Da due decadi giornalista, blogger e ricercatore con focus sull’Africa sub-sahariana.
Sudafrica: l’Urss e i movimenti di liberazione
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Dopo il 24 febbraio, data d’inizio dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, tutti i media sudafricani hanno criticato aspramente l’operato di Mosca, mentre l’ambasciatore ucraino in Sudafrica, Liubov Abravitova, per diversi giorni è apparsa costantemente sugli schermi dei principali canali di informazione del Paese. Secondo quanto riportato sul sito del think tank moscovita Strategic Culture Foundation, tale orientamento sarebbe stato dettato dal fatto che i media sudafricani sono allineati al mainstream occidentale e in gran parte controllati dalle grandi imprese, di conseguenza non possono esprimere i veri sentimenti della popolazione locale.
In effetti, la posizione ufficiale di Pretoria non è mai stata al fianco di Kiev. Come del resto, quella di molti Paesi del continente africano, che in occasione dei voti espressi all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite su tre risoluzioni di condanna nei confronti della Russia, si sono astenuti oppure non hanno partecipato al voto per varie ragioni politiche. In tutti e tre i casi, il Sudafrica si è astenuto rifiutandosi di condannare le azioni della Russia. Inoltre, un mese dopo l’inizio delle operazioni militari, ha presentato al Segretariato dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite una bozza di risoluzione sulla situazione umanitaria in Ucraina.
La bozza di Pretoria
La bozza di Pretoria non attribuiva la responsabilità della cessazione delle ostilità o dell’aggravamento della situazione umanitaria a nessuna delle parti, tantomeno esprimeva una nota di biasimo per l’aggressione della Russia contro l’Ucraina. Una posizione che l’ambasciatore Abravitova ha definito “sconcertante e inaccettabile”, affermando che per il suo Paese era molto complicato confrontarsi con il governo sudafricano sul dossier dell’invasione russa dell’Ucraina. La posizione della nazione dell’Africa australe si è andata ancor più delineando dopo la conversazione telefonica tra il presidente russo Vladimir Putin e il suo omologo sudafricano Cyril Ramaphosa. Nel colloquio, tenuto lo scorso 10 marzo, Putin ha informato il suo collega delle ragioni e degli obiettivi dell’“operazione speciale” della Russia per proteggere il Donbass. Solo una settimana dopo la telefonata, Cyril Ramaphosa, parlando al Parlamento, ha accusato direttamente l’Alleanza Atlantica di aver fomentato l’escalation della crisi, chiarendo che “la guerra avrebbe potuto essere scongiurata se nel corso degli anni la Nato avesse limitato la sua espansione verso Est ed evitato una crisi regionale”.
Tuttavia, il sostegno diplomatico di Pretoria alla Russia solleva la questione dell’impegno per il rispetto dei diritti umani come parte integrante della politica estera del Sudafrica e il suo ruolo storico nella promozione del diritto di ogni popolo di scegliere liberamente il proprio destino, originato dall’esperienza della lotta contro l’apartheid. Probabilmente questo non trascurabile aspetto, unito alle proteste sollevatesi nel Paese contro l’invasione russa, hanno costretto il presidente sudafricano a esprimersi contro la mossa offensiva dell’alleato. Così, Ramaphosa ha chiarito che “il Sudafrica non può approvare l’uso della forza e la violazione del diritto internazionale, chiedendo una soluzione rapida del conflitto tramite il dialogo e i negoziati”.
La vicinanza alla Russia
Ciononostante, l’approccio di Ramaphosa all’invasione dell’Ucraina si distingue in modo netto da quello della maggior parte dei leader occidentali. Senza dimenticare la posizione di Julius Malema, leader dell’Economic Freedom Fighters (EFF), partito di opposizione della sinistra radicale, che ha dichiarato di essere vicino alla Russia esortandola a dare una lezione alla Nato e agli Stati Uniti. È altresì interessante notare che negli ultimi anni, non è la prima volta che il Sudafrica entra in attrito con l’Occidente per sostenere Mosca. Come già avvenuto nel febbraio 2020, quando insieme alla Russia è stata l’unica nazione tra tutti i membri del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che si è opposta alla bozza di risoluzione britannica per approvare i risultati della conferenza di Berlino sulla Libia.La vicinanza del Sudafrica alla Russia può essere spiegata attraverso le salde relazioni tra i due Stati, che risalgono a legami storici con Mosca riguardanti il supporto ricevuto nella lotta contro l’apartheid, oltre ai rapporti attuali che intercorrono tra Pretoria e il Cremlino.
L’apartheid, istituito ufficialmente nel 1948, vide fin dall’inizio la strenua opposizione dell’African National Congress (ANC), che professava l’abbattimento della dominazione bianca, la causa del nazionalismo nero e la creazione di un futuro Stato interraziale. Nel 1955, l’ANC si alleò con il partito comunista del Sudafrica (SACP), principalmente composto da bianchi, attraverso cui l’ANC riuscì a rafforzare i rapporti con l’URSS e con le reti internazionali a sostegno dei movimenti di liberazione in Africa. Tuttavia, l’alleanza tra ANC e SACP è stata a lungo oggetto di controversie e numerose analisi, che evidenziano come all’inizio degli anni Cinquanta la leadership dell’ANC fosse contraria a tutte le organizzazioni che ostacolavano la crescita del nazionalismo africano, tra cui il Partito comunista. Lo scioglimento del SACP nel 1950 e due anni dopo il successo della Campagna di sfida guidata da Nelson Mandela, costrinse i comunisti a rivalutare il loro rapporto con l’ANC, specialmente con l’intensificarsi della lotta contro l’apartheid. Senza dubbio, il connubio offrì all’ANC la possibilità di riallacciarsi alle istanze globali del comunismo e della lotta all’imperialismo, oltre a ricevere dall’ex potenza sovietica il supporto necessario per portare avanti la sua lotta. Tutto ciò spiega anche perché molti componenti dell’ANC siano vicini alla retorica anti-occidentale della Russia, che nella loro visione rappresenta un’alternativa globale all’Occidente ed è vista come un contrappeso all’egemonia statunitense.
La partnership economica e i rischi
Lo slancio empatico della nazione Arcobaleno nei confronti della Russia è giustificato anche dalla volontà di salvaguardare la partnership economica cementata da investimenti sudafricani in Russia per quasi 5 miliardi di dollari, mentre gli investimenti russi nel Paese africano ammontano a circa 1 miliardo e mezzo di dollari. Inoltre, sono abbastanza cospicui gli scambi commerciali tra le due nazioni, che nel 2020 ammontavano a 981 milioni di dollari. Pertanto, l’ondivaga posizione del Sudafrica sulla crisi ucraina può essere anche giustificata dalla volontà di non voler incrinare i rapporti con il Cremlino, sia a livello politico sia a livello commerciale, oltre al coinvolgimento dei due player all’interno dell’aggregato geo-economico dei BRICS, insieme a Brasile, India e Cina.
Va comunque ricordato, che tale approccio comporta alcuni rischi per un Paese che sta cercando di risollevarsi dopo gli anni di malgoverno di Jacob Zuma, segnati da un sistema di corruzione e dalla “cattura dello stato” per favorire investitori stranieri come i fratelli Gupta, due imprenditori di origine indiana, che nell’era Zuma hanno ammassato enormi ricchezze. Inoltre, non è ancora chiaro se in futuro sarà conveniente fare affari con i russi, soprattutto se le sanzioni verranno ulteriormente inasprite. Per ora è certo, che data la sua schiacciante esposizione agli investimenti occidentali, il Sudafrica dovrebbe pensare alle conseguenze se gli Stati Uniti e altri partner commerciali europei dovessero valutarla come un Paese rischioso per investire. Le aziende che commerciano direttamente o indirettamente con entità statali russe potrebbero avere difficoltà a commerciare con gli Stati Uniti o addirittura con l’Unione Europea, come già accaduto con le sanzioni contro Cuba e Iran. Naturalmente, tutto questo dipende dal fatto che la volontà politica occidentale rimanga unanime, come è stato finora sull’onda della minaccia rappresentata dall’azione del presidente russo Vladimir Putin.
Qualunque siano le motivazioni, in questo momento il Sudafrica dovrebbe valutare bene le conseguenze di schierarsi dichiaratamente con la Federazione Russa.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
La missione panafricana
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La risoluzione 2614/2021 adottata lo scorso 21 dicembre all’unanimità dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che ha esteso di tre mesi la scadenza della missione di pace AMISOM, prevista per il 31 dicembre 2021, è una buona notizia per la Somalia, che fa affidamento sui soldati della missione dell’Unione africana (UA) per la protezione di importanti strutture, il sostegno alle forze governative e la lotta contro uno dei più letali gruppi jihadisti del mondo: Harakat al-Shabaab.
Il dispiegamento di truppe africane nel Paese del Corno d’Africa venne autorizzato dal Consiglio per la pace e la sicurezza dell’Unione africana (AUPSC) il 19 gennaio 2007 e poi approvato dalle Nazioni Unite il 20 febbraio 2007 con la risoluzione 1744, che prevedeva la protezione dei membri del Congresso somalo per la riconciliazione nazionale e la messa in sicurezza delle infrastrutture chiave. Alla missione, istituita tecnicamente come “Peace Support”, ovvero di appoggio all’apparato di sicurezza delle istituzioni federali di transizione, prendono attualmente parte circa 22mila effettivi e il grosso delle truppe proviene da cinque Paesi africani: Uganda, Burundi, Gibuti, Kenya ed Etiopia.
Il Consiglio di sicurezza ha concesso l’ennesima proroga subordinatamente alla conduzione di un tavolo tecnico, avviato lo scorso 28 dicembre e concluso il 9 febbraio, tra l’UA, il comando della missione AMISOM e il governo federale somalo, per la ridefinizione del mandato e per stabilire ruoli e competenze delle diverse componenti dell’apparato di sicurezza nazionale e quello internazionale.
Dopo essere stata esaminata congiuntamente dal governo somalo, dai funzionari dell’UA, dell’Unione europea (Ue) e delle Nazioni Unite, la documentazione elaborata nel tavolo tecnico sarà presentata all’AUPSC e al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite entro il 7 marzo per l’esame finale ed entro il prossimo 31 marzo per l’adozione, che dovrebbe aprire la strada alla nuova missione.
Il nuovo piano di transizione prevede verosimilmente la presenza della missione AMISOM sino alla fine del 2023, definendo un nuovo mandato e una riconfigurazione delle competenze. Ma soprattutto la ricerca di nuovi fondi per assicurare il finanziamento dell’operazione, che resta il nodo principale e fino a oggi è stato in gran parte coperto dall’Unione europea.
Dal primo dispiegamento delle truppe nel 2007, Bruxelles ha fornito quasi 2,3 miliardi di euro al dispositivo militare panafricano. Mentre i Paesi membri vorrebbero che l’AMISOM fosse direttamente sovvenzionata dalle Nazioni Unite.
Il rinnovo dell’AMISOM vedrà con ogni probabilità la missione trasformata in modalità ibrida, con l’ingresso di nuove forze selezionate in seno al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e soprattutto l’avvio anche di una fase di ristrutturazione tecnico-burocratica delle istituzioni somale.
Lo scorso ottobre, il governo federale somalo aveva respinto la decisione dell’AUPSC di approvare il dispiegamento di una missione congiunta UA-ONU ai sensi del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, che garantirebbe un finanziamento pluriennale programmabile e sostenibile per assicurare il futuro della missione, attraverso contributi erogati dalle Nazioni Unite.
Secondo Mogadiscio, l’AUPSC non ha tenuto in considerazione le posizioni del governo federale ed evidenziato che invece di procedere verso l’approvazione di una missione di stabilizzazione multidimensionale UA-ONU in Somalia, l’organismo panafricano avrebbe dovuto attenersi all’agenda prefissata nell’ambito del piano di transizione del marzo 2018 per l’assunzione delle responsabilità di sicurezza dall’AMISOM da parte delle forze locali.
Per questo, nella concretizzazione di tale ipotesi di trasformazione della gestione della missione dall’UA alle Nazioni Unite, la Somalia ha posto come condizione per la propria accettazione il mantenimento della conduzione in mano all’organismo internazionale africano.
La presenza della missione AMISOM in Somalia, a partire dal 2007, è stata oggetto a più riprese di critiche da parte del governo somalo. Secondo le istituzioni locali, pur riconoscendone il merito nell’aver estromesso al-Shabaab dai centri urbani chiave della Somalia centro-meridionale, la permanenza dei militari stranieri nel Paese avrebbe da una parte rallentato il processo di transizione in direzione delle forze federali somale e dall’altro creato una vera e propria economia parallela all’interno degli apparati militari dei Paesi partecipanti.
Nella sostanza, Mogadiscio reclama che il contributo finanziario internazionale avrebbe permesso alle strutture militari dei Paesi che compongono la missione di corrispondere con regolarità i salari ai propri militari, impedendo disordini e colpi di stato, oltre a rendere possibile il rinnovo degli equipaggiamenti e le dotazioni delle proprie forze armate.
Questi fattori, secondo alcuni esponenti della politica e della sicurezza somala, avrebbero convinto i vertici militari dei Paesi partecipanti della necessità di alimentare costantemente la minaccia islamista, riducendo contestualmente la capacità delle forze somale, al fine di prorogare indefinitamente la missione a proprio vantaggio.
Al tempo stesso, con il pretesto di contribuire alla sicurezza e alla stabilità della Somalia, alcuni Paesi partecipanti alla missione AMISOM, in primis Kenya ed Etiopia, avrebbero sfruttato la propria presenza nel Paese per consolidare i propri interessi economici connessi ed esercitare un’influenza politica funzionale a risolvere a proprio favore questioni bilaterali.
A partire dall’annoso contenzioso per la determinazione dei confini marittimi tra Kenya e Somalia, su cui lo scorso 21 ottobre si è pronunciata la Corte internazionale di giustizia de L’Aja, dando in gran parte ragione alla Somalia e respingendo le richieste con le quali Nairobi invocava un adeguamento della linea equidistante per ragioni di sicurezza.
Tuttavia, anche i funzionari somali che si lamentano dell’AMISOM riconoscono che il ritiro della missione a breve termine sarebbe disastroso, perché le forze armate somale non sono ancora all’altezza di combattere al-Shabaab. Nei primi anni del suo mandato l’AMISOM ha registrato importanti successi e anche se ultimamente ha conseguito pochi progressi nel contrasto agli estremisti islamici, è ancora essenziale per mantenere una certa stabilità in Somalia. Un ritiro frettoloso incoraggerebbe l’insurrezione islamista e potrebbe far precipitare di nuovo il Paese nel caos, mentre è scosso da una crisi politica che ha paralizzato le elezioni parlamentari per oltre un anno.
Tuttavia, sarà difficile che prima del ritiro definitivo l’AMISOM sia in grado di degradare la minaccia del gruppo estremista e ripristinare la pace e la stabilità in Somalia. Ma è ancor più difficile operare una previsione su quando e come l’AMISOM riuscirà a trasferire completamente le responsabilità della sicurezza alle forze somale. Un passaggio che era già stato annunciato alla popolazione locale nel novembre 2017, quando il capo della missione, l’ambasciatore mozambicano Francisco Caetano Madeira, aveva dichiarato che il ritiro graduale si sarebbe completato entro la fine del 2020.
Il tempo ha dimostrato che l’AMISOM da sola non può sconfiggere al-Shabaab, come aveva avvedutamente previsto un rapporto realizzato nel febbraio 2016 dall’Heritage Institute for Policy Studies (HIPS) di Mogadiscio. Nelle conclusioni delle 44 pagine dello studio veniva evidenziato che ciò sarebbe potuto accadere solo se la missione di supporto alla pace avesse potuto collaborare con un apparato capace, legittimato e inclusivo delle forze di sicurezza locali. Ma l’esercito nazionale somalo è debole, lacerato dalle divisioni, dalla corruzione e dalla mancanza di una fattiva cooperazione tra le autorità federali e regionali.
Oggi l’esercito somalo non è in grado di tenere le aree riconquistate dalla missione dell’UA e con il ritiro dell’AMISOM i militanti di al-Shabaab potrebbero invadere il Paese. Di conseguenza, mantenere la missione attiva è essenziale, almeno per ora.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
Africa, il vertice di Dakar
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“Nonostante l’impatto della pandemia di Covid-19, l’ottava conferenza ministeriale del Forum sulla cooperazione Cina-Africa (FOCAC) è stata un completo successo”. Così il Ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, chiosava con enfasi la fine dei lavori dell’evento che, lo scorso 29 e 30 novembre, ha riunito i 52 più alti rappresentanti della diplomazia africana insieme a Wang Yi e al Ministro del Commercio cinese Wang Wentao, nel Centro per le conferenze internazionali Abdou Diouf di Diamniadio (Cicad), a circa 30 chilometri dalla capitale senegalese Dakar.
Secondo il Ministro degli Esteri cinese, la conferenza di Dakar ha permesso alle parti di raggiungere un ampio consenso in materia di investimenti, sicurezza, economia digitale e cooperazione anti-pandemica, settori che saranno sviluppati in linea con le condizioni nazionali. E Wang aggiunge che “il vertice ha inoltre messo in luce la necessità di lavorare per ridefinire le relazioni internazionali nel segno di equità e giustizia, obiettivo che Cina e Africa intendono perseguire incrementando la rappresentanza dei Paesi in via di sviluppo negli organismi multilaterali”.
Di tutt’altro tenore è stato il commento del Financial Times, che ha evidenziato la riduzione degli impegni finanziari della Cina per sostenere lo sviluppo dell’Africa dai 60 miliardi di dollari del 2018 ai 40 miliardi di dollari quest’anno. Il quotidiano della City citando Chidi Odinkalu, senior manager per l’Africa alla Open Society Foundations, sottolinea come l’impegno ridotto dimostra che Pechino non deve più esporsi così tanto in Africa a livello finanziario e che alcuni governi africani si sono troppo affidati ai prestiti cinesi.
Prestiti che in alcuni casi hanno fatto scattare la cosiddetta trappola del debito, attraverso la quale la Cina riesce a tenere sotto pressione molti Paesi africani, accordando crediti spesso impossibili da restituire perché ovviamente non presta denaro gratis e intende essere rimborsata anche stipulando clausole vessatorie. Tra i due blocchi si è quindi instaurata una relazione squilibrata che genera effetti perversi con i prestiti cinesi che hanno fatto crescere il debito africano, che negli ultimi cinque anni è raddoppiato con il rischio di diventare insostenibile.
Un autorevole e illuminante parere sugli esiti dell’ultimo FOCAC giunge dall’economista e sinologo francese Thierry Pairault. In un’intervista a Le Monde Afrique, l’emerito direttore della ricerca del Centro nazionale per la ricerca scientifica (CNRS) di Parigi ha affermato che l’ottavo FOCAC ha segnato “la fine delle illusioni dopo anni di finanziamenti cinesi a impatto limitato sullo sviluppo del continente”.
L’autorevole sinologo ha spiegato che “le relazioni sino-africane sono profondamente asimmetriche poiché la Cina è altamente importante per l’Africa, grazie ai suoi progetti e ai suoi finanziamenti che hanno permesso al continente di affrancarsi dalle potenze ex coloniali. Mentre, a livello economico, l’Africa non rappresenta affatto una priorità per la Cina, ma è interessante nella misura in cui confina con le rotte marittime verso l’Europa per consentire a Pechino di raggiungere l’obiettivo dell’accesso al mercato europeo”.
Nel cementato rapporto tra i due player, c’è anche da sottolineare che gli ingenti stanziamenti finanziari cinesi in favore dell’Africa hanno permesso al gigante asiatico di fidelizzare un buon numero di Paesi dai quali raccogliere crescenti consensi alle Nazioni Unite, in termini di voti all’Assemblea Generale. È in questo modo che la Cina ha potuto ottenere la direzione di quattro agenzie dell’ONU: l’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO), l’Organizzazione per l’aviazione civile internazionale (ICAO), l’Organizzazione per lo sviluppo industriale (ONUDI) e l’Unione internazionale delle telecomunicazioni (ITU).
Un evidente successo diplomatico, considerato che né gli europei né gli americani hanno mai guidato contemporaneamente così tante agenzie delle Nazioni Unite. Senza dimenticare, che Pechino ha potuto conquistare queste posizioni solo grazie al sostegno africano, che non ha un costo troppo rilevante.
Un altro aspetto da sottolineare nei lavori dell’ottavo FOCAC è insito nella differenza a livello rappresentativo rispetto agli ultimi due vertici, quello di Johannesburg nel 2015 e quello di Pechino nel 2018, che rispettivamente registrarono la presenza di 13 e oltre 50 capi di Stato o di Governo africani, mentre il meeting di Dakar è stata una riunione a livello ministeriale.
Il Presidente cinese Xi Jinping non ha partecipato di persona all’evento e ha tenuto un discorso in videoconferenza per enunciare il suo piano per l’Africa, mentre aveva sempre partecipato agli incontri di Pechino. E prima di Xi era il Primo Ministro del Consiglio di Stato cinese a presenziare agli incontri del FOCAC in Africa (Etiopia nel 2003 ed Egitto nel 2009). Poi sotto Xi, le due riunioni del FOCAC del 2015 e del 2018 sono state trasformate in vertici di leadership.
Il ritorno del FOCAC a livello ministeriale può creare l’impressione che l’incontro di Dakar sia stato declassato, ma fin dalla sua istituzione nel 2000, è stato un evento a livello ministeriale che si tiene in maniera alternata a cadenza triennale tra Pechino e l’Africa. Inoltre, le restrizioni dovute all’emergenza epidemiologica del Covid hanno influito in buona misura sulla non partecipazione dei leader africani e del Presidente cinese.
I cambiamenti più significativi per FOCAC sono invece avvenuti a livello di sostegno economico, come dimostra l’annunciata quantità di finanziamenti per almeno 40 miliardi di dollari. Si tratta di 20 miliardi di dollari in meno rispetto a quelli ufficializzati durante il vertice di Pechino del 2018 e a tutti gli effetti è la prima riduzione di fondi per l’Africa degli ultimi 12 anni, da quando la Cina è diventata il più grande partner commerciale dell’Africa. Mentre per l’assistenza agricola, clima e ambiente, salute, pace e sicurezza e promozione commerciale, il numero di progetti da sostenere per ciascuna categoria è sceso dai 50 del 2018 ai 10 del 2021.
I due giorni di lavori del vertice in Senegal sono stati anche segnati dall’impegno di Xi Jinping a donare un miliardo di dosi di vaccino contro il Covid-19, nel continente più in difficoltà nella campagna di immunizzazione con solo l’8,75% della popolazione africana, che ha completato il ciclo vaccinale (dati CDC Africa al 20 dicembre 2021).
Il Dragone vuole così mettere in difficoltà il mondo occidentale che sulla fornitura dei vaccini si è impegnato con il programma Covax, sostenuto dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS). Entro la fine del 2021, l’iniziativa avrebbe dovuto fornire due miliardi di dosi di vaccino a circa un quarto della popolazione dei Paesi più poveri, ma ha mostrato non poche criticità, soprattutto in Africa.
Dopo lo scoppio della pandemia di Covid-19, Cina e Africa hanno lavorato a stretto contatto per contenere la diffusione del virus. Già nel maggio 2020, alla prima Assemblea virtuale dell’OMS, Xi Jinping aveva promesso 2 miliardi di dollari di assistenza per il Covid-19 ai Paesi in via di sviluppo.
Il Dragone ha poi schierato 46 squadre mediche in Africa stabilendo una cooperazione tra gli ospedali cinesi e 30 ospedali africani per facilitare il trasferimento di conoscenze. Inoltre, Xi ha promesso di assistere l’Unione africana nella costruzione di nuove sedi del CDC Africa.
Il presidente cinese ha così colto l’occasione del FOCAC per ribadire come si debba “mettere le persone e le loro vite al primo posto, essere guidati dalla scienza, sostenere la rinuncia ai brevetti sui vaccini Covid-19 e garantire veramente l’accessibilità e la convenienza dei vaccini in Africa per colmare il divario di immunizzazione”.
La Repubblica Popolare è già il primo fornitore di vaccini dell’Africa e ora punta a diventare anche il suo primo donatore. Un argomento che tornerà utile a Pechino per dimostrarsi il più vigoroso propugnatore nella lotta al coronavirus e combattere la narrazione della Cina “untrice del mondo”.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
Africa sub-sahariana, le stime di crescita
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La scarsa diffusione dei vaccini (solo il 7,35% della popolazione del continente finora è stata vaccinata con due dosi) unita alla bassa presenza di misure sanitarie per il controllo dell’epidemia hanno pesato sull’economia dell’Africa sub-sahariana, che nel 2020 per la prima volta in venticinque anni è entrata in recessione, segnando un -1,7% con alcuni stati, come il Botswana, Namibia, Zimbabwe o Repubblica del Congo che hanno superato il -8%. Tuttavia, nel 2021, l’Africa sub-sahariana è uscita dalla recessione, ma la sua ripresa è ancora timida e fragile, trainata dalla crescita economica globale e più nello specifico dal vistoso aumento dei prezzi delle materie prime.
Le stime contenute nel ventiquattresimo rapporto semestrale Africa’s pulse, pubblicato lo scorso ottobre dalla Banca mondiale, indicano che nel 2021 la macroregione potrà crescere del 3,3%: una ripresa più debole rispetto alle altre emergenti economie di mercato. Nel biennio 2022-23, si prevede una crescita a tassi inferiori al 4%, ma sarebbe possibile superare il 5% con una rapida distribuzione del vaccino contro il Covid-19, che consentirebbe il ritiro delle misure di contenimento nell’area sub-sahariana.
La crescita economica più debole si tradurrà in un peggioramento delle condizioni di vita generali, con il risvolto dell’instabilità politica e securitaria, che facilmente si collega nei contesti dove cresce l’insicurezza alimentare e sanitaria, si abbassa livello di istruzione e aumentano genericamente tutte le condizioni di povertà.
Crescita irregolare
Gli economisti hanno registrato anche un’altra peculiarità in tutta l’area a sud del Sahara consistente in una crescita irregolare, come dimostrano i dati della Repubblica democratica del Congo (RdC) e del Sudafrica.
Secondo quanto dichiarato, la settimana scorsa, in una conferenza stampa dal direttore generale del Fondo monetario internazionale (FMI), Kristalina Georgieva, la RdC dovrebbe crescere del 5,4% nel 2021 e del 6,4% nel 2022. Georgieva ha lodato il Paese africano per la performance economica registrata durante la pandemia, in cui “il primo produttore mondiale di cobalto ha beneficiato dei prezzi più alti delle materie prime, ma soprattutto delle riforme che il Presidente Félix Tshisekedi e il suo Governo hanno portato avanti”.
Di contro, gli analisti di PricewaterhouseCoopers (PwC) hanno evidenziato che il Sudafrica rischia di mancare il suo obiettivo di crescita previsto di circa il 5%. I dati di Stats SA, il servizio statistico nazionale sudafricano, rivelano che la seconda economia più grande del continente è cresciuta al 5,8% nei primi tre trimestri dell’anno, ma l’emergere della nuova variante Omicron, insieme ai conseguenti divieti di viaggio imposti da più di 90 Paesi, provocheranno un rallentamento della crescita nell’ultimo trimestre di quest’anno.
PwC stima infatti che le restrizioni di viaggio da sole potrebbero produrre una perdita di entrate dall’estero, che potrebbe arrivare fino a 406 milioni di dollari riducendo la crescita media annua a meno del 5%.
I finanziamenti alle start-up tecnologiche
Nel frattempo, giungono notizie positive dalle start-up tecnologiche africane, come conferma Dario Giuliani, direttore della Briter Bridges Intelligence, una società londinese di analisi aziendale con focus sull’Africa. Giuliani afferma che le start-up africane dovrebbero raccogliere 5 miliardi di dollari di finanziamenti nel 2021: un importo superiore alla somma dei tre anni precedenti messi insieme. Secondo la società di analisi aziendale, l’aumento degli investimenti nel settore è in parte dovuto al richiamo delle imprese di Fintech (tecnologia finanziaria) nel continente, che ha contribuito a far nascere quattro nuovi “unicorni” (aziende private valutate oltre 1 miliardo di dollari) nel settore Fintech: Flutterwave, Interswitch, Fawry e Jumia.
Sebbene gli investimenti nelle start-up in Africa stanno registrando un anno record, il continente è ancora molto indietro rispetto agli accordi di Venture Capital (forma d’investimento ad alto rischio tipicamente orientata a finanziare start-up innovative) realizzati in altri mercati emergenti come India, America latina e Sud-est asiatico.
Una delle maggiori sfide che il mercato africano delle start-up deve affrontare è la carenza di investimenti nella fase iniziale. Sebbene il finanziamento di avviamento costituisca gran parte del volume totale delle operazioni di Venture Capital in Africa, ha rappresentato solo il 6% del valore totale delle operazioni segnalate nel continente tra il 2014 e il 2020. Questo squilibrio dimostra quanto possano essere impervie le opportunità di raccolta di capitali su piccola scala per le start-up africane. Sempre più aziende stanno cercando di far crescere le proprie attività, ma il loro percorso verso la scalabilità e lo sviluppo è ostacolato dai finanziamenti limitati nella fase iniziale.
Tuttavia, è indiscutibile che gli ultimi dati lasciano ben sperare e le start-up in Africa stanno creando nuove opportunità di mercato, avendo raccolto la notevole cifra di 1,1 miliardi di dollari in un anno come il 2020, che è stato senza dubbio difficile per gli investimenti privati a livello globale.
Ciononostante, nei passati dodici mesi, in Africa sub-sahariana si è registrato un aumento di 2,2 volte del volume delle trattative, rispetto al 2019, corrispondente a più di un terzo delle 933 trattative di Venture Capital segnalate in Africa, tra il 2014 e il 2020.
Un dato che attesta come, malgrado l’impatto della crisi sanitaria globale, il Venture Capital africano era ed è tuttora ricco di potenziale. Come conferma anche il secondo e ultimo rapporto sul Venture Capital in Africa realizzato dall’African Private Equity and Venture Capital Association (AVCA), che nel 2020 rileva un record di 319 accordi registrati, rispetto ai 140 accordi registrati nel 2019.
Una spinta inequivocabile che testimonia come imprenditori e investitori hanno resistito alla tempesta della pandemia con notevole forza d’animo. Una resistenza evidenziata dai titoli quasi quotidiani che i giornali locali dedicano a imprenditori e start-up africani, iperattivi nel raccogliere finanziamenti da investitori internazionali per crescere, scalare e continuare a innovare.
