pubblica amministrazione e quella degli appalti pubblici, le nuove regole sulla spending review, la riforma dei meccanismi di gestione delle insolvenze, la proroga del Superbonus energetico e un intervento di stimolo a favore del turismo. Si tratta di 51 tappe da rispettare.
Mario Draghi e i suoi Ministri sono al lavoro da tempo su questi passaggi ma, come è evidente, si tratta di uno sforzo titanico. Che comunque dovrà andare avanti nel 2022 e negli anni successivi quando però gran parte delle riforme dovrebbero essere avviate. Nei primi sei mesi dell’anno prossimo, arriveranno altri 24 miliardi ma solo a patto che vengano centrate altre 45 milestones: piano per la digitalizzazione della scuola, la riforma delle assunzioni degli insegnanti, l’accelerazione degli interventi per creare efficienza energetica, la promozione di venture capital e di startup finalizzati alla transizione ecologica. Il Pnrr, ora con il timbro della Commissione Ue, prevede nel complesso 58 riforme, 132 investimenti e 525 obiettivi, in parte target in parte tappe da rispettare. Tutto entro il 2026, data di scadenza della Recovery and Resilience Facility.
Oltre ai 191,5 miliardi che se tutto funzionerà arriveranno dall’Europa – 68,9 in sussidi e 122,6 in prestiti a tassi agevolati che andranno a nutrire il debito pubblico – il Governo ha predisposto un Fondo Complementare di 30,6 miliardi che è tutto debito nazionale e altri 26 miliardi da destinare entro il 2032 a opere specifiche e al reintegro delle risorse del Fondo Sviluppo e Coesione. In tutto, 248 miliardi, un quarto di trilione.
Investimenti e riforme
Il Pnrr vero e proprio destina 82 miliardi al sud del Paese, punta a riparare i danni provocati dalla pandemia da Covid-19, a riequilibrare le divergenze territoriali, a favorire il lavoro e lo studio di donne e giovani, a digitalizzare il Paese e a innescare una crescita economica solida ed ecologicamente sostenibile (oltre che finanziariamente). Per “Digitalizzazione, Innovazione, Competitività e Cultura” prevede 40,7 miliardi (più 8,5 dal Fondo Complementare) con gli obiettivi di portare una connessione web al cento per cento della popolazione entro il 2026, di portare fibra ottica in novemila scuole che ora non l’hanno, di connettere 12 mila punti del Sistema Sanitario. Per “la Rivoluzione Verde e la Transizione Ecologica” sono sul tavolo 68,6 miliardi (dei quali 9,3 dal Fondo) per potenziare il riciclo dei rifiuti (al 55% gli elettrici, al 65% le plastiche, al 100% il tessile, all’85% la carta), per ridurre le perdite di acqua potabile dalle reti idriche, per rendere energeticamente efficienti 50mila edifici privati e pubblici ogni anno, per sviluppare la ricerca e l’uso dell’idrogeno nell’industria e nei trasporti.
Alle “Infrastrutture per una Mobilità Sostenibile” sono destinati 25,1 miliardi dal Pnrr e 6,3 dal Fondo Complementare: per modernizzare e potenziare i treni regionali, per ridurre i tempi di percorrenza su certe tratte ferroviarie (ad esempio Napoli-Bari in un’ora e mezzo, Palermo-Catania in un’ora), per realizzare “porti verdi”. Quasi 32 miliardi andranno a “Istruzione e Ricerca” per la creazione di 228 mila posti negli asili per bambini da zero a sei anni, per ristrutturare scuole, per creare seimila posti di dottorato a partire dal 2021. “Inclusione e Coesione” beneficerà di 22,4 miliardi (dei quali 2,6 dal Fondo) e creerà una dotazione per l’imprenditoria femminile, darà sostegno alle persone vulnerabili, creerà Zone Economiche Speciali. Infine, 18,5 miliardi (di cui 2,9 dal Fondo) per la “Salute”, dove si prevede di creare 1.288 nuove Case di comunità e 381 ospedali di comunità, dove si punta a fornire assistenza domiciliare al 10% di chi ha più di 65 anni, si vogliono creare 602 Centrali operative territoriali per l’assistenza remota e si compreranno 3.133 nuove grandi attrezzature per diagnosi e cura.
Come si vede anche solo con uno sguardo a volo d’uccello, gli investimenti sono enormi, articolati e non certo semplici da realizzare e da verificare nella qualità e nella tempistica. Se si tiene contro che sono strettamente intrecciati al piano di riforme, che poi è il vero cuore della sfida dei prossimi anni, si può avere un’idea di quanto portentosa sia l’operazione. Della quale sono responsabili Mario Draghi, i suoi Ministri ma anche, forse soprattutto, gli italiani. Se tutto funzionerà – prevede il Governo – nel 2026 il Pil del Paese sarà di 3,6 punti percentuali più alto di quanto lo sarebbe senza Pnrr e derivati. Avremo molti debiti. Ma forse avremo rotto la condanna più che ventennale a non crescere.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di luglio/agosto di eastwest.
È proprio necessaria una politica industriale?
