[COMO] Giornalista di politica estera con una particolare predilezione per l’Asia Centrale e l’Estremo Oriente.
La geopolitica del gas dal Turkmenistan alla Turchia
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Le popolazioni della Turchia e del Turkmenistan non condividono unicamente una comune radice etnica legata all’antica tribù degli Oghuz, uno dei gruppi storici che contribuì alla formazione e alla diffusione della cultura turca dalla valle dell’Orkhon – in Mongolia – fino alle sponde del Mediterraneo. In un futuro non troppo lontano, i due Stati potrebbero condividere anche un comune destino alimentato dalla potenza del gas naturale.
Lo scorso marzo, Turchia e Turkmenistan hanno siglato un importante accordo bilaterale incentrato proprio sul gas, contenente la comune volontà – per ora rimasta soltanto sulla carta – di trovare al più presto un modo per esportare il gas del Turkmenistan verso la Turchia e i mercati europei, ancora piuttosto scossi dalle ripercussioni energetiche dell’invasione russa dell’Ucraina.
Nonostante un ruolo non certo rilevante sul piano internazionale, anche da un punto di vista prettamente reputazionale, il Turkmenistan dispone attualmente delle quarte riserve mondiali di gas naturale, recentemente quantificate in ben 13.4 trilioni di metri cubi. Uno dei maggiori depositi mondiali di gas naturale si trova proprio in Turkmenistan, nella porzione sud-orientale del Paese: si tratta del giacimento di Galkynysh, che contiene anche ingenti quantità di petrolio.
Per portare il gas turkmeno in Turchia, tuttavia, è necessario che Ashgabat si accordi con i Paesi vicini sull’effettivo percorso che la risorsa energetica dovrà compiere per spostarsi verso ovest. Al momento, le alternative possibili sembrano tre: la prima è legata all’Iran, con cui il Turkmenistan potrebbe concludere un accordo di scambio per rendere possibile il passaggio del gas dai territori di Teheran. La seconda ha a che vedere con il gasdotto transcaspico, un progetto di cui si discute da più di trent’anni, e che attualmente sembrerebbe la via meno percorribile (anche per la netta opposizione di Russia e Iran a una simile iniziativa). La terza strada, sulla quale hanno iniziato a riverberarsi dei timidi riflessi di speranza, è quella che passa per la rotta caucasica, in particolare dai territori dell’Azerbaijan, con cui la Turchia ha concluso un accordo in tal senso lo scorso maggio.
Rispetto ai precedenti accordi energetici siglati da Ankara, quest’ultimo sembra avere una certa rilevanza: non soltanto per i volumi dell’effettiva fornitura di gas turkmeno a Turchia ed Europa, che non sono ancora stati precisati, ma per il fatto di escludere l’Iran dalle rotte energetiche tra l’Asia Centrale e l’Europa. Non è ancora chiaro da quali infrastrutture potrà passare il gas turkmeno, ma si ipotizza che attraverso il gasdotto Igdir-Nakhchivan (non ancora ufficialmente lanciato) il gas azero potrà raggiungere alcune porzioni del territorio di Baku passando proprio dalla Turchia, potendo compiere in linea teorica anche il percorso inverso (ossia da est a ovest). Al momento, Azerbaijan e Turchia sono collegate unicamente da altri due gasdotti: il corridoio meridionale del gas e il Baku-Tbilisi-Erzurum.
Del resto, il momento sembra davvero propizio per attivare una nuova fornitura di gas dall’Asia Centrale all’Europa, magari sfruttando le potenzialità della Turchia come potenza smistatrice. Per Ankara, poter contare su una certa quantità di gas turkmeno significherebbe compiere un passo deciso verso una reale diversificazione, aggiungendo una risorsa preziosa al suo portafoglio energetico e rafforzando il progetto turco di divenire una sorta di hub regionale per l’energia. Per i Paesi dell’Unione Europea, ancora alle prese con le conseguenze dell’invasione russa in Ucraina, il gas turkmeno rappresenta un buon mezzo (anche se non potrà essere certamente l’unico) per ridurre definitivamente la propria dipendenza energetica da Mosca e ritornare a una situazione di apparente normalità, anche dal punto di vista dei prezzi. Per il Turkmenistan, infine, la possibilità di esportare il proprio gas verso ovest, in Turchia e in Europa, rappresenterebbe forse la via più breve per affacciarsi ai mercati globali, con concrete possibilità di rafforzare anche la propria posizione nei confronti di due grandi potenze come Russia e Cina (quest’ultima rappresenta ancora uno dei principali destinatari del gas turkmeno). Uno degli aspetti più interessanti, in questo complesso gioco di incastri energetici e geopolitici, è rappresentato dal particolare ruolo del Turkmenistan, che grazie alle sue ingenti risorse naturali ha l’occasione di trasformarsi in un vero e proprio game-changer dei delicati equilibri regionali in Asia Centrale e Asia minore, diventando nel contempo un valido facilitatore per le ambizioni di Ankara.
Tutto è cambiato due anni fa, con l’invasione russa dell’Ucraina. Fino a quel momento, il Turkmenistan aveva sempre tentennato di fronte alla prospettiva di esportare il proprio gas verso ovest, verso la Turchia e l’Europa, soprattutto perché temeva l’ostracismo da parte di Mosca (alla Russia, infatti, interessava mantenere la propria posizione di dominio nel mercato del gas europeo, tenendo alla larga ogni possibile concorrente). Ma da due anni a questa parte, gli equilibri energetici sono cambiati in maniera radicale: ora il gas russo si dirige con decisione verso la Cina – ormai considerata da Mosca il miglior cliente per le sue esportazioni di gas -, per cui agli occhi della Russia le cessioni di gas turkmeno alla Turchia e all’Europa non rappresentano più un reale problema. Un maggior afflusso di gas da est a ovest, ossia dal Turkmenistan all’Europa, aiuterebbe anzi Mosca a conservare il proprio ruolo di fornitore energetico privilegiato della Cina, liberandola parzialmente dall’interferenza del Turkmenistan.
È probabilmente anche per questo che Ashgabat si sta dimostrando così attiva sui mercati energetici internazionali: di fronte alla prospettiva di perdere una parte delle sue esportazioni di gas verso la Cina, a causa dell’impellente necessità russa di vendere il proprio gas a Pechino, il Turkmenistan si troverebbe nella condizione di dover diversificare le proprie cessioni energetiche verso l’esterno, rivolgendole magari verso la Turchia, l’Europa e i mercati globali. La fase storica in cui la Cina rappresentava la principale destinazione del gas turkmeno, con ogni probabilità, è destinata a finire.
Gli accordi di Ankara con Turkmenistan e Azerbaijan sono stati siglati in una congiuntura storica molto particolare, un momento assai delicato in cui la Turchia sembra aver preso coscienza del suo potenziale energetico e della possibilità di influenzare in modo decisivo gli equilibri regionali (e non solo). Non è un caso che la Turchia abbia da poco dato il via a una massiccia produzione di gas da uno dei suoi giacimenti offshore nel Mar Nero, segnalandosi così come uno degli attori energetici più attivi della regione. Al momento, Ankara è ancora dipendente in larga parte dalle esportazioni di gas provenienti da nazioni come Russia, Iran e Azerbaijan, grazie soprattutto a infrastrutture come il Blue Stream e il Turk Stream, entrambi transitanti dal Mar Nero. Il fermento energetico che si sta osservando nelle acque del Mar Nero, anche grazie alla possibilità di sfruttare i massicci giacimenti di gas scoperti al suo interno, potrebbe dunque rappresentare un chiaro segnale di smarcamento turco dall’eccessiva dipendenza energetica che al momento la lega ad altri Paesi, con i quali è comunque intenzionata a mantenere buone relazioni (come nel caso della Russia, ad esempio).
Per il momento, comunque, la Turchia appare più interessata a raggiungere l’obiettivo della diversificazione, inserendo così altri flussi di risorse naturali nel suo già ricco portafoglio energetico. L’accordo con il Turkmenistan rientra proprio in un disegno strategico di questo genere, e sembra inserirsi in un rapporto che vede già le due nazioni intrattenere un massiccio interscambio commerciale (al momento il volume del commercio bilaterale sarebbe di 2.5 miliardi di dollari). Un accordo con il Turkmenistan rafforzerebbe inoltre la posizione negoziale di Ankara nei confronti di Mosca: una fornitura turkmena diretta verso l’Europa, e transitante dal territorio turco, impedirebbe alla Russia di beneficiare della creazione di un possibile hub energetico congiunto tra Mosca e Ankara per il commercio del gas, proposto da Putin nel 2022 e temuto soprattutto dall’Europa. Da questo ipotizzato hub comune – il cui progetto è tuttora in stallo – il gas transiterebbe anche verso l’Europa, consentendo così a Mosca di mantenere una sorta di posizione clandestina nel mercato energetico europeo. E il Turkmenistan, con le sue ingenti forniture di gas, avrebbe dunque la possibilità di bloccare parzialmente le esportazioni russe verso l’Europa, infrangendo uno dei piani che Vladimir Putin aveva accarezzato fino a due anni fa, e che potrebbe non aver ancora accantonato.
Mentre insegue il sogno di una parziale autonomia energetica, la Turchia si trova nella delicata condizione di doversi bilanciare tra la necessità di diversificare le proprie forniture energetiche – anche grazie ad opportuni accordi bilaterali con partner ben selezionati – e il mantenimento delle buone relazioni con quei Paesi che al momento la stanno rifornendo di gas, come la Russia.
Kazakistan: le nuove vie del petrolio
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In una parte del mondo eternamente afflitta dalla carenza d’acqua, o da vere e proprie crisi di siccità, gli esseri umani si sono sempre dovuti ingegnare per dare vita a imponenti sistemi di canalizzazione che fossero in grado di trasportare l’acqua verso i centri abitati, verso i campi coltivabili, lottando perpetuamente (e spesso invano) contro le infide maree del deserto e le invincibili durezze della steppa. Il destino dell’Asia Centrale, da questo punto di vista, è segnato sin dal primo millennio a.C., quando si trovò il modo di trasportare l’acqua attraverso l’ingegnoso sistema dei qanat, dei canali sotterranei che collegavano gli insediamenti umani alle più vicine fonti acquifere. Non è certamente un caso che un antico detto turkmeno reciti più o meno così: “L’acqua è più preziosa del diamante”.
Al giorno d’oggi, le sorti di una delle più ferventi economie dell’Asia Centrale, il Kazakistan, sono ancora legate a doppio filo al trasporto di una sostanza preziosa e al tempo stesso assolutamente determinante per la sua prosperità, proprio come lo fu l’acqua nei tempi antichi: il petrolio. Nonostante un lieve calo nella crescita del Pil, passata dal 4.1% del 2021 al 3.4% del 2022 (ma con buone possibilità di risalire nel corso del 2023/24), i ricavi derivanti dal settore del gas e del petrolio continuano a incidere in maniera decisiva sull’economia di questa sconfinata nazione di 19 milioni di abitanti, e con ogni probabilità ne segneranno anche le sorti geopolitiche nel medio e lungo periodo, in particolare per quel che riguarda i rapporti di Astana con la Russia di Vladimir Putin.
Dopo l’invasione russa dell’Ucraina, il Kazakistan ha cercato discretamente di modificare le proprie relazioni con la Russia, distanziandosi gradualmente da Mosca attraverso una serie di segnali chiari ed estremamente eloquenti. Uno di questi, forse il più evidente, ha a che fare direttamente con il petrolio: il Kazakistan sta infatti cercando delle vie alternative per le sue esportazioni di greggio, riducendo il più possibile la sua dipendenza petrolifera da Mosca. Al momento, infatti, la maggior parte del petrolio kazako viene esportata attraverso infrastrutture che transitano per il territorio russo, come il CPC (Caspian Pipeline Consortium). Il terminale di questo oleodotto, controllato da compagnie statali russe e kazake, è situato nel porto di Novorossiysk, nella Russia meridionale.