Somalia, al-Shabaab rivendica l’attentato a Mogadiscio
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Giovedì scorso si è registrato un nuovo attentato terroristico a Mogadiscio, la capitale della Somalia, dove un Suv imbottito d’esplosivo è stato lanciato contro un automezzo in movimento nei pressi del trafficato snodo del KM4, che congiunge le principali strade della capitale somala ed è ripetutamente colpito da frequenti attacchi perpetrati ai danni dei convogli della missione dell’Unione africana in Somalia (AMISOM) e dell’esercito nazionale somalo (SNA) in pattugliamento.
L’attacco è stato rivendicato alla Reuters dal gruppo terroristico islamista al-Shabaab, che aveva l’obiettivo di colpire un convoglio che trasportava personale delle Nazioni Unite. La detonazione è stata talmente forte da causare il crollo delle pareti di una scuola.
Il bilancio dell’attentato è di 8 vittime e 17 feriti, tra cui diversi studenti e almeno 4 componenti della scorta del convoglio; illesi invece gli stranieri scortati che erano l’obiettivo dell’azione.
Il sostegno degli Usa all’unità d’élite Danab
L’attacco suicida conferma una fase di recrudescenza della minaccia del terrorismo, con ripetute azioni letali nella capitale. Gli estremisti somali stanno capitalizzando la ridotta pressione antiterrorismo dovuta alla decisione degli Stati Uniti di rivedere il loro sostegno all’unità d’élite Danab, che fa parte dello SNA ed è addestrata da Washington.
La Danab ha registrato maggiori successi rispetto alle altre unità militari somale nella lotta ad al-Shabaab, grazie all’addestramento e all’equipaggiamento di gran lunga superiori. Tuttavia, i suoi 1.400 effettivi sembrano un numero assai ridotto in confronto ai 10mila combattenti attivi e alla ampia rete di informatori e fiancheggiatori, sui quali, secondo gli esperti, può contare al-Shabaab.
La decisione statunitense di rivedere il sostegno alla Brigata Danab è maturata alla fine di ottobre, dopo che gli americani hanno appurato il suo coinvolgimento nei recenti scontri a Guriel, nella regione di Galmudug. Scontri che l’hanno vista contrapposta alla milizia Ahlu Sunna Wal Jama’a (ASWJ), gruppo paramilitare composto da sufi moderati contrari al salafismo radicale di al-Shabaab.
Nel dicembre 2017, ASWJ ha firmato un accordo di condivisione del potere con l’amministrazione statale del Galmudug, dove operano le sue milizie, mentre nel 2019 il Governo somalo ha lanciato un’esercitazione per incorporare i coscritti di Ahlu Sunna nelle forze di sicurezza federali somale. Tuttavia, il mese scorso sono scoppiati nuovi combattimenti a causa di una disputa irrisolta tra il gruppo paramilitare di ispirazione sufi e l’amministrazione regionale di Galmudug.
Sui combattimenti avvenuti a Guriel, aveva preso le distanze anche la missione AMISOM precisando che è attiva in Somalia “per combattere il terrorismo, al-Shabaab, il gruppo dello Stato islamico e i suoi affiliati, e non per non rivolgere le armi contro gli attori somali che sono impegnati in controversie politiche”.
Fonti diplomatiche citate da Voice of America hanno confermato che gli scontri hanno causato oltre 120 vittime da ambo le parti, tra cui il comandante dell’unità Danab, il maggiore Abdilatif Ahmed Ali Fayfle. Le stesse fonti hanno affermato che “in conseguenza del coinvolgimento della Danab negli scontri con ASWJ, gli Stati Uniti hanno deciso di rivedere il sostegno che forniscono all’unità dello SNA per garantire che venga utilizzato in modo appropriato e coerente con la politica e gli obiettivi statunitensi”.
È importante ricordare che negli ultimi dieci anni, gli Stati Uniti hanno investito miliardi di dollari in Somalia, parte dei quali per costituire e addestrare Danab, l’unica unità combattente efficace e apolitica nella guerra in corso contro al-Shabaab. Ora che molti addestratori americani hanno lasciato la Somalia, la catena di comando della Danab teme che la diminuita supervisione degli Usa renderà l’unità d’élite vulnerabile alle interferenze politiche del Governo somalo, che dallo scorso aprile è coinvolto in un aspro conflitto politico.
Anche se in questa nuova fase di recrudescenza degli attacchi di al-Shabaab, il processo elettorale resta in ombra, mentre la commissione elettorale federale che lo sovraintende ha stabilito che le elezioni della Camera bassa somala, iniziate il 16 novembre, dovranno terminare entro il 24 dicembre. Il rispetto della scadenza però dovrà tenere conto di eventuali riscorsi, in particolare quelli dell’opposizione rappresentata dall’ex Presidente del Parlamento Mohamed Sheikh Osman Jawari.
L’allarme siccità
L’assistenza internazionale resta necessaria anche per la grave siccità che in queste settimane sta colpendo il Paese, interessando oltre due milioni e mezzo di persone, ovvero circa un quinto della popolazione locale. Come riportato da Save The Children, la Somalia è attualmente messa in ginocchio dalla mancanza di acqua e dall’inedia. Stando alle stime dell’organizzazione da oltre un secolo impegnata nella tutela dei minori più fragili, circa 2,6 milioni di somali (il 22% dell’intera popolazione in 66 dei 74 distretti) stanno subendo le pesanti conseguenze della siccità.
I dati diffusi dall’Ong londinese attestano che circa 113mila persone risultano sfollate ed entro la fine dell’anno 1,2 milioni di bambini sotto i 5 anni saranno malnutriti; mentre nel prossimo anno, il numero delle persone bisognose di assistenza umanitaria salirà di oltre il 30%, da 5,9 milioni a 7,7 milioni. Lo scorso 24 novembre, il premier somalo Mohamed Hussein Roble ha dichiarato lo “stato di emergenza umanitaria” a causa della siccità che sta devastando il Paese, sollecitando l’assistenza internazionale.
L’appello di Roble sembra essere stato accolto il giorno seguente, quando l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao) e il Fondo per lo sviluppo del Qatar (Qffd) hanno siglato un accordo per lo stanziamento di 1,7 miliardi di dollari per aiutare le comunità rurali vulnerabili in Somalia a raggiungere la sicurezza alimentare e a sviluppare la resilienza ai cambiamenti climatici.
Un aiuto che potrebbe risultare assai utile dopo che la scorsa settimana, l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (OCHA) ha rilasciato un nuovo bollettino in cui afferma che “la Somalia si prepara all’arrivo di una quarta consecutiva stagione delle piogge fallimentare”. Il paradosso è nell’inversa proporzionalità tra danni ambientali commessi e conseguenze da espiare. “La Somalia – come spiega il giornalista Mohamed Kahiye – contribuisce a meno dello 0.003% delle emissioni di gas serra in atmosfera, ma l’impatto del cambiamento climatico grava fortemente sulle spalle dei pastori e degli allevatori locali”.
Diritti umani in Africa, a che punto siamo
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Lunedì scorso a Banjul, capitale del Gambia, sono cominciati i lavori della 69esima sessione ordinaria della Commissione africana sui diritti dell’uomo e dei popoli (ACHPR), che si concluderanno il prossimo 5 dicembre.
L’ACHPR è stata istituita dall’Assemblea dei capi di Stato e di Governo dell’allora Organizzazione dell’Unione africana (dal luglio 2001 divenuta Unione africana) come organo competente a promuovere e assicurare la tutela dei diritti fondamentali e di quelli dei popoli africani.
L’ultima sessione ordinaria dell’ACHPR di quest’anno giunge in un momento critico in cui la pandemia di Covid-19 ha messo in luce evidenti disuguaglianze economiche, nonché i deboli sistemi di protezione sociale dei Governi africani, che non riescono a garantire un tenore di vita migliore per le fasce più povere della popolazione.
Il nuovo report di Human Rights Watch
Nel frattempo, come evidenziato da un nuovo report di Human Rights Watch (HRW), molte altre sfide umanitarie sono sempre presenti, mentre gli Stati membri dell’Unione africana (Ua) continuano ad anteporre la politica ai diritti umani, ampliando il divario tra gli organi politici dell’organizzazione continentale e le istituzioni africane impegnate nella salvaguardia dei diritti umani. Un approccio che, secondo Carine Kaneza Nantulya, direttrice della difesa dell’Africa presso HRW, minaccia di annullare decenni di duro lavoro e progressi sulla delicata tematica nel continente.
Nantulya non perde l’occasione per sollecitare gli Stati membri dell’Unione africana ad affrontare con urgenza il deteriorarsi della situazione dei diritti umani e il deficit democratico che colpisce il continente, con particolare attenzione rivolta all’Etiopia. Secondo la direttrice della difesa dell’Africa per HRW, l’Ua dovrebbe invece allinearsi e mettere in pratica le raccomandazioni della Commissione africana sottoposte all’attenzione degli Stati membri, nell’ambito di un’agenda sui diritti umani incentrata sulla tutela delle persone.
In particolare, di fronte all’intensificarsi e all’allargarsi dei combattimenti nella regione del Tigrè, dove il 4 novembre 2020, il Governo federale etiope ha iniziato un violento conflitto, che con ogni probabilità è già stato segnato da numerosi crimini di guerra e contro l’umanità.
Per questo, è molto importante che l’Ua dimostri il proprio impegno a far rispettare gli obblighi degli Stati membri sulla base dei suoi rigorosi standard sui diritti umani. A questo proposito, la decisione del Consiglio per la pace e la sicurezza di invitare il Presidente dell’Ua a fornire aggiornamenti periodici sulla crisi, offre l’opportunità di riferire pubblicamente sugli sforzi regionali per evitare ulteriori atrocità e punire i responsabili.
Su quest’ultimo punto, l’Ong newyorchese non ha risparmiato le critiche al Consiglio per la pace e la sicurezza dell’organizzazione panafricana, che nonostante le crescenti tensioni, lo stato di emergenza nazionale approvato dal Parlamento etiope e il blocco umanitario illegale messo in atto delle autorità locali, ha aspettato più di un anno per lanciare l’allarme e chiedere al Presidente dell’Ua di fornire aggiornamenti periodici sulla crisi.
Governance e stato di diritto
A tale proposito, il Consiglio dovrebbe anche continuare a sostenere il lavoro della Commissione d’inchiesta sugli abusi commessi nel conflitto del Tigrè, istituita dall’ACHPR e invitare i commissari a relazionare al Consiglio al termine dell’indagine.
Da parte sua, il Governo etiope, ha criticato l’ACHPR per aver istituito la Commissione d’inchiesta e ha invece chiesto di avviare un’indagine congiunta nel Tigrè con la Commissione statale etiope per i diritti umani (EHRC). L’ACHPR ha però respinto questa richiesta, argomentando che un’indagine congiunta in un conflitto in cui il Governo è direttamente coinvolto altererebbe l’indipendenza della Commissione d’inchiesta.
L’Atto costitutivo dell’Ua e la Carta africana per la democrazia, le elezioni e la governance contengono diverse disposizioni che possono essere applicate per condannare i cambiamenti di regime incostituzionali e gli emendamenti costituzionali controversi, che possono violare i principi democratici di un Governo. Strumenti legali estremamente importanti per mitigare la recrudescenza dei colpi di Stato militari e il loro impatto negativo sulla democrazia e sui diritti umani in tutta l’Africa.
Human Rights Watch obietta che l’Ua abbia applicato in modo incoerente entrambi gli strumenti. Infatti, ha prontamente sospeso il Sudan da tutte le attività dell’organizzazione, dopo il colpo di Stato militare del 25 ottobre; mentre alla fine di aprile non ha intrapreso azioni simili nei confronti del Ciad, dopo il golpe messo in atto dal generale Mahamat Idriss Déby, detto Kaka.
In quest’ultimo caso, l’ACHPR si è limitato a condannare le forze di sicurezza del Ciad per l’uso eccessivo della forza contro manifestanti pacifici, che chiedevano la fine della requisizione del potere da parte del Consiglio militare di transizione (CMT), guidato da Kaka.
Assai debole è stato anche l’effetto del richiamo del Consiglio per la pace e la sicurezza compiuto in una sessione aperta nel maggio 2014 per adottare “tolleranza zero contro politiche e azioni perseguite con mezzi incostituzionali per rovesciare sistemi oppressivi”. In pratica, gli organi politici dell’Ua spesso tacciono sugli abusi dei diritti umani da parte dei Governi, compresi quelli che generano corruzione, disuguaglianza, violazioni dello stato di diritto e dei principi di buon Governo.
Per aiutare a prevenire cambiamenti di Governo incostituzionali e rafforzare le capacità di gestire tali situazioni, l’Ua dovrebbe affrontare attivamente i problemi dei diritti umani alla radice di queste sommosse, come la debolezza della governance, dello stato di diritto, delle istituzioni giudiziarie e la diffusa impunità.
Gli Stati membri dell’Unione africana dovrebbero quindi utilizzare gli strumenti legali a loro disposizione per tutelare le persone, i diritti umani e la democrazia nel continente. Oltre a sostenere apertamente le Commissioni d’inchiesta istituite dall’ACHPR, mettendo così in atto un approccio di cui a lungo termine potrebbe beneficiare tutta l’Africa.
Il nuovo colpo di Stato in Sudan interrompe la transizione democratica
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Un nuovo golpe militare ha fatto nuovamente precipitare il Sudan nel caos, interrompendo il corso della transizione democratica avviata dopo la rivolta popolare dell’aprile 2019, che aveva rovesciato la dittatura di Omar al-Bashir. Tutto ha avuto inizio all’alba di lunedì 25 ottobre, quando, dopo aver bloccato le vie d’accesso a Khartoum, le forze armate hanno fatto irruzione nel nuovo palazzo presidenziale.
I militari, guidati dal generale Abdel Fattah al-Burhan, hanno sciolto d’imperio il Governo composto da militari e civili, arrestato il Primo Ministro Abdalla Hamdok e la moglie, così come i Ministri dell’Industria, Ibrahim al Sheikh, e dell’Informazione, Hamza Baloul; oltre a diversi funzionari governativi ed esponenti dei movimenti della società civile. Dopo il putsch, i militari hanno sospeso la Costituzione, dichiarato lo stato d’emergenza, bloccato Internet e chiuso l’aeroporto di Khartoum.
Le forze di sicurezza hanno anche usato gas lacrimogeni e proiettili di gomma (e anche veri) per reprimere le manifestazioni organizzate dai movimenti sudanesi pro-democrazia, che sabato scorso hanno visto decine di migliaia di persone scendere in piazza in diverse zone di Khartoum e nella città gemella Omdurman, nonché nella città di Nyala.
Le imponenti proteste per chiedere il ripristino del Governo civile si sono ripetute in tutto il Paese, da El-Obeid ad Atbara e Port Sudan, nonostante la campagna di arresti e la chiusura delle reti di telefonia mobile.
I gruppi pro-democrazia rifiutano la possibilità di riconoscere o negoziare con un Governo militare, chiedendo invece il rilascio di tutti i leader civili, compreso il Primo Ministro Abdalla Hamdok, che ora è agli arresti domiciliari.
Le manifestazioni
Le marce dei manifestanti rappresentano la sfida più seria alla presa del potere da parte dei militari, che per disperdere i cortei finora hanno provocato almeno 11 morti e oltre 170 feriti. Un tributo di sangue che ha suscitato un coro di reazioni di condanna da parte della comunità internazionale e di Amnesty International, che ha invitato i generali sudanesi a indagare sulle uccisioni di manifestanti e a perseguire le persone coinvolte.
Le manifestazioni sono arrivate quando il generale al-Burhan ha annunciato che per ricoprire l’incarico di Primo Ministro avrebbe nominato un tecnico per governare al fianco dei generali. Burhan ha insistito sul fatto che l’acquisizione del potere da parte dell’esercito “non è un colpo di Stato”, ma un’iniziativa presa al solo scopo di “modificare il corso della transizione sudanese”.
Le proteste sono state legittimate dal segretario di Stato americano, Antony Blinken, che attraverso un tweet ha avvertito le forze di sicurezza del Sudan di rispettare i diritti umani, aggiungendo che qualsiasi violenza contro manifestanti pacifici è “inaccettabile” e che gli Stati Uniti continuano a sostenere il popolo del Sudan nella sua lotta nonviolenta per la democrazia.
Facendo eco a Blinken, l’inviato speciale britannico per il Sudan e il Sud Sudan, Robert Fairweather, con un tweet ha esortato le forze di sicurezza del Sudan a “rispettare la libertà e il diritto di espressione” per i manifestanti, sottolineando che “la protesta pacifica è un diritto democratico fondamentale e i servizi di sicurezza e i loro leader si assumeranno la responsabilità di qualsiasi violenza nei confronti dei manifestanti”.
Nel frattempo, la comunità internazionale continua a riconoscere come legittimo il Governo del deposto Primo Ministro, Abdalla Hamdok, mentre gli Stati Uniti e la Banca mondiale hanno tagliato gli aiuti esteri indispensabili per il Paese in gravissima difficoltà economica.
I militari non sembrano però tenere in considerazione tutto questo e continuano a reprimere duramente le proteste aprendo il fuoco contro la folla, abbattendo le barricate di pneumatici e pietre che bloccavano le strade e ponendo in stato di fermo migliaia di persone.
Le tensioni interne
Il colpo di mano dell’esercito è arrivato dopo settimane di crescenti tensioni tra i leader militari e civili. Nonostante gli sforzi di dialogo e di apparente conciliazione tra civili e militari, questi ultimi avevano sempre cercato di mantenere le redini del potere, lasciando spazio solo a concessioni puramente simboliche.
Le forze armate hanno sempre percepito come una minaccia il tentativo di affrancamento e supremazia da parte delle componenti civili del Consiglio sovrano di transizione, che avrebbe avuto un ulteriore rafforzamento attraverso la legittimazione derivante dalle elezioni previste per il 2023.
La stessa decisione di esautorare al-Bashir nell’aprile di due anni fa va interpretata nell’ottica di offrire al popolo sudanese un capro espiatorio e salvaguardare l’immagine delle forze armate, che hanno supportato il golpe del 2019 e messo in atto quello dello scorso 25 ottobre, pur essendo parte integrante del sistema di potere che per trenta anni ha controllato il Sudan.
Per questo, le recenti iniziative del Comitato istituito per recuperare fondi pubblici dai lealisti di al-Bashir e le recenti mosse per consegnare al-Bashir alla Corte penale internazionale dell’Aja sono stati visti come una caccia alle streghe dai militari e dai molti funzionari pubblici rimasti fedeli al dittatore.
Inoltre, non vi è alcuna indicazione che l’esercito abbia mai pianificato di cedere effettivamente il potere a leader civili, come dimostrato dal modo in cui fin dall’inizio i militari hanno negoziato il processo di transizione, alimentando le tensioni con l’avvicinarsi della scadenza per cedere il controllo del Consiglio sovrano di transizione ai civili.
La leadership civile non è tuttavia esente da colpe. A causa di problemi sistemici profondamente radicati e della lenta realizzazione di un adeguato sostegno internazionale, la situazione economica non è migliorata velocemente, mentre diversi leader della società civile sono stati risucchiati in inutili e controproducenti lotte di potere.
La contiguità tra il vecchio regime e l’attuale leadership militare si manifesta anche nei ruoli di spicco che alcuni alti ufficiali dell’era al-Bashir ancora continuano ad avere nel Paese. Fra tutti emerge la figura del vice Presidente del deposto Consiglio sovrano di transizione, Mohamed Hamdan Dagalo “Hemeti”, potente generale sudanese del clan dei Mahariya, a capo delle Forze di supporto rapido (RSF). Un’unità mercenaria, assoldata dal Governo di Khartoum, che durante la guerra in Darfur si rese responsabile di inaudite violenze e crimini di guerra contro gli appartenenti alle etnie non arabe Fur, Maasalit e Zaghawa.
Nel confuso clima post-golpe in Sudan, Hemeti emerge come l’eminenza grigia del sistema di potere sudanese, che ha avuto un ruolo primario nella caduta del Consiglio sovrano di transizione e continua a tessere le trame della giunta golpista guidata dal generale al-Burhan.
Al momento attuale, risulta difficile prevedere quali potrebbero essere gli sviluppi della crisi sudanese, che vede le forze armate controllare la situazione nella capitale Khartoum e nei centri urbani principali. Mentre una parte del popolo e della società civile sudanesi si è dichiarata pronta a ripristinare il Consiglio sovrano di transizione, anche con forme di mobilitazione violenta.
Una contrapposizione che potrebbe sfociare in un’ulteriore radicalizzazione del confronto tra le parti e determinare un conflitto interno su larga scala, con tutte le drammatiche conseguenze che ne deriverebbero.
La minaccia terroristica in Sudan
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In Sudan si sta profilando una nuova minaccia alla sicurezza del Paese, dove nelle ultime settimane sono state neutralizzate cellule terroristiche legate allo Stato islamico. L’ultima in ordine di tempo è stata sgominata con l’operazione condotta lo scorso 4 ottobre dalle forze di sicurezza locali, che si sono scontrate con un gruppo di sospetti terroristi nel quartiere di Jabra, nel periferico quadrante sud della capitale Khartoum.
Alcuni testimoni hanno riferito all’agenzia di stampa Reuters di aver visto gli agenti ingaggiare un conflitto a fuoco con un gruppo di uomini armati all’interno di un edificio residenziale. L’agenzia di stampa del Governo sudanese SUNA ha indicato i militanti come membri di una cellula terroristica, rendendo noto che quattro criminali e un ufficiale delle forze di sicurezza sono rimasti uccisi nello scontro.
Il raid delle forze antiterrorismo ha interessato due siti, dove sono stati arrestati quattro sospetti militanti, mentre il giorno prima erano stati catturati altri otto estremisti stranieri a Omdurman, città gemella della capitale Khartoum.
Pochi giorni prima, il 28 settembre, nel quartiere di Al-Azhari, sempre nella parte meridionale di Khartoum, due ufficiali e tre sottoufficiali del Servizio generale d’intelligence del Sudan (GIS) sono stati uccisi in un raid contro una cellula collegata allo Stato islamico. Nel corso dell’operazione, avvenuta nella notte, le forze di sicurezza hanno arrestato 11 terroristi stranieri di diverse nazionalità, mentre quattro sono riusciti a fuggire e sono ricercati attivamente in tutto il territorio sudanese.
Interessante notare, che per la prima volta le autorità locali hanno annunciato l’arresto di militanti dell’Isis nel Paese, tuttavia non hanno fornito molti dettagli sulle affiliazioni degli arrestati e sui piani che avevano per compiere attentati terroristici.
Il giorno dopo l’attacco del 28 settembre, un gruppo jihadista che si autodefinisce Movimento per la predicazione e il combattimento ha affermato di aver ucciso i cinque agenti del GIS. Nella dichiarazione pubblicata su Facebook, il gruppo ha rivendicato anche la responsabilità del fallito attentato per eliminare il Primo Ministro Abdalla Hamdok, compiuto il 9 marzo dello scorso anno.
Finora, le indagini non avevano consentito di risalire ai colpevoli del tentativo di assassinare Hamdok. Il gruppo ha anche negato di avere legami con l’Isis, sottolineando che “i trucchi mediatici a buon mercato utilizzati dalle autorità sudanesi non gli impediranno di compiere nuovi attacchi”.
La presenza dell’Isis in Sudan
Nei fatti, la formazione estremista che si è scontrata con le forze di sicurezza sudanesi era numerosa, ben armata, ben organizzata e costituiva certamente un serio pericolo all’interno della capitale. La minaccia della presenza di gruppi terroristici in Sudan è rimasta sempre latente, tanto che nel 2019, il Dipartimento di Stato americano aveva avvertito che l’Isis si era diffuso in Sudan, dopo aver perso le sue aree di controllo in Siria e Iraq.
Tuttavia, il Ministro degli Affari religiosi Nasreddine Mufreh, aveva negato la presenza dell’Isis nel Paese africano, ma aveva confermato l’esistenza di molti estremisti coperti dal precedente regime di Omar al-Bashir.
Sempre nel 2019 le autorità sudanesi hanno annunciato l’arresto di sei membri dell’organizzazione terroristica nigeriana Boko Haram, mentre nel giugno 2020, il Ministero dell’Interno ha comunicato l’arresto di nove appartenenti ad al-Qaeda di diverse nazionalità, che stavano pianificando di compiere attentati nei Paesi del Golfo. In precedenza, le autorità sudanesi avevano fermato altri estremisti legati alla Fratellanza Musulmana.
Il Sudan durante il regime di Omar al-Bashir è stato considerato per anni un incubatore di gruppi islamisti. Tanto che il 12 agosto 1993 era stato incluso dal Dipartimento di Stato americano nella lista nera di Paesi che sostengono il terrorismo, per aver concesso ospitalità a Osama bin Laden.
Inoltre, nel 1997, l’amministrazione Clinton aveva imposto sanzioni economiche contro Khartoum, che introducevano un embargo sul commercio, il congelamento di tutti i beni gel governo e limitavano la capacità delle banche sudanesi di lavorare con partner stranieri.
Dette sanzioni sono state sospese nell’ottobre 2017 dall’amministrazione Trump, ma il Sudan continuava a rimanere nella lista degli Stati sponsor del terrorismo. Finalmente, lo scorso 14 dicembre, il Governo di transizione del Sudan è riuscito a conseguire la rimozione dalla black list. Poi, a seguito di questa decisione, il 21 dicembre il Congresso americano ha deliberato a favore del ripristino dell’immunità legale di Khartoum.
Il professor Ahmed Sabah Al-Khair, un esperto sudanese di estremismo violento, ritiene che la situazione di instabilità in alcuni degli Stati limitrofi del Sudan – come Libia, Ciad e la regione del Sinai in Egitto – rende probabile che gruppi estremisti possano infiltrarsi nel Paese.
Sebbene all’interno del Sudan non hanno mai avuto luogo attentati terroristici su larga scala, ad eccezione di alcuni eventi minori. Come l’uccisione, il primo gennaio 2008, da parte dell’estremista Abdul Ra’uf Abu Zaid Muhammad Hamza del diplomatico americano John Granville e del suo autista. E nel gennaio 2014, l’accoltellamento del console generale russo e di sua moglie per mano di un fanatico centrafricano.
Gli ultimi fatti indicano che, specialmente dopo la caduta del regime di Bashir, per Khartoum il terrorismo costituisce una sfida prioritaria per la futura sicurezza del Paese, che può essere affrontata anche accelerando l’introduzione di una legge ad hoc. Nel varare la quale sarebbe estremamente importante che siano garantiti il rispetto degli standard dei diritti umani e dello stato di diritto.
Mali, le ragioni del disimpegno di Parigi
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Lo scorso 10 giugno, il Presidente francese Emmanuel Macron ha indetto una conferenza stampa per annunciare la necessità di dare corso a un graduale ritiro dell’operazione antiterrorismo Barkhane, che dal primo agosto 2014 ha integrato l’operazione Serval in Mali e l’operazione Épervier (presente in Ciad dal 1986).
Un mese dopo l’annuncio, in occasione del vertice del G5 Sahel, il capo dell’Eliseo ha ufficializzato il ritiro della missione attiva nella parte occidentale del Sahel, sotto il mandato di fornire assistenza e supporto alle forze armate del Mali in stretto coordinamento con i Paesi del G5 Sahel (Ciad, Niger, Mali, Burkina Faso e Mauritania) e con la missione multidimensionale integrata delle Nazioni Unite in Mali (MINUSMA).
Nello specifico, Macron ha chiarito i contorni del disimpegno dei suoi soldati dalla regione saheliana, spiegando che tra la fine del 2021 e l’inizio del 2022 chiuderanno le basi di Kidal, Tessalit e Timbuctu, nel nord del Mali. Mentre il contingente francese, che ora conta 5.100 uomini dispiegati tra Mali, Niger e Ciad, dovrebbe essere ridotto del 40%, diminuendo l’impegno della Francia a circa 2.500 unità.
Questi effettivi verranno concentrati nella cosiddetta zona dei tre confini di Mali, Niger e Burkina Faso per cercare di fermare l’espansione dei gruppi jihadisti verso il golfo di Guinea. La Barkhane è l’operazione di contrasto al terrorismo che ha ottenuto i risultati più significativi rispetto alle altre missioni attive nel Sahel. Tra il 2015 e il 2019 ha eliminato quasi 700 jihadisti e significativamente ridotto le capacità offensive dello Stato islamico nel grande Sahara (ISGS), che costituisce l’obiettivo prioritario delle operazioni antiterrorismo nella regione.
Nel giugno 2020, la Barkhane ha tolto definitivamente di scena uno dei terroristi più ricercati del mondo: l’emiro di al-Qaeda nel Maghreb islamico (AQMI), Abdelmalek Droukdel, alias Abu Mussab Abdelwadud. E due mesi e mezzo dopo ha annunciato l’uccisione di Abdel Hakim al-Sahrawi, considerato il numero due dell’ISGS. I militari francesi hanno anche eliminato altri due jihadisti di spicco: Abu Hassan al-Ansari e Yahia Abu al-Hammam, due dei cinque leader della coalizione qaedista Jama’ah Nusrah al-Islam wal-Muslimin (JNIM, Gruppo per il sostegno all’Islam e ai musulmani).
Tuttavia, i successi militari ottenuti dall’operazione a guida francese e l’azione delle altre truppe europee finora non sono riusciti a fermare l’insorgenza dei gruppi estremisti, che stanno effettuando attacchi sempre più frequenti e sofisticati contro i villaggi e le basi dei locali eserciti in Mali, Niger e Burkina Faso. Come confermato sul sito di Radio France International dal Capo di stato maggiore dell’esercito francese, il generale François Lecointre, secondo cui “il terrorismo islamico continua a diffondersi, a stabilire basi locali, a raggiungere una popolazione sempre più ampia, mentre le perdite subite dall’esercito e le uccisioni di civili dovute agli attacchi jihadisti sono ancora troppo elevate”.
Nel frattempo, il Sahel rimane una regione povera costretta a confrontarsi da più di otto anni con l’insorgenza di vari gruppi jihadisti, che dalla metà del 2016 hanno prodotto l’escalation più drammatica della violenza in Africa, come provano i dati pubblicati alla fine di luglio dal Centro di studi strategici sull’Africa (ACSS) con sede a Washington. Dati che indicano come negli ultimi dodici mesi, l’attività militante islamista nel Sahel è aumentata del 33%, con la maggior parte degli attacchi operati dal JNIM, in particolare dal Fronte di Liberazione del Macina, uno dei quattro gruppi qaedisti confluiti nel cartello di al-Qaeda nel Sahel.