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L’Europa ha scoperto che il calcio è un settore strategico. I principali Governi del continente sono scesi in campo, scarpette con tacchetti, per difenderlo dalla Superlega: non era mai stata raggiunta un’unanimità del genere e così immediata in altri momenti di “crisi”. Persino la Brexit è finita in secondo piano: Macron e Johnson divisi dalla Manica ma dalla stessa parte del rettangolo. È questo il primo caso di intervento diretto, post-pandemia, degli Stati nell’economia (sì, il calcio è un pezzo rilevante dell’economia)? È il debutto sui grandi schermi della Nuova Politica Industriale con le maiuscole? Forse sì, forse no: di certo è un cartellino giallo, avvertimento forse non meritato.
Ora: una Lega dei club ricchi non sembra piacere alla maggioranza degli appassionati; negli anni scorsi i club hanno gonfiato una bolla insostenibile che, colpita dai lockdown, è scoppiata; e non pochi signori del pallone non sono mai stati timidi nel mostrare, anche in forme sgradevoli, la loro dose di avidità. Il problema è però un altro. Le squadre di calcio sono società, nel senso di imprese, private: in Occidente hanno la libertà di fare lo loro scelte, anche sbagliate. Una cosa è se alla Superlega si ribellano – diciamo – i calciatori, i tifosi, l’opinione pubblica: bene. Un’altra è se i divieti o gli ostacoli alla creazione di un torneo sportivo tra privati li mettono i governi: male. La vicenda è utile per porsi delle domande: il caso Super League è un cartamodello per interventi futuri degli Stati nelle economie?
La domanda è di attualità. Il cambio di stagione nel mondo, rispetto ai decenni della globalizzazione senza barriere, è un fenomeno già avvenuto. Comunque, in corso già prima della pandemia da Covid-19 e da questa accelerato. Corre la teoria che l’epoca dominata dalle pratiche neoliberali – dagli Anni Ottanta in poi – è terminata e che siamo di nuovo in una fase in cui diventa centrale, o almeno decisamente più importante, l’intervento dello Stato nell’economia. In modi diversi a seconda dei luoghi e delle circostanze e con motivazioni diverse. Ma comunque un ritorno della politica nel mondo del business dal quale era stata a lungo esclusa
Già gli interventi pubblici a sostegno delle persone e delle imprese colpite dai lockdown hanno rimesso al centro dell’azione i Governi. Con i pacchetti di stimolo alle economie, in Europa e ancora di più negli Stati Uniti. E con l’enorme quantità di denaro creata dalla politica monetaria delle banche centrali – dalla Fed alla Bce, dalla Banca d’Inghilterra a quella del Giappone – che influenza in misura eccezionale i mercati finanziari. Stato in pieno dispiegamento. In parallelo, nella conversazione dell’Occidente è entrata con vigore la domanda di nuove politiche industriali.
In Italia, se ne parla ma ancora non ci siamo in modo organico. Il ruolo della Cassa Depositi e Prestiti ha probabilmente raggiunto livelli non toccati in passato, non solo per le sue robuste partecipazioni azionarie in imprese rilevanti (Eni, Snam, Terna per citarne alcune) ma anche per finanziamenti nell’edilizia sociale, delle piccole e medie imprese, dell’internazionalizzazione delle aziende e per investimenti pubblici. Spesso interventi utili ma certamente indicativi del peso crescente che nell’economia ha lo Stato (la Cdp è controllata per oltre l’80% dal ministero dell’Economia e delle Finanze anche se non è consolidata nel bilancio pubblico). Qualcosa di simile è la crescita dell’attività svolta da entità “di sviluppo” simili alla Cassa in altri Paesi europei, a cominciare dalla tedesca Kfw.
Al momento, sempre restando in Italia, non si può però dire che l’attività della Cdp costituisca una politica industriale elaborata in un piano. E nemmeno politica industriale possono essere definiti gli interventi pubblici in casi come Alitalia e Ilva. Il Governo Draghi, d’altra parte, nelle settimane scorse ha utilizzato per la prima volta il Golden Power per bloccare l’acquisizione di una società italiana attiva nel campo dei semiconduttori da parte di un gruppo cinese. Per ragioni “strategiche”, dal momento che nel mondo c’è oggi una carenza di semiconduttori che crea problemi a parecchie industrie. Questo intervento è probabilmente quello che più si avvicina a un accenno di politica industriale. Ma non si può dire che un piano di intervento dello Stato nell’economia oggi ci sia, nonostante che questo intervento sia sempre più frequente.
Qui arriva il dibattito del momento: la richiesta che, partendo dai denari europei del Recovery Fund, si costruisca una vera politica industriale grazie alla quale il governo possa indirizzare l’economia del Paese e la sua modernizzazione, in senso digitale e verde. Si sottolinea che è importante per essere competitivi in un ambiente in trasformazione, caratterizzato da nuove tecnologie e da nuove domande di qualità ambientale da parte dei cittadini. In più, si dice che per sostenere la concorrenza dei grandi gruppi soprattutto cinesi ma anche americani è necessaria una politica industriale europea finalizzata a creare “campioni” continentali di livello globale. I maggiori sostenitori di questa posizione sono, fin da prima dello scoppio della pandemia, il ministro dell’Economia tedesco Peter Altmaier e quello francese di Economia e Finanze Bruno Le Maire. I quali hanno proposto di rivedere la politica della Concorrenza della Ue per consentire aggregazioni e fusioni societarie capaci di creare questi campioni europei. Implicitamente dicendo che per battere la Cina occorre essere un po’ dirigisti come la Cina.
