[BRUXELLES] Giornalista, è capo della redazione Affarinternazionali.it, la rivista dello IAI. Collabora con D e Dlui di La Repubblica, Linkiesta, Il Messaggero e Aspenia.
L’unione europea dopo le elezioni
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Ursula von der Leyen ricomincia da tre. E sono i soliti noti: popolari (rafforzati), socialisti (stabili) e liberali (in ritirata). Le tre forze pro-Ue, cioè, che al Parlamento europeo hanno retto le sorti del primo mandato della tedesca come presidente della Commissione, e che, considerati insieme, hanno tenuto nelle urne delle elezioni Ue del 6-9 giugno, dove hanno conquistato rispettivamente 188, 136 e 75 seggi. Presi insieme, i gruppi parlamentari di Ppe, S&D e Renew Europe possono contare, quindi, su 399 voti, 38 in più della maggioranza assoluta dell’Eurocamera, che nella nuova legislatura è fissata a 361 (su 720 seggi). La buona performance del Ppe, inoltre, ha consentito ai popolari di sgombrare il campo dalle tentazioni (per la verità molto italiane e poco brussellesi) di una figura tecnica e indipendente – citofonare Mario Draghi – per rimpiazzare la “Spitzenkandidatin” Ursula von der Leyen nella sua ricerca del bis alla guida della Commissione Ue.
L’aritmetica, insomma, è dalla sua parte; ma la politica non è una scienza esatta e, complice lo scrutinio segreto, franchi tiratori e ribelli sono in agguato (alcuni già usciti allo scoperto in tempi non sospetti, come i repubblicani francesi, i popolari sloveni e i liberali irlandesi e tedeschi). Insomma, il margine su cui può contare von der Leyen potrebbe, alla prova dei numeri, non bastare per dribblare i mal di pancia. Tanto che, già nella notte elettorale del 9 giugno, alla tedesca (e alla euro-maggioranza di larghe intese che si è ricompattata appena chiuse le urne) è arrivata l’offerta dei Verdi (54 seggi), pronti a entrare nella coalizione in cambio di garanzie sulla sopravvivenza del Green Deal, la strategia Ue per il clima divenuta bersaglio prediletto della destra in grande spolvero dopo il voto. E ciò nonostante gli ecologisti siano stati, al pari dei liberali a trazione macroniana, le grandi vittime della consultazione europea: le due formazioni che risultarono vincitrici nel 2019, trascinate in particolare dalle preferenze dei più giovani e dalle piazze dei Fridays for Future, hanno fatto registrare stavolta importanti emorragie, con rispettivamente 27 e 18 seggi in meno. All’opposto, ci sono le forze della destra radicale (almeno due, se non tre), in crescita: date come trionfatrici annunciate nelle previsioni, sono riunite tra i banchi, rispettivamente, di Conservatori e riformisti (Ecr, 83), Identità e democrazia (Id, 58), ma presenti pure in alcune frange della novantina di eurodeputati del limbo di non iscritti e non (ancora) affiliati, terreno di conquista del premier ungherese Viktor Orbán e del suo nuovo fronte dei “Patrioti per l’Europa”.
Benché non siano riuscite nel colpaccio, per la verità abbastanza romanzato, di sovvertire la tradizionale maggioranza centrista e pro-Ue all’Eurocamera, nazionalisti e sovranisti sono, comunque, cresciuti e hanno attratto una valanga di voti in particolare nei principali Paesi Ue. Si sono laureati primi in Francia – dove il Rassemblement National di Marine Le Pen ha strappato la più sostanziosa delegazione nazionale con 30 eletti (a pari merito con i cristiano-democratici tedeschi) e innescato la crisi politica che ha portato allo scioglimento anticipato dell’Assemblée Nationale da parte del presidente Emmanuel Macron -, ma pure in Austria (dove l’Fpö sogna di fare il bis nelle legislative del 29 settembre) e, come ampiamente previsto, in Italia, con Fratelli d’Italia della premier Giorgia Meloni sopra il 28% e a quota 24 eurodeputati, unica forza di governo tra quelle al potere nei “big” a non venire bocciata nelle urne. L’estrema destra si è piazzata, poi, al secondo gradino del podio in Germania, davanti all’Spd del cancelliere Olaf Scholz, benché Alternative für Deutschland (AfD), estromessa da Id appena due settimane prima del voto, sia stata a lungo nell’occhio del ciclone delle polemiche, infiammate dalle dichiarazioni controverse del capolista Maximilian Krah sulle responsabilità attenuate delle SS naziste, e dai presunti coinvolgimenti dei suoi collaboratori in casi di spionaggio cinese e disinformazione russa.