Tutto questo ha sicuramente influito sulla decisione di Macron di ritirare i militari della Barkhane, insieme al fatto che, dopo otto anni di impegno sul campo e 55 vittime francesi, Parigi si è stancata di interpretare in assolo il ruolo di gendarme nel Sahel. Sulla scelta del presidente francese hanno pesato anche i due recenti colpi di Stato in Mali, nonostante tutti gli sforzi fatti dalla Barkhane per stabilizzare il Paese africano.
Ciononostante, Macron è perfettamente conscio che non potrà ritirarsi completamente dalla regione, la cui pronunciata instabilità potrebbe contaminare altri Stati africani. Per questo, se da un lato le truppe dell’operazione Barkhane entro il 2023 verranno ridotte della metà, i 500 commando delle forze speciali francesi della Task Force Sabre operativi nella regione, continueranno a dare la caccia ai terroristi.
La Francia inoltre continuerà a guidare il nuovo contingente interforze europeo Takuba (nella locale lingua tuareg “spada”), che lo scorso 2 aprile è diventato operativo in coordinamento con altre missioni internazionali, in particolare la MINUSMA, la missione delle Nazioni Unite di stabilizzazione del Mali, e l’U.S. Africom, il comando delle forze armate statunitensi per il continente africano.
La nuova Task Force sembra dunque lo strumento ideato da Macron per coinvolgere l’Europa nel Sahel, dove nonostante l’importante impiego di mezzi e il sacrificio in termini di vite umane, le forze francesi non sono riuscite a mantenere la stabilità del territorio. Tuttavia, nonostante si fossero inizialmente dichiarati favorevoli all’iniziativa d’oltralpe, non tutti gli undici Stati europei firmatari della dichiarazione di adesione hanno inviato unità operative sul terreno, mentre uno di essi, la Germania, ha rifiutato ben due volte la richiesta francese.
Il primo Paese a fornire un contributo concreto alla Task Force europea è stata l’Estonia, già da tempo impegnata in Mali al fianco della Francia nell’ambito dell’operazione Barkhane. Il contributo di Tallin allo sforzo francese consta di 95 unità, la metà delle quali appartengono a reparti di forze speciali. Altro Stato che non ha esitato a prendere parte alle operazioni della Takuba è la Repubblica Ceca, che ha schierato 60 effettivi, seguita dalla Svezia, che lo scorso febbraio ha inviato 150 operatori delle forze speciali, in aggiunta a tre elicotteri UH-60 e a un aereo da trasporto C-130J.
Agli assetti messi a disposizione da questi tre Paesi occorre aggiungere alcune unità di staff inviate da Portogallo, Belgio e Olanda. Nei prossimi mesi, secondo quanto riferito dal ministro della Difesa francese Florence Parly, Parigi attende l’arrivo di forze speciali da parte di Grecia, Ungheria, Ucraina e Danimarca. Finora, però, solo quest’ultima ha confermato la sua partecipazione, specificando che un contingente danese composto da circa 100 uomini, dovrebbe giungere in Mali a inizio 2022.
Alla missione europea interforze ha aderito anche l’Italia, che inizialmente non figurava tra gli 11 paesi firmatari della dichiarazione di sostegno. La partecipazione dei nostri soldati alla Takuba (200 unità, 20 mezzi terrestri e 8 mezzi aerei) è stata decisa in occasione del vertice bilaterale con la Francia, tenutosi a Napoli il 27 febbraio 2020, durante il quale, a seguito di una richiesta esplicita da parte di Macron, l’Italia ha annunciato la sua adesione.
La Takuba rappresenta un impegno piuttosto gravoso per i Paesi coinvolti, dato che riguarda le forze speciali dei rispettivi eserciti e prevede anche il loro coinvolgimento nelle operazioni militari sul campo. Mentre sta smobilitando l’operazione Barkhane, Macron quindi si troverà nella scomoda posizione di dover convincere gli alleati europei a proseguire e magari rafforzare la Takuba. E dovrà persuadere della bontà delle sue decisioni anche i Paesi del G5 Sahel, compresi i nuovi leader in Mali e Ciad, ai quali sta chiedendo di riformare il proprio Stato e cedere il potere a un governo civile e democratico.
Richieste difficili da veicolare mentre la Francia sta preparando il suo ritiro da un’area dove, secondo l’autorevole centro di analisi geopolitica Critical Threats, con base a Washington, potrebbe sorgere un nuovo proto-stato sul modello di quello che il defunto califfo Abu Bakr al-Baghdadi istituì in Siria e in Iraq.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
La crisi nel Tigrè si aggrava
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La crisi nella regione etiope del Tigrè continua a deteriorarsi mentre continuano i combattimenti tra le truppe governative, appoggiate dai miliziani della vicina Eritrea, e il Fronte di liberazione popolare del Tigrè (TPLF). Dopo oltre undici mesi di violenze sono morte migliaia di persone, almeno due milioni sono fuggite dalle loro abitazioni e più di cinque milioni di persone, equivalenti al 90% della popolazione, hanno urgente bisogno di assistenza, soprattutto di aiuti alimentari (tasso di malnutrizione superiore al 22%). Purtroppo, le organizzazioni umanitarie impegnate sul campo, non sono in grado di raggiungere questa moltitudine umana.
Uno scenario a dir poco inquietante, che ha indotto il sottosegretario generale delle Nazioni Unite per gli Affari umanitari, Martin Griffiths, ad affermare che “la crisi nella regione dell’Etiopia rappresenta una macchia sulla nostra coscienza”.
In un’intervista rilasciata all’Associated Press, il capo delle azioni umanitarie dell’Onu ha spiegato che “molti abitanti del Tigrè sono costretti ad alimentarsi con radici, fiori e piante invece di aver assicurato un pasto normale”. Un’emergenza che secondo Griffiths richiama alla mente la tremenda carestia che negli anni ottanta uccise oltre un milione di persone in Etiopia.
Per questo ha chiesto al Governo etiope di condurre il Paese lontano dall’“abisso in cui sta precipitando” e lo ha accusato di aver messo in atto un blocco, che limita di fatto al 10% la distribuzione degli aiuti e dei medicinali destinati alla popolazione del Tigrè.
In risposta, il Governo sta accusando l’organismo internazionale di “ingerenza” nei suoi affari interni e ha ordinato l’espulsione di sette alti funzionari delle Nazioni Unite. Tra questi c’è il responsabile nazionale del Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (UNICEF), il capo dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA) e un alto funzionario dell’Ufficio dell’Alto Commissario per i diritti umani (OHCHR), che stava conducendo un’indagine congiunta con la Commissione per i diritti umani nominata dal Parlamento etiope sulle denunce di uccisioni di massa, stupri di gruppo e altri abusi perpetrati nel Tigrè.
Lo scorso 13 settembre, a Ginevra, l’Alto commissario Onu per i diritti umani Michelle Bachelet, aveva rivelato che per ragioni di sicurezza gli esperti non hanno potuto visitare il Tigrè orientale e centrale. Quindi la commissione congiunta non si è recata ad Axum, Idaga Hamus, Adigrat, Mahbere Dego, Debre Abbay e diversi altri centri dove, stando alle organizzazioni umanitarie e alle testimonianze raccolte dai media internazionali, sono stati commessi i crimini di guerra peggiori dalle forze etiopi ed eritree. Nel frattempo, la pubblicazione del rapporto sul Tigrè è stata posticipata al primo novembre, ma il lavoro si preannuncia largamente incompleto.
In precedenza, le autorità etiopi avevano accusato gli operatori umanitari di favorire e persino di armare le forze del Tigrè, sebbene non abbiano mai fornito prove a sostegno delle loro accuse.
L’ostilità del Governo di Abiy Ahmed nei confronti delle agenzie umanitarie presenti in Etiopia è andata crescendo di pari passo con le denunce contenute nei loro report sulla severità della crisi nel Tigrè. Senza dimenticare, che dall’inizio delle ostilità sono stati uccisi almeno una dozzina di operatori umanitari, tre dei quali lo scorso giugno, appartenenti a Medici senza frontiere (Msf). Il grave accaduto ha costretto la nota Ong a ritirarsi da alcune aree della regione.
In quest’ottica, la decisione di espellere i funzionari del Palazzo di vetro risponde alla necessità di silenziare il loro dissenso nei confronti delle scelte politiche di Addis Abeba, riguardo la gestione della crisi.
Sebbene la guerra nel Tigrè adesso rappresenti la più evidente fonte di violazioni dei diritti umani in Etiopia, non è purtroppo l’unica. Altre zone del Paese africano, in particolare le regioni dell’Oromia occidentale, dell’Amhara e del Benishangul-Gumuz, le aree lungo i confini delle regioni Oromia-Somalo e Afar-Somalo, e l’Etiopia meridionale, sono interessate da violenti conflitti e abusi sulle popolazioni locali.
È infine importante ricordare che Addis Abeba è al centro degli affari e della diplomazia dell’Africa. Proprio nella capitale etiope hanno sede gli uffici di molti enti di coordinamento e degli organismi umanitari e decisionali pan-africani.
Una guerra di lunga durata in Etiopia, oltre a influenzare negativamente le capacità di risposta strategica dell’intero continente, screditerà anche l’iniziativa “Silencing the Guns” (Mettiamo a tacere le armi), lanciata dall’Unione africana per porre fine a tutte le guerre, i conflitti civili, la violenza di genere, i conflitti violenti e prevenire i genocidi nel continente entro il 2020.
Quando, all’inizio dello scorso novembre, il Primo Ministro Abiy Ahmed diede inizio alle operazioni militari aveva promesso un rapido conflitto per ripristinare il controllo del Governo centrale, dopo gli attacchi ai campi dell’esercito federale da parte del TPLF.
Poi, il 28 novembre il premier etiope, annunciò l’ingresso dell’esercito federale nella capitale dello stato settentrionale, Macallè, tuttavia, alla fine di giugno, i ribelli che sostengono il TPLF hanno ripreso la città e gran parte della regione, costringendo le truppe governative a ritirarsi. Le forze tigrine si sono poi spinte nelle regioni limitrofe di Afar e Amhara, costringendo centinaia di migliaia di persone ad abbandonare le proprie case.
In un simile contesto, l’Unione africana, le Nazioni Unite e le potenze internazionali dovrebbero aumentare i loro sforzi per portare Abiy al tavolo dei negoziati. Perché se non sarà possibile avviare un dialogo costruttivo tra le parti, le conseguenze per l’Etiopia e l’intera Africa potrebbero essere assai gravi.
Guinea, quali gli scenari prevedibili dopo il colpo di Stato?
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Nella mattinata dello scorso 5 settembre, la Guinea Conacry ha subito il suo terzo colpo di Stato militare dall’indipendenza ottenuta nell’ottobre 1958. Un gruppo di militari della Guinea Conacry, guidati dal capo delle forze speciali, il colonnello Mamady Doumbouya, ha preso il potere, annullato la Costituzione, sostituito i governatori regionali con comandanti militari. Naturalmente, ha subito sciolto il Governo guidato dall’83enne Presidente Alpha Condé, che nell’ottobre 2020 era riuscito a ottenere un controverso terzo mandato, dopo aver modificato l’articolo 27 della Costituzione in vigore dal 2010 nel Paese africano
L’indomani, al termine di una riunione alla quale erano stati obbligati a partecipare i Ministri del Governo deposto, il colonnello Amara Camara, portavoce del Comitato nazionale per la riconciliazione e lo sviluppo (CNRD), ha annunciato che nel giro di poche settimane sarebbe stato istituito un Governo di unità nazionale.
Poi, mercoledì scorso, Camara ha annunciato la struttura del nuovo Governo, che sarà composto da 14 Ministeri e guiderà la transizione politica nella Repubblica di Guinea. Tuttavia, rimane ancora in termini vaghi la composizione della squadra, che avrà il compito di gestire la delicata fase della transizione. Anche se la nuova portavoce della giunta, il tenente colonnello Aminata Diallo, ha spiegato che molto presto sarà disponibile una lista con i nomi dei Ministri del nuovo esecutivo di transizione.
La nuova squadra
Per ora, è dato per certo che le caselle più importanti del nuovo Governo di transizione saranno occupate dall’ex portavoce del CNRD Amara Camara e dal colonnello Sadiba Koulibaly, considerato a tutti gli effetti il numero 2 della giunta militare, che alla fine di agosto 2019 era stato nominato comandante del Centro di addestramento per il mantenimento della pace.
Altra di figura di spicco che farà parte della nuova compagine di Governo è Balla Samoura, ex direttore regionale della gendarmeria di Conakry e molto vicino al capo della giunta, Doumbouya. Alto nome che circola con insistenza è quello del generale Aboubacar Sidiki Camara, alias “Idi Amin”. Ex capo di gabinetto del Ministro della Difesa, all’inizio del 2019 era stato rimosso dall’incarico e nominato ambasciatore a Cuba. Diverse fonti locali indicano che sarebbe tornato a Conakry, ma dal colpo di Stato non è mai apparso in pubblico.
L’annuncio della struttura del nuovo Governo di transizione arriva pochi giorni dopo l’ultima missione dei delegati dell’ECOWAS a Conakry, guidati dal Presidente ivoriano Alassane Ouattara e dal Presidente ghanese Nana Akufo-Addo. I due Presidenti hanno incontrato il leader dei golpisti Doumbouya al quale hanno avanzato la possibilità di dare corso a un breve periodo di transizione, che dovrebbe portare all’organizzazione delle elezioni presidenziali e legislative entro sei mesi.
Tuttavia, il colonnello Doubouya finora non ha fornito nessun chiarimento sulle modalità della transizione, sulla sua durata e su come sarebbero organizzate le elezioni. E continua ad assicurare che l’unico calendario valido è quello dei guineani.
Un fragile ordine democratico
Certamente il colpo di mano dei militari in Guinea non è avvenuto in maniera inaspettata. Il fragile ordine democratico del Paese ha tradito i suoi cittadini sempre più in contrasto con Condé per l’aumento della povertà, la corruzione dilagante e la cattiva gestione del Governo.
La decisione dell’ex Presidente Condé di cambiare la Costituzione in modo da poter candidarsi per un terzo mandato nel 2020 e la sua risposta violenta alle proteste di massa conseguite alla variazione della Carta non hanno fatto che aumentare il malcontento popolare. Per questo, non sorprende che molti in Guinea abbiano celebrato la fine del Governo di Condé.
La storia insegna che un colpo di Stato militare non è mai la soluzione ai problemi di un Paese e il rovesciamento militare operato da Doumbaya sta già gettando nel panico molte persone comuni. Mentre è assai probabile che aggraverà i problemi della Guinea, oltre a crearne dei nuovi.
La transizione politica
Tuttavia, questo momento incerto mette in maggiore evidenza i tanti problemi del Paese e offre ai guineani e ai loro alleati internazionali l’opportunità di ripensare alle priorità della nazione e chiedere un Governo che curi gli interessi della popolazione. L’attuale transizione politica offre un momento propizio per fare i conti con il passato autocratico della Guinea e impegnarsi nuovamente nell’applicazione della governance incentrata sulla tutela della collettività.
Un primo passo fondamentale per il nuovo Governo della Guinea dovrebbe essere quello di sfruttare l’esperienza dei veterani delle precedenti amministrazioni, che hanno prestato servizio con integrità morale. Nel frattempo, i cittadini comuni dovrebbero basarsi sulla loro recente esperienza di aperta manifestazione del dissenso per chiedere ai golpisti di mantenere la loro promessa di passare prontamente al Governo civile.
I guineani devono insistere su un calendario rigoroso e chiarire che non tollereranno incontri senza fine tra la giunta militare e i leader civili. Dovrebbero esercitare la pressione necessaria per chiedere aggiornamenti regolari, trasparenza e una voce al tavolo per negoziare il futuro della nazione. Senza dimenticare, che anche la comunità internazionale deve sostenere il popolo guineano con azioni concrete, che superino le dichiarazioni iniziali di condanna del colpo di stato e siano in grado di esercitare una certa pressione per favorire una transizione civile e mettere in guardia i leader dell’esercito attraverso sanzioni mirate.
Sahel, chi era il leader jihadista ucciso dalle forze francesi
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L’eliminazione dell’emiro Adnan Abu Walid al-Sahrawi, leader dello Stato islamico nel Grande Sahara (ISGS), una settimana fa è stata annunciata con grande enfasi dal Presidente francese Emmanuel Macron, che ha definito la dipartita del capo jihadista “un grande successo” per l’esercito francese, dopo più di otto anni di lotta contro gli estremisti islamici nel Sahel.
Adnan Abu Walid al-Sahrawi, nome di guerra di Lehbib Ould Ali Ould Said Ould, era il terrorista più ricercato della regione, che nonostante la pressante caccia all’uomo portata avanti da cinque anni, era riuscito a mantenere salda la guida dell’ISGS. Era ritenuto responsabile dell’attacco avvenuto il 9 agosto 2020 nell’area di Kouré, nel Niger sud-orientale, dove persero la vita sei operatori umanitari francesi, la loro guida e l’autista nigerino.
Oltre a essere ricercato dal Governo degli Stati Uniti, che nel maggio 2018 lo aveva designato “terrorista globale” e posto sul suo capo una taglia di 5 milioni di dollari, dopo aver accertato la sua responsabilità nell’agguato nei pressi del villaggio di Tongo-Tongo, a venti chilometri dal confine del Niger con il Mali, dove il 4 ottobre 2017, alcuni militanti dell’ISGS uccisero quattro soldati americani, tra cui due berretti verdi e cinque soldati nigerini.
L’atto terroristico suscitò l’indignazione dell’opinione pubblica americana, soprattutto per il fatto che prima di fuggire le milizie jihadiste saheliane fedeli allo Stato islamico tolsero le armi e le attrezzature militari ai quattro americani caduti, tentando di portare via almeno due dei corpi dal campo di battaglia
Negli ultimi cinque anni, sotto la guida di al-Saharawi, i miliziani dell’ISGS hanno condotto la maggior parte degli attacchi contro civili e soldati nella cosiddetta zona dei tre confini nella regione del Liptako-Gourma, a cavallo fra Burkina Faso orientale, Niger sud-occidentale e una parte del Mali centro-orientale, dove è particolarmente attivo anche il Gruppo per il sostegno dell’Islam e dei musulmani, affiliato ad al-Qaeda (GSIM).
Chi era al-Sahrawi e cosa ha fatto
Adnan al-Sahrawi era nato nel 1973 a Laayoune, la principale città del territorio conteso del Sahara occidentale, attualmente amministrata dal Marocco. Il leader jihadista vi trascorse l’infanzia e all’inizio degli anni novanta fu trasferito nei campi profughi nel sud dell’Algeria. È in questo periodo che il giovane Lehbib, membro della grande tribù Rguibat, decise di arruolarsi nell’Esercito popolare di liberazione saharawi, il braccio armato del Fronte Polisario.
Durante gli anni novanta e duemila, al-Sahrawi ha intrattenuto rapporti commerciali con la popolazione maliana dell’Azawad, ma soprattutto ha cominciato a inserirsi tra le nascenti fazioni di gruppi estremisti islamici che stavano mettendo radici nella porosa regione tra il Maghreb e il Sahel, dove ha abbracciato la dottrina islamista.
L’ex leader dell’ISGS ha avuto anche un ruolo di spicco durante la guerra del 2012-2013 in Mali, nella quale è stato il portavoce del Movimento per l’unicità e il jihad in Africa occidentale (MUJAO), che nell’agosto 2013 si è unito alla Brigata al-Mulaththamin per formare un nuovo gruppo chiamato al-Murabiṭun, guidato dal super ricercato terrorista algerino Mokhtar Belmokhtar.
Il 14 maggio 2015, Adnan al-Sahrawi diede l’annuncio del giuramento di fedeltà di al-Murabitun all’allora leader dello Stato islamico, il califfo Abu Bakr al-Baghdadi, tramite un messaggio audio, dichiarando la nascita dello Stato Islamico nel Grande Sahara. Pochi giorni dopo, però, l’atto di sottomissione fu sconfessato da Belmokhtar, che ribadì la sua vicinanza ad al-Qaeda nel Maghreb islamico (AQMI).
Il mancato riconoscimento da parte di Belmokhtar dell’affiliazione di al-Murabitun allo Stato islamico produsse la scissione interna al gruppo, da cui ha avuto origine la costola saheliana dello Stato islamico, guidata da al-Sahrawi. Tutto ciò, ha sicuramente inciso sul tardivo riconoscimento da parte dei vertici dell’ISIS dell’affiliazione dell’ISGS, che arriverà attraverso un comunicato ufficiale di Amaq, l’agenzia di stampa dello Stato islamico, alla fine di ottobre 2016, ben 17 mesi dopo la proclamazione della wilayat dello Stato Islamico nel Grande Sahara.
Il gruppo inizialmente non aveva molto peso, potendo contare al massimo su una dozzina di combattenti sahrawi. Ma tra i vari leader jihadisti stranieri attivi nel Sahel, al- Sahrawi aveva capito meglio e prima di chiunque altro la necessità di affermarsi a livello locale per consolidare il controllo sul territorio ed espandere il suo raggio d’azione.
Dopo aver formato l’ISGS ebbe l’intuizione di tessere saldi legami con le autorità dei villaggi di Akabar, Araban e Tabankort, dove aveva stabilito il suo santuario. Oltre ad aver guadagnato i favori di due arabi molto influenti nella regione, senza i quali non sarebbe mai riuscito a imporsi sulle altre formazioni jihadiste attive nella zona dei tre confini: Yoro Ould Daha, un ex membro del MUJAO riciclatosi nel Movimento arabo dell’Azawad (MAA) e Hanoun Ould Ali, noto narcotrafficante locale considerato molto vicino ai vertici del MAA.
Le operazioni francesi contro i jihadisti
L’operazione a guida francese Barkhane ha ucciso e catturato diversi membri di alto rango dell’ISGS seguendo la sua strategia di eliminare i leader jihadisti, messa in atto fin dall’inizio dell’intervento militare francese in Mali nel 2013. Nell’agosto 2018, aveva costretto alla resa l’emiro maliano Sultan Ould Bady, leader della Brigata Salaheddin confluita alla fine del 2017 nell’ISGS. Nell’agosto 2020, la Barkhane aveva annunciato di aver definitivamente tolto di scena Abdel Hakim al-Sahrawi, considerato il numero due dell’ISGS e tristemente noto per i suoi video di decapitazioni di civili inermi. All’annuncio, però, non fece seguito nessuna dichiarazione ufficiale da parte dello Stato islamico. Poi, lo scorso 2 luglio, durante un incontro con l’Associazione dei giornalisti della difesa, il Ministro francese delle Forze armate Florence Parly ha spiegato che “il numero 2 dell’ISGS sarebbe morto a maggio in circostanze ancora sconosciute”.
Un altro membro di spicco del gruppo, il tuareg Almahmoud ag Baye, alias Ikarey, è stato eliminato lo scorso 15 giugno dalle forze speciali francesi a sud-ovest di Ménaka, nella regione di confine con il Niger. Ilarey è stato ucciso dopo aver teso un’imboscata a una pattuglia congiunta di militari francesi e nigerini, che hanno reagito e fatto intervenire il supporto aereo ravvicinato.
Secondo l’intelligence francese, Ikarey fu reclutato nel 2008 da Moktar Belmokhtar e in seguito entrò nelle file dell’ISGS scalandone rapidamente i vertici, sembra grazie alla sua abilità nella pianificazione. Il jihadista aveva organizzato sia l’attacco alla base di Inantes, dove nel 2019 furono uccisi oltre 80 soldati, sia l’attentato di Tongo Tongo. Tanto che gli Stati Uniti lo avevano inserito nella lista nera dei terroristi più ricercati al mondo, mettendo sulla sua testa una taglia di 5 milioni di dollari.
Inoltre, nell’ambito dell’operazione congiunta Solstice, condotta nel giugno scorso dalla Barkhane, dalle forze armate nigeriane e dalla taskforce europea Takuba, sono stati fatti prigionieri due luogotenenti del defunto al-Sahrawi: Sidi Ahmed Ould Mohammed alias Katab al-Mauritani, così come Dadi Ould Chouaib, alias Abou Dardar.
Tuttavia, anche se negli ultimi mesi lo Stato islamico nel Grande Sahara è stato decapitato dei suoi vertici continua a essere temibile, soprattutto per la rapida crescita dell’organizzazione in termini numerici. Una crescita in gran parte riconducibile alla capacità di aver arruolato tra le sue fila combattenti maliani, burkinabe e nigerini, molti dei quali gravitavano nell’orbita di al-Qaeda. Senza contare che l’eliminazione del suo carismatico leader, al di là della sua indubbia valenza simbolica, potrebbe alterare le dinamiche interne del gruppo e produrre un incremento degli attacchi.
Sud Sudan, repressione e censura
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Nella scorsa settimana, Amnesty International ha denunciato una nuova ondata di repressione in Sud Sudan, che ha costretto molti attivisti anti-governativi a nascondersi dopo una serie di arresti nel Paese devastato da oltre cinque anni di brutale guerra civile, terminata nel febbraio dello scorso anno dopo l’uccisione di quasi 400mila persone.
La più giovane nazione del mondo è permanentemente afflitta da instabilità da quando è diventata indipendente nel luglio 2011. Per questo, la neonata Coalizione popolare per l’azione civica (PCCA), un folto raggruppamento di attivisti, accademici, avvocati ed ex funzionari governativi, ha esortato il Governo a dimettersi.
Nelle ultime settimane, le autorità hanno adottato una linea dura contro tale richiesta, arrestando otto attivisti, tre giornalisti e due dipendenti di un’organizzazione no-profit pro-democrazia. La repressione ha fatto seguito alla dichiarazione del mese scorso della PCCA, che ha descritto l’attuale regime come “un sistema politico sull’orlo della bancarotta diventato assai pericoloso, dopo aver condannato il suo popolo a indicibili sofferenze”.
La PCCA ha quindi rivolto un appello ai sud sudanesi per dare vita a una rivolta pacifica volta a rovesciare l’attuale regime e porre fine alla crisi endemica del Paese. Lo scorso 30 agosto, in concomitanza con l’inaugurazione del nuovo Parlamento da parte del Presidente Salva Kiir, la Coalizione aveva esortato la popolazione a manifestare il proprio dissenso nella capitale Juba, ma l’appello non ha raccolto molte adesioni e alla fine la manifestazione non si è svolta.
La scarsa partecipazione alla protesta di piazza è in gran parte dovuta al fatto che le autorità avevano bollato la manifestazione come “illegale” e schierato forze di sicurezza in assetto antisommossa per controllare le strade e reprimere qualsiasi segno di opposizione.
Linea dura contro i giornalisti
Deprose Muchena, direttore regionale di Amnesty International per l’Africa orientale e meridionale, ha dichiarato in una nota: “Le proteste pacifiche devono essere agevolate piuttosto che represse o prevenute con arresti, molestie, pesanti dispiegamenti di sicurezza o altre misure punitive”.
L’organizzazione impegnata nella tutela dei diritti umani ha osservato che gli attivisti che hanno raccolto l’appello della PCCA hanno subito maltrattamenti dopo l’interruzione della manifestazione. Mentre alcuni, tra cui i fondatori della Coalizione, sono stati arrestati dalla polizia con pesanti accuse come sovversione, sabotaggio, terrorismo, istigazione alla violenza e tradimento, reato per cui è prevista la pena di morte.
Le autorità di Juba hanno anche chiuso Radio Jonglei, che non trasmette dal 27 agosto, quando i funzionari della sicurezza hanno fatto irruzione nella stazione trattenendo tre dei suoi giornalisti: Matuor Mabior Anyang, Ayuen Garang Kur e Deng Gai Deng, ai quali sono stati sequestrati i telefoni cellulari.
Il motivo ufficiale del raid della polizia era impedire alla stazione radio di continuare a trasmettere, poiché i suoi giornalisti erano sospettati di simpatizzare con la PCCA e accusati di aver trasmesso un appello per aderire alla manifestazione del 30 agosto.
La decisione ha suscitato la reazione di Reporter senza frontiere (RSF), che ha condannato la chiusura dell’emittente radiofonica e ha chiesto la fine immediata della repressione nei confronti dei giornalisti e degli organi di informazione sud sudanesi, sottolineando che la libertà di espressione nella nazione africana è seriamente minacciata (il Sud Sudan è al 139° posto su 180 Paesi nel World Press Freedom Index 2021 di RSF).
La chiusura di Radio Jonglei è l’ultimo atto di una serie di rappresaglie contro i giornalisti dall’inizio di luglio, quando Alfred Angasi, un giornalista della South Sudan Broadcasting Corporation (SSBC), la televisione di Stato del Sud Sudan, è stato arrestato e trattenuto arbitrariamente per più di due settimane per essersi rifiutato di leggere un decreto presidenziale durante un telegiornale.
Anche il reporter di Al Jazeera Ajou Luol è stato brevemente detenuto a seguito di una discussione con gli agenti della sicurezza, quando il Presidente Salva Kiir ha tenuto il discorso per l’apertura del Parlamento il 30 agosto. Mentre altri due giornalisti presenti in quel momento, Maura Ajak e Yom Manas, sono stati minacciati e malmenati, quando hanno cercato di boicottare la sessione per protestare contro il fermo di Luol.
La censura
Arnaud Froger, capo del desk Africa di RSF, ha dichiarato che “l’ondata di arresti e minacce contro i giornalisti nelle ultime settimane è preoccupante e conferma la palese ostilità delle autorità nei confronti dei media. Tutto questo evidenzia quanto sia difficile per i giornalisti occuparsi di politica in Sud Sudan, dove dal 2014 sono stati uccisi almeno dieci giornalisti”.
Nel frattempo, le informazioni online sono attentamente monitorate e sottoposte a censura, mentre lo scorso 30 agosto, giorno della prevista protesta antigovernativa, impedita dalle forze armate, l’accesso a Internet è stato interrotto in tutto il Paese.
Gli animatori delle proteste accusano il Presidente Salva Kiir e il suo vicepresidente Riek Machar di continue rivalità su questioni interne, sfociate in più occasioni in aperto conflitto, e di essere incapaci di trovare un accordo per il bene del Paese.