Che in una fase storica come quella nella quale siamo entrati, segnata da una sempre maggiore competizione tra potenze, il ruolo dello Stato sia destinato ad aumentare è probabilmente inevitabile. Se la concorrenza non è più solo tra imprese ma tra nazioni e tra sistemi, i Governi avranno una voce maggiore rispetto al passato anche sugli affari commerciali ed economici (e questo già si vede ogni giorno). È un cambio di stagione che chiude l’epoca della globalizzazione senza ostacoli politici e apre quella del confronto più muscolare tra Stati. Non bella in particolare per l’Europa che da questo cambiamento di clima pare disorientata.
C’è però una domanda alla quale occorre rispondere prima di imboccare nuove strade: è il ricorso a una politica industriale ciò che permetterà alle economie di mercato di vincere la sfida con le economie di piano dei Paesi autoritari? Quando intraprendono una politica industriale, cioè scelgono quali settori privilegiare e quali direzioni dare all’economia, i Governi sanno allocare meglio del mercato le risorse? Sanno innovare meglio? Oppure tolgono risorse e spazio ai privati che negli anni scorsi sono stati i migliori innovatori? Spesso la risposta è che la Cina, caso estremo di dirigismo, è avanzatissima nelle nuove tecnologie e nell’innovazione. Cosa vera solo fino a un certo punto. È un fatto, per dire, che Pechino abbia mobilitato enormi risorse per sviluppare il settore dell’auto elettrica e nel campo sia il Paese più avanzato. Ma è altrettanto vero che la Tesla non è cinese, è americana. Questo per dire che quando si viene all’innovazione non è affatto detto che siano i muscoli finanziari di un governo a produrre i risultati migliori.
Spesso, anzi, capita che i politici sbaglino mira. La Super League poteva essere un prodotto portentoso, unico al mondo e globale, visto ovunque con avidità. Un vero “campione europeo”. I Governi l’hanno fulminato.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
L’Italia, un Paese sorprendente
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L’Italia è ancora un Paese capace di sorprendere. Persino sé stessa. Non è tanto che il Pil sia sceso dell’8,8% nel 2020 invece del 9,5% previsto dalla Commissione europea la scorsa primavera. Questo è significativo: racconta che molte imprese hanno un business resistente e sono riuscite a limitare i danni causati dalla pandemia e dai lockdown. Era però ancora meno scontato che il senso di sfiducia che ha caratterizzato buona parte dell’anno scorso si sia attenuato e, anzi, in molti casi sia improvvisamente diventato speranza di cambiamento con l’arrivo di Mario Draghi a Palazzo Chigi. È che potenzialmente l’Italia ha più energie, maggiore capacità di resistenza e superiore dinamicità di quanto di solito si racconti. Potenzialmente, appunto: il nuovo governo può cercare di liberarle dai vincoli che le limitano da decenni.
Di fronte ai fondi che arriveranno dal Next Generation EU – 209 miliardi – e dal bilancio settennale dell’Unione europea iniziato quest’anno, disegnare nei dettagli il Paese del futuro non è probabilmente l’obiettivo del nuovo esecutivo: la società e l’economia seguono strade loro; ciò che un governo può fare – lo si dice sempre – è creare le condizioni affinché ciò sia possibile nel rispetto di regole sensate; e può mettere in campo una serie di misure capaci di rispondere in modo più efficace alle crisi future, certo in economia ma innanzitutto sul versante della sanità.
L’opportunità non sta solo nel denaro messo a disposizione dall’Europa: questo è soprattutto un veicolo per facilitare le riforme necessarie da tempo e per modernizzare nella direzione della digitalizzazione, di politiche ambientali serie, di nuove infrastrutture. I calcoli sull’effetto moltiplicatore che i fondi del Next Generation EU avranno sul Pil possono essere interessanti: la vera svolta, però, starà nel ridare fiducia alle imprese e mettere gli operatori economici nelle condizioni di crescere e di innovare. In termini certo sommari ma efficaci, si è spesso parlato della differenza tra l’economia francese e quella italiana: la prima cresce in buona parte sotto l’ombrello dello Stato, si è detto, la seconda nonostante lo Stato. È qui che l’Italia può vincere la sfida: rendere efficiente l’amministrazione, eliminare le lentezze, gli ostacoli e le invadenze diffuse degli apparati pubblici: questo sarebbe il vero stimolo alle imprese che per anni hanno saputo prosperare nonostante l’inefficienza e i lacci burocratici.
La sanità
Prima di tutto, però, la questione della Sanità. Se c’è qualcosa che i Paesi occidentali hanno sperimentato in questo anno di pandemia è che essi non sono la Cina. Nel senso che la risposta affidata solo o soprattutto ai lockdown funziona in un Paese centralizzato e autoritario, con le guardie che controllano chi è in quarantena. Non funziona, o funziona molto meno, in società aperte nelle quali la libertà è tenuta in gran conto. Sono i risultati della lotta alla Covid-19 a dirlo: la Cina ha avuto successo, gli altri no. Ciò significa che la prossima pandemia – tra gli esperti c’è la quasi unanimità nel ritenere che ci sarà – dovrà trovare risposte diverse in Europa e in Occidente. Una parte delle risorse che l’Italia mobiliterà dovranno mettere il Paese nelle condizioni di non essere travolto dalla diffusione di un nuovo virus. La Sanità, dunque, dovrà essere organizzata per prevenire, con un sistema di allarme precoce, con una medicina territoriale molto rafforzata, con una capacità di test e di monitoraggio molto maggiori, con reparti ospedalieri pronti a rispondere a scoppi di epidemia. Un’organizzazione dai costi elevati, soprattutto perché non operativa al 100% per lunghi periodi, in attesa di rispondere al peggio, ma decisiva per evitare una crisi generale – sanitaria, sociale, economica, politica – come quella in corso, molto, molto più costosa della creazione di una rete di sicurezza, per quanto dormiente. È il primo passo in direzione di un’Italia del futuro che riprende fiducia.