L’affermazione, per quanto chiara, non corrisponde alla valanga nera descritta da quegli osservatori che, proiettando sulle dinamiche dell’Eurocamera alleanze e coalizioni tipiche dei Parlamenti nazionali, arrivavano a ipotizzare una maggioranza coerente di centrodestra (Ppe, Ecr, Id, con l’appoggio di Renew). E il “day after” è stato, tutto sommato, simile a quello visto con le elezioni di mid-term negli Stati Uniti, nel novembre 2022: fortemente anticipata alla vigilia, l’ondata dell’ultradestra si è scontrata con il bagno di realtà nelle urne.
Certo, i loro voti aumentano mentre quelli dei progressisti arrancano. Ragione evocata dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che è anche la leader continentale dei conservatori dell’Ecr, irritata per la “conventio ad excludendum” da parte dei colleghi leader Ue. I quali, in rappresentanza di popolari, socialisti e liberali, hanno confezionato un accordo sulle cariche di vertice del nuovo ciclo politico-istituzionale 2024-2029 in cabinetti ristretti, salvo tendere all’ultimo la mano a Meloni, invitando l’Italia a non chiamarsi fuori dall’investitura dei nuovi ruoli apicali. Nel gioco di specchi, l’appello è stato sapientemente rivolto alla leader romana, non alla zarina degli euro-conservatori. Una distinzione che ha creato un cortocircuito nell’atteggiamento da Dr Jekill (quando a Bruxelles) e Mr Hyde (quando a Roma) mantenuto da Meloni sin dall’avvento al governo, determinata a smorzare i toni più euroscettici in favore di una buona dose di euro-realismo. L’inquilina di palazzo Chigi si è così ritrovata, sola tra i 27, a smarcarsi con una certa irritualità su ciascuna delle tre nomine del pacchetto concordato da Ppe, S&D e Renew. Ha detto no, contestando metodo e merito della decisione, all’ex premier socialista portoghese António Costa, validato da tutti gli altri come nuovo presidente del Consiglio europeo, il summit dei leader Ue, per un mandato di due anni e mezzo rinnovabile; e ha bocciato pure la premier liberale dell’Estonia Kaja Kallas, indicata come nuova Alta rappresentante dell’Ue per gli affari esteri e la politica di sicurezza (la prima in arrivo dal Baltico, dove 50 anni di occupazione sovietica hanno forgiato le coscienze anti-Cremlino). Su Kallas si è astenuto pure il nazionalista filo-russo ungherese Orbán, che ha invece optato per il voto contrario su von der Leyen, visti i dissapori su come, durante la sua gestione, Bruxelles ha monitorato il rispetto dello stato di diritto a Budapest condizionandovi l’esborso dei fondi Ue. Sulla tedesca, Meloni si è invece astenuta, “nell’attesa di conoscere le linee programmatiche e aprire una negoziazione sul ruolo dell’Italia”. Cioè, in sostanza, sulle deleghe di peso e sulle responsabilità per il commissario italiano, che potrebbe strappare una delle numerose vicepresidenze, magari con i galloni “esecutivi” (la creazione di una sorta di casella di super-commissari risale a cinque anni fa) e un maxi-portafoglio economico, con una probabile fusione di Bilancio e Coesione (ma anche la Concorrenza, vista l’uscita di scena di Margrethe Vestager, è sotto i radar).