Secondo i leader della PCCA, i due politici preferirebbero privilegiare i propri interessi personali mentre a dieci anni dalla sua indipendenza, il Sud Sudan è ancora uno dei Paesi più poveri del pianeta con l’82% della popolazione che vive al di sotto della soglia di povertà, nonostante le riserve provate di petrolio e i cospicui aiuti della comunità internazionale.
Ciad, il golpe sospende la Costituzione
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Quando lo scorso 20 aprile il portavoce dell’esercito del Ciad, generale Azem Bermandoa Agouna, ha annunciato alla televisione di Stato la morte del Presidente Idriss Déby Itno per le ferite riportate mentre guidava un’operazione militare nel nord del Paese contro la coalizione ribelle del Fronte per l’alternanza e la concordia del Ciad (FACT), il futuro della nazione dell’Africa occidentale è stato messo in discussione.
Déby sarebbe deceduto, a detta dei suoi generali, per le ferite riportate in combattimento, ma non è ancora del tutto chiaro come siano andate le cose. È invece certo, che pochi giorni prima della sua morte aveva vinto le elezioni per la sesta volta, dopo aver governato il Ciad con il pugno di ferro per più di tre decadi. Altrettanto certo, è che era visto dagli alleati occidentali, in particolare dai francesi, come un punto di riferimento per la stabilità del Sahel e la lotta ai gruppi jihadisti.
L’improvvisa scomparsa dell’uomo forte di N’Djamena si è quindi subito caratterizzata come foriera di forte instabilità per il Ciad e per l’intera area saheliana. Anche se è importante evidenziare che la corruzione, l’esclusione sociale, la crescente disuguaglianza e la repressione del dissenso sono stati a lungo marchi del suo governo.
Non è dunque un caso, se il Ciad nel Democracy Index pubblicato annualmente dalla rivista The Economist è classificato come una delle cinque peggiori dittature del mondo. Mentre nel più recente Indice di sviluppo umano (ISU) del Programma di sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP) si posiziona 187esimo su189 Paesi totali considerati.
Un piazzamento che conferma il macroscopico sottosviluppo del Paese africano, che sotto il Governo di Déby si è costantemente classificato come uno dei cinque più poveri del mondo. Una persistente debacle che trae soprattutto origine dalla mancanza di politiche atte a favorire la diversificazione economica, come emerge chiaramente dal fatto che il settore petrolifero fornisce circa il 60% dei proventi delle esportazioni e contribuisce fino a un terzo del Pil complessivo.
Senza contare, che solo il 6% della popolazione ha accesso all’elettricità mentre un misero 8% ha accesso ai servizi igienici di base; solo un adulto su cinque è alfabetizzato e soltanto un parto su tre avviene in presenza di un operatore sanitario. Anche l’aspettativa di vita è una delle più basse al mondo (53 anni), a causa della malnutrizione e della carente assistenza sanitaria.
Dopo che ha cominciato a diffondersi la notizia dell’improvvisa scomparsa di Déby, è apparso evidente che l’espansione dell’insicurezza in Ciad avrebbe potuto avere implicazioni ben oltre i suoi confini, notoriamente porosi in ogni direzione.
Il Paese africano rappresenta di fatto un punto chiave per la politica militare di sicurezza e difesa della regione del Sahel, soprattutto come principale alleato delle forze occidentali nel contrasto all’insorgenza jihadista. Per questo, il venire meno del suo apporto nel combattere le minacce provenienti dai gruppi islamisti transnazionali produrrebbe conseguenze assai dannose.
I numeri sono eloquenti: N’Djamena ha impegnato 1.800 soldati nella Forza congiunta del G5 Sahel e 3mila nella Multinational Joint Task Force(MNJTF) impegnata nel contrasto ai militanti del gruppo jihadista nigeriano Boko Haram. Senza dimenticare, la scesa in campo del Ciad nel 2013 (su richiesta della Francia) con 1.440 uomini a supporto della MINUSMA (la missione multidimensionale delle Nazioni Unite per la stabilizzazione in Mali) e il recente impiego di 1.200 effettivi in appoggio all’operazione anti-terrorismo Barkhane, a guida francese.
Allo stesso modo, la presa del potere da parte di un Consiglio militare, che ha dato avvio a una transizione contraria alla Costituzione, potrebbe avere ripercussioni per la fragile transizione del Sudan. Un Paese dove le aspirazioni democratiche devono confrontarsi con lo scenario politico degli Stati confinanti governati da regimi autoritari.
Senza dimenticare, che una fase di forte instabilità in Ciad potrebbe avere effetti anche sulla crisi nella regione occidentale sudanese del Darfur, dove N’Djamena ha storicamente svolto un ruolo attivo e la recrudescenza della violenza sta mettendo alla prova la capacità di Khartoum di garantire la sicurezza nell’area.
Nei fatti, la morte di Déby ha evidenziato le criticità interne del suo Governo autoritario, che dopo la sua eliminazione è stato perpetuato dai lealisti del regime. Gli stessi che lo scorso 2 maggio hanno istituito un Consiglio militare di transizione (CMT), guidato dal generale Mahamat “Kaka” Idriss Déby (figlio del defunto Presidente), che con un colpo di mano ha assunto immediatamente i pieni poteri per un periodo di 18 mesi, sospeso la Costituzione ciadiana, vietato le manifestazioni, sciolto il governo e l’Assemblea nazionale.
La giunta militare ha deciso di ignorare i dettami della vigente Costituzione promulgata nel 2018, che all’articolo 81 prevede che in caso di caso di vacanza del potere presidenziale o di definitiva incapacità del capo di Stato riconosciuta dalla Corte suprema, la presidenza ad interim dovrebbe essere esercitata dal presidente dell’Assemblea nazionale, che dovrebbe organizzare le elezioni entro 90 giorni.
La Costituzione stabilisce, inoltre, che ogni candidato alla presidenza deve avere almeno 45 anni ed essere un civile, il che esclude automaticamente Mahamat Déby, che ha 37 anni ed è un generale dell’esercito. Il fatto che tali disposizioni costituzionali non siano state rispettate, lascia ben poche speranze per un possibile cambiamento democratico tanto desiderato dal popolo ciadiano.
Intraprendendo queste azioni, la giunta ha mostrato una chiara riluttanza a cedere l’autorità a un rappresentante dell’autorità civile, preferendo gestire la ribellione alle sue condizioni. Questo è particolarmente evidente negli scontri in corso tra i militari e i ribelli del FACT, i quali dopo aver inizialmente respinto la presa del potere da parte della giunta militare hanno proposto di intavolare il dialogo e un cessate-il-fuoco.
La giunta, però, ha risposto escludendo seccamente ogni possibilità di trattativa con alte probabilità che un simile approccio prolunghi le ostilità e rafforzi il convincimento dei gruppi ribelli, che l’uso della forza è l’unico mezzo per sostenere le proprie rivendicazioni.
Appare così evidente che un cambiamento non può arrivare da un Governo militare di transizione, che non riflette l’ampia inclusione aspirata dalle forze d’opposizione e dalla società civile.
Una trentina di partiti d’opposizione e importanti associazioni come la Lega ciadiana per i diritti umani e l’Unione dei Sindacati del Ciad, hanno immediatamente denunciato il colpo di mano della giunta militare e chiesto una transizione a guida civile. Oltre a lamentare la mancanza di un dialogo inclusivo e invocare una transizione senza la tutela militare esercitando pressione sul governo, spesso a rischio di una dura e sanguinosa repressione.
I fattori fondamentali che per tre decenni hanno guidato l’instabilità del Ciad rimangono quindi invariati. Tra questi spiccano la mancanza di legittimità, il diffuso malcontento e un’opposizione civile sempre più mobilitata. Senza tralasciare la ribellione ben armata, composta da almeno quattro gruppi, che durante lo scorso decennio hanno utilizzato il sud della Libia come base per attaccare il Nord del Ciad. Da tutto questo, è facile dedurre che la giunta militare sarà costretta a intensificare la repressione per mantenere il potere.
Per questo, dal Governo retto dal Consiglio militare di transizione sembra altamente improbabile attendersi miglioramenti sia nel tessuto socio-economico sia nel quadro politico e securitario del Ciad. Senza tralasciare, che l’assenza di una legittima transizione politica civile prevista dalla Costituzione ciadiana, rischia di rafforzare l’eredità di Déby basata sul ricorso alla forza per risolvere le divergenze politiche e oscurare il dissenso interno.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di luglio/agosto di eastwest.
In Africa aumentano le diserzioni di militanti islamisti
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L’ultimo report stilato dal Centro di studi strategici sull’Africa (ACSS), con base a Washington, sul bilancio dei primi sei mesi del 2021 relativamente agli attacchi jihadisti in Africa, rileva forti differenze tra e all’interno delle cinque principali regioni dove si concentra l’attività estremista violenta nel continente.
Nello specifico, l’aumento dell’attività d’insorgenza si è convogliato in due aree: il Sahel e la Somalia, mentre nel bacino del Lago Ciad, l’attività delle due fazioni di Boko Haram, il Jama’atu Ahlis Sunna Lidda’Awati wal-Jihad (JAS), che tradotto dall’arabo significa ‘Gruppo della Gente della Sunna per la propaganda religiosa e il jihad’, e l’Islamic State West Africa Province (ISWAP), la prima wilaya (governatorato) dell’Isis in Africa occidentale, ha registrato una sensibile diminuzione.
In particolare, nel primo semestre dell’anno, il JAS ha portato a termine la metà degli attacchi rispetto ai sei mesi precedenti. Un decremento in parte attribuibile all’eliminazione, avvenuta lo scorso 19 maggio, del suo storico e famigerato leader Abubakar Shekau, nome di battaglia di Darul Tawheed.
Le diserzioni dei militanti
Al contrario, l’ISWAP sta mantenendo la stessa capacità offensiva rispetto al primo semestre 2020, mentre le proiezioni indicano che la fazione maggioritaria di Boko Haram è sulla buona strada per incrementare del 20% i decessi causati dai suoi attacchi. Di sicuro, la morte di Shekau evidenzia che l’attività militante islamista in questo teatro sarà molto fluida durante la seconda metà del 2021, mentre dal nord-est della Nigeria giungono notizie riguardo la defezione di almeno 2.122 miliziani associati alla fazione JAS, dopo l’uccisione del leader Shekau.
Un dato molto rilevante perché gli islamisti che hanno deciso di abbandonare il gruppo potrebbero fornire informazioni importanti alle autorità locali, molto utili per contrastare il terrorismo nella vasta area.
Le persone che lasciano il JAS appartengono a due categorie: i civili, i quali mentre Shekau era in vita non potevano allontanarsi dalle aree sotto il suo controllo, per paura di rappresaglie spietate; mentre all’altra categoria appartengono combattenti, comandanti di brigata e le loro famiglie.
Negli anni passati si erano già registrate numerose defezioni da parte dei membri, soprattutto quando eventi importanti hanno offerto l’opportunità di lasciare il gruppo. Per esempio, hanno portato all’abbandono di molti membri l’offensiva sostenuta dall’esercito nigeriano nel 2014 e la grande operazione contro Boko Haram condotta poche settimane prima delle elezioni generali del 2015 dalla MNJTF, la Forza militare multinazionale congiunta composta da circa 7.500 effettivi di cinque Paesi (Nigeria, Camerun, Ciad, Niger, Benin).
Un’altra ingente sequenza di ritiri fu innescata dalla rivalità all’interno del gruppo nell’agosto 2016, che culminò nella divisione di Boko Haram in due fazioni. Anche l’appello lanciato nello stesso periodo dal Governo di Abuja per convincere i miliziani a lasciare l’organizzazione ebbe dei risultati. Alla fine, nell’arco di sole tre settimane, almeno 800 associati di Boko Haram si arresero al Governo e nei mesi successivi altri duecento decisero di lasciare il gruppo estremista nigeriano.
Una recente ricerca dell’Istituto per gli studi sulla sicurezza (ISS) di Pretoria mostra che tra il 2015 e il 2020 si sono registrate almeno 4.227 diserzioni nelle fila di Boko Haram. La gran parte di queste defezioni è stata causata dalle operazioni militari contro il gruppo, dalle pessime condizioni di vita dei membri, dalla disillusione e dal mancato riscatto sociale, che molti militanti avevano sperato di ottenere al momento della loro adesione.
Le ultime defezioni si stanno registrando principalmente nello stato federale di Borno, nella Nigeria nord-orientale, dove Boko Haram aveva stabilito le sue roccaforti. Altri combattenti e affiliati si stanno consegnando alle autorità anche in Camerun, vicino al confine nigeriano. La gente sta lasciando i villaggi dentro e intorno alla foresta di Sambisa e in altre aree, dove il JAS era maggiormente attivo. Non si registrano invece diserzioni in Niger e in Ciad, dove opera la sottofazione guidata da uno dei militanti di Boko Haram della prima ora: Ibrahim Bakura, noto anche come Bakura Doron, che nel settembre 2019 aveva giurato fedeltà a Shekau.
Perché le diserzioni?
Una duplice motivazione spiegherebbe le defezioni di massa. In primo luogo l’ISWAP, a differenza del JAS, consente ai civili che non vogliono far parte del gruppo di andarsene. Sotto Shekau, numerosi membri delle comunità locali erano tenuti contro la loro volontà come schiavi o come scudi umani e coloro che hanno tentato di fuggire e sono stati catturati, sono stati severamente puniti e in alcuni casi giustiziati.
In secondo luogo, alcuni ex combattenti del JAS non vogliono unirsi all’ISWAP per preservare la loro incolumità. Mentre la fazione fedele allo Stato islamico sta rafforzando il suo monopolio nel bacino del lago Ciad, ha rimosso alcuni comandanti della fazione di Shekau, sostituendoli con i suoi leader più giovani.
Questo ha provocato una certa inquietudine a Sambisa, dove i comandanti destituiti stanno esortando gli uomini rimasti fedeli a reagire contro la morte di Shekau. Gli ex capi del JAS, che adesso rischiano la cattura e una possibile esecuzione, sono consapevoli che non possono più sconfiggere l’ISWAP sul campo. E ormai piegati e demotivati hanno solo due scelte: rischiare di essere catturati nel lungo viaggio verso le aree dove operano i circa 300 combattenti rimasti fedeli al nuovi leader del JAS, Bakura Modu ‘Sahaba’, oppure non possono far altro che arrendersi ai militari dell’esercito nigeriano.
Camerun: guerra civile in nome dello Stato indipendente di Ambazonia
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Un nuovo rapporto di Human Rights Watch (HRW) denuncia ulteriori abusi nelle due regioni anglofone del Camerun sia da parte delle forze di sicurezza governative che dei separatisti armati, sottolineando l’urgente necessità di proteggere le comunità a rischio e di chiedere conto ai responsabili delle violazioni commesse.
Il report rileva che lo scorso giugno, nella provincia del Nordovest, le forze di sicurezza camerunesi hanno ucciso due civili, violentato una donna di 53 anni, distrutto e saccheggiato almeno 33 case, negozi e la residenza del Fon del villaggio di Ndzeen, il capo della comunità locale che accentra su di sé tutti i poteri tradizionali. Mentre nella regione del Sudovest, i combattenti separatisti hanno ucciso un ragazzo di 12 anni, un insegnante di 51 anni e rapito quattro operatori umanitari.
Ilaria Allegrozzi, ricercatrice per l’Africa centrale presso Human Rights Watch, ha affermato che «le forze di sicurezza camerunensi hanno l’obbligo di contrastare gli attacchi dei gruppi armati e di proteggere la popolazione locale dalle violenze. Tuttavia, ancora una volta apprendiamo che hanno risposto alla minaccia dei separatisti con attacchi ai civili e gravi violazioni dei diritti umani».
Dall’inizio della crisi anglofona, alla fine del 2016, le forze governative hanno regolarmente commesso gravi abusi durante le operazioni contro i gruppi ribelli, che lottano per creare lo Stato anglofono indipendente di Ambazonia. Il recente aumento di tali violazioni è avvenuto nel corso di almeno 30 pesanti scontri a fuoco registrati nel giugno scorso, come riferito dal portavoce dell’esercito camerunense.
Tra il 12 e il 23 giugno, HRW ha condotto interviste telefoniche con 10 vittime e testimoni di violazioni dei diritti umani da parte delle forze di sicurezza, nonché con altre 18 persone, tra parenti delle vittime, giornalisti e attivisti della società civile. L’ong statunitense ha anche intervistato un familiare dell’insegnante ucciso dai combattenti separatisti e corroborato con materiale fotografico i resoconti di vittime e testimoni, dai quali è emerso che nelle primissime ore del 9 giugno, circa 150 membri delle forze di sicurezza dell’esercito regolare e del Battaglione d’Intervento Rapido (BIR), le stesse truppe utilizzate per neutralizzare l’azione degli estremisti di Boko Haram, hanno fatto irruzione nel villaggio di Mbuluf, nella provincia anglofona del Nordovest.
Dalle testimonianze raccolte, i ricercatori di HRW hanno ricostruito che nel cuore della notte, mentre i militari camerunensi si avvicinavano a piedi, i residenti spaventati sono fuggiti nella vicina boscaglia. In prossimità del villaggio, le forze di sicurezza hanno fermato un gruppo di sei persone composto da marito e moglie, i loro due figli, un altro uomo e un’altra donna.
I soldati hanno chiesto alla coppia dove fossero i combattenti separatisti e se il marito fosse in possesso di una pistola. Quando i coniugi hanno risposto di non sapere dove fossero nascosti i ribelli e che il marito non aveva alcuna arma, i militi hanno minacciato di morte la coppia e violentato la donna. Mentre altri soldati hanno picchiato il marito e un altro membro del gruppo, per poi costringere tutte e sei le persone a camminare per circa due ore fino al villaggio di Ndzeen, dove i membri del BIR hanno distrutto e saccheggiato almeno 33 negozi e abitazioni, incluso il palazzo reale del Fon. Sempre i soldati del BIR, nel settembre 2019, avevano attaccato e saccheggiato un sito iscritto nella lista del patrimonio mondiale dall’Unesco: il palazzo reale di Bafut, nella provincia anglofona del Nordovest.
Le forze di sicurezza hanno poi proseguito a piedi verso il villaggio di Mbah, portando con sé il gruppo di sei persone. A Mbah hanno rilasciato tutti tranne il marito 58enne della sopravvissuta allo stupro, il cui corpo è stato trovato l’11 giugno crivellato di proiettili, nel villaggio di Tatum, a circa 30 chilometri da Mbah.
L’UNICEF ha riferito che lo scorso 6 giugno, i ribelli separatisti hanno attaccato un centro religioso a Mamfe, nella provincia del sud-ovest, uccidendo un ragazzo di 12 anni e ferendone uno di 16. Mentre il 1° luglio, i media locali hanno riportato che i combattenti separatisti hanno ucciso Fuh Max Dang, un insegnante di fisica presso la Government Bilingual High School di Kumba, nella provincia del Sudovest.
HRW ha raccolto la testimonianza di un parente del defunto, il quale ha affermato che i combattenti separatisti avevano precedentemente minacciato il docente, avvertendolo che avrebbe dovuto affrontare serie conseguenze se non avesse smesso di insegnare.
L’ong newyorchese, già in precedenza aveva documentato reiterati attacchi separatisti contro insegnanti, studenti e scuole statali della regione, delle quali i gruppi ribelli hanno ordinato la chiusura. I media locali hanno anche riferito che il 12 giugno almeno 6 civili sono stati uccisi dall’esplosione di un ordigno piazzato dai separatisti a Kumbo, nella provincia del Nordovest.
Secondo Ilaria Allegrozzi, la crisi nella regione anglofona ha avuto un impatto devastante sui civili, ma i responsabili di gravi abusi devono ancora affrontare le conseguenze. Per questo, secondo la ricercatrice italiana, le autorità del Camerun dovrebbero indagare e perseguire gli aggressori e i loro comandanti, mentre il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e le organizzazioni regionali dovrebbero imporre sanzioni mirate contro i responsabili delle gravi violazioni dei diritti umani.
Le violenze perpetrate dalle forze di sicurezza e dai separatisti nelle province nord-occidentale e sud-occidentale hanno prodotto una grave crisi umanitaria, che ha causato 712mila sfollati interni nella regione anglofona, i quali hanno trovato rifugio nelle vicine regioni del Litorale, Ovest e Centro. Secondo le Nazioni Unite, almeno 2,2 milioni di persone hanno bisogno di assistenza umanitaria. Ciononostante, l’accesso è fortemente limitato e gli operatori umanitari sono stati vittime di attacchi sia da parte delle forze governative che dei gruppi separatisti armati.
Nel dicembre 2020, le autorità camerunensi hanno sospeso tutte le attività di Medici Senza Frontiere (MSF) nella regione del Nordovest, accusando l’organizzazione di essere troppo vicina ai separatisti anglofoni e privando decine di migliaia di persone della possibilità di ricevere assistenza sanitaria.
In un apparente tentativo di frenare le denunce di violazioni dei diritti umani da parte delle forze di sicurezza e impedire il monitoraggio internazionale della crisi anglofona, il governo ha negato l’accesso alle regioni anglofone ai giornalisti e ai gruppi impegnati nella salvaguardia dei diritti umani, tra cui HRW. Mentre i combattenti separatisti hanno ostacolato l’accesso delle agenzie umanitarie nelle aree sotto il loro controllo.
C’è infine da ricordare, che nel dicembre 2019, l’Università di Toronto ha creato un database in cui sono archiviate numerose prove sulle atrocità e violazioni dei diritti umani avvenute nel corso della crisi anglofona. L’ateneo canadese ha dato vita all’iniziativa per raccogliere elementi da utilizzare nei futuri processi e contrastare la cultura dell’impunità che pervade questo conflitto.
Nella banca dati gestita da volontari sono attualmente archiviati più di 1.200 elementi di prova, tra i quali ci sono foto, video, audioclip e altri documenti. Il materiale raccolto testimonia il ricorso eccessivo della forza da parte di agenti di polizia contro i civili, l’incendio e il saccheggio di villaggi da parte dei separatisti e delle forze di sicurezza camerunensi, esecuzioni e torture. Materiale che in futuro risulterà prezioso per assicurare alla giustizia i responsabili di tali atrocità.
L’escalation politico-istituzionale in Tunisia
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Si infiamma la crisi politica e istituzionale in Tunisia, dove nei giorni scorsi migliaia di persone esasperate dall’acuirsi della crisi economica e da una nuova ondata di contagi di Covid-19, sono scese in piazza per protestare contro il partito Ennahda, il “Movimento della Rinascita” islamista moderato che ha la maggioranza in Parlamento.
I dimostranti che hanno invaso le strade della capitale Tunisi e di altre città come Gafsa, Sidi Bouzid e Nabeul chiedevano una modifica alla Costituzione, lo scioglimento del Parlamento e un periodo di transizione gestito dall’esercito, pur mantenendo il Presidente della Repubblica, Kais Saied, come capo dello Stato.
Domenica scorsa, il Presidente del Parlamento e del movimento Ennahdha, Rached Ghannouchi aveva chiesto ai suoi sostenitori di scendere in strada per difendere il Governo democraticamente eletto. Tuttavia, per la prima volta, le manifestazioni avevano preso di mira le sedi di Ennahda, che erano state oggetto di gravi atti di vandalismo e in alcuni casi perfino bruciate. Intanto, rimane latente il rischio che tra i sostenitori del Governo e quelli del Presidente si verifichino scontri e violenze.
L’emergenza che sta destabilizzando il Paese nordafricano, domenica sera, ha indotto Saied a rimuovere il Primo Ministro Hichem Mechichi e sospendere i lavori del Parlamento per trenta giorni, in base dell’articolo 80 della Costituzione vigente dal 2014, che gli consente di prendere il potere in caso di emergenza nazionale.
Saied ha annunciato che assumerà gli incarichi di Governo “con l’ausilio” di un nuovo Primo Ministro di sua nomina. Il Presidente tunisino ha preso le sue decisioni nel corso di una riunione d’emergenza con funzionari militari e della sicurezza. Decisioni che revocano l’immunità parlamentare e impongono il coprifuoco notturno dalle 19 alle 6 in tutto il Paese, aprendo le porte a un nuovo Governo che dovrebbe essere designato da Saied.
Le disposizioni presidenziali hanno provocato la dura reazione del Presidente del Parlamento e leader di Ennahda Rached Ghannouchi, che ha definito l’iniziativa di Saied “un golpe contro la rivoluzione e contro la Costituzione”. Ghannouchi ha precisato che la mossa di Saied è equiparabile a un “colpo di Stato” e potrebbe portare a una grave destabilizzazione del Paese.
Una ferma condanna è giunta anche dal segretario generale dell’Unione internazionale degli studiosi musulmani (Iums), Ali al-Qaradaghi, che ha respinto qualsiasi tentativo di golpe in Tunisia, anche se messo in atto da un gruppo islamico.
Risalgono già allo scorso maggio le voci su un piano per rovesciare il Governo tunisino e affidare al Presidente Saied, il pieno controllo delle istituzioni. Lo scorso 24 maggio, il portale specializzato Middle East Eye era entrato in possesso di un documento datato 13 maggio, classificato “top secret” che conteneva nel dettaglio il piano con cui Saied intendeva prendere il potere.
La decisione di destituire il Primo Ministro Mechichi è stata presa dal capo dello Stato, dopo una giornata di imponenti manifestazioni contro la dirigenza politica tunisina. Senza dimenticare che fin dall’inizio del suo mandato presidenziale, nell’ottobre 2019, Saied si è sempre trovato in aperta contrapposizione con Mechichi e a più riprese il Paese ha vissuto momenti di duro scontro istituzionale, con il Presidente che per non provati conflitti d’interesse ha bloccato anche le nomine di diversi ministri.
Lo scontro perenne si è così tradotto in marcate difficoltà politiche, che hanno impedito di gestire in modo adeguato le risorse. È possibile che i fatti di ieri siano solo la conseguenza di una crisi politica, ma con l’esercito che circonda il palazzo del Parlamento per impedire l’ingresso di Ghannouchi e del suo staff non si può non ricordare il colpo di Stato che permise all’attuale Presidente Abdel Fattah al–Sisi di insediarsi in Egitto. Un golpe realizzato con il supporto di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, che pose fine alla democrazia nel Paese.
Come è noto, la Tunisia si trova da anni a dover fronteggiare una gravissima crisi politica. E Mechichi è il terzo capo del Governo a entrare in carica e a essere destituito in poco più di un anno, mentre il Parlamento è molto frammentato con nessun partito che detiene più del 25% dei seggi.
I problemi principali però sono di natura finanziaria, con un economia stagnante, aggravata da una paralisi politica che non ha fatto altro che bloccare le riforme necessarie per rilanciare la crescita. L’altra criticità che ha scatenato le proteste di piazza degli ultimi giorni è di carattere sanitario, con la Tunisia che rimane uno dei Paesi con i peggiori tassi di mortalità da Covid del mondo. Malgrado ciò, Tunisi finora ha ricevuto solo un sesto delle dosi promesse nell’ambito del programma Covax sostenuto dalle Nazioni Unite.
Nel frattempo, gli ospedali pubblici, già in difficoltà in tempi normali a causa della cattiva gestione e della mancanza di risorse, all’inizio dell’estate hanno chiesto nuovamente aiuto per ottenere dispositivi protettivi e strumenti per la rianimazione.
Al momento attuale, non è chiaro nemmeno cos’abbia intenzione di fare Saied, che è un avvocato costituzionalista eletto come indipendente, senza un partito a sostenerlo. Saied ha contribuito alla stesura della Costituzione tunisina, ma subito dopo ne ha cominciato a criticare diversi elementi.
Dopo la sua elezione, si è detto più volte a favore di aumentare i poteri della presidenza, che attualmente ha un ruolo marginale legato alla politica estera e alla difesa. Tuttavia, non è ancora chiaro quale sia l’effettivo sostegno di cui gode il Presidente in Tunisia, e se sarà possibile per lui assumere il potere esecutivo del Paese, come ha annunciato. Quello che invece era certo è che pure il partito Ennahda stesse cercando un sostituto per Mechichi, per rispondere anche alle richieste dell’UGTT, il più grande sindacato tunisino.
Lo stallo politico, nel pieno di un’emergenza sanitaria ed economica impossibili da affrontare in queste condizioni, ha esacerbato la crisi e il calo di consenso per Ennahda. Questo ha portato alla destituzione di Mechichi e ad acuire l’instabilità nell’unico Paese arabo che dopo le rivolte popolari di dieci anni fa è riuscito a realizzare una transizione democratica.
Sudafrica: Zuma si consegna. Per lui accuse di frode e corruzione
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L’ex Presidente del Sudafrica Jacob Gedleyihlekisa Zuma, lo scorso 7 luglio, si è consegnato volontariamente alle autorità di polizia per scontare i 15 mesi di reclusione ai quali è stato condannato dalla Corte Costituzionale sudafricana.
L’Alta Corte ha emanato la sentenza per il rifiuto di Zuma di comparire lo scorso febbraio davanti a una commissione d’inchiesta anti-corruzione per rispondere all’accusa di aver consentito il saccheggio delle casse dello Stato, durante i quasi nove anni della sua permanenza nella massima magistratura, da maggio 2009 a febbraio 2018.
Zuma si era inizialmente rifiutato di consegnarsi, ma in una breve dichiarazione rilasciata giovedì scorso, la Fondazione a lui intitolata ha riferito che l’ex Presidente aveva alla fine “deciso di conformarsi” alla sentenza. Fermo restando, che la polizia aveva assicurato che se non si fosse costituito avrebbe arrestato l’ex Presidente entro il 7 luglio, data in cui ha effettivamente deciso di costituirsi.
L’ex Presidente sudafricano sta affrontando separatamente 16 accuse di frode, corruzione e racket relativi all’acquisto nel 1999 di aerei da combattimento, motovedette ed equipaggiamento militare da cinque aziende europee di armi, tra cui la francese Thales, per un totale di 30 miliardi di rand, l’equivalente di quasi 5 miliardi di dollari. Al momento dell’acquisto, Zuma era il vice dell’allora Presidente del Sudafrica, Thabo Mbeki.
Da parte sua, Zuma respinge ogni accusa sostenendo di essere vittima di una “caccia alle streghe” e mette in dubbio l’imparzialità nei suoi confronti del tribunale presieduto dal giudice Raymond Zondo, attuale Presidente della Corte suprema del Sudafrica, che ha condotto la commissione d’inchiesta sui presunti illeciti commessi dall’ex capo di Stato. Il quale ha sempre negato che ci sia stata una situazione di corruzione diffusa durante i suoi anni al potere e lo scorso 4 luglio ha contestato gli organi giudiziari, scagliandosi contro i giudici e ribadendo l’inconsistenza del suo mandato di arresto.