La definizione di “zombie” per le imprese oggi ancora in piedi ma che di fatto sono state messe fuori mercato dalla crisi da pandemia, e forse in parte lo erano già prima, è offensiva per chi ci lavora, per chi le ha create e per chi ha cercato di tenerle in vita. Indica però uno dei problemi che nei prossimi mesi, quando il blocco dei licenziamenti finirà e il sostegno a molte aziende verrà meno, dovranno essere affrontati per primi. Il Governo Draghi dovrà scegliere i metodi migliori per rispondere alla crisi sociale data dai licenziamenti che ci saranno: sostegno ai redditi nella prospettiva di reinserire questi lavoratori, dopo periodi di formazione, nelle imprese che dovrebbero crescere soprattutto nell’economia verde e nell’economia digitale, i due settori indicati come essenziali dal Next Generation EU. Non è impossibile: nei Paesi europei del nord la riqualificazione finalizzata al cambio di lavoro è una pratica corrente favorita dallo Stato; la condizione, però, è che alla base ci sia un mercato del lavoro dinamico e aperto, che ci sia crescita economica e che il mondo dell’istruzione funzioni. È un passaggio estremamente difficile ma decisivo, senza il quale la crisi sociale impedirebbe il rilancio dell’intero Paese.
Gli investimenti pubblici
Tra le molte cose che hanno raccolto applausi, nel suo discorso al Parlamento Draghi ha garantito il sostegno a quei settori che, senza colpe o inefficienze gravi, sono stati colpiti dalla pandemia: il turismo, la cultura, lo spettacolo e molti altri. Rimetterli in condizione di ripartire, magari con livelli di efficienza accresciuti da scelte ambientali e digitali, può essere un’occasione straordinaria. I business legati al tempo libero e all’intrattenimento, nei quali l’Italia ha un vantaggio naturale non sempre utilizzato al meglio, saranno probabilmente tra gli assi portanti dell’economia dei prossimi anni, le persone vogliono uscire da un mondo chiuso dalla pandemia: qualche settimana fa, la multinazionale della bellezza L’Oréal ha detto di prevedere, dopo i lockdown, l’esplosione dei Roaring Twenties del Ventunesimo Secolo, anni ruggenti. Occorre essere pronti.
Per quel che riguarda gli investimenti pubblici, magari condotti in partnership con i privati, le reti digitali, 5G in testa, possono modernizzare l’Italia come in parte successe nel periodo glorioso del Miracolo Economico successivo alla guerra mondiale. Trasformare e rendere efficiente la Pubblica Amministrazione non è facile, il problema non si risolve con la semplice messa in rete dei servizi. Avviare una riforma che premi le professionalità, come sembra intenzionato a fare il governo, può dare vita a un circolo virtuoso che dà ai cittadini il senso di progressi reali in un ambito storicamente tra i più problematici. Altra spinta alla fiducia. E se le politiche verdi, sulle quali la Ue è intransigente, diventeranno un imperativo trasversale a tutte le attività (senza illusioni di decrescita felice) si creeranno nuove attività economiche in parallelo al miglioramento della qualità della vita e alla capacità di attrazione del Paese.
Una giustizia più efficiente, a cominciare da quella civile, è un’altra richiesta piuttosto vincolante che viene dalla Ue e che è essenziale per il buon funzionamento del Paese, dell’economia ma anche della vita quotidiana. Lo stesso vale, nel breve e ancora di più nel medio periodo, per la riforma della scuola. Infine, nel discorso al Senato Draghi ha parlato, citando l’esempio della Danimarca, di riforma fiscale, con semplificazioni e, pare di capire, un alleggerimento.
Imprese di portata e di difficoltà enormi: sono riforme mature da decenni, continuamente evocate e continuamente rinviate. Ora abbiamo l’occasione di iniziarle: i denari per facilitare il cambiamento ci sono, la pressione europea anche e le condizioni politiche per muovere i primi passi si sono forse allineate. Tutto non accadrà all’improvviso. Ma sono il movimento e il senso della direzione a creare la fiducia necessaria a sorprendere.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
Il metodo Draghi
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Mario Draghi è piuttosto unico. Dice di non avere mai pensato di essere il migliore, nemmeno quando era a scuola, a Roma. E infatti non è questo il problema. È che l’uomo ha una sua unicità all’interno dell’establishment italiano: un rigore nella forma che diventa contenuto esso stesso, la competenza sopra la convenienza, la comprensione dei meccanismi del potere da usare per raggiungere obiettivi. E, forse soprattutto, la chiarezza nel leggere la realtà e la lucidità su cosa fare e su come farlo. Si può naturalmente non essere d’accordo con le sue scelte. Ma oggi, di fronte alla chiamata a presidente del Consiglio come “Italian of last resort”, uomo di ultima istanza, la sua unicità di carattere, nel senso pieno del termine, è evidente a tutti.