Prima di allora, però, per von der Leyen e i suoi interlocutori si apre la fase dell’ecumenismo e dell’equilibrismo. Per essere validata formalmente, la nomina della presidente della Commissione deve passare le forche caudine dell’Europarlamento. Con meno di 40 voti di margine per ripararsi dalle diserzioni, l’allargamento tattico del perimetro dell’alleanza è, allora, inevitabile. Ma rivolgendosi a chi? Nel 2019 – ma erano altri tempi e il suo nome era stato appena paracaduto da Berlino -, von der Leyen superò la prova per appena nove voti, avendone lasciati a terra un centinaio. A soccorrerla furono i nazionalisti polacchi del PiS e il Movimento Cinque Stelle, entrambi all’epoca al potere a Varsavia e Roma. Insomma, il prudente corteggiamento “governista” riuscito già una volta è lo stesso che von der Leyen proverà a riproporre quest’anno, con una politica dei due forni nella speranza di riuscire a pescare all’interno dei gruppi al di fuori della maggioranza, ma senza promettere un allargamento della stessa: aprire formalmente la coalizione ai verdi rischierebbe, infatti, di causare un’emorragia di voti in quelle frange del Ppe più scettiche sul Green Deal, mentre un
corteggiamento alla luce del sole di Fratelli d’Italia rappresenta un punto di non ritorno per socialisti e liberali. Se il voto di “fiducia” può dar luogo a geometrie variabili, sarà tuttavia sui singoli dossier del mandato che la tenuta della maggioranza a tre teste Ppe-S&D-Renew sarà messa davvero alla prova, in un Europarlamento più frammentato che fa da palcoscenico alle grandi manovre federatrici delle destre.
Anche la nuova Commissione, che si insedierà solo a fine anno, sarà più a destra dell’attuale, visto che ogni governo ha diritto a nominare un commissario e i Paesi a guida centrosinistra sono ridotti a cinque (tra cui la Germania, che però dovrà schierare la popolare von der Leyen). Con un’agenda politica dominata dalla competitività economica e dal rafforzamento della difesa comune, la narrazione può dare una mano a ricalibrare le posizioni in campo. A fronte della difficoltà insormontabile di mettere in pista nuovi strumenti di debito comune come fu il Recovery Plan, Bruxelles pone l’accento – sulla scia dei due report affidati a Enrico Letta e Mario Draghi – sulla necessità di mobilitare i capitali privati per sostenere transizioni e investimenti, completando cioè l’integrazione dei mercati finanziari. E in un’Europa che non vuole rimanere schiacciata nella competizione economica globale tra Cina e Stati Uniti, anche il Green Deal cambia pelle: la lotta alle emissioni di CO2 responsabili del cambiamento climatico si trasforma, così, nella partita per sostenere l’industria pulita e ad alto potenziale tecnologico. Formulazioni di compromesso per mandare un segnale a tutti gli azionisti della maggioranza in divenire e a quelli con cui impostare un dialogo in prospettiva. Perché ognuno intenda ciò che vuole intendere.
Euro-realismo e elezioni
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Allargamento, approfondimento o integrazione differenziata. Con le urne del 6-9 giugno in inesorabile avvicinamento, il 2024 sarà una tappa di tutto rilievo nella definizione di che tipo di futuro vuole l’Europa per il suo progetto politico continentale. A 27, a 30, a 33 o a 36 (o persino 37, se calcoliamo pure la Turchia nel lotto dei candidati all’adesione).
Otto anni dopo, la Brexit è un ricordo lontano, e il tempo ha dato – pur con una certa, innegabile amarezza – ragione all’Ue, mettendo a nudo le fragilità di un Regno Unito che fatica a ritrovare la bussola, mentre tra i britannici prevale il rimpianto dei tempi andati.
Al netto del fiasco della fuoriuscita di Londra dall’Unione, è stato un fattore esogeno ad aver rilanciato prepotentemente, negli ultimi mesi, il dossier dell’espansione dell’Ue al di là degli attuali 27 Stati membri: l’invasione russa dell’Ucraina che ha riportato la guerra nel cuore del Vecchio continente. Superando il decennio di “enlargement fatigue”, cioè la fatica da allargamento vissuta dopo l’ultimo ingresso nel blocco, quello della Croazia nel luglio 2013. “L’allargamento è un investimento geo-strategico per la pace, la sicurezza, la stabilità e la prosperità”, hanno ribadito i leader Ue nella dichiarazione finale del summit di Granada. Ma se “gli aspiranti membri dovranno intensificare i loro sforzi di riforma; parallelamente l’Ue dovrà porre le basi per una revisione del suo funzionamento interno”, in modo da farsi trovare pronta all’appuntamento con i nuovi ingressi, prosegue il documento di Granada.