Nel frattempo, la Commissione Zondo sta anche esaminando le accuse secondo cui Zuma durante la sua presidenza avrebbe permesso di saccheggiare le risorse statali ai fratelli Atul, Ajay e Rajesh Gupta. Tre uomini d’affari originari della città di Saharanpur, nello stato federato indiano dell’Uttar Pradesh, emigrati in Sudafrica nel 1993 e molto vicini all’ex capo di stato. Per sfuggire all’arresto i Gupta si sono dati alla fuga e lo scorso 5 luglio l’Interpol ha diramato un “avviso rosso” nei confronti di due dei fratelli, Rajesh e Atul, per sollecitarne l’arresto.
Si ritiene che i tre indiani siano riparati a Dubai nel 2018, dopo le dimissioni di Zuma. Proprio quest’anno gli Emirati Arabi Uniti hanno ceduto alle pressioni sudafricane, ratificando un trattato di estradizione che dovrebbe consentire il ritorno dei Gupta, delle loro mogli e di altri loro soci in affari. Tutti imputati per una presunta frode del valore di 25 milioni di rand (1,76 milioni di dollari) relativa allo scandalo del progetto lattiero-caseario Estina, che si è sviluppato a Vrede, nella provincia del Free State. Lo scandalo ha coinvolto il dipartimento dell’Agricoltura della del Free State e il processo dovrebbe cominciare il prossimo settembre.
Nel 2018, Zuma era stato costretto a dimettersi dal suo stesso partito, l’African National Congress (ANC), ciononostante, mantiene ancora un nutrito gruppo di sostenitori, specialmente nella sua provincia natale del KwaZulu-Natal. Tra questi, quello del presidente dell’ANC del KwaZulu-Natal, Sihle Zikalala, che davanti alla folla dei sostenitori fuori dall’aula ha elogiato l’operato del concittadino a favore della gente. Molti sudafricani hanno però accolto positivamente la notizia dell’arresto di Zuma, che diventa il segno di una nuova era in cui lo stato di diritto sta emergendo rafforzato.
La sentenza ha dato origine a una battaglia legale senza precedenti in Sudafrica, dove non era mai accaduto che un ex Presidente venisse incarcerato. Oltre alla querelle legale, l’inedita incarcerazione ha scatenato anche vibranti proteste nelle provincie del Guateng e del KwaZulu-Natal, la provincia natale di Zuma, che hanno causato la chiusura dell’autostrada M2 Francois Oberholzer, una delle principali arterie di Johannesburg.
Nella città di Pietermaritzburg, capoluogo del KwaZulu-Natal, sono stati registrati gravi disordini. Mentre un centro commerciale e un supermercato sono stati saccheggiati e incendiati a Mooi River e Thekwini, due distretti della città costiera di Durban, il maggiore centro del KwaZulu-Natal.
Scene simili sono state viste durante il fine settimana, anche nella città di Johannesburg, nella provincia di Gauteng, dove domenica scorsa, manifestanti armati di mazze e bastoni, mazze hanno sfilato attraverso il quartiere centrale degli affari di Johannesburg.
L’agenzia di stampa AFP ha dichiarato che dall’inizio dei tumulti sono state arrestate più di 800 persone e 72 sono state uccise: 45 nel Gauteng e 27 nel KwaZulu-Natal. Per arginare le violenze, il Governo sudafricano ha deciso di schierare l’esercito. Una decisione contestata dal partito dell’opposizione Economic Freedom Fighters (EFF) che sostiene che il dispiegamento dei soldati non può essere una soluzione ai disordini civili e ha chiesto alle autorità di impegnarsi con “un intervento politico”.
L’imprigionamento di Zuma ha evidenziato le profonde divisioni nell’African National Congress (ANC) al Governo, considerato che una fazione del partito gli è rimasta fedele e funge da opposizione interna al suo successore alla presidenza, Cyril Ramaphosa. Gli scandali che hanno coinvolto Zuma hanno alimentato l’indignazione, lo sconforto nei confronti della politica e soprattutto hanno danneggiato la reputazione dell’ANC. Per questo, Ramaphosa ha chiesto perdono ai cittadini sudafricani per gli errori del passato e ha promesso riforme e cambiamenti interni che però allo faticano ancora ad arrivare.
In Africa la terza ondata è la peggiore mai registrata nel Paese
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“L’Africa sta affrontando una terza ondata di pandemia di Covid-19, caratterizzata da una preoccupante accelerazione dei contagi, che la prossima settimana supereranno il picco della seconda ondata che ha colpito il continente all’inizio di quest’anno”.
A lanciare l’allarme è l’Ufficio regionale dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che ha affermato che la pandemia sta tornando in 12 Paesi africani e in 14 è stata rilevata la variante Delta del coronavirus. Questa variante, identificata per la prima volta in India, è considerata il 60% più contagiosa della variante Alpha (inizialmente identificata nel Regno Unito), che a sua volta era circa il 50% più contagiosa del ceppo originario di Wuhan.
La terza ondata
La situazione sembra più grave del previsto, come sottolinea il dottor Matshidiso Moeti, direttore regionale dell’Oms per l’Africa, secondo cui “l’ultima ondata minaccia di essere la peggiore mai registrata in Africa, come si evidenzia dal numero di casi gravi in rapido aumento”. Un timore giustificato dal fatto che, nonostante i morti nel continente africano siano relativamente bassi (oltre 141mila in totale dal febbraio dello scorso anno), nelle ultime settimane si è registrato un preoccupante aumento dei decessi.
L’aspetto più allarmante è rappresentato dal fatto che la terza ondata è giunta mentre l’Africa sta vivendo una carenza di vaccini con solo poco più dell’1% della popolazione completamente immunizzato. Mentre poco meno dell’1,5% delle circa 2,7 miliardi di dosi somministrate a livello globale è stato iniettato nel continente.
Un’ulteriore criticità è costituita dalla grave carenza di ossigeno salvavita, con cui molti Paesi africani sono costretti a dover fare i conti. I sistemi interni di generazione di ossigeno degli ospedali stanno letteralmente collassando e i medici sono costretti a ricorrere all’uso di bombole di ossigeno portatili, quando riescono a trovarle. Questo ha prodotto numerosi decessi di pazienti che non hanno ricevuto ossigeno in tempo.
La coalizione internazionale Every Breath Counts, impegnata nella tutela della salute, afferma che 18 Paesi a basso reddito, la maggior parte dei quali si trovano in Africa, stanno attualmente affrontando gravi carenze di ossigeno. Il dottor Jama Abdi Mahamud, in servizio presso il Gardo General Hospital nella regione semi-autonoma del Puntland, in Somalia, ha dichiarato che “quasi ogni giorno, tra cinque e dieci dei suoi pazienti Covid muoiono a causa della mancanza di ossigeno. E sarebbero tutte morti evitabili se avessimo scorte adeguate di ossigeno per far fronte all’emergenza”.
Il programma Covax
La bassa percentuale di vaccinazione in Africa trova delle risposte anche nelle difficoltà incontrate dal programma Covax, sostenuto dalle Nazioni Unite per fornire due miliardi di dosi di vaccino a circa un quarto della popolazione dei Paesi più poveri entro la fine del 2021. L’unica iniziativa internazionale concepita per rendere i vaccini disponibili anche nei Paesi a basso reddito ha infatti mostrato alcune criticità.
I primi problemi si sono materializzati tra marzo e aprile in India, dove si è registrato un aumento esponenziale dei contagi e delle vittime, a causa della variante Delta. I vaccini destinati al programma Covax erano stati in gran parte acquistati dal principale produttore nel mondo, il Serum Institute of India, che per fronteggiare la grave crisi sanitaria del Paese ha disposto il blocco delle esportazioni dei sieri anti Covid. La sospensione delle forniture ha prodotto serie ripercussioni sul programma Covax, con la distribuzione di circa 180 di milioni di dosi in meno rispetto a quelle previste.
I ritardi nelle vaccinazioni
Tuttavia, questa inattesa mancanza di dosi non è sufficiente a spiegare il lento progredire delle vaccinazioni nel continente africano, dove già a partire da febbraio scorso si sono registrati problemi relativi alla distribuzione dei vaccini, alla mancanza di infrastrutture e alla carenza di personale sanitario.
Inoltre, molte nazioni africane hanno deciso di seguire un approccio consigliato dall’Oms, fondato sulla somministrazione di una prima dose a più persone possibili. Tale approccio ha spinto i Paesi africani a non accumulare vaccini per la seconda iniezione, mentre alcuni Stati sono stati anche sottoposti a pressioni per utilizzare i vaccini con urgenza per non rischiare che superassero le date di scadenza.
Questa serie di fattori hanno generato una grave carenza di dosi per le seconde vaccinazioni. Così, ad oggi, in Africa sono state somministrate solo circa 2,5 dosi di vaccino ogni 100 persone, rispetto a una media di 69 dosi ogni 100 nei Paesi ad alto reddito. Inoltre, solo sette Paesi africani hanno esaurito tutti i vaccini ricevuti attraverso il programma Covax, mentre altri sette ne hanno somministrati oltre l’80%. Nell’ambito del programma, il continente riceverà un totale di 600 milioni di dosi entro dicembre 2021, utili a vaccinare il 60% della popolazione africana entro giugno 2022.
Alcune eccezioni
Nel frattempo, alcuni Paesi africani sono più avanti nella quantità di dosi somministrate, tra questi quello con il più alto tasso di vaccinazione sono le isole Seychelles, dove sono state somministrate 140,31 dosi per ogni cento persone. Tuttavia, rispetto ad altri Stati africani, la popolazione dell’arcipelago è estremamente ridotta (poco più di 98mila abitanti) e questo spiega perché gli operatori sanitari sono riusciti a vaccinare gran parte dei suoi abitanti in un periodo limitato.
Altre nazioni che hanno mostrato una certa efficienza nella somministrazione delle dosi sono le isole Mauritius (55,59 dosi ogni cento persone) e il Marocco, che ha effettuato 50,51 dosi ogni 100 persone, raggiungendo con quasi 18 milioni di dosi iniettate il maggior numero di vaccinazioni a livello continentale. E anche la Guinea Equatoriale (18,57 ogni cento persone) e la Tunisia (14,26 ogni cento persone) hanno somministrato un elevato numero di dosi di siero anti-Covid in rapporto alla popolazione.
L’annuncio dell’Oms
Nel tentativo di risolvere la carenza di vaccini, l’Oms ha annunciato la creazione di un primo hub di trasferimento tecnologico del vaccino mRNA (acido ribonucleico messaggero) anti Covid-19 in Sudafrica.
Il Presidente sudafricano, Cyril Ramaphosa, ha sottolineato l’importanza per il continente della struttura, che consentirebbe ai produttori dei Paesi in via di sviluppo di ricevere anche una formazione su come produrre vaccini e le relative licenze per farlo. Si prevede anche un ruolo per l’Oms e i Centri africani per il controllo e la prevenzione delle malattie (CdC), che dovrebbero definire i criteri per il trasferimento tecnologico.
L’annuncio costituisce una fase cruciale per tutelare l’Africa e garantire che anche chi vive nei Paesi meno ricchi riceva adeguata protezione dal virus, vista la rapida diffusione dei contagi a livello globale. Purtroppo, nel mondo occidentale il continente africano sembra lontano, sia geograficamente che emotivamente. Una percezione assolutamente erronea perché la pandemia ci ha confermato che la distanza, nell’attuale mondo interconnesso, non ha rilevanza.
Nigeria: il business del money transfer
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Negli ultimi anni il cospicuo flusso delle rimesse dei migranti ha costituito una risorsa sempre più imprescindibile per le economie dei Paesi più poveri, ma anche una leva strategica fondamentale sulla quale puntare al fine di promuovere il legame tra migrazioni internazionali e sviluppo.
Nel 2019, la Banca mondiale ha calcolato che i flussi dei risparmi inviati dagli immigrati nei Paesi d’origine hanno raggiunto i 554 miliardi di dollari, superando gli investimenti diretti esteri e gli aiuti ufficiali allo sviluppo.
Di questa ingente somma di denaro, 48 miliardi sono arrivati nei Paesi dell’Africa sub-sahariana, ma è probabile che il totale reale sia di gran lunga superiore. Questo perché alcuni studi hanno calcolato che quasi il 30% del flusso totale delle rimesse giunge a destinazione attraverso canali informali, che sfuggono alla rilevazione.
L’esempio classico dei flussi “invisibili” è costituito dal contante portato con sé dal migrante nelle periodiche visite presso il Paese nativo. Nondimeno, attraverso i canali informali la valuta estera inviata a casa può essere convertita al tasso di cambio più conveniente offerto dal mercato nero.
Un fattore importante perché i flussi delle rimesse sono anche influenzati dai tassi di cambio delle valute. Questo meccanismo trae origine dal fatto che, a seconda del Paese ospitante, i migranti provenienti dalla macroregione sub-sahariana devono prima cambiare le loro rimesse in dollari o in euro e poi nella valuta del loro Paese d’origine.
Di conseguenza, quando le divise dei Paesi destinatari si deprezzano rispetto al dollaro o all’euro, il valore delle rimesse espresso nelle due valute dominanti diminuisce. Senza contare, che molti Paesi africani praticano varie forme di controllo valutario, con conseguente divergenza tra il tasso di cambio ufficiale e quello del mercato parallelo, favorendo in questo modo uno spostamento dei flussi verso i canali informali.
In Africa una persona su cinque invia o riceve rimesse, e più del 5% del Pil di quindici dei Paesi africani tra i più poveri e fragili dipende da esse. Le ultime stime dell’Africa Growth Iniatitive della Brookings Institution indicano che in rapporto al Pil, i quattro principali beneficiari della regione nel 2019 sono il Sud Sudan (dove le rimesse hanno inciso sul 35% del Pil), il Lesotho (21% del Pil), il Gambia (15% del Pil) e Capo Verde (12% del Pil). Senza tralasciare la Somalia, per la quale, anche se non ci sono dati disponibili, le rimesse costituiscono una fonte primaria di reddito familiare e finanziamento esterno.
Le previsioni elaborate dal progetto della Banca Mondiale Global Knowledge Partnership on Migration and Development (KNOMAD), nel cui ambito vengono condotti studi sulle interazioni tra migrazione e sviluppo, prevedono che nel 2020 i flussi di rimesse diretti verso l’Africa sub-sahariana siano diminuiti dell’8,8%, scendendo a 44 miliardi di dollari. Questa significativa riduzione nel 2020 sarà seguita da un ulteriore calo del 5,8%, che ridurrà le rimesse a 41 miliardi di dollari nel 2021.
Drastici decrementi dovuti alla recessione economica prodotta dalla pandemia, che ha causato la perdita del lavoro a molti lavoratori immigrati. Molti di essi hanno invece subito una forte contrazione dei loro redditi, che ne ha pesantemente ridotto la capacità di inviare denaro a casa.
Per esempio, la fortissima debolezza dei prezzi del petrolio registrata nei primi mesi dell’emergenza sanitaria ha drasticamente diminuito il flusso delle rimesse verso l’Africa provenienti dagli Stati del Consiglio di cooperazione del Golfo (Bahrain, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti).
Il vistoso calo delle rimesse è particolarmente preoccupante per la vasta area sub-sahariana, dove quasi il 40% della popolazione vive in condizioni di povertà estrema. Milioni di persone fanno affidamento su questo sostegno esterno per alimentarsi e coprire le spese primarie, come quelle relative alla salute e all’istruzione. Una situazione sempre più allarmante che richiede il sostegno dei governi africani e dei donor internazionali.
La risposta dei Governi per migliorare il flusso delle rimesse durante questo periodo di crisi in primis è arrivata dalla Nigeria, che lo scorso 8 marzo ha introdotto un nuovo modello di cambio chiamato naira 4 dollar, che offre un bonus di cinque naira per ogni dollaro inviato dai nigeriani residenti all’estero.
Naira 4 dollar resterà in vigore fino all’8 maggio 2021 con l’obiettivo di riavviare il meccanismo delle rimesse, che per la prima economia del continente rimangono una risorsa essenziale. Come provano i circa 23,8 miliardi di dollari arrivati in Nigeria grazie alle rimesse nel 2019, equivalenti a quasi la metà del totale dei flussi diretti verso l’Africa sub-sahariana.
La pandemia ha ridotto in modo significativo i nuovi flussi migratori in tutto il mondo a causa delle diffuse restrizioni alla mobilità, della paura del contagio e delle incerte prospettive di lavoro. In molti Paesi, i livelli di occupazione per i lavoratori stranieri sono diminuiti in maniera molto più incisiva rispetto a quelli dei lavoratori nativi.
Questo ha prodotto il rientro di un numero significativo di migranti rimasti disoccupati e costretti a tornare nei loro Paesi di origine, che adesso stanno affrontando la sfida di accogliere centinaia di migliaia di rimpatriati, ai quali devono garantire assistenza sanitaria, alloggio, lavoro e sostegno finanziario.
Mentre nel lungo termine, i flussi migratori dall’Africa potrebbero aumentare in modo significativo, spinti dai divari di reddito, dalla rapida crescita della popolazione in età lavorativa e dai cambiamenti climatici. In particolare, il reddito medio nei Paesi Ocse ad alto reddito è cinquanta volte più elevato di quello che si registra nei Paesi a basso reddito. Facendo riferimento ai tassi di crescita pre Covid-19, ci vorrebbero più di cento anni per colmare questo divario, che sarà ulteriormente accentuato dalla pandemia.
Molti studiosi di economia dello sviluppo ritengono che una leva chiave per facilitare i flussi di rimesse durante la crisi è rappresentata dalla riduzione del costo dell’invio di denaro. Le commissioni pagate alle società di money transfer per mandare soldi in Africa sub-sahariana hanno una media di quasi il 9%, che corrisponde al tasso più alto al mondo.
Ben tre volte superiore ai target dell’Obiettivo di sviluppo sostenibile numero 10 (quello volto a ridurre le disuguaglianze), che si prefigge di abbassare a meno del 3% entro il 2030 i costi di transazione sulle rimesse dei migranti. E anche i canali digitali che si attivano attraverso app, che hanno guadagnato popolarità durante la crisi sanitaria provocata dal coronavirus, hanno commissioni elevate che sono aumentate negli ultimi mesi.
I lavoratori espatriati sono quindi costretti a sostenere ingenti costi per inviare il denaro alle loro famiglie in Africa sub-sahariana, i quali incidono in maniera molto sensibile sull’importo finale. E sembra assurdo che per mandare denaro alle loro famiglie, siano proprio gli africani a dover pagare un prezzo più alto di qualsiasi altra comunità di migranti.
Qualche Paese del continente, come il Kenya, per contenere gli elevati costi di transazione ha fatto pressione sugli organismi di regolamentazione, che hanno incoraggiato le istituzioni finanziarie e gli operatori di mobile money a rivedere le linee guida sui prezzi. Un invito che è già stato in parte accolto da alcune banche e da servizi di pagamenti mobili come M-Pesa e MTN Money. Le riduzioni saranno utili per sostenere le famiglie e le imprese in difficoltà, oltre a ridurre la dipendenza dal predominio del contante come mezzo di transazione.
Di certo, per contrastare la significativa riduzione dei flussi delle rimesse, l’abbattimento dei costi dell’invio del denaro non è più procrastinabile. Anche perché rappresenta un elemento determinante per massimizzare questo importante flusso di finanziamenti sempre più necessari allo sviluppo dell’Africa sub-sahariana.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
Nigeria: muore lo storico leader di Boko Haram
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La morte di Abubakar Shekau, lo storico e famigerato leader del gruppo militante islamista nigeriano Boko Haram, è stata confermata dalla fazione rivale, la provincia dell’Africa occidentale dello Stato islamico (ISWAP), che ha affermato di aver eseguito l’attacco su ordine diretto della leadership dell’ex Califfato.
Il Governo nigeriano aveva annunciato più volte dal 2010 che Shekau era morto solo per poi vederlo risuscitare in video dopo gli annunci. Questa volta però Humangle, un accreditato sito web di notizie locali che ha contatti tra le file degli insorti e agenzie antiterrorismo, ha diffuso una registrazione audio del leader dell’ISWAP, Abu Musab al-Barnawi, nella quale è specificato che la morte di Shekau è avvenuta su diretto ordine del nuovo capo dello Stato islamico, Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurashi.
Il fatto che l’operazione contro Shekau sia stata lanciata su ordine di al-Qurashi sottolinea la crescente portata globale del gruppo attraverso le sue affiliate e la possibilità di estendere il suo raggio d’azione in Africa.
Boko Haram e la fazione di al-Barnawi
La fazione di al-Barnawi si era separata da Boko Haram il 3 agosto 2016, giorno in cui venne resa nota la scissione sul numero 41 di al-Naba, il bollettino settimanale in arabo dello Stato islamico. Da quel momento Boko Haram si è diviso in due fazioni rivali: una minoritaria di cui Shekau è rimasto alla guida, che ha conservato il nome integrale del gruppo Jama’atu Ahlis Sunna Lidda’Awati wal-Jihad (JAS) e aveva assunto il controllo di parti dello Stato di Borno intorno a Gwoza e al confine Camerun- Nigeria. Mentre l’ISWAP, capeggiata da al-Barnawi, è la più numerosa ed è attiva principalmente nelle isole del Lago, a ovest di Maiduguri e lungo il confine con il Niger nella regione di Diffa.
Le cause della frattura sono state attribuite a dispute personali, religiose e strategiche, che l’allora leader dell’Isis, Abu Bakr al-Baghdadi ha ritenuto insanabili, dopo che Shekau si è rivelato impossibile da controllare.
Al-Barnawi, considerato come relativamente moderato tra i leader estremisti nella regione, nel marzo 2019 era stato estromesso dalla guida della fazione dopo la faida dell’agosto 2018, nella quale era stato ucciso il suo luogotenente e storico esponente di Boko Haram, Mamman Nur.
Tuttavia, all’inizio di quest’anno, Barnawi era stato di nuovo investito della leadership dell’ISWAP dai vertici dello Stato islamico, che hanno deciso la definitiva eliminazione di Shekau. Quest’ultimo, inizialmente era sfuggito a un attacco nella sua roccaforte nella foresta di Sambisa, dove è rimasto nascosto per cinque giorni per sfuggire ai combattenti dell’ISWAP.
La morte di Abubakar Shekau
Quando è stato individuato, Shekau ha provato a fuggire di nuovo, ma è stato catturato e ha rifiutato di arrendersi, per poi farsi esplodere. Al momento, gli analisti ritengono che la maggior parte dei suoi seguaci sia alla macchia o sia passata nelle fila dell’ISWAP. Ma la sotto-fazione del JAS, Bakura, attiva nel bacino del lago Ciad, si è rifiutata di riconoscere l’autorità di al-Barnawi e affermato che la lotta contro l’ISWAP continua. Ciò che rimane poco chiaro è cosa sceglieranno di fare i combattenti di Shekau in Camerun, famosi per le loro incursioni contro i villaggi nella zona di confine.
Secondo un’analisi del Soufan Center, almeno uno dei figli del fondatore di Boko Haram, Muhammed Ustaz Yusuf, era insieme a Shekau, quando è stato ucciso nella foresta di Sambisa. Non è però chiaro se qualcuno dei figli di Yusuf o un altro lealista del defunto leader del JAS, si farà avanti per guidare la fazione dopo la sua morte.
Che succede ora
Se il JAS non sarà in grado di proporre un forte successore, il gruppo probabilmente si dissolverà. Mentre la fazione di Shekau tenta di scrivere il suo futuro, l’ISWAP sta cercando di consolidarsi a Sambisa per assicurarsi una posizione dominante in tutto il Borno, con solo il Lago Ciad rimasto come regione contesa con i resti della sotto-fazione Bakura.
Dopo una pausa negli attacchi che ha fatto seguito alla morte di Shekau, l’ISWAP ha intensificato la sua operatività concentrandosi sulla regione di Diffa in Niger e di Damboa, Dikwa e Borno in Nigeria. Adesso, la scomparsa di Shekau consentirà all’ISWAP di concentrarsi sugli attacchi contro l’esercito nigeriano, distinguendosi dai metodi brutali del defunto leader della JAS, che aveva incentrato la sua strategia di guerriglia contro i civili.
Nel frattempo, l’esercito nigeriano non sembra aver cambiato la sua strategia di contro-insurrezione a seguito degli scontri tra l’ISWAP e gli irriducibili della fazione di Shekau. Il Governo, che aveva dichiarato erroneamente più volte di aver eliminato Shekau è stato colto alla sprovvista dall’operato dell’ISWAP, che è riuscito a uccidere veramente lo storico leader di Boko Haram.
Tuttavia, la sfida chiave per il Governo di Abuja è racchiusa nel fatto che l’ISWAP, oltre a essere militarmente più potente della fazione di Shekau, è anche più concentrato sull’ottenimento del sostegno civile di quanto lo fosse il suo defunto rivale. La capacità dell’ISWAP di reclutare nuovi combattenti e ottenere supporto locale rende questa fazione ben più temibile di quella che era guidata da Shekau.
Macron in Ruanda, 27 anni dopo il genocidio
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A oltre dieci anni di distanza dall’ultima visita di un capo di Stato francese in Ruanda, lo scorso 27 maggio il Presidente Emmanuel Macron si è recato a Kigali, la capitale del Paese africano. La missione diplomatica di Macron arriva a 27 anni dal genocidio cominciato nell’aprile del 1994, che nell’arco di pochi mesi avrebbe lasciato sul terreno circa 800mila persone (tra tutsi e hutu moderati). Una visita molto attesa, volta a normalizzare le relazioni tra i due Paesi, rimaste tese per oltre un quarto di secolo a causa delle narrazioni contrastanti sul ruolo della Francia durante il genocidio. E le aspettative della vigilia non sono state disattese, come dimostrano le parole pronunciate dal venticinquesimo inquilino dell’Eliseo davanti al memoriale di Gisozi, dove sono sepolti i resti di 250mila delle vittime del genocidio.
La missione di Macron
“Questa visita è la tappa finale della normalizzazione delle relazioni tra i nostri Paesi. Sebbene la Francia non sia stata complice di quelle morti, per troppo tempo ha fatto prevalere il silenzio sulla ricerca della verità”. Una dichiarazione che rappresenta un’assunzione delle responsabilità da parte di Parigi nel suo sostegno al Governo ruandese in quel momento. Un gesto altamente simbolico che produrrà una distensione nelle relazioni Ruanda-Francia e potenzialmente aprirà la porta ad altri atti riparatori. Del resto, lo scorso 26 marzo era stato presentato a Macron il rapporto della commissione presieduta dallo storico francese Vincent Duclert, incaricata di esaminare il ruolo della Francia in Ruanda dal 1990 al 1994.
Lo studio ha riconosciuto che le responsabilità di Parigi sono state “pesanti e schiaccianti”. Tuttavia conclude che la Francia non è stata “complice” negli eccidi. Una conclusione avvallata anche dal rapporto che il Governo di Paul Kagame ha affidato allo studio legale Muse di Washington.
Lascia spazio a qualche perplessità il fatto che i due Paesi per dialogare abbiano utilizzato due interposti rapporti, anche se gli avvocati americani affermano che “non hanno elaborato una risposta al rapporto francese e che la ricerca in questione è stata compiuta prima della pubblicazione del rapporto Duclert”.
Tuttavia, le affermazioni dei legali del blasonato studio di Washington potrebbero essere smentite dal fatto che il rapporto Duclert era già in fase di elaborazione da due anni. In realtà, l’utilizzo dei due rapporti sembra essere mirato alla volontà dei entrambe i Paesi di modificare le proprie posizioni senza approfondirle troppo, nell’intento di muovere verso una normalizzazione delle relazioni.
Gli interessi della Francia
Prima della missione diplomatica, non era scontato che Macron avrebbe presentato le sue scuse per l’operato francese durante il genocidio dei tutsi in Ruanda. Gli stessi tutsi che da sempre rimproverano alla Francia di aver sostenuto il regime genocidario del Presidente hutu Juvénal Habyarimana, tragicamente perito in un incidente aereo che il 6 aprile 1994 scatenò la mattanza.
Appare, inoltre, molto singolare che, tenendo conto del tempo trascorso e della situazione attuale, Parigi e Kigali ora si ritrovino in posizioni assai simili a quelle che avevano trent’anni fa. Adesso, però, i francesi hanno l’interesse prioritario di mantenere la loro influenza diplomatica in Africa, riaffermando le parole pronunciate nel lontano 1957 da François Mitterrand, che dichiarò “senza l’Africa, non ci sarà una storia francese nel XXI secolo”.
La visita in Ruanda rientra chiaramente nel tentativo di riformare gli approcci tradizionali della Francia nei confronti dell’Africa, ma resta da vedere se i diversi incontri di alto livello programmati dal Governo francese, potranno contribuire a cambiare un insieme di relazioni storicamente complesso.
La crescita economica dell’Africa e l’espansione della sua influenza politica a livello internazionale hanno attratto partner esterni desiderosi di rinnovare e costruire relazioni con il continente. Come indica il fatto che Russia, Cina, Turchia, Giappone, India, Regno Unito e la stessa Francia organizzino vertici con gli Stati africani.
Parigi ha cercato di preservare i suoi interessi e la sua influenza principalmente nei Paesi francofoni, rivolgendo negli ultimi anni anche la sua attenzione agli Stati dell’Africa orientale e meridionale. Non a caso, la Francia quest’anno ha organizzato due vertici per rimodulare la sua strategia verso il continente.
Il 18 maggio, Emmanuel Macron ha organizzato un vertice internazionale sul finanziamento delle economie africane, al quale hanno partecipato 22 capi di Stato del continente. Poi, il prossimo ottobre, a Montpellier si terrà il 28esimo vertice Africa-Francia, per dare voce alla società civile africana e in particolare alle generazioni più giovani e agli imprenditori.
Gli investimenti
Ma la riconciliazione con Kigali e i due vertici, oltre a cambiare le relazioni tra Francia e Africa, devono generare risultati tangibili e rilevanti anche a livello politico. Il vertice del 18 maggio ha prodotto la risoluzione secondo cui il Fondo monetario internazionale (Fmi) emetterà diritti speciali di prelievo (DSP) fino a 650 miliardi di dollari (Il DSP è una sorta di assegno convertibile in dollari, distribuito in proporzione al peso specifico dei Paesi e al loro contributo alle risorse del Fmi).