Astana è ferma nel prendere le distanze da Mosca
Nel 2022, l’operatività dell’oleodotto è stata notevolmente ridotta a causa di oscure complicazioni tecniche, culminate in ben quattro interruzioni di servizio verificatesi regolarmente nel corso dello scorso anno. I russi continuano a sostenere che si sia trattato di problemi tecnici, ma molti osservatori sono convinti che Mosca stia utilizzando la leva del petrolio per esercitare una velata pressione su Astana, inducendola a schierarsi dalla sua parte nel confronto con l’Ucraina. Su questo punto, tuttavia, il Kazakistan si è sempre dimostrato sorprendentemente fermo. Il Presidente kazako Tokayev non ha voluto riconoscere l’indipendenza e l’annessione delle repubbliche separatiste del Donbass, Luhansk e Donetsk, e sin dall’inizio del conflitto non ha mai sostenuto apertamente Mosca (negli scorsi mesi, il Presidente kazako ha anche sentito telefonicamente il leader ucraino Volodimir Zelensky). Nonostante l’astensione kazaka alla recente risoluzione delle Nazioni Unite contro la Russia, Astana sta cercando in tutti i modi di prendere le distanze dal suo storico alleato, e non soltanto attraverso il petrolio. Negli scorsi mesi, Astana ha chiuso il suo storico ufficio di rappresentanza commerciale a Mosca, che dal 1992 in avanti aveva aiutato le imprese kazake a introdursi con successo nel mercato russo. Per diversi mesi, il Kazakhstan ha inoltre ignorato la richiesta russa di espellere l’ambasciatore ucraino ad Astana, Pyotr Vrublevsky, i cui commenti sul conflitto avevano contribuito ad infiammare ancora di più le relazioni diplomatiche tra i due Paesi.
Nonostante il chiaro intento di queste operazioni, il Kazakistan è ben consapevole del fatto che la Russia rappresenta tuttora il suo principale partner commerciale, e che buona parte del suo petrolio passa proprio dal territorio russo. Proprio per la forte dipendenza del Kazakistan dalla Russia, specialmente nel settore energetico, l’economia di Astana ha subìto una decisa battuta d’arresto a causa delle sanzioni contro Mosca imposte dall’Occidente, culminate in una forte ondata di inflazione e in una pesante svalutazione del tenge, la valuta kazaka. Non è un caso che il Kazakistan stia cercando in tutti i modi di diversificare le sue vie di esportazione petrolifere: gli effetti delle sanzioni potrebbero infatti continuare a produrre effetti negativi sulla sua economia, dando vita a carenze e a sensibili aumenti dei prezzi del carburante, proprio come quelli che nel gennaio del 2022 causarono dei violenti moti di protesta in tutto il Paese. Il Kazakistan deve inoltre sfruttare il fatto che il suo petrolio, a differenza di quello russo, è totalmente esentato dalle sanzioni internazionali.
Le vie alternative del greggio
La volontà kazaka di diversificare le proprie esportazioni di greggio, del resto, ha già prodotto dei risultati concreti: nel 2022, le esportazioni di petrolio transitanti per vie alternative alla Russia sono aumentate di 638mila tonnellate rispetto all’anno precedente, raggiungendo in totale quasi 2 milioni di tonnellate di materia prima esportata. La maggior parte del petrolio è stata esportata verso la Cina, attraverso l’oleodotto Atasu-Alashankov, mentre la quantità restante è fluita in direzione del Caucaso e dell’Asia Centrale: 214mila tonnellate verso la Georgia, altre 141mila verso le raffinerie azere di Baku e 80mila in direzione dell’Uzbekistan. 109mila tonnellate di greggio sono poi transitate dall’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan, un’infrastruttura destinata a diventare assolutamente cruciale nel trasporto del petrolio tra l’Asia Centrale e il vicino Oriente (si prevede che questa infrastruttura, nei prossimi anni, possa arrivare a trasportare 1.5 milioni di tonnellate annue di greggio). Lo sfruttamento di queste vie di transito ha il solo scopo di aggirare la Russia, ed effettivamente è ciò che sta accadendo, anche se in quantità non esattamente considerevoli. Con lo sviluppo di alcune infrastrutture strategiche, come il porto kazako di Aktau nel Nord del Caspio, e la simultanea espansione della flotta di petrolifere a disposizione di Astana, la quantità di greggio trasportata attraverso oleodotti non collegati alla Russia potrà certamente aumentare. L’appartenenza kazaka all’Organizzazione degli Stati Turchi, inoltre, potrà enormemente facilitare gli scambi petroliferi con Ankara, Baku e le altre nazioni incluse nell’alleanza, come l’Uzbekistan.
Il petrolio degli Urali ribattezzato KEBCO
Recentemente, il Kazakistan ha perfino trovato il modo di cambiare nome al proprio petrolio, dando vita a una straordinaria operazione di rebranding geopolitico: fino allo scorso giugno, il greggio kazako era infatti conosciuto come REBCO (Russian Export Blend Crude Oil), noto anche come il petrolio degli Urali, ma nello scorso giugno le autorità kazake hanno operato un drastico cambiamento. Il petrolio nazionale è stato infatti ribattezzato KEBCO, dove la K è ovviamente legata alla lettera iniziale del nome del Kazakistan. In questo modo, Astana si sarebbe premunita contro tutti i rischi derivanti da una collaborazione troppo stretta con la Russia, tutelando così la tenuta delle sue compagnie petrolifere di fronte ai possibili effetti negativi legati alle sanzioni europee e occidentali.
Lo smarcamento kazako dalla Russia procede dunque in questo modo, con operazioni ambiguamente sospese tra la necessità di autotutelarsi e il desiderio di congelare i propri rapporti con Mosca. Il destino del petrolio kazako resterà comunque legato a doppio filo al già citato CPC, l’oleodotto che termina nel porto russo di Novorossiysk, dal quale transitano ancora i 4/5 delle esportazioni di greggio del Kazakistan. Per raggiungere i suoi obiettivi di esportazione, fissati a 71 milioni di tonnellate per il 2023, il Kazakistan avrà dunque ancora bisogno della Russia. Non deve sorprendere infatti che la sezione kazaka del CPC sia stata recentemente sottoposta a interventi di potenziamento infrastrutturale, che ne hanno aumentato la capacità di una ventina di tonnellate.
Migliorare le infrastrutture e realizzare nuovi oleodotti
Le sorti petrolifere di Astana sono anche irrimediabilmente legate alle capacità delle sue infrastrutture strategiche: se vorrà davvero ridurre la propria dipendenza dalla Russia, anche attraverso l’utilizzo di oleodotti alternativi per le sue esportazioni, il Kazakistan dovrà puntare innanzitutto sullo sviluppo di infrastrutture adeguate, come il porto di Kuryk (nella sezione orientale del Caspio) e il terminale di Aktau, e probabilmente anche sulla realizzazione di un nuovo oleodotto in grado di trasportare il greggio attraverso il Caspio. Un progetto di questo genere, in ogni caso, richiederebbe diversi anni per il suo completamento, e la Russia (grazie al suo status di stato rivierasco) porrà sicuramente un veto a qualsiasi iniziativa petrolifera non perfettamente allineata ai suoi interessi.
Da una parte, il Kazakistan è dunque impegnato nella ricerca di oleodotti e infrastrutture che non siano in alcun modo legati alla Russia e ai suoi snodi petroliferi. Dall’altra, è ben consapevole del fatto che una collaborazione con la Russia, almeno per il momento, è quasi inevitabile. Al netto della cooperazione petrolifera tra i due Paesi, in Kazakistan esistono tuttora più di 8mila compagnie con partecipazioni russe e circa 3.500 joint ventures, e Astana rappresenta un importante membro di alcune organizzazioni sovranazionali come l’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva, da molti ritenuta una sorta di risposta russa alla Nato.
Nonostante l’evidente significato di certi segnali, la cooperazione tra Mosca e Astana non sembra in alcun modo destinata a interrompersi, perlomeno nel breve periodo: a gennaio le due nazioni hanno raggiunto un accordo per lo sviluppo di un impianto per la lavorazione del gas kazako a Orenburg, in una località della Russia meridionale non lontana dal confine kazako, mentre a febbraio è stato stipulato un accordo tra la compagnia statale kazaka KazMunayGas e la russa Lukoil per la produzione congiunta di petrolio nella porzione del Caspio appartenente al Kazakistan. Poter contare su un alleato come Astana è fondamentale anche per la Russia, che spera di utilizzare le infrastrutture energetiche della repubblica centrasiatica per aprirsi una strada nel mercato dell’Asia. Forse è anche per questo che lo scorso novembre, in una mossa non del tutto inaspettata, il presidente Vladimir Putin aveva avanzato la proposta di creare un’unione tripartita del gas con Kazakistan e Uzbekistan, un progetto che Tashkent e Astana hanno accolto con estrema freddezza.
Per il Kazakistan, la diversificazione petrolifera potrebbe ben presto diventare un obiettivo vitale.
Tra i partner alternativi c’è anche l’Europa
Un altro possibile sbocco per il petrolio kazako potrebbe essere naturalmente rappresentato dall’Europa, anch’essa fortemente interessata a distaccarsi gradualmente dalle forniture russe. Con un commento apparso eccessivamente ottimistico, il Ministro dell’Energia del Kazakistan ha recentemente espresso la sua convinzione che la sua nazione potrebbe trovare 6 milioni di tonnellate di petrolio da inviare ogni anno in Europa (a febbraio, il Kazakistan ha inviato 300mila tonnellate di petrolio in Germania attraverso il gasdotto Druzhba, che passa dal territorio russo e dalla Polonia).
A qualsiasi osservatore esterno, gli intenti del Kazakistan sembrerebbero chiari, perfino cristallini. Astana sta cercando di distanziarsi sempre più da un partner problematico come Mosca, rimanendo tuttavia ben consapevole che dovrà pur conservare qualche forma di cooperazione con il suo principale partner commerciale. Nel frattempo, attraverso la crescente cooperazione con gli stati Turchi e la Cina, con gli Stati Uniti e l’Unione Europea, alla quale potrà forse inviare sempre più petrolio, il Kazakistan sta opportunamente cercando di costruirsi una rete di alleanze e di partner alternativi, modificando così il suo status internazionale. Da un importante membro dell’ex blocco sovietico, Astana è in pole position per diventare un attore di primo piano nell’alleanza sovraregionale degli Stati di lingua turca, con buone probabilità di trasformarsi nel maggiore player geopolitico dell’Asia Centrale.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di aprile/giugno di eastwest
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La tigre asiatica che non t’aspetti
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Le pulsioni dell’innovazione hanno attraversato le terre dell’Uzbekistan in ogni epoca storica, anche quando il nome di quelle regioni era completamente diverso da quello attuale. Tra il decimo e l’undicesimo secolo, quando la città di Bukhara rappresentava già uno degli astri più luminosi nel firmamento culturale della civiltà islamica, le sue strade erano percorse da grandi innovatori del calibro di Avicenna, uno dei massimi scienziati e filosofi dell’epoca, a cui si devono alcuni dei trattati più importanti nel campo della medicina. Non è certamente un caso che città carovaniere come Bukhara e Samarcanda, snodi cruciali lungo la via della seta, siano state celebrate sin dall’antichità per il loro splendore, per la ricercatezza delle loro architetture, per il vino e i giardini lussureggianti, ma anche per i fermenti intellettuali e culturali che le hanno sempre animate, e che le hanno sempre spinte un passo avanti rispetto alla maggior parte delle altre città centroasiatiche, fino all’arrivo dell’ondata devastatrice portata da Gengis Khan e dalle orde dei mongoli.