“Whatever it Takes”
La frase che pronunciò nel luglio 2012, pochi mesi dopo essere diventato Presidente della Bce, è ormai un’espressione popolarizzata, che si adatta a ogni circostanza. Ma per apprezzarne la potenza e la lucidità di pensiero che l’ha sostenuta quel giorno, a Londra, davanti a una platea di grandi investitori internazionali, va contestualizzata nelle parole dette subito prima e subito dopo. Sui mercati c’era chi dubitava della possibilità dell’euro di superare intatto la crisi del debito ai massimi livelli in quei giorni. La frase che precedette il “Whatever it Takes”, fu “within our mandate”: all’interno del nostro mandato. Non solo – cioè – ci muoveremo per difendere l’euro nel pieno rispetto delle regole ma sappiate che non abbiamo alcun bisogno di chiedere permesso a qualcuno, è già nei nostri poteri. Le parole che seguirono il “Whatever it Takes” furono invece “and believe me, it will be enough”, credetemi, basterà: non illudetevi, voi investitori, di scommettere contro la Bce, ha una potenza di fuoco enorme e la userà.
Anche oggi Draghi si muove all’interno di un mandato preciso, quello che gli ha tracciato il Presidente Mattarella, e a esso si atterrà, assieme alle regole della Costituzione. Non è una formalità: è un metodo che diventa sostanza e sostanza inattaccabile. E, anche oggi, il Presidente del Consiglio un’assicurazione forte, un “credetemi basterà”, deve averla data, forse dettata, ai leader dei partiti che lo devono sostenere. Perché il Mario Draghi che era alla guida della Banca centrale europea è lo stesso Mario Draghi che è alla guida del Governo. Stessa persona e stesso metodo.
Il metodo Draghi
Della biografia di Draghi si è scritto molto nelle ultime settimane. Ci sono alcuni momenti, oltre al discorso di Londra, che però forse aiutano a capire perché Sergio Mattarella ha visto in lui la sola persona capace di prendere sulle spalle l’esecutivo in un passaggio di crisi/opportunità come quello che attraversa l’Italia. A proposito del metodo, qualcosa che i Ministri e i leader di partito faranno bene a tenere in considerazione: un episodio raccontato da egli stesso in un’intervista pubblicata nel gennaio 2015 dal settimanale tedesco Die Zeit. Tornato dagli studi all’Mit di Boston – dove ebbe tra i professori cinque Premi Nobel, Paul Samuelson, Bob Solow, Franco Modigliani, Peter Diamond, Bob Engle – Draghi andò a insegnare all’università di Trento, negli Anni Settanta molto caratterizzata a sinistra. Quando alcuni studenti gli chiesero di tenere esami di gruppo su economia capitalista ed economia marxista, dicendo che uno avrebbe risposto per tutti, accettò a patto che se l’uno rispondente fosse andato male anche gli altri del gruppo sarebbero stati bocciati. Infatti, furono tutti bocciati e dopo poche esperienze del genere gli esami di gruppo con il professor Draghi sparirono.
C’è un metodo anche nella comunicazione del nuovo Presidente del Consiglio, non frequente, molto attenta e precisa. Nelle conferenze stampa mensili di politica monetaria che ha tenuto per otto anni come Presidente della Bce, ha mostrato una capacità di parlare ai mercati e di argomentare rivolto alla politica dei diversi Paesi dell’Unione monetaria eguagliata da pochi altri banchieri centrali. Indispensabile quando una parola può fare muovere i valori di Borsa e i tassi d’interesse. Probabilmente, però, l’importanza della comunicazione corretta Draghi la imparò a sue spese già negli Anni Novanta, da direttore del Tesoro. Nell’estate del 1992, sul Corriere della Sera apparve un articolo nel quale si raccontava dello yacht Britannia sul quale Draghi aveva incontrato un gruppo di investitori internazionali per illustrare i programmi di privatizzazione in Italia. Da allora, la storiella di Draghi uomo dei poteri forti che ha svenduto il patrimonio italiano ha circolato fino ad arrivare ai giorni nostri. E per Draghi è un cruccio ancora adesso: le privatizzazioni furono un grande risultato di quel decennio e una presentazione (seppur su uno yacht) che oggi sarebbe solo normale ha permesso all’ampio partito dei complottisti di costruirci una narrazione negativa. Ora, prudentemente, evita di correre rischi del genere e certo preferirà che nemmeno i suoi ministri li corrano.
Il rapporto con la Merkel
Poi c’è il rapporto con Angela Merkel. Arrivato alla guida della Bce con l’obiettivo di sviluppare una politica monetaria non convenzionale – che poi si concretizzò con i tassi d’interesse a zero e il Quantitative Easing – Draghi incontrò l’opposizione della Bundesbank e di qualche banca centrale dell’Europa del Nord. Nel Consiglio dei Governatori, il dibattito era acceso, soprattutto con il presidente della Bundesbank Jens Weidmann. Poco dopo il discorso di Londra, Draghi propose ai governatori lo strumento che doveva garantire il Whatever it Takes: l’Omt, l’Outright Monetary Transaction, cioè l’acquisto di titoli di Stato di un Paese in crisi dietro la firma di un memorandum di riforma (Troika). Weidmann fu il solo governatore a votare contro e, quando un gruppo in Germania fece ricorso all’Alta Corte contro l’Omt il Presidente della Bundesbank testimoniò contro la decisione della Bce.