Il ricorso a tale meccanismo finanzierà nell’immediato i Paesi africani per 33 miliardi di dollari, 24 dei quali destinati all’area sub-sahariana. Molti dei Governi africani hanno ritenuto che la somma fosse troppo esigua e diversi Stati, tra cui la Francia, si sono impegnati a riallocare i propri diritti speciali di prelievo.
Del resto, il Fmi stima che il continente avrà bisogno di 285 miliardi di dollari tra il 2021 e il 2025 per evitare la recessione economica causata dalla pandemia da Covid-19. Quindi gli stanziamenti del vertice del 18 maggio sembrano insufficienti rispetto alle effettive necessità finanziarie dell’Africa.
Ci sono altre questioni fondamentali che questo tipo di riunioni non possono affrontare, come la struttura stessa di molte economie africane, perpetuata ed esacerbata dalle sfide sistemiche e dai profondi deficit di governance che caratterizzano il continente africano.
Se i due attori intendono migliorare le relazioni dovrebbero stabilire un rapporto basato sul rispetto e sulla fiducia reciproci, nel quale dovranno impegnarsi a garantire che le relazioni siano più eque e che entrambe le parti ne traggano beneficio. Le relazioni della Francia con le sue ex colonie sono sempre state complesse, principalmente a causa del retaggio dell’epoca, al quale ha fatto seguito un periodo post-coloniale durante il quale la Francia ha mantenuto relazioni politiche ed economiche privilegiate con quasi tutti i Paesi africani che aveva assoggettato.
Per questa serie di motivazioni, il prossimo vertice di Montpellier dovrebbe essere una piattaforma per rilanciare queste argomentazioni e riformare i legami postcoloniali, che in gran parte hanno perpetuato un sistema di sfruttamento delle nazioni francofone africane.
Lo stallo politico in Somalia preoccupa anche gli alleati
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Da quando, lo scorso 13 aprile, il Presidente della Somalia Mohamed Abdullahi Mohamed, detto Farmajo, ha annunciato un’estensione del proprio mandato e di quello del suo Governo per due anni, la situazione nel Paese del Corno d’Africa è diventata sempre più tesa fino a palesare lo spettro di una guerra civile.
Una crisi politica cominciata nella seconda metà del 2020 a causa dalle difficoltà legate allo svolgimento di nuove elezioni, tra cui la carestia dovuta a un’invasione di locuste, la pandemia da Covid-19, l’aumento dell’insorgenza dei militanti islamisti di al-Shabaab e i disordini civili all’interno del Paese. Nel maggio 2020, il Primo Ministro Hassan Ali Kheyre (estromesso nel luglio scorso da Farmajo) aveva confermato che le elezioni si sarebbero tenute all’inizio del 2021. Il voto però è saltato e la decisione di prorogare il mandato del Presidente Farmajo, eletto nel 2017, non ha fatto altro che peggiorare lo stato delle cose.
La Camera Bassa del Parlamento aveva approvato la proroga biennale del mandato presidenziale, chiedendo elezioni a scrutinio universale dirette alla fine del biennio di transizione. Di contro, i leader della Camera Alta avevano respinto la mozione del prolungamento del mandato definendo illegale il voto della Camera Bassa e spingendo gli oppositori di Farmajo a prendere le armi, con la minaccia di marciare su Villa Somalia.
Non c’è dunque da stupirsi, se la rinuncia al prolungamento del suo mandato, scaduto lo scorso 8 febbraio, che il Presidente somalo ha annunciato alla nazione lo scorso 28 aprile, abbia avuto pochi effetti nel tentativo di far uscire il Paese dal vicolo cieco. Del resto, la rinuncia di estendere il mandato è stata formulata da Farmajo in maniera piuttosto ambigua, perché nel suo discorso il capo di Stato ha chiesto al Parlamento somalo l’annullamento della proroga, rimettendo di fatto nelle mani dei legislatori la decisione finale.
Un ripensamento che nella sostanza è stato solo verbale ed è arrivato solo dopo insistenti pressioni internazionali e interne. Secondo gli osservatori, a indurre Farmajo all’annullamento della prosecuzione del mandato sarebbe stato anche l’improvviso voltafaccia di alcuni dei suoi alleati di spicco, come il nuovo Primo Ministro Mohamed Hussein Roble e i Presidenti di tre Stati federali: Hirshabelle, Southwest e Galmudug, schieratisi con gli oppositori nel chiedere la deposizione del Presidente.
L’aumento delle tensioni
La tensione nel Paese è tangibilmente aumentata lo scorso 25 aprile, quando in due quartieri a nord della capitale Mogadiscio, le forze di sicurezza si sono scontrate contro le milizie che sostengono l’opposizione, la maggior parte delle quali appartiene al clan Hawiye degli ex Presidenti Hassan Mohamud e Sharif Ahmed; mentre Farmajo fa parte del clan Darod, storico rivale degli Hawiye. Da allora, un numero imprecisato di soldati dell’esercito ha abbandonato le caserme alla periferia della capitale, per convogliare nelle zone chiave, che ora sono sotto il loro controllo.
Da parte sua, il Presidente uscente somalo ha pubblicato una sorta di memoria difensiva del proprio operato, in un articolo pubblicato ieri sul sito dell’autorevole rivista statunitense Foreign Police. Nel suo scritto, Farmajo spiega che la Camera Bassa del Parlamento aveva approvato l’estensione del mandato presidenziale per evitare un vuoto di potere, dopo che quello attuale quadriennale era terminato l’8 febbraio.
Secondo Farmajo, la Camera del popolo si era pronunciata seguendo i dettami di una accordo raggiunto lo scorso settembre volto a garantire che il trasferimento politico del potere avvenga solo attraverso elezioni. Questo implica che gli attuali funzionari eletti devono rimanere in carica fino a quando non vengono rieletti o sostituiti attraverso il processo elettorale.
Prove di suffragio universale
Al centro del disaccordo ci sarebbe dunque un conflitto tra l’obiettivo del suo Governo di assicurare un suffragio universale attraverso elezioni dirette e quello dell’opposizione, che insiste su un modello elettorale indiretto volto a favorire le élite e negare il voto ai cittadini comuni.
Farmajo chiosa il suo articolo chiedendo se sia giunto il tempo che la comunità internazionale si interroghi sul perché i pochi eletti anziani dei clan e i leader degli Stati membri federali devono tenere in ostaggio il popolo somalo ogni quattro anni? E perché gli interessi privati di questa ristretta élite devono tacitare il consenso dei milioni di persone che affermano di rappresentare?
Nel rispondere al Presidente somalo, c’è da chiarire che l’accordo del settembre 2020 si riferisce a un processo elettorale in base al quale gli anziani dei clan selezionano i delegati ai collegi elettorali, che a loro volta scelgono i legislatori federali che poi scelgono un Presidente. Ma è proprio su queste nomine, oltre che su quelle della Commissione elettorale, che si è giocato finora lo scontro politico tra Farmajo e i suoi oppositori.
Nella sostanza, però, quello che non si è riusciti a superare è stato il problema organizzativo relativo alla riforma del Presidente somalo, che aveva garantito, a partire da febbraio 2020, il diritto di voto a tutti i cittadini del Paese, mantenendo così quella che era una stata una sua promessa elettorale. Alla fine, non è stato possibile rispettare né il termine per le elezioni parlamentari né il termine per quelle presidenziali, a causa della mancanza di fondi e di infrastrutture per garantire il suffragio universale.
Nel frattempo, gli estremisti islamici di al-Shabaab sembrano approfittare del vuoto di potere in Somalia per intensificare gli attacchi contro i civili e le stazioni di polizia. Una recrudescenza delle violenze di matrice islamista, che si accompagna al pericoloso periodo di frammentazione per le forze di sicurezza della Somalia. Tutto innescato dal fallito tentativo del Presidente somalo di estendere il suo mandato di due anni.
Il Mozambico tra gas e terrorismo jihadista
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All’inizio del 2010, al largo della remota costa settentrionale del Mozambico sono stati scoperti i più grandi giacimenti di gas naturale liquefatto (Gnl) di tutto il continente africano. Il rilevamento ha prodotto una massiccia ondata di investimenti nella provincia di Cabo Delgado, ma nel contempo ha anche causato l’allontanamento forzato della popolazione locale, che in seguito ha visto disattese le opportunità di lavoro.
Il terrorismo di al-Shabaab
Poi, nell’ottobre del 2017, nella zona sono cominciati gli attacchi terroristici da parte di un gruppo locale di matrice jihadista conosciuto come Al Sunnah wa Jamaah (ASWJ) e il contesto è diventato molto più rischioso e complicato. Il gruppo, noto tra la gente del posto come al-Shabaab, sebbene non abbia nessun tipo di collegamento con quello attivo in Somalia, è ispirato al jihadismo internazionale e si prefigge l’obiettivo di stabilire uno Stato islamico fondato sulla sharia tra le popolazioni costiere di lingua swahili.
Per raggiungere tale obiettivo, i miliziani di ASWJ hanno preso di mira le stazioni di polizia, le infrastrutture e le città di tutta la provincia costiera. Nel 2019 il numero di attacchi e vittime nella zona è drammaticamente aumentato continuando a crescere per tutto il 2020, quando nel mese di agosto gli estremisti islamici hanno preso d’assalto la città di Mocimboa da Praia, rimasta a lungo sotto il loro controllo.
Il porto della città è strategicamente importante per i progetti di Gnl portati avanti dalle compagnie petrolifere Total ed ExxonMobil, che si stanno sviluppando sulla penisola di Afungi a breve distanza dalla costa, appena al largo della città di Palma, nella provincia di Cabo Delgado.
Jasmine Opperman, analista dell’Armed Conflict Location & Event Data Project (ACLED), ha dichiarato ad Al Jazeera che negli ultimi tre anni il gruppo è cresciuto in dimensioni e nella sua capacità di organizzare grandi attacchi. Mentre secondo fonti di intelligence militare, ASWJ conterebbe attualmente circa 4.500 membri.
L’incremento delle violenze ha messo in evidenza l’incapacità del Governo di rispondere adeguatamente all’insorgenza in atto, che finora ha provocato la morte di almeno 2.700 persone – metà delle quali civili – mentre secondo i dati più recenti forniti dall’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), altre 700mila sono state costrette a fuggire dalle loro case.
Lo scorso 11 marzo, il Dipartimento di Stato americano ha designato il gruppo estremista mozambicano come un’organizzazione terroristica legata allo Stato islamico, oltre ad aver imposto sanzioni al suo leader Abu Yasir Hassan. Una decisione che ha fatto seguito al’aumento dell’insorgenza, come evidenzia un rapporto del 21 gennaio elaborato dalla piattaforma di ricerche e analisi Babel Street.
La decisione della Total
L’instabilità e l’insicurezza che stanno interessando la provincia hanno prodotto anche ripercussioni a livello economico. Uno degli ultimi e più significativi esempi è rappresentato dalla decisione presa lo scorso 26 aprile dalla Total, che ha sospeso a tempo indeterminato il suo progetto di estrazione di Gnl dal valore di 20 miliardi di dollari e il ritiro di tutto il personale dal sito ubicato nella penisola di Afungi. Già all’inizio di gennaio, la compagnia francese era stata costretta a evacuare dal sito parte dei 3mila membri del personale, dopo che fonti militari avevano riferito che i jihadisti avevano fatto irruzione in quattro località a pochi chilometri di distanza.
La decisione di sospendere il progetto rappresenta un duro colpo per la Total, che nel 2019 ha acquistato una quota operativa per 3,9 miliardi di dollari, sperando di iniziare a esportare il combustibile entro la fine del 2024.
L’escalation delle violenze
Le speranze però sono state eluse dall’escalation di violenza registrato negli ultimi mesi nella regione, culminato con l’assalto del 24 marzo da parte dei militanti jihadisti alla città di Palma che dista pochi chilometri dall’impianto petrolifero. I critici del progetto offshore per l’estrazione del Gnl affermano che mentre l’insurrezione si è ormai radicata nella complessa storia politica e religiosa di Cabo Delgado, finora l’operato della Total si è uniformato a un modello di sfruttamento delle risorse naturali che contrasta con le cause dell’insurrezione jihadista. Cause riconducibili all’estrema povertà della popolazione della provincia settentrionale, che non trae benefici tangibili dalla grande quantità di risorse energetiche e minerarie presenti nella zona, che tra l’altro custodisce il più grande giacimento di zaffiri rosa e rubini del mondo.
Nella realtà, quello che è stato pubblicizzato come una fucina di posti di lavoro e una possibilità di sviluppo per questa remota regione, potrebbe invece rivelarsi un catalizzatore per la miseria e il caos, che hanno accompagnato tanti altri mega progetti estrattivi nel continente africano.
Inoltre, la crisi nella provincia di Cabo Delgado sta suscitando forti preoccupazioni tra i Paesi membri della Comunità per lo sviluppo dell’Africa meridionale (SADC) che lo scorso 12 aprile hanno convocato una riunione di emergenza nella capitale del Mozambico, Maputo, per concertare una risposta condivisa all’escalation della violenza nella regione. Mentre il Portogallo, l’ex potenza coloniale che controllava il Mozambico, il mese scorso ha inviato nel Paese 60 membri delle forze speciali per addestrare i soldati mozambicani in tattiche di contro-insorgenza, che si sono uniti alla missione di addestramento Joint Combined Exchange Training (JCET) delle forze speciali statunitensi.
Appare evidente che le violenze in qualche modo devono essere fermate, poiché il perdurare dell’insurrezione continua ad aumentare i rischi per la regione nella quale le autorità di Maputo dovrebbero stabilire una sorta di governance. Perché laddove le istituzioni sono da sempre assenti la popolazione si sente emarginata e l’estremismo islamico si innesta facilmente.
Congo: le minacce del “sistema Kabila”
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La Repubblica democratica del Congo (RdC) è afflitta da un’annosa crisi politica, che affonda le sue radici nell’ostinazione dell’ex Presidente Joseph Kabila di mantenere il controllo sulla nazione del Grandi laghi, dopo 18 anni di potere assoluto. Un’ostinazione che ha trascinato per lungo tempo l’ex colonia belga nel caos istituzionale contribuendo al rallentamento dell’economia e alla crescita dell’inflazione.
Nel rispetto dell’articolo 69 della vigente Costituzione congolese, promulgata nel febbraio 2006, che non permette di ricandidarsi per un terzo mandato, Kabila avrebbe dovuto lasciare il suo incarico il 20 dicembre 2016, ma ha continuato a governare fino al gennaio 2019 adducendo aleatorie ragioni di sicurezza.
Lo stallo istituzionale sembrava risolto dopo le ultime elezioni presidenziali del 30 dicembre 2018, che con la vittoria del candidato dell’opposizione Félix Tshisekedi hanno sancito la prima transizione pacifica di potere, da quando il Congo ottenne l’indipendenza dal Belgio nel 1960. Tshisekedi si è imposto sul “delfino” di Kabila, l’ex Ministro dell’Interno, Emmanuel Ramazani Shadary, che se fosse stato eletto avrebbe consentito al suo mentore di mantenere saldo il potere sul Paese africano.
Ciononostante, nel luglio 2019, Tshisekedi ha dovuto istituire un Governo di coalizione composto dal suo partito “Verso il cambiamento” (CACH) con il “Fronte comune per il Congo” (FCC), il partito di Kabila, che conservando ancora una netta maggioranza dei seggi in Parlamento imbrigliava i poteri del presidente.
La crisi politica
In questo clima di tensione e diffidenza, lo scorso 15 settembre, in occasione della riapertura dei lavori parlamentari, Joseph Kabila, diventato senatore a vita come previsto dalla Costituzione, ha deciso di fare il suo ritorno sulla scena politica congolese. Un ritorno compiuto con grande clamore che ha segnato una svolta importante nella politica nazionale, perché è evidente che Kabila intende influenzare direttamente il corso degli eventi in previsione delle prossime elezioni del 2023.
Come si evince dalla nomina di Rosard Malonda, a capo della Commissione elettorale nazionale indipendente (CENI), che è sempre stata al centro dell’intero processo di voto e dei tanti “dubbi” che hanno segnato tutti i passaggi nelle ultime elezioni. Una nomina decisa nel luglio scorso, quando l’Assemblea Nazionale era ancora dominata dai sostenitori dell’ex presidente, che potrebbe minare la credibilità delle prossime elezioni congolesi e ha causato violenti incidenti tra la polizia e migliaia di manifestanti riuniti dalla piattaforma Lamuka (che nella locale lingua lingala significa “Svegliarsi”), la principale alleanza dei partiti congolesi di opposizione.
Tshisekedi ha quindi cercato di correre ai ripari, mettendo in atto un’offensiva politica per porre fine alla coalizione con Kabila, che di fatto limitava la sua autorità. All’inizio di dicembre, il Presidente Tshisekedi ha avviato le consultazioni per creare la Sacra Unione della nazione, un’alleanza politica composta da venti partiti per mettere da parte il FCC e formare una nuova maggioranza parlamentare.
La rottura con il FCC ha avuto la sua conferma lo scorso 10 dicembre in Parlamento, con la destituzione di un elemento chiave del “sistema Kabila”: la Presidente dell’Assemblea nazionale, Jeannine Madumba, con un voto di sfiducia di 281 deputati su un totale di 500. Questo voto ha permesso a Tshisekedi di verificare l’esistenza di una nuova maggioranza e di dare l’incarico a Modeste Bahati Lukwebo, economista e senatore indipendente, di sondare l’effettiva possibilità di formare un nuovo Governo.
Le consultazioni intraprese da Lukwebo hanno individuato una nuova alleanza governativa, che si è concretamente espressa il 23 gennaio 2021, con la mozione di sfiducia votata dalla maggioranza dei parlamentari e senatori nei confronti del Primo Ministro pro-Kabila, Sylvrestre Ilunga Ilukamba. La rimozione di Ilunkamba è stata decisa lo scorso 27 gennaio dai 382 deputati dell’Assemblea nazionale presenti, che hanno approvato la mozione di censura con 367 voti favorevoli, sette contrari, due astensioni e uno nullo. Una maggioranza schiacciante ottenuta grazie al boicottaggio dei sostenitori pro-Kabila, che non hanno riconosciuto l’autorità costituzionale per approvare la mozione di sfiducia al Comitato di presidenza provvisorio dell’Assemblea nazionale.
L’indomani, Lukwebo ha presentato il suo rapporto al Presidente con la lista di 391 deputati aderenti alla nuova coalizione della Sacra Unione. Si è trattato di un vero e proprio rovesciamento delle parti nell’Assemblea nazionale, nella quale dopo le ultime elezioni l’ex Presidente Kabila si era assicurato più di 300 deputati su un totale di 500.
Quattro giorni dopo le dimissioni del Primo Ministro, è stato rimosso anche il Presidente del Senato, Alexis Thambwe Mwamba, colpito da uno scandalo finanziario per malversazione di fondi pubblici. L’uscita di scena di Tambwe ha decretato la caduta dell’ultimo baluardo del “sistema Kabila”, da troppo tempo al comando delle grandi istituzioni politiche del Paese.
È innegabile che sul piano politico Tshisekedi abbia mostrato una strategia e delle capacità, che fino a pochi mesi fa ben pochi avrebbero considerato vincenti. La sua iniziativa ha posto termine a una crisi di governo permanente e paralizzante per andare avanti con le riforme necessarie. Un indubbio successo che, lo scorso 6 febbraio, gli ha consentito di assumere da una posizione di forza la presidenza di turno dell’Unione africana.
Quale futuro per la Repubblica democratica del Congo?
Tuttavia, non poche incognite gravano sul futuro politico della seconda nazione più estesa dell’Africa. A partire, dalla capacità di governare della Sacra Unione, che ha il suo punto debole nell’essere formata in maggioranza da ex alleati di Kabila. Mentre non è ancora chiaro da chi sarà composta l’opposizione, visto che la strutturata piattaforma Lamuka si è ormai frantumata.
Oltretutto, lo scenario politico attuale non sembra accreditare nuove personalità per la costruzione del Paese, come dimostra l’età avanzata dei nuovi presidenti della Camera bassa e del Senato: il 79enne Christophe Mboso N’kodia Pwanga, in politica dal 1977, e l’84enne Leon Mamboleo Mughuba, che già nel lontano 1964 aveva ricoperto l’incarico di ministro della Giustizia nel Gabinetto di Moïse Tshombe. C’è poi da considerare, che la nuova alleanza della Sacra Unione, che adesso governa il Paese è scaturita da un rimescolamento politico, che lascia trasparire tutta la fragilità di una maggioranza basata su interessi personali e non su una visione comune per il bene pubblico. Per questo, potrebbe non avere ricadute concrete sulla popolazione, gran parte della quale vive ormai da anni al limite della sopravvivenza.
Il Presidente dovrà anche nominare un nuovo capo della CENI, al posto di Rosard Malonda, oltre a un nuovo Consiglio di amministrazione della Banca centrale: una condizione preliminare per ricevere dai donor internazionali l’assistenza finanziaria, sempre più vitale per il futuro della RdC. Compiti difficili da assolvere, anche tenendo conto del fatto che l’ex Presidente Kabila conserva ancora un’influenza su molte leve del potere, come la finanza, l’esercito e i servizi segreti. Resta dunque da vedere se Tshisekedi, pur avendo dimostrato di essere un abile stratega, sarà in grado di affrontare le sfide più impervie.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
In Africa le vaccinazioni vanno a rilento
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L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) sta lamentando un’estrema lentezza nel processo di vaccinazione contro il Covid-19 in Africa e insiste sul fatto che un equo accesso ai vaccini è una delle armi vincenti per contrastare la pandemia. L’Agenzia delle Nazioni Unite ha evidenziato che in Africa sono state inoculate meno del 2% delle 700 milioni di dosi di vaccino anti-Covid somministrate finora in tutto il mondo.
Oltre a sottolineare il fatto che la maggior parte dei Paesi del continente ha ricevuto i vaccini solo cinque settimane fa e in modiche quantità. Finora, 45 dei 54 Stati del continente hanno avuto i vaccini, 43 dei quali hanno iniziato le vaccinazioni e quasi 13 milioni delle 31,6 milioni di dosi consegnate finora sono state somministrate. Tuttavia, il ritmo delle immunizzazioni non è uniforme, come prova il fatto che ben il 93% delle dosi sono state inoculate in soli dieci Paesi, che hanno utilizzato almeno il 65% delle loro scorte.
Finora l’Africa è stata il continente meno colpito dalla pandemia, con 4,45 milioni di casi registrati, compresi 118mila morti. Negli ultimi due mesi, la regione ha registrato un plateau di circa 74mila nuovi casi a settimana. Tuttavia, il Kenya sta affrontando una terza ondata e l’epidemia mostra una tendenza al rialzo in altri 14 Paesi africani, tra cui Etiopia, Eritrea, Mali, Ruanda e Tunisia.
Nonostante si stiano registrando alcuni progressi, molti Paesi africani sono ancora alla fase iniziale della campagna di vaccinazione. Una volta consegnati i vaccini, la somministrazione in alcuni Paesi è stata ritardata da ostacoli operativi e finanziari o difficoltà logistiche, come il raggiungimento di località remote.
A febbraio, aveva fatto ben sperare l’avvio del programma Covax (Covid-19 Vaccine Access Global), creato nel giugno 2020 e sostenuto da Cepi (Coalizione internazionale per le innovazioni in materia di preparazione alla lotta contro le epidemie), Oms e Gavi Alliance con l’obiettivo di garantire che anche i Paesi più poveri avessero accesso ai vaccini.
Il programma mira a fornire all’Africa 600 milioni di dosi del Vaxzevria di AstraZeneca, sufficienti per vaccinare almeno il 20% della popolazione in 40 Paesi, ma dopo soli due mesi sta rivelando alcune falle nell’organizzazione. La prima è rappresentata dal fatto che la le dosi sono prodotte dal Serum Institute of India, che il mese scorso ha sospeso le esportazioni per soddisfare la crescente domanda interna per far fronte a un notevole aumento dei casi.
Molti Paesi come Ruanda e Botswana che hanno ricevuto le prime dosi le hanno ormai esaurite, oppure altri come il Malawi, le hanno lasciate scadere per diverse ragioni. Poi, ci sono ancora altri Paesi, come Ciad e Zimbabwe, che avrebbero rinunciato all’invio del Vaxzevria, nell’attesa che si chiarisca definitivamente l’eventuale relazione tra il vaccino e il rischio di trombosi.
Mentre il Sudafrica ha ritardato l’avvio del suo programma basato sull’utilizzo di Vaxzevria perché studi di laboratorio hanno dimostrato una scarsa efficacia di questo vaccino contro la nuova variante B.1.351 (nota anche come 501.V2) del Sars-CoV-2, che sta causando la maggior parte delle infezioni. La Nazione Arcobaleno ha iniziato la sua campagna di vaccinazione a febbraio dopo aver ricevuto dosi del vaccino Janssen di Johnson&Johnson (J&J), che viene somministrato come dose singola e ha dimostrato di essere efficace contro la variante B.1.351.
La scorsa settimana, il Sudafrica ha temporaneamente interrotto anche la somministrazione del Janssen, dopo che la Food and Drug Administration (FDA) statunitense ha sospeso l’uso del vaccino negli Stati Uniti a seguito della segnalazione su sei donne di gravi casi di coaguli di sangue con piastrine basse. Secondo i dati forniti dall’Africa Data Hub’s Vaccine Tracker, il Sudafrica ha vaccinato solo lo 0,5% della popolazione somministrando 292.623 dosi del vaccino americano e attualmente è l’unico Paese africano che lo utilizza.
Un aspetto paradossale del processo di vaccinazione nel continente è rappresentato dal fatto che mentre alcuni Paesi sospendono le vaccinazioni, il programma Covax va avanti con l’invio di dosi in altre nazioni africane. Qualche giorno fa ha spedito 355mila vaccini in Niger, che lo scorso 29 marzo aveva lanciato la campagna di immunizzazione contro il coronavirus con i vaccini donati dalla Cina. Altre spedizioni sono arrivate nelle Isole Comore, Guinea Bissau, Mauritania e Zambia. Presto arriveranno anche in Camerun, che intanto giovedì scorso ha ricevuto 200mila dosi del vaccino Sinopharm, prodotto in Cina.
Per ovviare agli scarsi risultati finora prodotti dal Covax, l’Unione africana ha firmato un accordo con la J&J per acquistare 220 milioni di dosi del vaccino Janssen con un’opzione per altri 180 milioni. Questo vaccino ha il vantaggio che per l’immunizzazione è sufficiente un’iniezione monodose e consentirebbe al continente di vaccinare 400 milioni di persone. Tuttavia, queste dosi non saranno ugualmente sufficienti per raggiungere l’obiettivo di vaccinare il 60% della popolazione entro la fine del 2022 per ottenere l’immunità di gregge. Inoltre i vaccini J&J saranno disponibili solo all’inizio del prossimo settembre, lasciando l’Africa scoperta per almeno altri quattro mesi.
Giustamente, il direttore dei Centri africani per il controllo e la prevenzione delle malattie (Africa CDC), John Nkengasong, ha affermato di non ricevere sufficiente aiuto dalla comunità internazionale e anche dai Governi africani. Una soluzione potrebbe essere nell’introdurre la produzione su larga scala dei vaccini in Africa, dove finora sono prodotti solo in Sudafrica nella fabbrica di Gqeberha dell’Aspen, in cui su licenza di J&J verranno preparate le 400 milioni di dosi di Janssen.
Ma Big Pharma sembra resistere a estendere la produzione dei vaccini direttamente all’Africa, sostenendo che la produzione in base ad accordi di licenza volontaria (come AstraZeneca ha fatto con il Serum Institute indiano e J&J con Aspen a Gqeberha) costituisca un’opzione migliore.
Nel breve termine questa sembra essere la risposta, insieme ad altre opzioni come un maggiore sostegno al programma Covax e prestiti più significativi da parte della Banca mondiale. Ciononostante, per risolvere il pericoloso stallo i Paesi più sviluppati, che per stare al sicuro hanno ordinato vaccini in eccesso, dovrebbero donarli agli Stati del continente assumendosi le proprie responsabilità globali e al tempo stesso i Governi africani devono adempiere ai loro obblighi nazionali.
Congo: i ribelli e il loro legame con l’Isis
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Il 18 aprile di due anni fa, lo Stato islamico, attraverso la sua agenzia di propaganda Amaq, ha rivendicato il primo attacco nella Repubblica democratica del Congo (RdC). Al contempo aveva annunciato l’istituzione di una nuova wilayat (provincia) del Califfato in Africa Centrale (Islamic State Central Africa Province – ISCAP), legittimata dal defunto califfo Abu Bakr al-Baghdadi, che il 29 aprile 2019 mostrò in un video un testo dedicato all’ISCAP.
Nel corso dei mesi gli attacchi sono proseguiti e lo Stato islamico ne ha attribuito la responsabilità ai ribelli delle Forze democratiche alleate (ADF), un gruppo armato sorto nel 1995 in opposizione al Presidente ugandese Yoweri Museveni. Poi, nel giro di un paio d’anni le ADF hanno spostato il loro raggio d’azione nella parte orientale della RdC, dove sono considerate il gruppo più violento tra quelli attivi nella provincie del Nord Kivu e dell’Ituri.
Le ADF, che negli ultimi anni hanno assunto il nome di Madinat Tawhid wa-l-Muwahidin (La città del monoteismo e dei monoteisti), affondano profonde radici nell’Islam radicale risalenti ad alcuni anni prima della loro fondazione. Mentre molti dei loro membri originari, compreso il primo leader Jamil Mukulu, erano figure chiave nel movimento estremista islamico ugandese Jamaat al-Tabligh. E da quando, nell’aprile 2019, lo Stato islamico ha rivendicato per la prima volta un attacco nella regione ha rilasciato vari documenti sul coinvolgimento delle ADF nell’ISCAP, tra cui dichiarazioni pubblicate nella newsletter settimanale al-Naba e video diffusi dall’Amaq.
Un altro segno del legame tra le ADF e lo Stato islamico è arrivato dopo che un rapporto del Congo Research Group e della Bridgeway Foundation, basato sulle rivelazioni di un disertore dell’ADF, ha riportato che il pericoloso terrorista e facilitatore finanziario dell’ISIS Waleed Ahmed Zein, arrestato in Kenya nel luglio 2018, avrebbe fornito denaro alle ADF. Una successiva indagine ha rivelato che Zein aveva trasferito circa 150mila dollari su un conto riconducibile alle ADF.