Al giorno d’oggi, a più di trent’anni dall’indipendenza dall’Unione Sovietica, l’Uzbekistan è una tigre asiatica pronta a scattare. Con l’avvento del presidente Shavkat Mirziyoyev, che dal 2016 ha sostituito Islam Karimov alla guida del Paese, l’Uzbekistan è entrato con grande rapidità in una nuova fase della sua esistenza, caratterizzata soprattutto dall’avvio di grandi riforme, da una marcata enfasi sul progresso tecnologico e sul ruolo dell’innovazione, e da un’apertura economica senza precedenti verso l’esterno, con la precisa volontà di attirare investitori stranieri e nuovi flussi di capitale in grado di finanziare i numerosi progetti tecnologici e infrastrutturali che costituiranno la sua nuova spina dorsale. Anche se il 35% della popolazione è ancora impiegato nel settore agricolo, la presidenza Mirziyoyev ha già manifestato la chiara volontà di puntare forte sull’innovazione, sulla digitalizzazione e sul supporto della tecnologia in tutti i settori, con l’obiettivo di inaugurare una nuova fase di crescita economica che accresca la reputazione internazionale della nazione e che la trasformi in una vera e propria guida per gli altri Paesi dell’Asia Centrale, di cui rappresenta senz’altro l’economia più solida e resiliente.
Per raggiungere questi scopi, Tashkent intende promuovere fermamente anche la cooperazione interregionale, in particolare con tutti quei Paesi che formano l’organizzazione degli stati turchi, di cui il leader uzbeko Shavkat Mirziyoyev è attualmente il presidente. Nel corso del primo meeting dell’organizzazione, tenutosi proprio in Uzbekistan lo scorso novembre, gli stati membri (ossia Turchia, Kazakhstan, Kyrgyzstan, Azerbaigian, Turchia e Uzbekistan, con Ungheria e Turkmenistan nel ruolo di osservatori) hanno ribadito la loro ferma volontà di promuovere la cooperazione reciproca e l’implementazione di alcuni progetti innovativi, specialmente nel settore dei trasporti, con lo scopo di aumentare la connettività internazionale tra i membri e di aprire nuove vie commerciali.
Per una nazione come l’Uzbekistan, completamente priva di sbocchi sul mare, investire sulla qualità e sull’efficienza dei trasporti rappresenta un obiettivo della massima importanza. Nel corso degli ultimi cinque anni, nonostante i terribili disagi legati al Covid-19, l’Uzbekistan è riuscito a incrementare di 1.4 miliardi di tonnellate il volume dei propri trasporti, cresciuti nel complesso del 25%. Gli obiettivi per il futuro sono estremamente chiari: Tashkent intende sviluppare ulteriormente il trasporto multimodale, promuovere una maggior interazione tra i diversi tipi di trasporto e sfruttare al massimo la digitalizzazione, utilizzandola soprattutto per facilitare le procedure di transito e per ridurre i costi dei trasporti (e anche i tempi di consegna). L’Uzbekistan, da questo punto di vista, è già al lavoro per implementare una tecnologia satellitare che permetta di monitorare i flussi di trasporto, e al varco internazionale di Keles, nella parte orientale del Paese, si sta già impiegando l’intelligenza artificiale per determinare il peso dei vagoni che superano il confine con il Kazakhstan, senza costringerli a fermarsi.
La pulsione dell’innovazione, al momento, sta innervando il settore dei trasporti uzbeki nella sua interezza, rendendosi quasi percepibile ad occhio nudo. L’Uzbekistan è stato il primo Paese in Asia Centrale a introdurre il Tir-Epd, una tecnologia per il trasporto su gomma che consente la presentazione di documenti elettronici alle autorità doganali, favorendo così lo snellimento e la sostanziale accelerazione delle procedure di transito. Con un sistema di trasporti alimentato dalla digitalizzazione, l’Uzbekistan – insieme alle altre nazioni turche dell’Asia Centrale – potrebbe diventare un ponte strategico di collegamento con la sezione meridionale dell’Asia, con il Pakistan e con l’India, rafforzando anche le capacità dei corridoi transcontinentali che collegano la Cina all’Europa, e viceversa.
Per raggiungere i suoi obiettivi strategici, l’Uzbekistan ha dunque a disposizione due leve principali: la prima è quella legata all’innovazione e alla digital economy, che nei piani di Tashkent dovrà diventare il fondamentale motore economico della nazione (non a caso, uno dei primi provvedimenti del nuovo presidente Mirziyoyev, nel 2017, fu l’istituzione del Ministero per lo Sviluppo Innovativo, che prima non esisteva). La seconda è legata alla cooperazione regionale e internazionale, in particolare grazie ai sistemi di alleanze di cui Tashkent è già un attore di spicco (come l’organizzazione delle nazioni turche), ma anche con un’intelligente gestione delle proprie relazioni internazionali con Cina, Russia e Unione Europea.
“Nel 2022 l’Uzbekistan è passato dall’86° all’82° posto dell’Indice globale dell’innovazione e, secondo gli esperti internazionali, è salito sul podio dello sviluppo innovativo in Asia centrale e meridionale insieme a India e Iran. È inoltre degno di nota il fatto che il ritmo di sviluppo dell’ecosistema dell’innovazione in Uzbekistan si sia rivelato superiore alle aspettative – spiega Khikmatilla Ubaydullaev, consulente capo del dipartimento per le comunicazioni dell’amministrazione del Presidente dell’Uzbekistan − Secondo le Nazioni Unite, una cooperazione efficace tra i Paesi dell’Asia centrale potrebbe raddoppiare il Pil regionale in dieci anni”.
Le caratteristiche geografiche dell’Uzbekistan, insieme alla sua chiara volontà di affermarsi come hub regionale dei trasporti, hanno spinto Tashkent tra le braccia della Cina di Xi Jinping, favorendo così l’adesione della nazione centroasiatica al più grande progetto infrastrutturale che la storia abbia mai conosciuto: la Belt and Road Initiative. Per l’Uzbekistan, essere parte integrante delle nuove vie della seta non significa soltanto rafforzare il proprio sistema dei trasporti, rendendolo più moderno, innovativo ed efficiente, ma rappresenta anche un’occasione unica per accedere ai mercati dell’Asia meridionale, attraversando corridoi logistici in grado di aggirare l’imprevedibile Afghanistan. Uno dei progetti più interessanti, da questo punto di vista, è senz’altro la ferrovia China-Kyrgyzstan-Uzbekistan, che darà vita a un corridoio multimodale di 4380 km in grado di connettere Tashkent alla città cinese di Lanzhou, passando per il territorio del Kyrgyzstan. Per il prossimo giugno è prevista la realizzazione di uno studio di fattibilità del progetto, che dovrebbe così avviarsi verso una sua piena e definitiva implementazione. La collaborazione con l’Uzbekistan è particolarmente vantaggiosa anche per la Cina: non potendo sfruttare al massimo i corridoi di collegamento settentrionali, a causa delle sanzioni imposte alla Russia dalla comunità internazionale, l’attenzione di Pechino si sta concentrando sempre di più sull’Asia Centrale e sul potenziamento della sua rete infrastrutturale, che per Pechino rappresenta la prima tappa in direzione dei mercati europei.
La spinta innovativa e la sostanziale tenuta dell’economia uzbeka durante il Covid-19, insieme alla chiara consapevolezza dei propri obiettivi, hanno permesso alla nazione centroasiatica di scegliere con cura i propri interlocutori, consentendole in alcuni casi anche di opporre dei netti rifiuti alle proposte di alcuni storici partner. Pur disponendo di una quantità di gas appena sufficiente al proprio fabbisogno nazionale, e ad onta delle crisi energetiche che interessano gran parte del Paese, l’Uzbekistan ha recentemente rifiutato di unirsi a una triplice alleanza sul gas insieme alla Russia e al Kazakhstan, ribadendo che le eventuali partnership siglate con Stati stranieri saranno basate soltanto sui reciproci vantaggi commerciali, e non sull’accettazione di determinate condizioni politiche. Negli scorsi mesi, commentando il conflitto russo-ucraino, il ministro degli esteri uzbeko aveva ribadito che Tashkent riconosce l’indipendenza, la sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina.
Le ragioni di questo atteggiamento così fiducioso, da parte dell’Uzbekistan, potrebbero affondare anche nella precisa consapevolezza del proprio potenziale innovativo, anche dal punto di vista dell’energia. Dopo l’inaugurazione di un importante impianto solare termico, avvenuta nel 2021, l’Uzbekistan ha formalmente avviato la realizzazione del parco eolico di Zarafshan, nella regione centrale di Navoyi, che produrrà energia elettrica per ben 500mila abitazioni e renderà possibile il risparmio di un milione di tonnellate di diossido di carbonio ogni anno. Questi progetti sono pienamente in linea con gli obiettivi dell’Uzbekistan, che entro il 2026 intende sfruttare le energie rinnovabili per produrre un quarto della sua elettricità (la maggior parte attraverso l’energia solare, il resto con i parchi eolici). Questa ondata di rinnovamento nel settore dell’energia, per l’Uzbekistan, renderà possibile anche il definitivo superamento della tecnologia energetica ancora in uso in alcune parti del Paese, basata in larga parte su centrali termiche obsolete e su un sistema sostanzialmente inefficiente e foriero di gravi disagi per la popolazione.
L’Uzbekistan sta attraversando una fase cruciale della sua esistenza. Tutto il suo potenziale economico, che per anni è rimasto confinato nel più grande mercato sottosviluppato dell’Asia Centrale, sta finalmente iniziando ad emergere, anche grazie alle politiche di rinnovamento avviate dall’amministrazione Mirziyoyev e alla sua precisa volontà di puntare sull’innovazione, vista come il principale volano per la crescita, e sulla cooperazione reciproca con le nazioni sorelle dell’Asia Centrale. La musica sta cambiando in fretta: in un solo anno, le compagnie uzbeke che hanno superato il milione di dollari di fatturato sono passate da 5mila a 26mila. Altre aziende continuano ad arrivare, ingolosite dai fermenti innovativi e dal continuo sviluppo del settore tecnologico di una nazione che, per il 50%, è composta da persone con meno di trent’anni d’età. Continuando a puntare sulla digitalizzazione, e bilanciando sapientemente le proprie relazioni con Cina, Russia e Occidente, il presidente Mirziyyev ha la preziosa opportunità di diventare il principale alfiere del rinnovamento, il condottiero della nazione in una delle fasi più delicate della sua storia recente. Con ogni probabilità, l’Uzbekistan non riuscirà mai a eguagliare lo splendore del suo periodo d’oro, vissuto in epoca samanide nelle città di Bukhara e Samarcanda, ma potrà comunque provare ad avvicinarvisi. La scintilla dei dell’innovazione, in un futuro non troppo lontano, potrebbe illuminare percorsi e sentieri che fino ad allora erano rimasti completamente celati, aprendo così un ventaglio di succose possibilità.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/marzo di eastwest
Sri Lanka: in bilico tra Cina, India e Stati Uniti
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“Negli ultimi sedici anni, la gigantesca nave dei BRICS ha navigato tenacemente in avanti contro torrenti e tempeste impetuose. Cavalcando il vento e fendendo le onde, ha intrapreso un retto percorso di sostegno reciproco e di cooperazione vantaggiosa per tutti”. Non sappiamo se qualche osservatore abbia colto il carattere profetico di queste parole, pronunciate dal presidente cinese Xi Jinping lo scorso giugno durante l’ultimo summit dei BRICS, ma le evidenze della cronaca sono sotto gli occhi di tutti: il 16 agosto, nonostante le crescenti perplessità sollevate dall’India, una nave di ricerca cinese è stata accolta nel porto di Hambantota, nello Sri Lanka meridionale, accrescendo le tensioni già esistenti tra Cina e India e costringendo lo Sri Lanka, già oppresso da una crisi economica senza precedenti, a grandi sforzi e acrobazie diplomatiche per cercare di non deludere eccessivamente i due giganti regionali, ai quali sembra essere più vincolato che mai.