Per Draghi quel passaggio fu una specie di tradimento della sua istituzione e lo convinse a costruire una difesa dagli attacchi di Weidmann. Con l’opposizione della Germania, la politica monetaria di super-stimolo non si sarebbe potuta fare e dunque il presidente della Bce dovette convincere Merkel che, probabilmente, tutto il progetto europeo sarebbe crollato senza un’azione monetaria oltremodo espansiva e fuori dagli schemi. Convinta la cancelliera, che a modo suo lo sostenne pubblicamente, dovette tenere a freno l’altro colosso della politica tedesca, Wolfgang Schäuble, in quegli anni ministro delle Finanze. Questo per dire che il Presidente del Consiglio italiano non è solo persona di convinzioni, capace di leggere le necessità del momento: gestisce i rapporti di potere per arrivare all’obiettivo. Dopo quella disputa, che si trascinò per anni, Draghi poté portare la politica monetaria della Bce su ulteriori nuovi territori.
Cosa aspettarci?
Per finire con il metodo Draghi: chi oggi si aspetta un approccio in qualche modo ideologico da Palazzo Chigi – tutto pro mercato o tutto pro-statalista – sbaglia. Nella stessa intervista al direttore di Die Zeit Giovanni di Lorenzo, Draghi spiegò per quale motivo non era sostenibile, come invece credevano alcuni politici ed economisti tedeschi, che lui fosse disinteressato al pericolo d’inflazione. Suo padre morì quando lui aveva 15 anni e sua madre poco dopo. “Quello che ereditammo – raccontò – non era molto ma sufficiente per fare studiare i tre figli. La prima volta che tornai in Italia, nel 1976, trovai che l’equivalente di poche centinaia di euro era tutto quello rimasto della nostra eredità. Ciò perché il giudice del tribunale famigliare aveva istruito il tutore dei miei giovani fratelli a investire il denaro in buoni del Tesoro a tasso fisso. E ciò fece sparire tutto il denaro nell’aria” (in quegli anni l’inflazione italiana era ampiamente in doppia cifra). Nonostante questa esperienza personale, sa che l’inflazione si combatte quando c’è, quando non c’è si fa quel che serve. Il pragmatismo è un’altra caratteristica che fa di Draghi qualcuno di unico: è il contrario dell’opportunismo.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
Non militarizzate il commercio!
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L’ultimo stallo (si fa per dire) alla Wto riguarda i pesci. Che nel mondo ne finiscano nelle reti troppi è più che noto. I Paesi aderenti alla World Trade Organization, dunque, si erano dati l’obiettivo di arrivare entro il dicembre del 2020 a un accordo che avrebbe indirettamente limitato l’overfishing. Non ci sono riusciti, riproveranno. Si trattava di concordare la fine dei sussidi che gli Stati danno alle flotte nazionali e che alimentano l’eccesso di pesca, soprattutto quella “illegale, non certificata, non regolata” che varia tra il 20 e il 50% di quella totale. Senza questi sussidi, soprattutto al carburante e alle imbarcazioni, più del 50% della pesca sarebbe in perdita e dunque non avverrebbe – ma in compenso negli anni i mari si ripopolerebbero e la quantità di pescabile aumenterebbe.
L’accordo entro il 2020 – che era uno dei goal per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite − non si è trovato, un po’ per le difficoltà di condurre negoziati durante la pandemia ma soprattutto per divergenze sulle limitazioni che molti Paesi sono disposti ad accettare. Non è stata una sorpresa. La fiducia tra le Nazioni sulle questioni commerciali non è alle stelle. E la massiccia sede dell’Organizzazione Mondiale del Commercio sulle rive del Lago di Ginevra è diventata il monumento al fallimento della capacità di creare regole e al fallimento nel promuovere nuove liberalizzazioni degli scambi sin da quando è nata, nel 1995, erede del glorioso Gatt, il General Agreement on Tariffs and Trade che guidò l’apertura dei mercati dal 1947 al 1993 con otto round negoziali di successo.
La Wto e la questione commerciale possono sembrare poco sexy ma sono d’importanza straordinaria per l’economia globale. La libertà sempre maggiore degli scambi ha guidato la crescita dei decenni scorsi, ha dato il passo alla globalizzazione, ha permesso ai Paesi poveri di partecipare all’economia di quelli ricchi e di ridurre la povertà, ha creato le catene di fornitura e di creazione del valore che stanno alla base dell’efficienza di un gran numero di industrie. Dal 2009, dopo la grande crisi finanziaria, la crescita degli scambi ha però iniziato a rallentare e nel 2019, soprattutto a causa delle tariffe imposte da Donald Trump e della risposta data da Xi Jinping, il commercio globale è diminuito in termini di volume. Per il 2020, pandemia dilagante, la Wto stima una contrazione degli scambi mondiali superiore al 9%. Al di là della caduta causata dalla Covid-19, i problemi alla base del rallentamento degli scambi hanno origini economiche e soprattutto politiche: non spariranno con un vaccino.