Secondo un altro rapporto della George Washington University (GWU), ulteriori prove dell’affiliazione delle ADF con l’ISIS sono fornite dall’aumento della violenza contro i civili. La GWU associa un picco di violenza all’inizio del 2018, dopo la prima menzione dell’ISCAP da parte di Abu Bakr al-Baghdadi, che ha registrato un ulteriore incremento nell’aprile 2019, quando le ADF sono state ufficialmente riconosciute dallo Stato Islamico come parte dell’ISCAP.
Tuttavia la correlazione non è causalità, come prova il fatto che entrambi i picchi di violenza si sono registrati immediatamente dopo che l’esercito congolese e la MONUSCO, la missione di peacekeeping delle Nazioni Unite nella RdC, avevano condotto una serie di attacchi contro le ADF, in risposta ai quali la milizia ribelle ha condotto numerose rappresaglie.
Altro elemento interessante per stabilire la reale connessione tra i due gruppi è che nel 2020 i membri dell’ADF hanno pubblicato in maniera autonoma su WhatsApp un numero crescente di video di propaganda. Questo significa che i video in questione non sono stati diffusi da un ramo ufficiale dello Stato islamico.
Questi elementi mostrano che indubbiamente ci sono alcuni legami tra lo Stato islamico e le ADF. Tuttavia, tali legami rimangono incerti e opacizzati dal fatto che è difficile sapere se l’intero gruppo o solo una parte si è allineato con lo Stato Islamico. Anche perché i video che non hanno il logo dell’ISIS, mostrano che il legame tra le due organizzazioni non è del tutto stabilito. Poiché, di solito, quando l’ISIS assume il controllo di un altro gruppo, pone fine a tutta la produzione di propaganda autonoma.
Il reale legame tra le due entità appare dunque ancora incerto, l’unica evidenza è che fin dalla nascita il gruppo ribelle ha scelto di avere un’identità fluida, giustificando la guerriglia armata con motivazioni politiche, religiose, etniche o secessioniste. L’importanza reale dell’Islam per il gruppo armato è stata spesso messa in discussione dagli analisti, i quali hanno evidenziato che pur avendo ripetutamente utilizzato la retorica fondamentalista nelle sue rivendicazioni, l’islam per le ADF rappresenta solo una facciata per mascherare fini politici.
Lo Stato Islamico potrebbe quindi aver cooptato una fazione minoritaria delle ADF, non riuscendo a operare il passaggio nelle sue fila dell’intero gruppo ribelle, che rimane più convincente per attrarre nella sua orbita altre milizie. Soprattutto quelle non sorrette da ideologie jihadiste, che nelle provincie orientali del Congo costituiscono la maggioranza.
Ciononostante, lo scorso 10 marzo, il Dipartimento di Stato americano ha incluso le ADF nell’elenco delle organizzazioni terroristiche straniere ai sensi della Sezione 219 dell’Immigration and Nationality Act e inserito il suo leader Seka Musa Baluku nella lista dei Terroristi globali appositamente designati (SDGTs) ai sensi dell’Ordine esecutivo 13224. Oltre ad aver disposto severe sanzioni per contrastare l’attività del gruppo, che secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (OHCHR) nel solo 2020 ha ucciso almeno 849 civili.
La designazione statunitense delle ADF come gruppo satellite dell’ISIS porta a prendere in esame una trasformazione del gruppo molto più profonda di quella che mostrano gli elementi esaminati, con il rischio tangibile di alimentare la propaganda e l’importanza dello Stato islamico all’interno del gruppo ribelle congolese.
La narrativa ISIS-ISCAP porta anche a diagnosticare erroneamente i driver della violenza, destando notevole preoccupazione perché può contribuire a un aumento delle operazioni offensive contro le ADF, che potrebbero moltiplicare le rappresaglie contro i civili. Senza dimenticare, che in passato lo stesso esercito congolese è stato implicato uccisioni di massa attribuite alle ADF.
In definitiva, rendere la lotta contro le ADF parte della guerra globale al terrore preclude i modi non violenti di trattare con il gruppo. Le ADF sono senza dubbio un pericoloso gruppo armato che deve essere combattuto, ma la narrazione sbagliata è foriera di soluzioni sbagliate.
Questo dovrebbe anche suscitare perplessità nell’aver indicato il gruppo ribelle tra i possibili responsabili dell’attacco che lo scorso 22 febbraio ha causato la morte dell’ambasciatore italiano, Luca Attanasio, del carabiniere che lo accompagnava, Vittorio Lacovacci, e dell’autista del World Food Programme (WFP), Mustapha Milambo Baguna.
Una drammatica vicenda sulla quale dopo la commozione e il clamore dei primi giorni sembra essere calato il silenzio, mentre gli interrogativi sulla fine dei tre uomini che transitavano su una delle strade più pericolose del Nord Kivu restano irrisolti.
Tanzania: chi era John Magufuli
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Nella serata del 17 marzo, la televisione di stato della Tanzania ha annunciato la prematura scomparsa del Presidente John Pombe Magufuli. La notizia è stata data direttamente dalla vicepresidente Samia Suluhu Hassan, che adesso prenderà il posto di Magufuli fino allo scadere del mandato previsto per il 28 ottobre 2025.
Samia sarà la prima donna nella storia del Paese a rivestire la più alta carica istituzionale, dopo che nel 2010 fu nominata Ministro per gli Affari dell’Unione (tra l’isola di Zanzibar e il Tanganica, la parte continentale della Repubblica Unita di Tanzania) e nel 2015 divenne la prima donna vicepresidente della Tanzania.
Le sue ultime settimane
Nelle ultime settimane, le domande sullo stato di salute di Magufuli, che amava il contatto diretto con la gente, stavano diventando sempre più insistenti. Il Presidente non era più apparso in pubblico dalla fine di febbraio e alcuni membri dell’opposizione avevano affermato che aveva contratto il Covid-19. Un’affermazione che i funzionari governativi hanno seccamente smentito, dichiarando che il Presidente era sano e oberato da vari impegni di lavoro.
Secondo la ricostruzione ufficiale, il sessantunenne Magufuli sarebbe morto per complicazioni cardiache. In effetti, il suo cuore era in precarie condizioni da una decina d’anni, tanto che gli era stato impiantato un pacemaker. Per questo, lo scorso 6 marzo, era stato ricoverato per due giorni al Jakaya Kikwete Cardiac Institute di Dar es Salam. Poi, in seguito a un ulteriore aggravamento delle sue condizioni, il 14 marzo era stato ricoverato d’urgenza e sarebbe morto per ulteriori complicazioni tre giorni dopo.
Le dichiarazioni ufficiali sull’aggravamento del suo stato di salute nelle ultime settimane di vita non fugano però i dubbi sul fatto che il capo di Stato potrebbe esser morto per il coronavirus, che nei mesi scorsi aveva già provocato il decesso, ufficialmente per “malattie respiratorie”, di tre deputati, alcuni ex Ministri e del vicepresidente di Zanzibar.
Senza contare, che all’inizio della scorsa settimana, le autorità di Dodoma hanno arrestato quattro persone sospettate di aver diffuso sui social media voci infondate sull’aggravamento dello stato di salute del Presidente, secondo le quali, dopo aver contratto il Covid-19 era stato trasferito in un ospedale del Kenya per ricevere cure migliori.
La negazione del Covid
L’ultimo anno del mandato di Magufuli era stato caratterizzato dalla negazione dell’esistenza del Sars-Cov-2 in Tanzania, che secondo il capo di Stato, a eccezione di pochi rari casi di persone contagiate durante i viaggi all’estero, nel Paese non c’è mai stato. Ma all’inizio di quest’anno, l’ambasciata degli Stati Uniti a Dar-es-Salaam aveva confutato le affermazioni secondo cui la Tanzania fosse Covid free, avvertendo invece della costante diffusione del virus e sconsigliando ai viaggiatori di recarsi nel Paese.
Il Presidente tanzaniano aveva anche detto no all’arrivo dei vaccini, affermando che la Tanzania aveva debellato la malattia a giugno per grazia divina e che le persone che avevano lasciato il Paese per farsi vaccinare erano responsabili della ricomparsa della malattia. Aveva infatti invitato i suoi concittadini a radunarsi nelle chiese per pregare perché Dio li avrebbe protetti dal virus e aveva consigliato di curarsi con inalazioni, erbe locali e le cure tradizionali per le infezioni respiratorie. Come aveva fatto, all’inizio di febbraio, nel corso di una conferenza stampa il Ministro della Sanità, Dorothy Gwajima, che davanti alle telecamere aveva ingerito un intruglio a base di ginger, aglio e limone, indicandolo come la miglior protezione dal virus.
“Tingatinga” (“bulldozer”), come veniva soprannominato il capo di Stato tanzaniano, aveva inoltre ignorato gli appelli della Chiesa locale, che aveva più volte invocato misure precauzionali come distanziamento fisico e l’uso di mascherine. Il Governo non solo non ha mai messo in atto le misure di contenimento o quarantena richieste dalla Chiesa, ma ha anche lasciato il Paese accessibile al turismo, mantenendo aperti mercati e ristoranti.
Scelte che hanno salvaguardato l’economia, ma a prezzo di un numero imprecisato di morti, visto che da più di dieci mesi il presidente aveva deciso di non fornire i numeri delle vittime al Centro Africano per il controllo delle malattie di Addis Abeba (mentre il Kenya attualmente registra 106mila contagi e 18mila decessi, la Tanzania ne conta rispettivamente 509 e 21).
La rielezione dello scorso ottobre
Magufuli, che aveva fatto della lotta alla corruzione il cavallo di battaglia del suo primo mandato, era stato rieletto l’ottobre scorso, in una tornata elettorale controversa, sulla quale erano state avanzate numerose denunce di brogli. È innegabile che abbia avuto un esordio molto promettente, in cui aveva riscosso un ampio consenso dando voce a quel nazionalismo africano che rivendica con orgoglio una reale indipendenza dai poteri occidentali.
Aveva quindi abolito, per risparmiare il denaro pubblico, i megafesteggiamenti per l’anniversario dell’indipendenza dal Regno Unito. E trascorsi poco meno di due anni dall’inizio del suo primo mandato, aveva ‘allineato’ le compagnie minerarie che si arricchivano coi tesori del sottosuolo tanzaniano.
Il suo potere aveva però col tempo subìto una deriva autoritaria che tendeva a soffocare dissenso e libertà d’espressione. Mentre la polizia proibiva d’arbitrio i raduni dell’opposizione giudicati sediziosi, la Tanzania precipitava dal 70esimo al 124esimo posto nella classifica annuale sulla libertà di stampa stilata da Reporter senza frontiere.
Nonostante la repressione, i sostenitori di Magufuli sottolineano che il Presidente ha portato una forte crescita economica al Paese e durante la sua presidenza sono stati varati decine di programmi infrastrutturali, incluse linee ferroviarie e il rilancio di Air Tanzania. Ma forse non la pensano allo stesso modo, i familiari delle 11 persone uccise a colpi di arma da fuoco dalle forze di sicurezza alla vigilia delle ultime elezioni, oppure Zitto Kabwe, leader del partito di opposizione Alliance for Change and Transparency, arrestato 16 volte da quando Magufuli era salito al potere.
La Nigeria vieta le criptovalute
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Negli ultimi cinque anni, la Nigeria ha scambiato più di 500 milioni di dollari in bitcoin, mentre un nigeriano su tre usa abitualmente le criptovalute. Un volume enorme che ha reso il più popoloso Stato dell’Africa il secondo mercato di criptovalute più grande al mondo, dopo gli Stati Uniti.
Un primato che un report della BBC, spiega con un insieme di circostanze politiche, economiche e finanziarie sfavorevoli che hanno creato un clima di sfiducia nei confronti degli asset tradizionali e del circuito bancario nazionale.
Per questo, quando il mese scorso la Banca centrale della Nigeria (CBN) ha deciso di vietare le transazioni in valuta digitale, si è scatenata la rabbia tra i nigeriani, che vedono questa valuta come un rifugio sicuro in un’economia martoriata dal 41% di disoccupazione giovanile e da una profonda recessione, che entro il 2022 rischia di aggiungere venti milioni di poveri agli attuali 83.
La nuova direttiva del CBN sulle transazioni di criptovaluta impedisce ai trader di acquistare criptovalute con le loro carte di credito/debito emesse dalle banche nigeriane o di ricevere i proventi delle vendite di criptovaluta. In osservanza alla direttiva, le banche hanno iniziato a disattivare tutti gli account individuali con afflussi/deflussi da e verso piattaforme di criptovaluta. E non è chiaro se in futuro le persone interessate saranno in grado di riaprire questi conti presso le banche.
Tutto questo, bloccherà le piattaforme di scambio che facilitano l’acquisto e la vendita della valuta digitale in Nigeria e avrà comprensibilmente un effetto sul locale mercato delle criptovalute. Tuttavia, gli operatori sembra abbiano trovato la maniera per aggirare la restrizione attraverso il trading peer-to-peer, che consente alle persone di acquistare o vendere criptovaluta da singoli trader anziché dalle tradizionali piattaforme. In pratica, si elimina la necessità per gli exchange di criptovalute di gestire conti di regolamento nelle banche nigeriane.
Un comunicato stampa della CBN spiega che la contestata decisione di vietate le transazioni relative alla criptovaluta nel Paese e ordinare alle banche di chiudere tutti i relativi conti, trova origine nel fatto che la valuta digitale sarebbe utilizzata per il riciclaggio di denaro e il finanziamento del terrorismo, oltre a favorire l’evasione fiscale.
Un’altra motivazione addotta dalla CBN sarebbe insita nella volatilità delle criptovalute, che ha già minacciato la stabilità dei sistemi finanziari in altri Paesi, alimentando le paure che un improvviso scoppio della bolla dei bitcoin possa compromettere la sicurezza economica di milioni di giovani nigeriani.
In realtà, la CBN non indica chiaramente le ragioni della repressione contro i bitcoin, che secondo gli addetti ai lavori sarebbe stata deliberatamente messa in atto per produrre una crisi nel transazioni delle valute digitali.
Secondo Shuaibu Idris, consulente di gestione presso la Time-Line Consult, ci sarebbero circa 4 miliardi di dollari di asset incorporati nelle criptovalute in Nigeria. “Se i proprietari di questi beni risiedono in Cina, Singapore, India, Stati Uniti o Kenya e decidono di prendere questi soldi – spiega Idris – l’economia della Nigeria rischia di subire un collasso sistemico, aggravato dalla forte volatilità delle quotazioni che caratterizza i bitcoin”.
La dura presa di posizione della Banca centrale della più grande economia africana contro la valuta digitale, potrebbe trovare un ulteriore giustificazione nelle pressanti proteste, dello scorso ottobre, contro i gravi abusi perpetrati dalla Squadra speciale anti-rapina della polizia nigeriana, nota come SARS (Special Anti-Robbery Squad).
L’ondata di proteste è stata scatenata da un tweet pubblicato il 3 ottobre – che ha ricevuto quasi 11mila retweet – nel quale veniva denunciato l’omicidio di un ragazzo ucciso dalla polizia a Ughelli, una città dello Stato del Delta. La decisa reazione della popolazione, stanca di subire arresti indiscriminati e torture (ampiamente documentati da Amnesty), ha provocato lo scioglimento del famigerato reparto di polizia da parte della presidenza della Nigeria.
Durante le settimane delle proteste è accaduto che due banche nigeriane chiudessero il conto corrente di un’associazione che partecipava alle manifestazioni di piazza. Come risposta i membri hanno convertito i loro risparmi in bitcoin iniziando a raccogliere fondi nella criptovaluta per continuare la loro lotta.
Nel frattempo, la Nigerian Securities and Exchange Commission (SEC) ha annunciato che intende introdurre regolamenti sull’acquisto e la vendita di criptovalute, indicando che rientrano nella categoria delle transazioni in titoli. L’agenzia governativa incaricata di regolamentare e sviluppare il mercato dei capitali nel Paese africano ha affermato di aver identificato alcuni rischi nel settore degli asset digitali, senza però spiegare bene i motivi.
C’è anche da ricordare, che non è la prima volta che la CBN cerca di controllare il mercato delle criptovalute. Già nel 2017, l’istituzione finanziaria aveva intimato alle banche locali di non facilitare le transazioni legate alle criptovalute. Ma questo non ha fermato la popolarità delle criptovalute nella nazione dell’Africa occidentale, che da allora ha visto aumentare il volume degli scambi di bitcoin di almeno il 19% all’anno.
C’è infine da evidenziare che il vicepresidente nigeriano Yemi Osinbajo sembra andare in controtendenza con le decisioni restrittive della CBN. Il vicepresidente pur dichiarandosi preoccupato per i potenziali usi impropri della criptovaluta e le relative implicazioni per i consumatori, ha dichiarato che “la Banca centrale e la SEC dovrebbero trovare modi per regolamentare le criptovalute piuttosto che vietarne l’uso, esortando a elaborare un sistema che supporti la crescita e l’innovazione”.
Osinbajo deve aver intuito che nei prossimi anni le criptovalute sfideranno il sistema bancario tradizionale e la Nigeria dovrà essere preparata per affrontare un cambiamento epocale.
Etiopia: una guerra (in)visibile
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Il conflitto nel Tigray, la più ricca e storicamente influente regione dell’Etiopia, è iniziato lo scorso 4 novembre, quando il primo ministro etiope Abiy Ahmed ha ordinato un’offensiva militare contro le forze locali motivandola come risposta a due raid lanciati dai militari tigrini contro la base di Dansha e della capitale Macallè, che ospitavano truppe governative.
Fin dall’inizio delle operazioni belliche contro la regione più settentrionale dell’Etiopia, Abiy ha più volte affermato che si trattava solo di un’operazione di polizia contro un territorio ribelle, ma lo scontro tra le forze di difesa nazionale dell’Etiopia (ENDF) e le forze tigrine è a tutti gli effetti una guerra con spiegamento di mezzi blindati, aerei e decine di migliaia di soldati.
Un conflitto che ha provocato migliaia di vittime e la fuga di oltre 50mila tigrini verso il vicino Sudan, oltre a destabilizzare la seconda nazione più popolosa del continente, perno della stabilità del Corno d’Africa.
L’escalation è arrivata dopo mesi di faide tra il governo di Abiy e i leader del Fronte Popolare di Liberazione del Tigray (TPLF), il partito politico dominante nella regione dissidente, che per quasi tre decenni è stato al centro del potere. Tutto è cambiato dopo il 2 aprile 2018, quando Ahmed, di etnia oromo, è diventato primo ministro e ha avviato uno storico processo di riforme per la democratizzazione del suo Paese.
La volontà di Abiy di imporre un più ampio programma nazionalista sulle ristrette priorità etniche è stata osteggiata dal TPLF, che ha interpretato il piano del primo ministro come una riduzione del diritto all’autogoverno, inclusa l’autonomia, che è concessa dalla Costituzione etiope alle regioni organizzate etnicamente.
Questo approccio ha progressivamente emarginato i leader tigrini e il TPLF si è staccato dalla coalizione di governo, il Fronte democratico rivoluzionario popolare etiope (EPRDF), che ha guidato il paese dal 1991 fino al marzo 2018. Poi, i leader del TPLF hanno rifiutato di fondersi con gli altri tre partiti della vecchia coalizione nel Partito della prosperità (PP), controllato dal primo ministro e non strutturato su linee etniche come l’EPRDF.
Lo strappo di Macallè si è allargato all’inizio dello scorso settembre, quando il presidente del TPLF, Debretsion Gebremichael, in aperta sfida alla Costituzione e al governo federale, ha deciso di tenere lo stesso le elezioni. Come era facile prevedere, le urne hanno sancito l’affermazione del suo partito, che con il 98% dei voti si è aggiudicato tutti i seggi disponibili nel Parlamento regionale e si è rifiutato di riconoscere il governo federale definendolo illegittimo.
Gli effetti della schiacciante affermazione elettorale si sono riverberati sul già teso rapporto del TPLF con Addis Abeba, che ha immediatamente disconosciuto la validità delle elezioni amministrative e annunciato la sospensione di ogni relazione con lo stato regionale.
La crisi nel Tigray ha avvalorato l’opinione di alcuni analisti, che da tempo evocano lo scenario jugoslavo per l’Etiopia e hanno adattato al contesto etiope il termine “balcanizzazione”. Mentre l’uso della forza da parte del governo federale contro un partito di governo regionale, che intende tutelare i diritti di autogoverno garantiti dall’articolo 39 della Costituzione dell’Etiopia, potrebbe provocare frizioni politiche in altre regioni e destabilizzare ulteriormente il Paese.
Tuttavia, era evidente che dopo aver controllato per 28 anni il potere statale, il TPLF non fosse disposto ad accettare le riforme democratiche e lo slancio di liberalizzazione di Abiy che ha concentrato il suo operato intorno all’ideologia del medemer, secondo la quale l’Etiopia avrebbe dovuto preferire un modello amministrativo più unitario. Un modello in grado di superare le differenze interetniche e allontanarsi gradualmente dal nazionalismo etnico, su cui si fonda attualmente la gestione del potere in Etiopia.
Una dottrina che mina l’ordine che storicamente ha permesso alla minoritaria comunità tigrina di esercitare un potere sproporzionato rispetto alla sua popolazione. La conseguente erosione della leadership tigrina ha causato aspre tensioni politiche e le elezioni, che Ahmed ha definito illegali, avrebbero potuto rappresentare il primo passo verso la secessione.
A partire dallo scorso 9 novembre, più volte Abiy ha cercato di rassicurare la comunità internazionale con tweet e discorsi nei quali ha affermato che la nazione non sarebbe precipitata nel caos perché l’operazione militare era mirata a garantire la pace e la stabilità.
Un’operazione militare che in poco più di tre settimane sembrerebbe aver avuto ragione della resistenza delle milizie tigrine, dopo che lo scorso 28 novembre Abiy ha annunciato l’ingresso dell’esercito a Macallè.
Il primo ministro, in un intervento riportato sul sito dell’agenzia di stampa etiope (ENA), ha anche ringraziato la popolazione del Tigray per non aver supportato il TPLF, sottolineando che la gente ha fatto del suo meglio per sostenere i militari etiopi fino a quando non sono entrati a Macallé. Tuttavia è difficile stabilire se effettivamente la popolazione civile abbia voltato le spalle alla ribellione.
Di fatto, quella del Tigray è una guerra invisibile, con poche testimonianze indipendenti e immagini giornalistiche. Nessun cronista o diplomatico straniero ha potuto visitare la regione, mentre i collegamenti telefonici sono stati interrotti e internet è stato oscurato all’inizio delle ostilità, lasciando campo aperto alla propaganda di entrambi gli schieramenti.
Nel momento in cui scriviamo, ancora non si conosce il bilancio delle vittime dei combattimenti, ma è certo che la conquista da parte dell’esercito etiope della capitale del Tigray, abitata da mezzo milione di abitanti, è stata preceduta da intensi bombardamenti, confermati da operatori umanitari. Mentre le truppe etiopi sono state dispiegate lungo il confine della regione del Tigray con il Sudan per impedire alle persone in fuga dalle violenze di lasciare il Paese. Senza dubbio, l’annuncio della presa di Macallè da parte dell’esercito etiope costituisce un duro colpo per Gebremichael, che aveva sfidato Addis Abeba e fino all’escalation militare godeva del massiccio consenso della popolazione tigrina.
Ciononostante, il leader del TPLF non sembra manifestare alcuna volontà di resa, come dimostra l’intervista telefonica che ha rilasciato all’Associated Press, due giorni dopo che Abiy ha annunciato la conclusione delle operazioni militari nella regione del Tigray. Nell’intervista Gebremichael ha affermato che “i combattimenti continuano, le sue forze non hanno ripiegato e continueranno a lottare fino a quando gli invasori non saranno cacciati e la comunità tigrina avrà ottenuto l’autodeterminazione”.
Il conflitto nel nord dell’Etiopia sembra essere tutt’altro che finito e ci sono rapporti credibili di scontri in corso tra l’esercito etiope e le forze del Tigray in tutta la regione, emersi dopo che il rigido black-out delle comunicazioni, imposto dal governo federale, nei primi giorni di dicembre è stato parzialmente rimosso nella parte occidentale del Tigray e il 13 dicembre a Macallè.
Il totale oscuramento dell’informazione nelle prime tre settimane del conflitto ha lasciato poco margine a una corretta disamina degli avvenimenti, ma resta inoppugnabile che dopo l’annuncio della vittoria da parte del primo ministro etiope non sono circolate immagini di prigionieri, di armi confiscate ai nemici, tantomeno di folle acclamanti l’entrata delle truppe a Macallè.
Troppe domande restano senza risposta ed è prematuro pensare che la crisi sia conclusa perché appare improbabile che l’esercito federale sia capace di detronizzare rapidamente una leadership in grado di organizzare una strenua resistenza armata, come quella del TPLF.
La conquista di Macallè potrebbe determinare l’avvio di una nuova fase di scontri, che obbligherebbe l’ENDF ad affrontare non più una guerra aperta, ma la minaccia insidiosa della guerriglia sulle alte e tortuose montagne del Tigray.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
Il barbaro omicidio dell’Ambasciatore Attanasio. Perché?
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L’attacco terroristico contro un convoglio del Programma alimentare mondiale (Pam) delle Nazioni Unite, in cui è rimasto ucciso l’Ambasciatore italiano in Congo, Luca Attanasio, il giovane carabiniere Vittorio Iacovacci, addetto alla sua scorta, e l’autista congolese Mustapha Milambo, finora non è stato rivendicato da nessuno della miriade di gruppi armati attivi nelle turbolente provincie orientali della Repubblica democratica del Congo.
Tuttavia, il vice premier e Ministro dell’Interno congolese Gilbert Kankonde Malamba ha dichiarato che la responsabilità dell’attacco sia ascrivibile ai ribelli delle Forze democratiche per la liberazione del Ruanda (FDLR), che però hanno rapidamente smentito il loro coinvolgimento e rimandato le accuse al mittente, dichiarando che l’attentato sarebbe avvenuto “non lontano” da una postazione delle forze armate della Repubblica democratica del Congo (FARDC).
Le FDLR è una milizia di etnia hutu fondata nel 2000, che nelle sue fila ha raggruppato anche alcuni fuggitivi implicati nell’organizzazione del genocidio in Ruanda. Il gruppo è responsabile di decine di attentati terroristici nel Congo orientale e alcuni dei suoi membri, l’11 maggio 2018, avevano rapito due turisti britannici, liberati due giorni dopo, nella zona delle colline delle Tre antenne, contigua al parco nazionale di Virunga, lo stesso posto dove, secondo quanto riportato dal sito congolese Actualite.cd, è avvenuto il mortale agguato di ieri mattina.
Sempre le FDLR, nell’aprile dello scorso anno, avevano attaccato una pattuglia di ranger dell’Istituto congolese per la conservazione della natura (ICCN) a tutela del parco di Virunga, provocando 17 morti, tra cui 12 guardie forestali impegnate a salvaguardare dal bracconaggio i gorilla di montagna, specie a rischio di estinzione. Oltre alle FDLR, diversi gruppi armati operano dentro e intorno ai quasi 7.800 km2 di estensione del parco nazionale di Virunga, che nel 2018, dopo una serie di attacchi contro le guardie forestali e il personale dipendente, venne chiuso ai turisti per otto mesi.
Le dinamiche dell’agguato
Mentre gli inquirenti congolesi sono al lavoro per fare luce sull’accaduto e assicurare alla giustizia i responsabili, quello che per ora emerge dalle prime ricostruzioni è che i tre uomini siano caduti in un’imboscata in piena regola, probabilmente a scopo di sequestro, finita in tragedia.
Il convoglio, composto da due vetture del Pam, stava viaggiando senza essere scortato verso nord, sulla strada tra Goma e Rutshuru, dove il diplomatico italiano avrebbe dovuto visitare una struttura dell’Agenzia dell’Onu preposta alla distribuzione di cibo nelle scuole.
Le due vetture erano identificate soltanto dai distintivi delle Nazioni Unite sulle portiere e le persone a bordo non indossavano giubbotti antiproiettile e non portavano auricolari di sicurezza. Questo perché, malgrado quella zona del Paese era stata funestata da diversi attacchi violenti, il percorso era stato definito “sicuro”.
L’attacco è stato fulmineo e si riporta che gli assalitori avrebbero dato istruzioni ai membri della delegazione del PAM in swahili, lingua molto diffusa in Africa, mentre tra loro parlavano kinyarwanda, una lingua tipica del Ruanda e comune tra diverse milizie locali.
Secondo una ricostruzione operata dai sopravvissuti e riportata ad Al Jazeera dal governatore della provincia di Kivu Nord, Carly Nzanzu Kasivita, gli assalitori hanno fatto fermare il convoglio con alcuni spari di avvertimento per poi trascinare giù dal mezzo i passeggeri, portandoli nella foresta, dove hanno chiesto soldi all’ambasciatore. Pochi minuti dopo hanno sparato prima a Milambo e poi a Iacovacci, uccidendoli entrambi. Mentre Attanasio è stato colpito all’addome durante una sparatoria tra gli uomini armati e i ranger del parco di Virunga, intervenuti assieme a un’unità dell’esercito congolese dopo aver sentito gli spari.
In un comunicato ufficiale del vice premier e Ministro dell’Interno congolese Gilbert Kankonde Malamba, è riportato che Attanasio è stato soccorso e trasportato all’ospedale messo in piedi dalle Nazioni Unite di Goma, dove è morto poco dopo. Tuttavia, le circostanze dell’attacco sono ancora piene di interrogativi e anche la procura di Roma ha aperto un’inchiesta per far luce sull’accaduto supervisionata dal procuratore capo di Roma Michele Prestipino, titolare del fascicolo (la procura capitolina è titolare per i reati commessi all’estero che hanno come vittime i cittadini italiani).
Il magistrato ha delegato le indagini ai Carabinieri del Ros, che hanno già inviato un gruppo di investigatori a Kinshasa per prendere parte alle indagini, insieme con gli inquirenti congolesi. Mentre la Farnesina ha chiesto all’Onu di fornire quanto prima un report dettagliato sull’attacco. Tuttavia, spetta alle autorità locali assicurare alla giustizia gli autori dell’attacco, che ha tolto la vita ai nostri due connazionali e all’autista congolese.