Sri Lanka, Cina, India, Usa
La Yuang Wang 5, partita dal porto cinese di Jiangyin, è un’imbarcazione dotata di sistemi all’avanguardia per la ricerca scientifica e per il monitoraggio dei satelliti, ma secondo Pechino sarebbe stata inviata nel porto di Hambantota soltanto per rifornirsi di carburante. Qualche giorno prima del suo arrivo, lo Sri Lanka aveva formalmente richiesto alla Cina di rimandarne l’attracco, forse a causa delle insistenti pressioni ricevute da New Delhi e dagli Stati Uniti, e alla fine era riuscita a ritardarne l’approdo di cinque giorni. L’India teme infatti che Pechino, attraverso questa sofisticata imbarcazione, possa raccogliere preziose informazioni sulle installazioni militari indiane dislocate lungo la sua costa meridionale, e che i suoi sistemi di osservazione possano monitorare le attività dei porti indiani negli stati del Kerala e del Tamil Nadu. Per questi motivi, ma anche per calmare le apprensioni dell’India, lo Sri Lanka avrebbe chiesto alla nave cinese di lasciare il porto subito dopo aver terminato le operazioni di rifornimento, senza avviare alcun genere di ricerca. Le relazioni tra Pechino e New Delhi sono drammaticamente peggiorate due anni fa, in seguito agli scontri a fuoco lungo il confine sino-indiano che costarono la vita a quattro soldati cinesi e a venti militari indiani. L’arrivo della Yuang Wang 5 nel porto di Hambantota, alle 8.30 di martedì 16 agosto, rappresenta forse il momento culminante dell’ennesima prova di forza vinta da Pechino, che ha compiuto un ulteriore passo in avanti nel rafforzamento della sua influenza in quell’area.
Crisi economica e trattative con il Fmi
Le vicissitudini della Yuang Wang 5 simboleggiano alla perfezione l’estrema delicatezza della situazione dello Sri Lanka, una piccola isola di 22 milioni di abitanti che deve continuamente misurarsi con i mutevoli umori di due potenze come Pechino e New Delhi, e che da qualche mese è alle prese con la peggiore crisi economica della sua storia. Lo scorso luglio, non essendo più in grado di ripagare il suo debito estero – che ammonta a circa 51 miliardi di dollari − lo Sri Lanka ha dichiarato bancarotta. Nel clima di generale tensione che ha scosso il Paese, e che ha portato a vibranti proteste di massa, l’ex presidente Gotabaya Rajapaksa si è dimesso, lasciando le sorti dello Stato a Ranil Wickremesinghe. L’impatto del Covid-19, la spesa pubblica estremamente elevata e la crisi di un settore vitale come il turismo hanno alimentato una crisi economica che condizionerà il destino dell’isola ancora a lungo, e che ha già costretto Colombo ad avviare trattative con il Fondo Monetario Internazionale per un intervento d’emergenza. Per sostenere lo Sri Lanka durante la crisi, l’India ha già inviato aiuti per circa 4 miliardi di dollari, aprendo anche una linea di credito ad hoc per l’acquisto di alcuni beni primari. Il sostegno cinese è stato invece molto più contenuto: Pechino ha inviato unicamente 75 milioni di dollari in aiuti umanitari, con una vaga promessa di supportare le richieste di Colombo durante le negoziazioni con il Fondo Monetario Internazionale.
La Nuova Via della Seta e il debito estero
La posizione dello Sri Lanka appare particolarmente delicata nei confronti della Cina, a cui è legato il 10% del suo debito estero, e alla quale deve circa 6.5 miliardi di dollari. Pechino ha infatti coinvolto lo Sri Lanka in alcune iniziative legate alla Belt and Road Initiative, il grande progetto cinese per la costruzione di infrastrutture terrestri, aeree e marittime lungo le antiche vie della seta. Sin dal 2009, l’anno in cui ebbe fine il conflitto etnico tra il governo dello Sri Lanka e i separatisti Tamil, la Cina ha concesso a Colombo una grande quantità di prestiti per la costruzione di aeroporti, porti e autostrade, ma alcuni di questi progetti non hanno ancora prodotto nessun risultato concreto. Uno di questi è senz’altro l’aeroporto di Mattala Rajapaksa, aperto nel 2013 e già battezzato “l’aeroporto più vuoto del mondo” a causa del suo scarsissimo utilizzo. Il fatto che sia stato costruito nel bel mezzo di un sentiero battuto dagli elefanti, che lo utilizzerebbero per le loro costanti migrazioni stagionali, non ha certo giovato al successo dell’iniziativa e rischia addirittura di comprometterla definitivamente.
Il boom infrastrutturale
Alcuni progetti sono stati temporaneamente abbandonati a causa della crisi economica: uno di questi è quello legato al collegamento stradale Central Expressway, che è stato completato soltanto al 32%. 500 lavoratori cinesi sono già tornati in patria, mentre 2mila operai locali hanno perso il lavoro. Anche il porto in cui è attraccata la Yuang Wang 5 è praticamente in mano cinese: nel 2017, Colombo cedette una quota del 70% alla società statale cinese China Merchants Group, concedendo a Pechino una locazione di 99 anni e il controllo pressoché totale dell’operatività portuale. Anche per questi motivi, nonostante le presunte pressioni ricevute da New Delhi, lo Sri Lanka non avrebbe mai potuto realmente opporsi all’arrivo della nave cinese ad Hambantota. Il suo arrivo, da questo punto di vista, era quasi inevitabile. Il coinvolgimento di Colombo nella Belt and Road Initiative ha sicuramente portato a un boom infrastrutturale, ma ha anche pesantemente indebitato la piccola nazione dell’Oceano indiano, accrescendo sensibilmente il suo debito estero.
India e Stati Uniti
Lo Sri Lanka non può nemmeno permettersi di deludere l’India, sulla quale continuerà a contare per uscire rapidamente dalla crisi. Una cooperazione più stretta con New Delhi – specialmente nella risoluzione della crisi economica – avvicinerebbe lo Sri Lanka al blocco di alleanze dell’Indo-Pacifico di cui fanno parte anche gli Stati Uniti, e che da qualche anno (insieme ad Australia e Giappone) sta insistentemente cercando di contenere il diffondersi dell’influenza cinese nel Sud-est asiatico e nelle aree limitrofe. Con ogni probabilità il coinvolgimento di Washington nella crisi economica dello Sri Lanka diventerà più massiccio quando si sarà ottenuto il parere del Fondo Monetario Internazionale sul salvataggio d’emergenza da concedere a Colombo. Per il momento, gli Stati Uniti si sono limitati a inviare circa 12 milioni di dollari di aiuti umanitari.
La questione Taiwan
Non è un caso che la Cina abbia deciso di inviare la Yuang Wang 5 in un momento così delicato per lo Sri Lanka: Pechino ha dimostrato che il suo controllo su Colombo è ancora ben saldo, infliggendo anche un duro colpo alle speranze dell’India di recuperare un po’ di influenza sulla piccola isola dopo le dimissioni dell’ex presidente Rajapaksa (che era universalmente considerato un amico della Cina). Il nuovo presidente Wickremesinghe, peraltro, ha già aderito alla One China Policy, ossia il riconoscimento dell’esistenza di un’unica Cina (comprendente anche Taiwan), lasciando intuire che le sorti del Paese saranno ancora inestricabilmente legate a Pechino. Nel delicato scacchiere geopolitico in cui si trova invischiata, Colombo dovrà accontentarsi di poter sempre scegliere il male minore, evitando di pestare i piedi a una delle due superpotenze a cui è legato il suo destino.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
La risposta anglo-indiana alla Via della Seta cinese
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“In battaglia, non esistono più di due metodi di attacco: quello diretto e quello indiretto. Eppure, dalla combinazione di questi due può nascere un’infinita serie di manovre”. È uno degli innumerevoli aforismi attribuiti a Sun Tzu, generale cinese dell’antichità e probabile autore del celebre trattato L’arte della Guerra, ed è anche uno dei principi fondamentali che sembrano guidare le azioni dell’Occidente nel confronto diretto con la Cina, sia sul piano economico – con un florilegio di proposte infrastrutturali che sembra non avere limiti −, sia su quello climatico-ambientale, un terreno che sembra essere già stato selezionato dalle potenze occidentali per lanciare il loro ennesimo, indiretto tentativo di arginare l’ascesa di Pechino a livello globale.
La partnership India-Uk
Uno degli ultimi tasselli di questa grandiosa strategia occidentale è stato posto lo scorso novembre, in occasione della conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, meglio nota come Cop26. Oltre ad importanti aperture da parte di India, Cina ed Arabia Saudita, che hanno garantito il loro impegno per una progressiva (ma non rapida) riduzione delle emissioni, la convention di Glasgow si è segnalata anche per il lancio dell’alleanza “Green Grids Initiative”, una partnership tra India e Regno Unito nell’ambito del progetto “One Sun, One World, One Grid” dell’International Solar Alliance. L’iniziativa − di cui il Primo Ministro indiano Narendra Modi aveva iniziato a parlare nel 2018 − si pone l’obiettivo di realizzare una rete infrastrutturale su scala globale che possa accelerare la transizione verso l’energia solare, con la promessa di assicurare benefici e risparmi energetici a tutti i Paesi partner.
L’obiettivo finale di questa iniziativa consisterebbe infatti nello sviluppo di una griglia globale capace di trasmettere energia pulita, ovunque e in qualsiasi momento, permettendo così alle nazioni partner di raggiungere più facilmente gli obiettivi dell’accordo di Parigi e di attirare nuovi investimenti incentrati sulla sostenibilità, creando nel contempo anche milioni di posti di lavoro.
Cosa propone il progetto
Il progetto dovrebbe svilupparsi in tre fasi distinte: nella prima, le infrastrutture solari indiane verrebbero collegate a quelle del Medio Oriente e a quelle del Sud-est asiatico, con l’obiettivo di dare vita a una prima infrastruttura comune tra nazioni appartenenti ad aree geografiche diverse. La rete, una volta operativa, verrebbe utilizzata per condividere l’energia solare a seconda degli specifici bisogni locali. La seconda fase coinvolge l’Africa – dove Pechino, soltanto nel 2020, ha investito più di 43 miliardi di dollari −, attraverso il progressivo collegamento delle reti solari al bacino di energie rinnovabili presenti nel continente africano. La terza fase, quella finale, ha come obiettivo l’interconnessione globale, attraverso un’unica, gigantesca griglia di infrastrutture solari capaci di sprigionare energia pulita. Al momento, le nazioni che avrebbero manifestato il loro aperto supporto all’iniziativa sarebbero più di 80.