La guerra commerciale Usa-Cina
L’offensiva lanciata da Trump con l’imposizione di tariffe sulle importazioni americane dalla Cina, e in misura minore da altri Paesi, è stata una decisione che ha messo sottosopra le logiche consolidate che stanno dietro agli scambi, che ha creato danni alla stessa economia degli Stati Uniti ma che è arrivata in una situazione già molto cambiata e deteriorata rispetto a uno o due decenni fa. Fondamentalmente, le regole che funzionavano nel mercato capitalista quando il mondo era diviso in due blocchi, quello occidentale e quello sovietico, sono rimaste le stesse anche con l’entrata in esso di molti altri Paesi, soprattutto di una potenza commerciale come la Cina e in misura minore dell’India. Ora, il sistema è obsoleto, in due sensi: da una parte, Washington vede nel ruolo economico e commerciale di Pechino e nel suo uso delle regole in essere la minaccia alla supremazia della potenza americana; dall’altra, obiettivamente le regole non sono più adeguate, vista la natura dei nuovi arrivati al banchetto, ad esempio il capitalismo di Stato e di Partito cinese.
Quando si dice che la globalizzazione è in arretramento, si dice in sostanza questo, che l’ordine del passato non c’è più, che il mondo piatto senza frontiere è finito e al suo posto si torna a una forma nuova di competizione tra le grandi potenze, con le conseguenti barriere. A differenza che in passato, il commercio viene spesso usato più per dividere che per unire. E la pandemia ha accelerato questa tendenza e acuito gli scontri. Il coronavirus, ha detto Emmanuel Macron, “cambierà la natura della globalizzazione con la quale abbiamo vissuto negli scorsi quarant’anni”; essa è alla “fine del suo ciclo”
Il ruolo della geopolitica
È la geopolitica che cambia la natura del commercio globale. L’amministrazione Trump ha accusato la Cina di un rosario di scorrettezze commerciali: l’eccesso di capacità produttiva usata come base delle politiche di dumping, il trasferimento forzato di tecnologia per chi vuole entrare nel suo mercato, i sussidi alle sue imprese, l’attività delle aziende di Stato che operano su indicazioni del Partito Comunista, il furto di tecnologia, gli ostacoli all’ingresso per le multinazionali estere e infine il legame tra alcune imprese cinesi e l’apparato militare di Pechino che sta ad esempio alla base dell’ostracismo americano nei confronti di Huawei. A Washington si è convinti che Pechino usi il libero commercio a scopo di potenza.
Si tratta di accuse che negli Stati Uniti sono in buona misura condivise dal partito repubblicano e dal partito democratico e hanno paladini tra i membri individuati per fare parte del team di Governo di Joe Biden. La necessità di avere una strategia di confronto e non di acquiescenza verso la Cina trova un consenso bipartisan a Washington, pur con diversi approcci e con differenze più accentuate nel mondo industriale e a Wall Street. Molte di queste stesse accuse sono condivise nell’Unione europea, la quale ha definito la Cina un “rivale sistemico”.
Qui, però, si apre un capitolo che dovrà essere scritto nei prossimi mesi. La decisione della Ue, su forte spinta della presidenza semestrale tedesca, di concludere entro il 2020 un accordo commerciale con Pechino è destinata a sollevare onde sull’Atlantico con l’Amministrazione Biden. Proprio mentre si tratta di definire, tra alleati, un approccio comune verso Pechino, come ha proposto il presidente americano entrante, l’Europa decide di fare da sola, apparentemente attratta più dalle opportunità della massa eurasiatica che dall’Oceano Atlantico. Angela Merkel, d’altra parte, quando si viene alla Cina ha sempre privilegiato il business rispetto alla politica. In più, dopo la presidenza Trump e visti i 74 milioni di voti presi dal presidente americano uscente ancora lo scorso novembre, la Cancelliera tedesca sembra non fidarsi più di Washington e ritenersi più una mediatrice tra Occidente e Oriente che un’alleata degli Stati Uniti.
La crisi Covid
La situazione del commercio e degli affari globali è resa ancora più tesa dalla pandemia, la quale ha accelerato le tendenze alla separazione tra l’ambiente economico dominato dagli Stati Uniti e quello dominato dalla Cina. La questione del decoupling, del disaccoppiamento tra i due ambienti di business, è sul tavolo. Non è detto che ci si arrivi in termini formali: sia in America sia in Europa ci sono spinte forti affinché la questione cinese sia messa sul binario di una competizione su una serie di terreni e di una collaborazione su altri. E anche nel Partito comunista cinese l’idea di una nuova Guerra Fredda, con i due sistemi finora così integrati e improvvisamente non comunicanti, non è da tutti condivisa, al di là della linea dura imposta da Xi Jinping. Fatto sta che la sfida è in pieno svolgimento e per ora Pechino sembra in vantaggio.