Il secondo Ambasciatore europeo ucciso in Congo
Attanasio è il secondo Ambasciatore europeo ucciso nella RdC, dopo l’ambasciatore francese, Philippe Bernard, rimasto vittima nel gennaio 1993 all’interno della sua sede diplomatica di Kinshasa, capitale dell’allora Zaire, di un proiettile vagante. Il diplomatico venne colpito accidentalmente in pieno petto e a una mano, mentre si trovava solo nel suo ufficio e voleva osservare la situazione dalla finestra dopo aver spento le luci. In quel momento nel Boulevard 30 giugno, principale arteria della capitale sulla quale si affaccia l’Ambasciata francese, erano in corso violenti scontri a fuoco tra militari ribelli e soldati leali al dittatore cleptocrate Mobutu Sese Seko.
Le emergenze sanitarie nella regione
Le tensioni nella provincie orientali della RdC sono perenni e queste si aggiungono le continue emergenze sanitarie, che oltre alla pandemia di Covid-19, che finora in tutto il Congo ha registrato 8.625 casi e 127 decessi, sono accentuate da alcuni focolai di peste nella regione dell’Ituri che negli ultimi dodici mesi hanno provocato 31 morti e oltre 500 contagiati. Senza dimenticare, l’ennesima recrudescenza del virus ebola che sta presentando il conto della dodicesima epidemia, che ha già causato 4 morti, dopo i 55 decessi della precedente epidemia ufficialmente terminata lo scorso 18 novembre.
Africa: jihadismo in aumento
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Il Centro di studi strategici sull’Africa (Acss), con base a Washington, ha pubblicato l’annuale riepilogo degli episodi violenti compiuti dai diversi gruppi militanti islamici attivi in Africa, nell’arco dell’ultimo anno. Dal monitoraggio eseguito dall’istituto di ricerca statunitense, emerge che nel 2020 gli attacchi hanno registrato un ulteriore escalation e ampliato l’instabilità soprattutto nel Sahel e nel bacino del lago Ciad.
Il bilancio del 2020 registra un ulteriore aumento dell’insorgenza nelle regioni dell’Africa interessate dal sempre più allarmante fenomeno, come dimostrano i 4.958 eventi violenti riconducibili ai gruppi estremisti islamici, che rappresentano un livello record di attacchi e confermano la crescita continua delle violenze dal 2016.
Nel 2020, le vittime accertate a causa di azioni a opera di gruppi islamisti africani sono aumentate di un terzo rispetto all’anno precedente, arrivando a 13.059 morti. Dai rilievi operati dagli analisti dell’Acss, si evince che l’offensiva islamista militante rimane in gran parte concentrata in cinque teatri, ognuno dei quali comprende attori e sfide distinte: Somalia, Sahel, bacino del lago Ciad, Mozambico ed Egitto. E tutti, a esclusione dell’Egitto, hanno registrato un forte aumento della violenza nel 2020.
La Somalia
Nell’ultimo anno, in Somalia c’è stato un aumento del 33% degli attentati rispetto al 2019, che vede protagonisti i militanti al-Shabaab. Nel corso dei passati dodici mesi, il gruppo affiliato ad al-Qaeda ha portato a termine 1.742 attacchi contro i 1.310 del 2019, mostrando una tenace resilienza che lo ha aiutato ad affermarsi come il gruppo islamico militante più radicato in Africa.
Nello stesso arco temporale, si è registrato anche un aumento del 47% degli scontri tra al-Shabaab e le forze di sicurezza somale. Una escalation che probabilmente riflette l’intenzione degli estremisti somali di minare i piani per le elezioni e di esacerbare le tensioni tra le forze nazionali e quelle degli Stati membri della missione di peacekeeping dell’Unione africana in Somalia (Amisom).
È anche interessante rilevare che gli scontri con le forze di sicurezza somale costituiscono i due terzi dell’attività violenta legata ad al-Shabaab, una quota maggiore rispetto qualsiasi altro teatro. Al contrario, la violenza del gruppo jihadista somalo contro i civili (13% di tutti gli incidenti) è la più bassa rispetto a tutti gli altri teatri africani interessati dall’insorgenza jihadista, tranne l’Egitto.
Nonostante questa escalation, l’attività violenta di al-Shabaab è diminuita rispetto a quella di altre regioni del continente, come dimostra che la media attuale degli attacchi sferrati in Somalia rappresenta circa il 35% di tutti gli eventi violenti operati dai gruppi islamisti attivi in Africa, rispetto a una media del 50% registrata nell’ultimo decennio. Nel frattempo, nel 2020 le vittime causate dagli attacchi di al-Shabaab sono diminuite del 14%, passando da 2.763 a 2.369. Un numero equivalente al 18% di tutti i decessi legati ai gruppi islamici militanti in Africa.
Il Sahel
Nel 2020 risulta sempre più instabile anche il teatro del Sahel, dove sono stati segnalati 1.170 eventi violenti, in particolare in Mali, Burkina Faso e Niger occidentale. Un dato preoccupante che rappresenta un aumento del 44% rispetto all’anno precedente e dal 2015 sancisce un aumento ininterrotto della violenza, che coinvolge i gruppi jihadisti attivi nella vasta regione.
Solo due gruppi, il Fronte di Liberazione della Macina (Flm) e lo Stato Islamico del Grande Sahara (Isgs) hanno rivendicato la paternità di quasi tutti i 1.170 attacchi. Il Flm fa parte di un cartello di sigle affiliate ad al-Qaeda nel Maghreb islamico, noto come Gruppo per il sostegno dell’islam e dei musulmani (Jama’at Nusrat al Islam wal Muslimin – Jnim), che costituisce la più recente evoluzione della rete di al-Qaeda nella regione.
I 1.170 attacchi hanno causato 4.122 decessi legati corrispondenti al 57% in più rispetto all’anno precedente: un dato che sottolinea la crescente letalità associata a questi gruppi. I 2.902 morti, legati a offensive in piena regola sferrate dai jihadisti, rappresentano il 70% di tutti i decessi segnalati. Questo dato riflette soprattutto l’escalation degli scontri con le forze di sicurezza nazionali e regionali. C’è però da rilevare che quasi il 21% di questi episodi violenti ha visto contrapposti gli affiliati del Jnim e quelli dell’Isgs per la conquista di porzioni di territorio e il reclutamento di nuovi proseliti.
La violenza nel Sahel ha fatto sfollare circa 1,7 milioni di persone, compresi più di 170.000 rifugiati e 1,5 milioni di sfollati interni. Il Burkina Faso è stato interessato dalla maggior parte di questi spostamenti, con circa 1,1 milioni di sfollati. Inoltre, l’insicurezza ha contribuito ad aumentare l’emergenza alimentare, colpendo più di 3 milioni di persone sia in Mali che in Burkina Faso.
Il bacino del lago Ciad
Il bacino del lago Ciad, che comprende quattro Paesi: Nigeria, Camerun, Ciad e Niger sudorientale, ha registrato un aumento di circa il 60% della violenza islamista militante nel 2020 (1.223 eventi contro 766 nel 2019). Questa impennata di attività è legata al gruppo estremista nigeriano Jama’atu Ahlis Sunna Lidda’awati wal-Jihad (Jas), meglio conosciuto come Boko Haram, che dall’agosto 2016 si è diviso in due fazioni rivali.
Una minoritaria, guidata dallo storico leader del gruppo Abubakar Shekau, che ha conservato il nome integrale di Jas e controlla parti dello Stato di Borno intorno a Gwoza e al confine Camerun-Nigeria. Mentre l’altra, la più numerosa, è ufficialmente affiliata allo Stato islamico da cui ha preso il nome di Islamic State West Africa Province – Provincia dell’Africa occidentale dello Stato islamico (Iswap), ed è attiva principalmente nelle isole del Lago Ciad, a ovest di Maiduguri e lungo il confine con il Niger nella regione di Diffa.
La ripresa della violenza islamista nel bacino del Lago Ciad è, in parte, dovuta a un’escalation di scontri con le forze di sicurezza federali e i soldati della Mnjtf, una Forza militare multinazionale congiunta composta da circa 7.500 effettivi provenienti dai quattro Paesi del bacino, più il Benin. Rispetto all’anno precedente, nel 2020 si è registrato un aumento del 73% di questi attacchi, che rappresentano il 46% di tutte le attività violente legate alla violenza jihadista nel teatro del bacino del lago Ciad.
Gli attacchi nella regione contro i civili hanno visto un aumento del 32%, con 4.801 vittime, corrispondenti al più alto tasso di mortalità legato ai gruppi islamisti militanti in Africa e a un incremento del 45% rispetto al 2019. All’interno del bacino del lago Ciad, la Nigeria rimane il luogo più colpito dagli attacchi dei gruppi islamisti, dove si sono verificati più della metà degli eventi segnalati nel 2020. Mentre il Camerun ha subito un terzo di tutte le attività violente.
Il Mozambico settentrionale
Nel 2020, il numero di incidenti violenti segnalati legati a gruppi estremisti islamici nella provincia di Cabo Delgado, nel Mozambico settentrionale, è aumentato del 129% con 437 attacchi, superando l’attività nel teatro egiziano. Il Mozambico settentrionale si distingue per il fatto che oltre due terzi di questi eventi violenti hanno preso di mira i civili.
Le 1.600 vittime segnalate segnano un salto del 169% rispetto all’anno precedente. I fattori che guidano la violenza in Mozambico sono complessi e per larga parte rimangono oscuri. Ahlu Sunnah wa Jama’a (Aswj) o “al Shabaab”, come si definiscono i militanti del gruppo (anche se non c’è nessun collegamento con il gruppo in Somalia), è responsabile di gran parte di questa violenza. L’Aswj è appoggiato dallo Stato Islamico (Isis), anche se sembra attingere i suoi seguaci in gran parte dalle zone rurali dove è maggiore il risentimento locale in questa regione.
L’Egitto
I 371 eventi violenti che nel 2020 hanno coinvolto l’Isis in Nord Africa confermano per il quarto anno consecutivo un contenimento degli episodi di violenza, rimasti anche lo scorso anno sotto la soglia dei 450. Le 574 vittime causate da questi eventi rappresentano un calo del 35% circa rispetto al 2019, proseguendo una tendenza al ribasso in atto dal 2015.
Questo teatro è caratterizzato dal conflitto di lunga data tra l’esercito egiziano e i gruppi islamisti militanti, soprattutto nel Sinai. Gli attacchi a distanza, sferrati con ordigni esplosivi improvvisati (Improvised Explosive Device – Ied) e bombardamenti, rappresentano il 53% degli eventi violenti e il 34% dei decessi, mentre gli scontri armati rappresentano il 37% degli eventi violenti e il 59% dei decessi. La violenza contro i civili costituisce solo l’11% del totale e rappresenta il 6% delle vittime segnalate nel teatro egiziano. In ultimo, c’è da rilevare che nonostante sette anni di impegno sul campo, l’Isis non è stato in grado di espandersi in modo significativo in Nord Africa.
Conclusioni
Dalla dettagliata analisi, si evince che i livelli della violenza islamista in Africa continuano a salire vertiginosamente e sono distribuiti in modo relativamente uniforme in Somalia, nel Sahel e nel bacino del lago Ciad. Nel contempo, l’attività islamista militante in Africa continua a essere guidata da gruppi con base locale, riflettendo realtà specifiche del contesto in ogni teatro, piuttosto che una minaccia monolitica in tutto il continente.
I casi di battaglie che coinvolgono gruppi islamisti militanti nella macroregione, nel 2020 sono aumentati del 60%. Un dato che riflette un aumento degli scontri con le forze di sicurezza statali in ogni teatro.
Nel 2020, è aumentata bruscamente anche la violenza contro i civili arrivando al 29%, un incremento concentrato nel Mozambico settentrionale, nel bacino del lago Ciad e nel Sahel. Un notevole aumento della violenza islamista militante, che dimostra la costante crescita dei vari gruppi in ciascuno di questi teatri, avvenuta negli ultimi anni.
Ciad, più tutela per i rifugiati
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Le buone notizie arrivano anche dall’Africa, come dimostra quanto deciso dal Governo del Ciad, che ha adottato la sua prima legge sui richiedenti asilo per rafforzare la protezione dei quasi 480mila rifugiati attualmente ospitati nel Paese africano. Varata lo scorso 23 dicembre, la nuova misura garantisce le protezioni fondamentali, compreso il diritto al lavoro, quello di circolare liberamente e di accedere all’assistenza sanitaria, all’istruzione e alla giustizia. Il provvedimento legislativo rende il Ciad il primo Paese dell’Africa centrale a onorare l’impegno assunto nel dicembre 2019, durante il primo Forum Globale sui Rifugiati di Ginevra.
Il Ciad è uno dei più grandi Paesi che accoglie sfollati in Africa e la maggior parte dei suoi quasi 480mila rifugiati vive lungo il confine con il Sudan. Non a caso, la nazione africana ospita la più grande comunità di rifugiati sudanesi del continente africano e negli ultimi due mesi circa 16mila sudanesi hanno attraversato il confine con il Ciad orientale, in fuga dal riaccendersi della violenza interetnica in Darfur.
Un numero significativo di rifugiati è ospitato anche nella regione meridionale, al confine con la Repubblica Centrafricana, dove nel 2018 sono arrivati oltre 22mila sfollati dalla Repubblica centrafricana e più di 4.500 dalla Nigeria nel 2019.
L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) ha elogiato l’impegno del Ciad nel mantenere i suoi confini aperti ai rifugiati, nonostante i numerosi problemi economici, politici e ambientali che il paese deve affrontare. L’Unhcr ha anche evidenziato che la legge approvata dal governo di N’Djamena è conforme agli standard internazionali sanciti dalla Convenzione sui rifugiati del 1951 e dalla Convenzione sui rifugiati dell’Organizzazione dell’Unità africana del settembre 1969.
La misura prevede l’istituzione di un efficiente sistema nazionale di asilo, che verrà costituito nell’ambito dell’Asylum Capacity Support Group (Acsg), un meccanismo adottato per identificare tempestivamente le persone con esigenze di protezione internazionale e rafforzare la capacità di determinazione dello status di rifugiato.
Riflettendo i valori della famiglia africana, la nuova legge riconosce un ampio diritto al ricongiungimento familiare, non limitato al solo nucleo familiare. Nell’ambito del suo programma pro-famiglia, adesso l’accesso all’istruzione sarà esteso ai bambini rifugiati, precedentemente esclusi. Da ora in avanti, i piccoli rifugiati potranno ottenere un certificato riconosciuto in tutto il Ciad, che conferma il loro livello di istruzione.
Il Ciad sta anche sperimentando il Comprehensive Refugee Response Framework, che incorpora le scuole per rifugiati nel sistema educativo nazionale sulla base dell’idea che i rifugiati dovrebbero essere inclusi all’interno delle comunità sin dall’inizio.
Una volta che avranno ottenuto l’accesso all’istruzione e al mercato del lavoro, i rifugiati potranno sviluppare le proprie capacità e diventare autosufficienti, contribuendo allo sviluppo delle economie locali e delle comunità che li ospitano. Consentire ai rifugiati di beneficiare dei servizi nazionali e integrarli nei piani di sviluppo nazionali è essenziale sia per i rifugiati che per le comunità ospitanti, oltre a essere coerente con l’impegno a “non lasciare nessuno indietro” previsto nell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Sostenibile.
Per far valere i loro diritti, agli ospiti dei campi profughi verranno rilasciati documenti che confermano il loro status di rifugiato. Tuttavia, mentre lo status giuridico di rifugiato è stato notevolmente migliorato dall’introduzione della nuova misura, restano alcuni ostacoli che minano la capacità di integrarsi completamente nella società ciadiana.
Ci sono infatti ancora molti rifugiati che corrono il rischio di violenza sessuale e discriminazione di genere, oltre a doversi misurare con l’accesso limitato alle risorse del territorio, una cattiva gestione dell’acqua e la mancanza di una buona assistenza sanitaria. C’è inoltre il rischio che la mancanza di informazioni impedisca a molti rifugiati di accedere ai diritti di cui ora godono sulla carta. Per questo sarà importante garantire che la nuova legge sia pubblicata sia all’interno che all’esterno dei campi profughi e accertare che le esigenze speciali di donne e bambini siano debitamente incluse. Allo stesso tempo, sarà necessario fornire una supervisione adeguata e finanziamenti sufficienti affinché la legge funzioni nella maniera più efficace.
Tutto questo risulterà cruciale affinché il Ciad mantenga gli otto impegni annunciati nel 2019 per rafforzare l’ambiente di protezione per i rifugiati, anche attraverso una strategia che mirava a integrare i campi profughi nei villaggi e promuovere la convivenza armoniosa nella società ciadiana.
È infine fondamentale che il Ciad garantisca un trattamento dignitoso e la fornitura dei servizi primari ai rifugiati fin dal momento della registrazione. Solo così continuerà a rappresentare un modello di integrazione per gli altri paesi della regione.
Tunisia, tra democrazia e incertezze
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Sono trascorsi dieci anni da quel 14 gennaio 2011, giorno in cui il movimento di protesta popolare in Tunisia costrinse il Presidente Zine el-Abidine Ben Ali a fuggire in Arabia Saudita. Tutto era cominciato meno di un mese prima, il 17 dicembre, quando un fruttivendolo tunisino di 26 anni, Mohamed Bouazizi, si diede fuoco nella piazza centrale di Sidi Bouzid, un piccolo paese dell’entroterra del Paese del Maghreb. Poche ore prima era stato maltrattato dalla polizia, che lo taglieggiava da mesi, perché non aveva una regolare licenza per vendere la sua merce al mercato. Bouazizi morì pochi giorni dopo a causa delle ustioni riportate e il suo gesto innescò un movimento di protesta popolare senza precedenti.
La rivolta causò la morte di circa 300 persone in tutta la Tunisia, ma le proteste costrinsero Ben Ali a lasciare per sempre il Paese, dopo 23 anni di potere assoluto. Fu il primo dei regimi dittatoriali a cadere in tutta la regione, che dopo la sollevazione del popolo tunisino venne segnata da un’ondata di rivolte contro la corruzione e a favore della democrazia, passata alla storia con il nome di “primavere arabe”. Due parole che racchiudevano la domanda di libertà che accomunava tutti i dimostranti scesi in piazza. Le rivolte causarono la caduta di regimi autocratici decennali e lo scoppio di conflitti civili, che proseguono ancora oggi; ma solo la Tunisia è riuscita a emergere dalla stagione delle rivolte antiautoritarie con un Governo democratico.
Negli anni successivi alla sua morte, anche lo sfortunato Bouazizi ricevette importanti riconoscimenti, come il premio Sakharov per la libertà di pensiero per il contributo dato a “cambiamenti storici nel mondo arabo” e la nomina di personaggio dell’anno 2011, da parte del quotidiano britannico The Times. Mentre il Governo tunisino lo ha celebrato con un francobollo postale e la municipalità di Sidi Bouzid gli ha intitolato una targa e dedicato un murale.
La crisi economica
Dopo una decade, però, nel piccolo centro abitato nel cuore della Tunisia rimangono pochissime tracce della presenza del giovane venditore ambulante; anche la madre e la sorella si sono trasferite in Canada. E purtroppo ben poco rimane anche di tutto quello che avvenne dopo la caduta di Ben Ali e Sidi Bouzid è sempre un povero paese dell’entroterra, vessato dalla pandemia e dalla crisi economica che nemmeno il nuovo Governo di Hichem Mechichi riesce a risolvere.
Del resto i dati sono eloquenti: rispetto al 2010, la crescita economica si è dimezzata in tutta la Tunisia e la disoccupazione è un problema gigantesco soprattutto fra i più giovani. Il tasso di disoccupazione nazionale è di circa il 15%, con punte molto più alte nel sud del Paese, che costituisce una delle regioni più emarginate, gravate da livelli di disoccupazione superiori alla media, infrastrutture inadeguate e imprese private inesistenti.
La disoccupazione giovanile
La situazione è particolarmente critica nel governatorato di Tataouine, nell’estremo sud della Tunisia, dove quasi il 30% della popolazione è disoccupata, nonostante in questo territorio siano concentrate le più importanti riserve di petrolio del Paese e molte risorse naturali (in particolare cave di gesso e marmo). Di fronte a questa dura realtà, la popolazione ha organizzato numerose proteste per fare pressione sulle autorità. Come avvenuto lo scorso luglio, quando i manifestanti hanno bloccato il sito produttivo di El-Kamour, una delle maggiori stazioni di pompaggio di petrolio, che si trova in pieno deserto, a sud della città di Tataouine.
La disoccupazione continua così a intaccare i sogni di gran parte dei giovani, soprattutto nelle regioni emarginate, mentre la situazione è resa ancora più complicata dalla recente crescita esponenziale dei casi accertati di Covid-19. Alle ardue sfide economiche che attendono la Tunisia c’è anche da aggiungere l’ascesa dei nostalgici e lealisti del vecchio regime. Come dimostra la costante salita nei sondaggi del Partito destouriano libero (Pdl), formazione politica di destra ultra-nazionalista e anti-islamista guidata da Abir Moussi, data al primo posto nelle intenzioni di voto degli elettori tunisini.
La transizione democratica
Ma i dieci anni passati dall’esautorazione di Ben Ali hanno anche prodotto qualcosa di positivo, grazie anche alla lealtà delle forze armate alle istituzioni, che ha consentito di attuare una transizione democratica fino all’adozione di una nuova Costituzione nel gennaio 2014. Una Costituzione che ha gettato le basi per un sistema di Governo semi-presidenziale, accostato ai principi che regolano il costituzionalismo contemporaneo, disposizioni che rispondono al contesto culturale, storico e religioso del Paese, riguardanti nello specifico la religione islamica.
Forte anche di questo risultato, la mediazione della società civile, incoronata dal Premio Nobel per la pace, ha poi potuto conciliare islamisti e nazionalisti. La nazione ha inoltre tenuto una serie di elezioni libere ed eque, ha dato inizio al decentramento e ha introdotto una libertà di stampa senza precedenti nella sua storia. Tutto questo, nonostante le crisi politiche e la minaccia di attacchi jihadisti, che rappresenta ancora un pericolo per il Paese (anche se notevolmente ridotto rispetto al 2015, quando si susseguirono numerosi attentati contro turisti stranieri).
E resta il fatto che a oggi, anche se il momento è molto difficile, la Tunisia è l’unica democrazia post primavera araba ad avere prospettive di sviluppo e a rappresentare un modello di stabilità nel mondo arabo. Una democrazia che per continuare ad affermarsi dovrà sempre più tenere conto delle aspirazioni popolari, portate avanti dalla generazione maturata nell’ultimo decennio.
Africa: l’emergenza Covid accelera la digitalizzazione
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La pandemia di Covid-19 sta producendo effetti molto negativi anche in Africa ed è ancora presto per redigere un bilancio completo sull’impatto della diffusione del contagio nel continente. Tuttavia, al di là delle sue ripercussioni sulla sfera sanitaria, l’epidemia sta già causando gravi conseguenze socio-economiche spingendo la macroregione alla sua prima recessione in 25 anni. Inoltre, i timori di una seconda ondata stanno alimentando ulteriore incertezza, mentre stime recenti della Banca mondiale mostrano che nell’Africa sub-sahariana l’epidemia di coronavirus potrebbe gettare fino a 40 milioni di persone nella condizione di estrema povertà.
In un recente articolo pubblicato su African Businees, il giornalista ugandese Liam Taylor, ha scritto che nel breve periodo la crisi economico-sanitaria azzererà i profitti e porterà alla chiusura diverse aziende, ma a lungo termine potrebbe accelerare la trasformazione digitale dell’Africa. Come prova, il fatto che i consumatori stanno cambiando le loro abitudini e le aziende stanno rapidamente evolvendo la loro strategia di marketing seguendo le nuove tecnologie. Mentre per i Governi africani la crisi sanitaria globale è stata un catalizzatore inaspettato, che li ha spinti a incentivare l’uso del mobile payment, il pagamento su dispositivi portatili, che secondo il regolatore delle telecomunicazioni africano ha registrato un considerevole aumento.
Il mobile payment
I dati raccolti dall’organismo delle telecomunicazioni sono stati analizzati dal Centro per la regolamentazione e l’inclusione finanziaria (Cenfri) di Città del Capo, che ha analizzato gli otto maggiori mercati africani. Il Centro di ricerca sudafricano ha rilevato come durante il confinamento di aprile in Ruanda si sia registrato un volume settimanale dei pagamenti effettuati con lo smartphone 5 volte superiore rispetto a prima dello scoppio della pandemia; mentre nello stesso periodo in Kenya, la Banca centrale ha stimato un aumento del 10% del numero di trasferimenti telematici di denaro.
I governi di entrambi i Paesi avevano ordinato la temporanea riduzione delle commissioni di transazione per stimolare l’utilizzo delle piattaforme di mobile money e scoraggiare i trasferimenti fisici di denaro contante. La politica è stata proattiva anche in Togo, dove il Governo ha utilizzato i trasferimenti elettronici per sostenere più di 500mila persone vulnerabili durante la crisi.
Sotto l’impulso degli eventi determinati dalla pandemia, lo scorso 23 luglio, il colosso francese delle telecomunicazioni Orange ha lanciato una banca interamente digitale in Costa d’Avorio: Orange Bank Africa (OBA) ed entro il prossimo anno è prevista l’apertura in altri tre Paesi dell’Africa occidentale per democratizzare l’accesso ai servizi finanziari. Mentre gli operatori di telefonia mobile del continente stanno intensificando i piani per portare i conti online a milioni di africani, in molti casi per la prima volta, dopo che la crisi del coronavirus ha causato una nuova impennata nell’uso dei servizi finanziari digitali.
Oltre ad Orange, anche MTN, Telkom e Vodacom stanno riducendo le commissioni, lanciando nuovi prestiti agevolati ed espandendo le reti di mobile payment. E i risultati non sono tardati ad arrivare: solo ad aprile e maggio, Orange ha conquistato oltre cinque milioni di nuovi clienti per i suoi servizi di denaro mobile. Mentre a giugno la sudafricana MTN ha raggiunto un milione di utenti, quando le proiezioni di mercato ne avevano previsti circa la metà, oltre ad aver registrato nei primi sei mesi dell’anno un aumento del 28% delle transazioni digitali.
Tutto ciò, al fine di intaccare una volta per tutte l’incrollabile dominio del contante, che secondo recenti stime della società di consulenza McKinsey, in Nigeria, il Paese più popoloso del continente, ancora rappresenta circa il 99% delle transazioni e il 95% in Sudafrica, dove la penetrazione bancaria è relativamente alta.
L’analisi effettuata dal Cenfri negli otto Paesi africani ha inoltre rilevato un aumento del 14% negli acquisti online, un aumento del 10% nell’utilizzo delle piattaforme logistiche e un calo del 17% nell’e-hailing (la possibilità di chiamare e prenotare un taxi utilizzando un’applicazione) nel primo mese della crisi sanitaria. Secondo il curatore dello studio, Chernay Johnson, l’emergenza del Covid-19 ha costretto molte Pmi e anche microimprenditori africani a digitalizzarsi rapidamente, ma nel medio termine il quadro economico sarà offuscato dai deprezzamenti su larga scala delle valute locali e dal crollo della domanda.
L’accelerazione della digitalizzazione avrà i suoi effetti anche sui mercati assicurativi del continente, come rileva la quinta edizione dell’Africa Insurance Pulse, realizzato dall’agenzia di sviluppo aziendale Faber Consulting per conto dall’Organizzazione delle Assicurazioni in Africa (Aio).
Quest’anno, lo studio si è focalizzato sulla digitalizzazione dei mercati assicurativi africani rilevando che la trasformazione aumenterà l’attrattiva e l’accessibilità economica dei prodotti di trasferimento del rischio in Africa. Mentre la sottoscrizione e la gestione degli stessi prodotti beneficeranno di un migliore accesso ai dati e alle analisi. Allo stesso tempo, la tecnologia contribuirà a snellire la catena del valore assicurativo e a migliorare l’efficienza dei processi amministrativi. Tutto questo, a lungo termine, potrebbe determinare l’aumento in percentuale dei premi assicurativi generati digitalmente dall’attuale 5% al 20-50% e il conseguente aumento della penetrazione assicurativa in Africa.
Una nuova pubblicazione intitolata “Decoding #DigitalDemocracy in Africa”, curata da Nic Cheeseman e Lisa Garbe, che raccoglie le ultime ricerche sul profondo impatto che la tecnologia digitale ha avuto sulla politica e sulla società africana e viceversa, evidenzia anche quanto ci sia ancora da fare per incentivare la penetrazione della tecnologia digitale nel continente africano.
Nell’ultimo decennio, molte recenti analisi si sono concentrate sul divario digitale in Africa e sull’elevato numero di persone ancora escluse dall’accesso alla rete, a causa dell’elevato costo del traffico dati e della mancanza di copertura. Come confermano i dati dell’Unione internazionale delle telecomunicazioni (Itu), secondo i quali nel 2019 solo il 28% degli africani ha utilizzato internet con un consumo medio di 300 megabyte al mese, sufficiente per seguire mezz’ora di una videoconferenza.
I ricercatori che hanno contribuito alla realizzazione del volume collettaneo hanno concluso che la chiusura di questo divario non può essere ottenuta solo con una tecnologia più economica, ma per accedere alle informazioni e alle risorse offerte dalla rete risultano indispensabili una serie di condizioni politiche, legali ed economiche.
Un’altra criticità è rappresentata dalla posizione dominante dei giganti tecnologici, che consente di plasmare il modo in cui le persone utilizzano internet con la scusa di renderlo più accessibile, sollevando antichi dubbi sulla possibilità che le società multinazionali si impegnino eticamente in Africa.
Un classico esempio è rappresentato da Free Basics, il servizio internet offerto da Facebook per fornire accesso gratuito a un numero limitato di siti, progettato per funzionare su vecchi modelli di cellulari, ancora utilizzati in molte aree rurali del mondo. Ma il controllo di Facebook sull’accesso gratuito e la sua capacità di mettere in evidenza i propri servizi hanno scatenato dure reazioni da parte dei difensori della neutralità di internet.
Alla luce di tutte queste considerazioni, la domanda finale è se la pandemia di Covid-19 potrà accelerare in modo permanente la trasformazione digitale dell’Africa. Un quesito cui si potrà rispondere solo dopo che il continente avrà affrontato le perenni sfide infrastrutturali per consentire la riduzione del costo del traffico dati e l’ampliamento dell’accesso alla rete.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di novembre/dicembre di eastwest.