Indipendentemente dagli obiettivi dichiarati, questo progetto sembra chiaramente rivolto contro la Cina e la sua Belt and Road Initiative, la più grande iniziativa infrastrutturale di tutti i tempi. I rimandi alla BRI sono evidenti anche nel naming del progetto: “One Sun, One World, One Grid” racchiude in sé un chiaro richiamo a “One Belt, One Road”, uno dei tanti nomi con cui si è soliti riferirsi alla BRI.
Questa iniziativa di carattere marcatamente ambientale, resa possibile dagli sforzi congiunti dell’India e di alcune potenze europee, sembra segnare in maniera evidente un sostanziale mutamento dell’approccio occidentale nei riguardi della Cina: da un confronto economico, sostanzialmente infrastrutturale, si è passati infatti a una sfida indiretta nel campo dell’ambiente e dei cambiamenti climatici, un terreno sul quale l’Occidente sembra sentirsi in qualche modo avvantaggiato. Essendosi reso conto di non poter competere con Pechino sul piano economico e operativo – i Paesi membri della Belt and Road Initiative, lanciata nel 2013, hanno già accordi infrastrutturali con la Cina per circa 900 miliardi di euro −, l’Occidente sembra aver così deciso di spostare il confronto sul piano climatico-ambientale, augurandosi di poter recuperare terreno nei confronti di Pechino anche grazie alla risonanza mediatica della sostenibilità e di tutti i temi ad essa connessi.
Le tensioni tra India e Cina
Per l’India, questa nuova alleanza avrà evidenti risvolti geopolitici e, con ogni probabilità, è destinata a rendere ancora più complesse le instabili relazioni con Pechino. Da una parte, infatti, la tensione tra Cina e India è alle stelle per la questione relativa al confine tra i due Paesi, dove negli scorsi mesi un confronto a fuoco tra militari ha provocato una ventina di morti dalla parte indiana, ma anche per il China-Pakistan Economic Corridor, uno dei progetti di punta della Belt and Road che attraversa anche il territorio del Kashmir, parzialmente amministrato da India e Pakistan e rivendicato da entrambe. Buona parte dell’ostilità indiana nei confronti della BRI è infatti dovuta al crescente aumento dell’influenza cinese in Pakistan, l’eterno rivale di New Delhi.
Ma c’è anche un altro lato della medaglia: India e Cina sono membri del gruppo di lavoro dei Brics, e l’India è stata recentemente inclusa nella Shanghai Cooperation Organization, un’organizzazione specializzata nella cooperazione in materia di sicurezza e anti-terrorismo. New Delhi e Pechino, durante la Cop26 di Glasgow, hanno inoltre espresso due posizioni sostanzialmente simili, lasciando intendere una possibile comunità d’intenti che potrebbe estendersi anche al di là delle questioni climatiche. Nel corso degli anni, tuttavia, l’aumento della presenza cinese nell’Oceano Indiano ha spinto progressivamente l’India verso il blocco anti-cinese del QUAD, o Quadrilateral Security Dialogue, un’alleanza tra Giappone, Stati Uniti, India e Australia che persegue l’obiettivo di un Indo-Pacifico libero, aperto e sicuro. Ma il gruppo è stato formato soprattutto per contenere l’aggressività cinese, specialmente quella esercitata per vie marittime.
Dopo il lancio della Green Grids Initiative, l’ambivalenza della politica estera indiana nei confronti di Pechino è senz’altro destinata ad accentuarsi, oscillando tra una competizione serrata sul piano militare ed economico (ed esacerbata dai recenti scontri al confine) e una possibile collaborazione finalizzata alla riaffermazione del ruolo regionale delle due potenze.
Le alternative occidentali alla Via della Seta
L’Occidente aveva già tentato di opporsi alla Belt and Road Initiative attraverso il progetto infrastrutturale Build Back Better lanciato dal Presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, in occasione dell’ultimo G7 dello scorso giugno, ma anche con il maxi-progetto Global Gateway della Commissione europea, un ambizioso piano per la realizzazione di infrastrutture nei Paesi in via di sviluppo. Il progetto – presentato chiaramente dalla presidente della Commissione Ue, Ursula von Der Leyen, come un’alternativa alla Belt and Road – potrà contare su risorse finanziarie per 300 miliardi di euro, e ruoterà attorno ai concetti di eticità e di trasparenza con cui l’Unione europea intende differenziarsi dalla Cina.
A differenza dei cinesi, abituati a prestare denaro ai partner della BRI, la Global Gateway opererebbe attraverso finanziamenti, e sarebbe sostenuta da “standard democratici, sociali e ambientali”. Più che una corsa alle infrastrutture globali – un problema in cui l’effettiva cooperazione globale sarebbe auspicabile −, quella suscitata da Ursula von Der Leyen ha tutte le sembianze di una guerra di valori, in nome di uno sviluppo infrastrutturale etico e sostenibile. Con la Green Grids Initiative, si è passati dalle infrastrutture fisiche a quelle solari, ma l’obiettivo di fondo rimane il medesimo: mettere i bastoni tra le ruote a un Dragone che non è più dormiente, ma che anzi sta avanzando alacremente, con una velocità non più paragonabile a quella dei tempi migliori, ma sempre costante.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
Giappone, le sfide del neo premier Kishida
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Quando i deputati giapponesi si sono alzati in piedi esclamando “Banzai”, dopo la conferma dello scioglimento della Camera Bassa del Parlamento e l’ufficializzazione della data per le elezioni generali, lo scorso 14 ottobre, il destino politico del Giappone, nel breve e medio periodo, appariva già segnato. Le sorti della terza economia mondiale, guidata dal nuovo Primo Ministro Fumio Kishida, apparivano già ben delineate ancora prima del voto con cui si dovevano scegliere i 456 rappresentanti dell’influente Camera Bassa del Parlamento, e i temi fondamentali della campagna elettorale-flash – durata appena due settimane, la più breve dal dopoguerra – rappresenteranno senza dubbio anche le fondamenta su cui costruire il Giappone dell’immediato futuro, in un Paese alle prese con le delicate conseguenze economiche dell’emergenza sanitaria e con un ancor più imprevedibile confronto con la Cina, sempre sospeso sul precario equilibrio delle tensioni geopolitiche.
Il 64enne Fumio Kishida, nuovo Primo Ministro e anima del LDP, il partito conservatore di maggioranza, è salito al potere il 29 settembre dopo le dimissioni di Yoshihide Suga, travolto da un’ondata di polemiche interne per la sua gestione della pandemia e per la scelta di confermare le Olimpiadi di Tokyo, svoltesi in un imbarazzato clima di generale contrarietà. Il 14 ottobre, Kishida ha sciolto la Camera bassa del Parlamento, anticipando il voto di diverse settimane e sperando di capitalizzare il consenso ottenuto tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre, quando aveva conquistato la guida del partito di maggioranza, sfruttando anche la recente riduzione dei casi di positività al Covid-19 registrata in tutto il Paese. Nonostante un leggero calo di consensi, con cui dovrà misurarsi sin da subito, al partito di maggioranza di Kishida è affidato il compito di rilanciare l’economia nipponica nel periodo post-pandemico, partendo da un aumento del Pil che nel secondo trimestre del 2021 è stato dello 0.5%.
In una intervista al Financial Times rilasciata a metà ottobre, Kishida ha apertamente criticato l’Abenomics, la politica economica avviata dall’ex primo ministro Shinzo Abe durante i suoi mandati, affermando di voler aumentare i redditi di una fetta di popolazione molto più ampia rispetto a quella precedentemente interessata dagli interventi governativi, al fine di rilanciare i consumi in tutto il Paese. Kishida l’ha dichiarato senza mezzi termini: il suo obiettivo è dare vita a una nuova forma di capitalismo, tagliando nettamente con il passato. Il nuovo premier ha promesso anche più incentivi fiscali alle imprese, con conseguente aumento di salario per i dipendenti, spingendo per un’equilibrata mescolanza tra l’azione del pubblico e quella del privato che sostenga un’economia autosufficiente.
La riprogettazione del sistema fiscale giapponese, secondo Kishida, deve avere l’obiettivo di sostenere la classe media, rafforzandola strutturalmente e riducendo la distanza che la separa dalle classi più abbienti. Ma per il nuovo primo ministro, al momento, la priorità assoluta rimane la lotta al Covid-19: nel suo pacchetto di incentivi economici da 290 miliardi di dollari, a cui ha alluso ripetutamente nelle settimane precedenti al voto, troverà spazio anche un massiccio sostegno finanziario per quelle aziende giapponesi specializzate nello sviluppo di nuovi vaccini anti-Covid.
Uno dei punti più interessanti della strategia di Kishida è quello legato alle spese militari: anche prima della campagna elettorale, il nuovo premier aveva infatti confermato l’obiettivo di raddoppiarle, dedicandogli oltre il 2% del Pil nazionale. Per Kishida, ex Ministro degli Esteri, questa mossa rappresenta un chiaro messaggio a Cina e Corea del Nord, che costituiscono le due principali minacce per la sicurezza nipponica. Sin dal suo insediamento, avvenuto il 4 ottobre, Kishida si è dimostrato tutt’altro che esitante nell’affrontare i temi di politica estera, nonostante la sua fama di politico pacato: il nuovo primo ministro ha parlato di temi scottanti come Taiwan, le cui sorti ritiene inestricabilmente legate a quelle del Giappone, ma anche della Cina e del suo preoccupante espansionismo militare, con un chiaro riferimento alla situazione legata alle isole Senkaku/Diaoyu. Le due isole del mar Cinese Orientale sono amministrate dal Giappone e rivendicate dalla Cina, che infiamma ancora di più la contesa inviando regolarmente delle navi della guardia costiera a poche miglia dai territori in questione. Su questo dossier, Tokyo ha ricevuto l’appoggio formale anche degli Stati Uniti di Joe Biden, pronti a intervenire in difesa del Giappone in caso di attacco armato.
L’aumento delle spese militari – che dovrebbe comprendere anche un potenziamento delle capacità missilistiche del Giappone −, nella visione di Kishida, sembra orientato innanzitutto alla protezione del territorio, delle acque territoriali e dello spazio aereo giapponese, costantemente al centro di vivaci tensioni anche a causa dell’imprevedibilità della Corea del Nord.
Prima della conferma di Kishida alla guida del LDP, il confronto tra Cina e Giappone si era già acceso alla fine di settembre, quando il ministro della Difesa giapponese, Nobuo Kishi, in un’intervista al Guardian, aveva invitato le nazioni dell’Unione europea a concentrarsi con rinnovata attenzione sull’espansionismo cinese, sulle presunte aggressioni portate avanti da Pechino e sui rischi di un possibile conflitto. Secondo Kishi, la Cina “sta tentando di usare il suo potere per cambiare unilateralmente lo status quo nei mari della Cina orientale e meridionale”, esprimendo “forti preoccupazioni per quanto riguarda la sicurezza non solo del nostro Paese e della regione, ma per la comunità globale”. L’intervista proseguiva poi con chiari accenni alle potenzialità militari di Pechino, giudicate in continuo miglioramento in termini qualitativi e quantitativi.
Nonostante i toni forti utilizzati dopo il suo insediamento, da Kishida ci si aspetta un approccio più pacato, più equilibrato, anche tenendo conto che Pechino, in ultima analisi, rappresenta uno dei maggiori partner commerciali del Giappone, e che il mantenimento di relazioni stabili è nell’interesse di entrambi i Paesi. Tra il 2012 e il 2017, quando ricoprì l’incarico di Ministro degli Esteri, Kishida concluse importanti accordi con Corea del Sud e Russia, contribuendo anche in prima persona alla visita di Barack Obama a Hiroshima, nel 2016, la prima in assoluto di un presidente degli Stati Uniti nel teatro della tragedia del 1945. L’enfasi posta dal Primo Ministro sulle spese militari, in ogni caso, suona come un chiaro avvertimento: il Giappone, d’ora in avanti, sarà in grado di rispondere efficacemente a qualsiasi azione aggressiva da parte di potenze straniere.