Dal punto di vista strettamente commerciale, il ritiro deciso da Trump (ma condiviso da molti democratici, in testa Hillary Clinton) dalla Trans Pacific Partnership (Tpp), l’accordo sugli scambi nel bacino del Pacifico, ha indebolito gli Stati Uniti agli occhi dei suoi partner e dei suoi alleati in Asia. La recente firma della Rcep, la Regional Comprehensive Economic Partnership asiatica a cui partecipa Pechino, tra 15 economie asiatiche per creare una zona di scambi a regole comuni è inoltre un altro tassello di rapporti dai quali Washington è esclusa. Il timore dei vicini asiatici della Cina per la sua politica sempre più assertiva nella regione li tiene lontani da rapporti politici stretti ma per i Paesi dell’Asean e in generale dell’Asia gli scambi economici con il gigante cinese sono irrinunciabili. Riassumendo: nell’area economicamente più dinamica del mondo, le relazioni commerciali spesso contrastano con quelle politiche ma Pechino al momento ha il vantaggio di essere l’economia emergente e quest’anno tra le poche a crescere, sempre più attraente e capace di formare legami d’affari con i vicini. In più, l’accordo sugli investimenti Ue-Cina, raggiunto nelle ultime ore del 2020, è una vittoria politica di Xi nel confronto con la Casa Bianca, chiunque la abiti.
Possono essere nuove regole sugli scambi globali la strada per gestire senza troppe guerre commerciali le tensioni in aumento? Qui c’è una distanza crescente tra la teoria e la pratica. Il sistema degli scambi dovrebbe ruotare attorno alla clausola di Nazione più favorita, la base dell’apertura dei mercati nel dopoguerra. A parole piace a tutti. Significa che ogni Paese che sta nella Wto ha gli stessi trattamenti di quello che li ha migliori, in termini ad esempio di dazi e tariffe. È la logica multilaterale che ha portato benessere al mondo. E, secondo moltissimi studiosi e politici, ha anche dato un contributo fondamentale alla pace. In pratica, succede però che questo asse portante è saltato.
I free trade agreements
Da quando la Wto ha preso il posto del Gatt, nel 1995, non solo non ci sono stati più accordi di liberalizzazione dopo l’Uruguay Round del 1993, ma si è anche affermata, al posto della logica multilaterale, quella degli accordi bilaterali. I quali, in sé, spesso favoriscono i commerci tra chi li firma, ma sono selettivi, cioè aprono la porta tra due ma la chiudono ad altri. Ciò che facilita il commercio tra un Paese e l’altro o tra un blocco e l’altro diventa discriminatorio, molto o poco, verso chi resta fuori. Il moltiplicarsi di questi “free trade agreements” realizza un patchwork di accordi preferenziali, di regole diverse e di esclusioni che a un certo livello di sviluppo mina seriamente l’approccio multilaterale. Una cosa sono unioni commerciali o mercati unici tra vicini, come sono la Ue o il Nafta tra Usa, Canada e Messico. Un’altra sono ragnatele di accordi motivati dalle più diverse ragioni, non sempre solo economiche.
Nessuno ha evitato di seguire questa strada, con l’argomentazione che accordarsi con tutti è sempre più difficile. Nemmeno l’Unione europea. Anzi, la Ue ha sottoscritto 72 accordi commerciali con Paesi più piccoli al di fuori della logica multilaterale. Secondo il rappresentante commerciale dell’Amministrazione Trump, Robert Lighthizer, l’Europa ha così “resuscitato il sistema di preferenze coloniali che prevaleva nell’era pre-Gatt”. Per esempio, proteggendo all’estremo le indicazioni geografiche dei prodotti agricoli e alimentari. Ora, la retorica di Lighthizer eccede nella polemica, anche perché non parla il paladino della libertà dei commerci. Ciò nonostante, la questione degli scambi multilaterali è destinata a essere centrale nei prossimi anni.
Cosa può fare Biden
La presidenza Biden ha la possibilità di intervenire sulla Wto, al momento di fatto paralizzata. Che l’Organizzazione abbia bisogno di un reset è opinione condivisa da Usa, Europa e molti altri. A Ginevra, al momento, non solo non funziona il pilastro istituzionale di luogo per fare avanzare trattative di liberalizzazione e apertura degli scambi; è ferma anche l’altra ragione di esistenza della Wto, il panel di appello sulle dispute commerciali tra Paesi, dal momento che l’Amministrazione Trump ha bloccato il rinnovo dei giudici della Corte e ora manca il numero legale. Inoltre, Washington ha congelato la nomina del nuovo director-general della Wto, dopo le dimissioni di Roberto Azevêdo, lo scorso agosto, nonostante ci fosse il consenso dei membri sul nome della ex ministro delle Finanze della Nigeria Ngozi Okonjo-Iweala.
Biden potrà sbloccare la nomina della donna politica africana, potrà anche togliere il veto al funzionamento del corpo giudicante le dispute. Ma che la Wto debba essere riformata, nel senso di adeguarsi all’ingresso di Paesi come la Cina e l’India nei grandi scambi globali, rimane una necessità anche per la nuova amministrazione americana. Tra l’altro, condivisa dalla Ue. Il problema è capire come. Se rilanciando la logica multilaterale che beneficia tutti e che può imporre alla Cina comportamenti meno aggressivi. Oppure continuando sulla strada degli accordi bilaterali che, in epoca di competizione tra potenze, sono sempre più motivati dalla geopolitica e meno dal beneficio del libero scambio. In questo secondo caso, come si è già visto nel conflitto tra Trump e Xi, il commercio rischia di essere vieppiù “militarizzato”, usato a scopo di potenza. Nel qual caso, nemmeno per i pesci ci sarà più scampo.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio 2021 di eastwest.