La ripresa del dibattito porta inevitabilmente, quindi, ad aprire un altro fronte: mentre ci interroghiamo, attraverso screening e report (l’ultimo pacchetto allargamento è di novembre 2023), se e quando i Paesi candidati o potenzialmente tali saranno pronti a essere inglobati nel consesso Ue, tocca chiedersi cosa ne sarà dell’Unione stessa che ha mostrato tutti i limiti del suo funzionamento a 27, ostaggio di veti incrociati e procedure bizantine. Insomma – è la tesi -, una riforma dell’architettura istituzionale è imprescindibile per un’Unione in grado di rispondere alla chiamata della storia, e di espandersi non solo geograficamente, ma anche di rendere i propri riti efficaci ed efficienti.
E infatti la presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha promesso per inizio 2024 la presentazione di una sorta di roadmap per la riforma dei Trattati, che da molti è vista come un’ipoteca su un suo secondo mandato a palazzo Berlaymont. Per usare le parole pesate con cura dagli stessi leader Ue, la riflessione comincia “dalla capacità di assorbimento di nuovi Stati membri nell’Ue”.
Il tema è tanto procedurale quanto finanziario: ampliare la platea con l’ingresso di una nuova classe di membri avrà delle consegue imponenti sotto vari profili. A cominciare da quelli finanziari: l’Ucraina, si ripete spesso a Bruxelles, diventerebbe di colpo, con il 20% del totale, la principale beneficiaria dei fondi della politica agricola comune, il tradizionale “granaio” del budget Ue. E pure per i fondi di coesione, la coperta, in un’Ue allargata, potrebbe rivelarsi troppo corta, e a farne le spese sarebbero quelle regioni meno sviluppate, tra cui il Meridione d’Italia, che hanno finora ottenuto lo stesso occhio di riguardo degli ultimi entrati dell’Est Europa.
L’orizzonte del 2030 per i prossimi ingressi divide (ancora una volta) il presidente del Consiglio europeo Charles Michel, che l’ha proposto, e von der Leyen, che invece ha ricordato come il processo di adesione sia “basato sul merito”. Ma al di là delle tempistiche, tornare a parlare di allargamento, come ha (ri)cominciato a fare negli ultimi anni l’Europa unita, vuol dire guardare a un caleidoscopio di situazioni di partenza.
Partiamo dai Balcani occidentali che da tempo bussano alla porta: Serbia e Montenegro hanno aperto svariati capitoli negoziali, Albania e Macedonia del Nord hanno avviato i colloqui; la Bosnia-Erzegovina dovrebbe strappare prima della primavera di quest’anno lo status di Paese candidato, mentre il Kosovo è ancora oggi un potenziale candidato, di fronte alle tensioni tra Pristina e Belgrado, per tenere a bada le quali Bruxelles interviene regolarmente, e al fatto che manca il riconoscimento internazionali di cinque membri Ue.
Il summit di dicembre dei capi di Stato e di governo, con una decisione storica, ha portato con sé il sì all’apertura dei negoziati di ingresso con l’Ucraina e la Moldavia e un passo avanti pure per la Georgia, che ha ottenuto lo status di candidato (come stato, finora, Tbilisi rimane tuttavia una casella indietro agli altri due Paesi dell’ex blocco sovietico in contemporanea ai quali, due anni fa, aveva presentato i dossier).
La svolta è arrivata con un espediente formale per bypassare il veto dell’Ungheria di Viktor Orbán, che ha lasciato la sua sedia vuota per non prendere parte “a una pessima scelta”: l’assenza strategica dell’uomo forte di Budapest che ha consentito di salvare il risultato finale, minaccia però di complicare le prossime tappe, perché per proseguire nell’iter la palla tornerà in svariate occasioni al plenum dei Ventisette, e Orbán potrà decidere in ogni momento di tirare nuovamente il freno a mano.
Proprio ciò che accade a riprese regolari con Orbán, dal dossier migrazione a quello degli aiuti a Kiev, dà il polso dell’imperfezione di un’Ue che decide a Ventisette, e spesso si ritrova ostaggio del no di una sola capitale. “Come pensiamo di far andare avanti a 33 o a 36 una Ue che già dimostra di non funzionare a 27?”, è il più classico degli interrogativi nei corridoi dell’Europa Building durante i sempre più frequenti bracci di ferro con l’Ungheria.