Congratulandosi con Kishida per la sua elezione, il Presidente cinese Xi Jinping aveva espresso la speranza di poter “rafforzare il dialogo e la comunicazione, la fiducia e la cooperazione reciproche”, con lo scopo di “costruire relazioni che soddisfino i requisiti della nuova era”. Il confronto con la Cina, per il Giappone, si gioca anche sul piano dello sviluppo infrastrutturale nel Sud-est asiatico, dove Tokyo sta cercando silenziosamente di contrastare la Belt and Road Initiative cinese con massicci investimenti a supporto dei sistemi infrastrutturali locali. Kishida, da questo punto di vista, proseguirà in continuità con i suoi predecessori, enfatizzando il concetto di “infrastrutture di qualità” in contrapposizione all’enorme quantità di progetti ritenuti poco trasparenti della Nuova Via della Seta.
Con un buon risultato anche nel 2022, quando si rinnoverà la Camera dei Consiglieri, Kishida e il partito di maggioranza potrebbero trovarsi di fronte a tre anni senza alcun impegno elettorale. Prima di allora, il nuovo Primo Ministro è chiamato a ridisegnare il futuro del Giappone post-Covid 19, ripartendo dalla classe media e da un confronto con la Cina basato sull’esattezza dei rischi calcolati.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di novembre/dicembre di eastwest.
Svizzera, la China Strategy di Berna
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Lo scorso maggio, durante l’Hainan Expo − un’importante fiera cinese dedicata ai beni di consumo −, una delle creazioni più interessanti è stata collocata in uno dei padiglioni della Svizzera, che partecipava alla primissima edizione della manifestazione come ospite d’onore. Negli spazi espositivi elvetici era stato infatti inserito uno speciale armadietto prodotto dalla storica azienda svizzera USM, capace di trasformarsi in un solo istante anche in una robusta ed elegante sedia di design.
Nella polivalenza, nell’imprevedibilità e nell’affilato pragmatismo di quel complemento d’arredo è possibile scorgere, in nuce, l’essenza più autentica delle relazioni tra la Cina e la Svizzera, corroborate negli scorsi anni da numerose collaborazioni commerciali e nel campo dell’innovazione, ma anche nell’ambito della Belt and Road Initiative, il grande progetto cinese per la connettività infrastrutturale e lo sviluppo globale, di cui Berna fa formalmente parte dal 2019, l’anno della sottoscrizione del memorandum d’intesa con Pechino.
Nel corso degli anni, il rapporto tra la Cina e la Svizzera si è segnalato soprattutto per la sua estrema franchezza, per una schiettezza in cui trovano continuamente spazio, specialmente da parte elvetica, precisi ammonimenti o vere e proprie staffilate rivolte al gigante asiatico, in particolare per quel che riguarda i diritti umani e la libertà d’espressione, senza alcun timore di incrinare o di guastare le relazioni reciproche, nella convinzione che un sano pragmatismo e un saldo attaccamento ai propri interessi rappresentino la base incrollabile di ogni rapporto bilaterale. Al momento, dopo l’Unione europea e gli Stati Uniti, la Cina rappresenta il terzo partner commerciale della Svizzera.
Oltre al valore pragmatico della praticità, uno dei cardini sui quali è stata instaurata la collaborazione sino-elvetica è lo slancio pioneristico della parte svizzera, ben evidente nel rapido riconoscimento svizzero della Repubblica popolare cinese, nel gennaio del 1950, o nelle iniziative industriali che si svilupparono negli anni ’80, quando un’azienda svizzera, la Schindler, fu la prima ditta occidentale a dare vita a una joint venture in Cina. Lo spirito da pioniere della Svizzera è evidente anche nelle iniziative più recenti, come il Free Trade Agreement del 2014 o il memorandum sulla Belt and Road Initiative (la Svizzera è anche uno dei membri fondatori dell’Asian Infrastructure Investment Bank).
La Belt and Road Initiative, con i suoi (circa) 3mila progetti e un valore totale stimato superiore ai 3 trilioni di dollari, è la più grande iniziativa infrastrutturale di tutti i tempi. Dal 2013, l’anno in cui è stata ufficialmente inaugurata dal Presidente cinese Xi Jinping, l’iniziativa ha coinvolto più di 140 nazioni, proponendo un rapido sviluppo infrastrutturale in diversi punti del pianeta (con progetti terrestri e marittimi) e attirando su di sé un gran numero di perplessità, soprattutto da parte dell’Occidente, in merito alla presunta scarsità di trasparenza di alcuni progetti e delle relative modalità di finanziamento, con il rischio di una “debt trap” sempre dietro l’angolo.
Per la Svizzera essere parte integrante della BRI non significa soltanto contribuire allo sviluppo di infrastrutture sostenibili nelle regioni incluse nel progetto, ma rappresenta anche una preziosa opportunità per approfondire i legami con la Cina e rafforzare così la partnership sino-elvetica incentrata sull’innovazione, un settore in cui Berna intende ritagliarsi sempre di più un ruolo di grande protagonista, senza dimenticare tutti i benefici derivanti dal potenziamento della connettività infrastrutturale con l’Asia.
A un anno esatto dalla firma del memorandum, è stato inaugurato un nuovo collegamento ferroviario per container marittimi tra due città svizzere, Frenkendorf e Niederglatt, e i due hub cinesi di Xi’an e Hefei (e viceversa). Il servizio, che rappresenta un’alternativa molto più veloce al trasporto aereo o marittimo, è stato reso possibile grazie alla collaborazione tra la branca svizzera di RTSB, un gruppo internazionale nel settore del trasporto intermodale, e gli specialisti elvetici della logistica Schweizerzug. Il nuovo collegamento permetterà alla Svizzera di ridurre i tempi di consegna per le merci in transito tra la confederazione e la Cina, che fino a poco fa erano costrette a passare dai grandi snodi tedeschi di Duisburg e Amburgo. Nel complesso periodo della pandemia globale, in cui il trasporto su rotaie ha acquisito una sempre maggior centralità, la Svizzera ha dunque deciso di puntare con insistenza sul rafforzamento dei collegamenti ferroviari con la Cina, anche nell’ottica di una collaborazione sempre più stretta con la Cina nell’ambito della Belt and Road.
Nonostante queste prime iniziative nel settore dei collegamenti ferroviari, da parte di Berna sembra tuttavia trapelare una certa cautela nel proprio approccio con il grande progetto cinese. “Il Consiglio federale accoglie favorevolmente la visione dell’iniziativa, ma mantiene un atteggiamento prudente poiché presenta sia rischi che opportunità – spiegano dal Dipartimento federale degli affari esteri; − È essenziale che gli standard internazionali siano rispettati, in particolare nei settori della protezione dell’ambiente, delle condizioni di lavoro, dei diritti umani, dello Stato di diritto e della trasparenza”.
E sulle opportunità racchiuse nel trasporto su rotaia ai tempi del Covid-19, il punto di vista svizzero appare ancora più chiaro. “Il settore ferroviario ha dimostrato di essere una modalità resiliente e affidabile per il trasporto di merci in un momento in cui il trasporto su strada e via mare è stato gravemente colpito. La pausa ha in effetti facilitato un grande sviluppo del trasporto ferroviario. Resta però evidente che il trasporto ferroviario tra Europa e Cina è interessante solo per alcune merci che hanno un alto valore e/o hanno bisogno di raggiungere il mercato in un tempo medio-breve. La Svizzera promuove lo spostamento del traffico merci alla ferrovia adottando numerose misure per sfruttare al meglio il suo potenziale di mercato. Dal punto di vista della resilienza e degli aspetti ecologici è necessario continuare a investire nel trasporto ferroviario in modo mirato e coordinato a livello internazionale”. Secondo il China State Railway Group, nel 2020 il numero di viaggi di treni merci tra Cina ed Europa è salito alla cifra record di 12.400, più del doppio rispetto al 2019.
Un capitolo importante nella storia delle relazioni sino-elvetiche è stato scritto pochi mesi fa con la pubblicazione, da parte della Svizzera, della cosiddetta China Strategy, un documento senza precedenti in cui Berna, per la prima volta, delinea pubblicamente il perimetro della collaborazione con la Cina, senza risparmiare qualche aspro commento relativo al trattamento delle minoranze da parte di Pechino, al soffocamento del dissenso o allo spinoso problema dei diritti umani in Cina, attirandosi così gli strali dell’ambasciatore cinese a Berna e di diverse testate come il China Daily.
Ma per la Svizzera questo approccio diretto ed estremamente franco non rappresenta una minaccia per le relazioni con Pechino, anzi. Un reciproco confronto sulle differenze esistenti tra le due nazioni, nell’ambito di una solida e innovativa cooperazione economica, potrebbe addirittura risultare benefico, dando vita a un rapporto più solido nel medio e nel lungo periodo. L’ambasciatore elvetico a Pechino, Bernardino Regazzoni, ha affermato qualcosa di simile durante un’intervista con un media cinese a margine dell’Hainan Expo, sottolineando che la comprensione delle reciproche differenze potrebbe effettivamente rinsaldare la cooperazione bilaterale. E c’è da scommettere che la Svizzera, salvo imprevedibili rivolgimenti, continuerà su questa strada, con un approccio multiforme in grado di cogliere le opportunità e di ammonire il partner cinese anche sulle questioni più spinose, in primis sui diritti umani, con una dinamica neutralità ricca di infinite possibilità.
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Olimpiadi, un’occasione di rinascita per il Giappone
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Sui volti delle persone che ebbero la fortuna di assistere all’inaugurazione della linea ferroviaria ad alta velocità Tokaido Shinkansen, pochi giorni prima delle Olimpiadi giapponesi del 1964, aleggiava una sorta di sorriso sardonico, misterioso, ricco di luminose speranze per il futuro. I nuovi convogli viaggiavano a una velocità di 210 km/h, dimezzando i tempi di percorrenza tra Tokyo e Osaka. I treni proiettile che correvano su quella linea, nel giro di pochi anni, sarebbero diventati i più utilizzati al mondo, rivelando in maniera plastica lo straordinario potenziale di una nazione in perenne conflitto con i fantasmi del proprio recente passato. Oggi, a più di cinquant’anni da quella felice inaugurazione preolimpica, il Giappone si sta preparando alle Olimpiadi del 2021 con un obiettivo ben preciso: dimostrare al mondo – ma soprattutto alle giovani generazioni giapponesi – le capacità dimenticate di un Paese in costante lotta con il proprio destino, costretto a misurarsi con le persistenti ombre del disastro di Fukushima, con tenaci resistenze interne, e ora anche con le morse opprimenti di una delle peggiori pandemie globali mai conosciute dal genere umano.
I giochi olimpici di Tokyo, programmati tra il 23 luglio e l’8 agosto, attireranno in Giappone circa 15mila atleti provenienti da ogni parte del mondo, ma il clima in cui si svolgeranno è tutt’altro che entusiastico. Fino a maggio, stando alle stime di alcuni sondaggi, otto giapponesi su dieci si dichiaravano contrari alle Olimpiadi: lo scetticismo era legato per la maggior parte alla pandemia e alle lungaggini burocratiche che stanno ostacolando la campagna vaccinale in tutto l’arcipelago. Il Giappone, dove il Covid ha già causato più di 11mila vittime, si trova al momento nel bel mezzo della quarta ondata di contagi, con la città di Osaka come epicentro principale.
L’idiosincrasia dei giapponesi nei confronti delle Olimpiadi si è leggermente attenuata da metà giugno, quando un sondaggio della tv pubblica NHK riportava che il 64% degli intervistati si dichiarava favorevole all’inizio dei giochi. Alle resistenze della popolazione, negli scorsi mesi, si erano aggiunte anche quelle dell’associazione dei medici di Tokyo, di una buona parte delle imprese (il 64%, secondo l’agenzia di stampa Kyodo) e perfino dell’importante quotidiano nazionale Asahi Shimbun, che ha richiesto a gran voce la cancellazione delle Olimpiadi. Per il momento, tuttavia, Tokyo non sembra avere scelta: le Olimpiadi si faranno. Rinunciare ai Giochi, del resto, costerebbe al Giappone circa 17 miliardi di dollari (per l’organizzazione della manifestazione ne ha già spesi 26), una cifra spropositata per un’economia già segnata da due contrazioni trimestrali consecutive.
Il disastro di Fukushima
Nel 2013, quando l’ex Primo Ministro Shinzo Abe esercitò tutta la sua influenza per portare le Olimpiadi a Tokyo, il Giappone era appena uscito da una delle peggiori catastrofi della sua storia: il disastro di Fukushima del marzo 2011, quando il terremoto più forte nella storia del Paese e il conseguente tsunami provocarono circa 20mila vittime, oltre al più grave incidente nucleare al mondo dai tempi di Chernobyl. Due anni dopo, quando le ombre del disastro continuavano ad addensarsi sull’intero arcipelago, l’ex Primo Ministro vide nelle Olimpiadi del 2020 un eccezionale strumento con cui lanciare un messaggio di speranza all’intero Paese, in particolare alle giovani generazioni, che in tutta la loro esistenza hanno dovuto misurarsi con le conseguenze di tsunami e devastazioni nucleari, senza mai assistere a un grande evento organizzato dal loro Paese. In un momento estremamente delicato, mentre l’immagine internazionale del Giappone stava via via offuscandosi, Shinzo Abe decise dunque che era arrivato il momento di cambiare qualcosa.
Non è certamente un caso se le Olimpiadi giapponesi siano state ribattezzate “Recovery Olympics”: sin dall’inizio, l’obiettivo è stato estremamente chiaro. I giochi avrebbero dovuto restituire alla comunità internazionale l’immagine di un Giappone pienamente integrato tra le potenze democratiche mondiali, in netta ripresa economica e finalmente libero dal funesto retaggio di Fukushima. Dal dicembre dello scorso anno, a Shinzo Abe è succeduto Yoshihide Suga, che si è ritrovato a dover gestire il complesso dossier delle Olimpiadi nel bel mezzo della pandemia.
Il suo Governo, a metà giugno, ha superato una mozione di sfiducia presentata in seduta plenaria dalle principali forze di opposizione del Paese, che accusavano l’esecutivo di aver gestito grossolanamente l’emergenza sanitaria e la campagna vaccinale. A pochi mesi dalla scadenza della legislatura, prevista per il prossimo ottobre, il successore di Shinzo Abe deve dunque fare i conti con livelli di consenso estremamente bassi. Eppure, se i Giochi dovessero svolgersi senza intoppi, sarà proprio lui a raccogliere una parte del successo degli ambiziosi piani di Abe, cristallizzati magnificamente nell’organizzazione delle Olimpiadi di Tokyo.
Il soft power tecnologico
Attraverso le Olimpiadi, il Giappone ha anche l’occasione di riposizionarsi come punto di riferimento tecnologico a livello globale, utilizzando al meglio la vetrina dei Giochi per mostrare al mondo il suo formidabile repertorio hi-tech. Lo stesso Suga, a fine maggio, aveva affermato che il Giappone intende ricoprire un ruolo da assoluto protagonista nella creazione di un’infrastruttura digitale nell’Indo-Pacifico, non soltanto sviluppando le tecnologie legate al 5G o al 6G, ma guidando la costruzione “di uno spazio digitale libero e aperto” attraverso ambiziosi progetti IT.
Durante le Olimpiadi, in Giappone si vedranno automobili a guida automatica, dispositivi per il riconoscimento facciale, veicoli con tecnologia a cella combustibile e perfino dei robot che guideranno i visitatori e forniranno ogni informazione sugli eventi, trasportando anche i loro bagagli. Quelle di Tokyo, da un punto di vista tecnologico, saranno anche le Olimpiadi dell’idrogeno: il Giappone ha infatti preparato un intero assortimento di bus e veicoli a idrogeno, allestendo anche in tutta la capitale numerose stazioni di rifornimento per queste vetture.
A questo punto, in effetti, per il Giappone sarebbe estremamente difficile tirarsi indietro. Oltre alle perdite di natura economica, la cancellazione o il rinvio dei Giochi avrebbero pesanti conseguenze anche di natura geopolitica, soprattutto se si considera che in Cina, nel febbraio del 2022, andranno in scena i XXIV Giochi olimpici invernali, programmati per la maggior parte a Pechino. In un momento storico in cui la rivalità con la Cina sembra essere entrata in una nuova fase − con il Giappone che continua a puntare con insistenza sui suoi progetti infrastrutturali qualitativi e trasparenti, in netta contrapposizione con la Belt and Road Initiative cinese −, lasciarsi rubare la scena da Pechino rappresenterebbe una vera e propria beffa.
I progetti di Abe e di Suga per il rilancio del Giappone attraverso le Olimpiadi, in via del tutto inesorabile, sono destinati a scontrarsi con la realtà dei fatti, con un’opinione pubblica ancora in larga parte convinta che l’organizzazione dei Giochi rappresenti un tentativo di distogliere l’attenzione dalla cattiva gestione dell’emergenza sanitaria e dalle persistenti conseguenze del disastro di Fukushima, non ancora del tutto superate. Andare avanti con i Giochi, da un lato, dimostrerebbe la capacità del Giappone di organizzare un evento d’ampio respiro in un momento estremamente delicato. Dall’altro, significherebbe irrobustire il proprio soft power tecnologico e valoriale, anche nei confronti della Cina. Lo Shinkansen del 2021, per il Giappone, è rappresentato da quel forte desiderio – ben evidente negli sforzi per le Olimpiadi e forse destinato a rimanere tale – di spingere il Paese verso nuovi traguardi sociali e tecnologici, allontanando i fantasmi di Fukushima e inaugurando una nuova era di prosperità.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di luglio/agosto di eastwest.
Cina: la via della seta e del vaccino
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Quando il sogdiano era la lingua franca dei commerci, nel periodo in cui le oasi del bacino del Tarim vibravano di vita e di pulsioni contrastanti, tra la Cina e l’Europa viaggiavano soprattutto idee, avventurieri e merci preziose, in un flusso ininterrotto che per secoli ha elettrizzato le plaghe eurasiatiche. Oggi, ai tempi del Covid-19, quegli stessi territori sono attraversati da veloci convogli ferroviari carichi di mascherine, di materiale sanitario e di tutto il necessario per combattere la pandemia. I vaccini, invece, viaggiano per via aerea, e stanno iniziando a raggiungere anche l’Europa. È la nuova via della Seta della Salute, che attraverso le reti connettive della Belt and Road Initiative, la gigantesca iniziativa infrastrutturale da 1 trilione di dollari lanciata nel 2013 dal presidente cinese Xi Jinping, sta contribuendo in maniera determinante a ridisegnare l’aspetto delle relazioni internazionali, innervandole con l’apporto utilitaristico del sostegno medico e sanitario, con il multilateralismo come principale tòpos comunicativo.
Il mastodontico progetto cinese è ancora estremamente rilevante, perfino ai tempi del Covid. L’insorgere del virus ha colpito maggiormente quei progetti che si trovavano ancora agli stadi iniziali, specialmente in quelle economie più duramente colpite dalla recessione, e ha avuto certamente conseguenze negative sullo sviluppo di nuovi megaprogetti, il cui numero è diminuito notevolmente nel 2020. Alcuni progetti hanno subito forti rallentamenti, altri sono stati definitivamente cancellati, mentre una buona parte di iniziative si trova in una situazione di stallo, anche per ragioni non direttamente connesse al Covid. Ne è un esempio la realizzazione della diga di Kunzvi, nello Zimbawe, un progetto da 800 milioni di dollari tuttora in standby a causa di alcune incomprensioni finanziarie tra i cinesi e il governo di Harare, mentre la costruzione di un centro logistico da 275 milioni di dollari in Kyrgyzstan è stato cancellato a causa di alcune proteste anticinesi.
Gli scambi commerciali
La Cina, in ogni caso, non si è fermata. Lo scorso anno, gli scambi di Pechino con i partner mondiali della nuova via della Seta sono cresciuti, arrivando a circa 1.450 miliardi di dollari, in aumento dell’1% anno su anno. Crescono anche gli investimenti diretti all’estero non finanziari nei 58 Paesi coinvolti nella BRI, che nel 2020 hanno raggiunto i 17.79 miliardi di dollari (+18.3% rispetto 2019). In Pakistan, la Cina intende dare vita a un comitato parlamentare congiunto per monitorare l’andamento dei progetti legati al CPEC, il China-Pakistan-Economic-Corridor, che con il suo valore complessivo di 50 miliardi di dollari è uno dei gioielli più splendenti nella corona della nuova Via della Seta (l’Institute of Peace and Diplomatic Studies di Islamabad, per opera di Muhammad Asif Noor, ha recentemente lanciato la piattaforma “Friends of BRI Forum”, nata per costruire nuove sinergie tra professionisti e accademici nei 138 Paesi della BRI).
Se il Covid, da un lato, può aver certamente rallentato alcuni progetti, non ha sicuramente arrestato le operazioni all’estero della Cina, in particolare con i partner europei, con i quali ha continuato a intrattenere vivaci relazioni multilaterali. I dati parlano chiaro: nei primi sette mesi del 2020, gli scambi bilaterali tra la Cina e i 27 membri dell’Unione europea hanno registrato un aumento del 2.6% su base annua, con numeri ancora più significativi se si guarda ai rapporti di Pechino con i Paesi dell’Europa centrale e orientale. Lo scorso anno, gli scambi commerciali con questi Paesi hanno infatti raggiunto i 103.45 miliardi di dollari. Sono proprio i Paesi dell’Europa orientale ad aver già accolto i vaccini cinesi: Serbia e Ungheria hanno raggiunto precisi accordi per l’utilizzo del vaccino Sinopharm, già somministrato al 14% della popolazione serba tra gennaio e febbraio.
La distribuzione del vaccino ai partner europei è alimentata dal supporto dell’apparato statale cinese, ma anche dai canali già aperti della BRI, utilizzati dalla Cina come un vero e proprio grimaldello diplomatico per aprire nuovi scenari di cooperazione. Xi Jinping, del resto, aveva annunciato che i vaccini cinesi sarebbero diventati ben presto “un bene pubblico globale”.
Le infrastrutture
La realizzazione di infrastrutture marittime e terrestri su scala globale, nel corso degli anni, si è dunque rivelata estremamente utile anche in una fase emergenziale, dando vita a nuovi corridoi diplomatici e commerciali con cui vivificare la diplomazia internazionale. Per lo sviluppo del poderoso sistema infrastrutturale della nuova via della seta, peraltro, la Cina potrebbe aver impiegato la stessa strategia utilizzata negli scorsi anni per far fronte ai suoi annosi problemi di urbanizzazione. Fino a una decina d’anni fa, Pechino era infatti abituata a investire enormi quantità di denaro nel real estate e nella costruzione di agglomerati urbani completamente nuovi, che in buona parte dei casi finivano per trasformarsi in vere e proprie Ghost Town completamente deserte. La scommessa era semplice: costruire prima e aspettare in seguito l’arrivo della domanda. In alcuni casi, questo approccio si è rivelato vincente − nuove città si sono popolate nel giro di pochissimi anni −, mentre in altri non ha dato luogo ad alcun risultato. Su una scala completamente diversa, è ciò che sta parzialmente avvenendo anche con le infrastrutture della nuova via della Seta: Pechino ha iniziato a costruirle in ogni parte del mondo, nel nome della cooperazione e dello sviluppo globale, ben sapendo che avrebbero potuto rivelarsi molto utili specialmente in un momento successivo, proprio come sta avvenendo ora con i continui invii di aiuti sanitari ai Paesi partner.
Questi aiuti viaggiano soprattutto attraverso le linee ferroviarie euroasiatiche: la pandemia ha infatti colpito pesantemente la logistica marittima, restituendo centralità al trasporto su ferro. Nel 2020, i convogli in transito tra la città cinese di Wuhan e l’Europa − sfruttando anche i nuovi collegamenti della BRI − hanno trasportato verso Ovest più di 5mila tonnellate di forniture mediche e di materiali necessari al contenimento della pandemia. Nel complesso, i viaggi dei treni merci attivi sulle rotte sino-europee sarebbero aumentati del 50% rispetto al 2019, totalizzando un record di 12.400 viaggi. Uno degli aumenti più significativi è quello che riguarda la municipalità di Chongqing, nella Cina sud-occidentale, che nel solo 2020 ha totalizzato ben 2.603 viaggi verso l’Europa (e in direzione inversa), registrando una crescita del 72% rispetto all’anno precedente. Secondo i dati di Yuxinou Logistics, il valore delle merci trasportate su questa linea ammonterebbe a circa 14 miliardi di dollari, con incrementi del 65% di anno in anno. Questo percorso − che passa anche da Kazakhstan ed Europa orientale − si è rivelato eccezionalmente utile soprattutto durante la pandemia, quando ha trasportato in Europa più di 2.7 miliardi di yuan di forniture sanitarie e beni di prima necessità.
Per cogliere lo zeitgeist, a volte, bastano anche poche, semplicissime parole. In un’intervista rilasciata a inizio febbraio all’agenzia di stampa Xinhua, l’ambasciatore cinese in Italia, Li Junhua, si è soffermato a lungo sulla cooperazione tra la Pechino e l’Unione Europea, arrivando ad affermare che “la Cina è consapevole della storia e pronta a farsi carico delle sue responsabilità epocali”. Pechino, in questo senso, sembra considerare la pandemia come una preziosa opportunità per riportare in vita l’antico sogno millenario covato dagli imperatori del “Regno di Mezzo”, in cui la Cina veniva considerata una sorta di faro o di potenza-guida per tutte le altre nazioni. L’unica certezza, in un mondo ancora scosso dal Covid, è che le reti fisiche e intangibili della Belt and Road Initiative, così dense di significati, hanno la possibilità di cambiare per sempre le regole dei rapporti internazionali, incidendo direttamente (forse per la prima volta) sulla vita delle persone.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
Yoshihide Suga: un premier pragmatico per il Giappone
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Dai campi di fragole all’allure della diplomazia internazionale, tra serate di gala e vin d’honneur, senza mai perdere il proprio innato pragmatismo. È il singolare percorso compiuto nel giro di pochi anni da Yoshihide Suga, eletto Primo Ministro del Giappone dopo le dimissioni di Shinzo Abe per motivi di salute. La scelta del 71enne Suga, ex segretario di Gabinetto e fedelissimo dell’ex premier, appare in linea con la volontà del Governo di proseguire il percorso iniziato negli ultimi otto anni da Shinzo Abe, che ha contribuito a elevare la statura internazionale del Giappone e a trasformarlo in un vero e proprio colosso nel libero scambio, ridisegnando anche l’approccio nipponico in politica estera. Ma in questa congiuntura, resa ancora più problematica dall’insorgere della pandemia e dai suoi effetti sull’economia nazionale − Tokyo potrebbe perdere fino all’8% del Pil nel 2020 −, il premier Suga si trova davanti una vera e propria sfida epocale, e non soltanto per le difficoltà sul piano interno. Sulla sua scrivania, alcuni tra i dossier più scottanti riguardano infatti la politica estera: non soltanto a causa del progressivo raffreddamento nei rapporti con la Cina, ma anche per l’opportunità di inaugurare una nuova fase nelle relazioni con Corea del Sud e Russia (sperando di poter contare ancora sugli Usa), tenendo sempre sotto stretta sorveglianza le mosse di Kim Jong-un in Corea del Nord.
A poche ore dalla conferma della sua elezione, a metà settembre, il neo-premier Suga ha immediatamente affermato di voler “lavorare per il popolo”, precisando di volersi dedicare soprattutto alle riforme più urgenti per la ristrutturazione interna del Paese. Una vera e propria dichiarazione d’intenti, soprattutto se si considera che Suga, a differenza dei suoi predecessori, è un politico che si è costruito da sé, e non appartiene a nessuna delle famiglie di rango che compongono l’ordito tradizionale della politica nipponica. Al contrario, Yoshihide Suga è il figlio di un coltivatore di fragole, e prima di iniziare la sua carriera politica aveva studiato all’Università Hosei, una delle meno costose, pagandosi la retta con lavori di fortuna. È a un uomo di questo genere, pragmatico e metodico fino allo sfinimento, che sono state affidate le sorti della terza economia al mondo nell’era del Covid-19, con tutte le incognite legate alla politica estera.
Il primo viaggio all’estero
Per il suo primo viaggio all’estero in qualità di Primo Ministro, Suga ha scelto il Sud-est asiatico, un’area densa di conflitti e di interessi contrastanti. In un evidente tentativo di siglare nuovi accordi in chiave anti-Pechino, il premier ha visitato Vietnam e Indonesia, raggiungendo importanti intese con entrambe le nazioni. Con il Vietnam, Suga ha concluso un accordo incentrato sulla cooperazione bilaterale in materia di difesa e sicurezza, assicurando al Giappone la possibilità di esportare equipaggiamento e attrezzature militari per la difesa della nazione vietnamita (Hanoi ha già acquistato da Tokyo diverse motovedette della guardia costiera, confermando che gli accordi tra i due Paesi riguardano essenzialmente la difesa marittima). Durante la conferenza stampa, Suga e il suo omologo, Nguyen Xuan Phuc, hanno insistito sulla necessità di mantenere la pace e la stabilità nella regione, enumerando i principi della visione legata a un Indo-Pacifico “libero e aperto”. Entrambe le nazioni sono accomunate da una tenace avversione per l’assertività di Pechino nel Mar Cinese Meridionale (e Orientale), dove da anni sono in corso dispute territoriali ancora ben lontane dall’essere risolte (come quelle legate alle isole Paracelso, occupate dalla Cina e rivendicate da Vietnam e Taiwan, o quelle sulle isole Diaoyu/Senkaku, sotto il controllo di Tokyo ma reclamate da Cina e Taiwan).
Per ritagliarsi un ruolo di primo piano tra le potenze democratiche della regione, Tokyo ha già ampiamente sfruttato il suo soft power economico, impegnandosi in ambiziosi progetti infrastrutturali nel sud-est asiatico, e ricopre un ruolo sempre più cruciale anche nelle alleanze regionali formate con Stati Uniti, India e Australia, come il Quad (Quadrilateral Security Dialogue), interpretato anche da Washington come un utile strumento per contenere le ambizioni della Cina. Sotto questo aspetto, Yoshihide Suga cercherà di portare avanti la politica già iniziata dal suo predecessore, tentando di consolidare il ruolo del Giappone quale garante dei valori democratici e liberali nell’area dell’Indo-Pacifico.
L’attenzione alla Cina
Oltre al Vietnam, il neo-premier ha visitato anche l’Indonesia, alla quale ha promesso un prestito di 50 miliardi di yen per fronteggiare l’emergenza legata al coronavirus. Con Giacarta, il Primo Ministro nipponico ha discusso anche di infrastrutture e di cooperazione militare, sempre finalizzata al contenimento della Cina. Nonostante il chiaro scopo dei due viaggi − compiuti a fine ottobre −, il premier Suga ha affermato di non voler dar vita a una “Nato asiatica” per contenere l’influenza di qualche nazione (leggi=Cina), limitandosi a dichiarare che il Giappone “si oppone a qualsiasi azione che accresca la tensione nel Mar Cinese Orientale e Meridionale”, e che Tokyo “è determinata a difendere il suo territorio, le acque territoriali e lo spazio aereo, ma sempre nel rispetto dello stato di diritto”. I segnali lanciati da Suga sono ancora pochi, ma sembrano già abbastanza chiari. Il neo-premier sfrutterà l’arma della diplomazia per rafforzare i legami con i Paesi del sud-est asiatico, allo scopo di porre un limite all’aggressività della Cina, ma anche per trovare una soluzione condivisa alle numerose dispute territoriali tuttora irrisolte
Il Sud-est asiatico è anche l’area in cui si sono concentrati gli sforzi nipponici per garantire infrastrutture di qualità, con progetti trasparenti, capaci di assicurare prospettive di crescita a lungo termine anche per i Paesi meno sviluppati, senza l’ombra di “trappole del debito” (di cui si parla spesso per i partner della Cina nella Belt and Road Initiative, il mastodontico progetto da 1 trilione di dollari per la costruzione di infrastrutture terrestri e marittime). Il confronto infrastrutturale con Pechino è una battaglia silenziosa, discreta, e con ogni probabilità verrà portata avanti anche dal nuovo Governo di Yoshihide Suga con nuovi investimenti strategici. Nel sud-est asiatico, gli investimenti del Giappone in progetti infrastrutturali hanno già superato quelli cinesi − ben 367 miliardi di dollari, contro i 255 della Cina −, e per differenziarsi dalla Cina si è posta una precisa enfasi sulla trasparenza dei progetti e sulla qualità delle infrastrutture.
Il rapporto con Corea del Sud e Russia
Il nuovo premier giapponese ha anche la possibilità di instaurare migliori relazioni con la Corea del Sud e di ratificare il trattato di pace con la Russia, due importanti obiettivi che il suo predecessore non era riuscito a centrare. Durante i colloqui telefonici di fine settembre tra Suga e il suo omologo sudcoreano, Moon Jae in, il premier nipponico ha infatti espresso la speranza di poter ritornare a “un rapporto costruttivo”, lasciando intravedere qualche possibilità per un futuro riavvicinamento tra le due potenze asiatiche. Suga ha parlato telefonicamente anche con Vladimir Putin: Russia e Giappone non hanno ancora trovato un accordo sulla sovranità delle isole al largo di Hokkaido, occupate dalle truppe sovietiche dopo la resa del Giappone alla fine della Seconda guerra mondiale.
Yoshihude Suga si ritrova così a impugnare le stesse armi del suo predecessore, la diplomazia economica e il soft power legato agli investimenti nella difesa e nei progetti infrastrutturali. Dall’abilità con cui saprà maneggiarle non dipenderà unicamente il futuro del Giappone nell’era post-Covid, ma anche l’esito della contrapposizione tra Stati Uniti e Cina sul piano globale. È un confronto di valori, princìpi e tendenze contrapposte, una partita di fondamentale importanza in cui il Giappone intende continuare a ricoprire un ruolo da protagonista.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di novembre/dicembre di eastwest.