Che l’Ue come la conosciamo non sia pronta ad accogliere nuovi Paesi, ad esempio, è una conclusione a cui arriva il report sulle riforme dell’assetto istituzionale commissionato a 12 esperti indipendenti da Parigi e Berlino, e presentato nel settembre scorso come base per un confronto tra le capitali. “Le istituzioni e i meccanismi decisionali non sono disegnati per un gruppo di 37 Paesi e, così come sono attualmente, rendono difficile perfino per i 27 gestire crisi in maniera efficace e prendere decisioni strategiche”, si legge nel documento, che delinea alcune iniziative per “farsi trovare pronti per un allargamento entro il 2030”.
Tra queste c’è, anzitutto, l’estensione del voto a maggioranza qualificata nei vari ambiti di natura non costituzionale (cioè, altri rispetto alla revisione dei Trattati) in cui oggi vige l’unanimità, come la politica estera, per cui basterebbe far ricorso a una disposizione abilitante, la cosiddetta “clausola passerella”.
Tra le proposte, rientrano poi una semplificazione della composizione della Commissione Ue, superando il principio per cui a ogni Stato corrisponde un membro dell’esecutivo Ue, e un potenziamento delle risorse del bilancio comunitario, da rendere quinquennale, di pari passo con il ciclo politico, anziché, com’è oggi, settennale, e sostenuto da nuove risorse proprie, le modalità di finanziamento dell’azione Ue indipendenti dai contributi finanziari dei singoli Stati.
Sostegno dal paper franco-tedesco è espresso anche all’orizzonte della modifica dei Trattati, ma con la consapevolezza che “ciò possa comportare una differenziazione”: è il ritorno dell’idea di un’Europa a geometria variabile, a due (o più) velocità e a cerchi concentrici, per tenere dentro tutti, ma con diversi gradi di impegno (quattro, in questo scenario). Si va dall’Eurozona a 20 membri o dai 26 dello Spazio Schengen (22 Ue più 4 extra-Ue), all’Unione a 27 che conosciamo oggi, fino a una nuova categoria di “membri associati” che potrebbero, ad esempio, partecipare alle libertà al mercato interno (opzione da proporre al Regno Unito post-Brexit e alla Svizzera, suggeriscono i 12 saggi), e quindi, a chiusura della costruzione, si passa alla Comunità politica europea, il forum di coordinamento politico-strategico continentale lanciato nel 2022, che si estende a tutto il Caucaso e che taglia fuori (perlomeno per ora) Russia e Bielorussia.
Per far funzionare l’integrazione differenziata, il paper franco-tedesco consiglia, ad esempio, la possibilità di prevedere degli “opt-out” negli ambiti più problematici per disinnescare eventuali veti e consentire di andare avanti solo con chi ci sta; fuori dalle possibilità di deroga, però, sarebbe il capitolo relativo allo stato di diritto e dei valori fondamentali. Insomma, l’Europa unita come comunità valoriale e di destino.
Ma dietro questa tentazione, per così dire, euro-realista, si nascondono anche delle insidie. Prendiamo la posizione del governo italiano, che racconta di un delicato mix tra narrativa identitaria e sponda politica per ricalibrare ciò che l’Ue fa e come lo fa. La “parola giusta” per riferirsi al processo non è “allargamento”, ha affermato la presidente del Consiglio Giorgia Meloni al termine del summit dei leader di fine giugno, ma “riunificazione. L’Unione europea non è un club”. Se accogliere nuovi Stati “richiederà degli aggiustamenti, li faremo”, ma nello spirito del “principio di sussidiarietà”, cioè quello che delimita il perimetro delle competenze e dell’azione dell’Ue, da una parte, e dei suoi Paesi membri, dall’altra, ha avvertito in quell’occasione Meloni.
Rivelando il filo del ragionamento su cui punta la nuova destra Ue, in ascesa nei sondaggi in vista delle europee e con la prospettiva di una decisa affermazione nel prossimo Europarlamento: la scommessa di un’apertura a nuove adesioni è associata all’eventualità di espandere sì i confini geografici dell’Ue, ma, al tempo stesso, di ridurne il raggio d’azione tematico, limitandolo a una serie di compiti ben identificati. Sono i contorni, tutti da definire, della partita sul futuro dell’Europa.
Perchè il nuovo Patto di stabilità non funziona
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Nei mai semplici rapporti tra Italia e Unione europea, le ultime battute di un affollato finale di 2023 hanno prodotto un sì e un no, in risposta a due distinte domande di politica economica in ballo da anni. Il guaio è che – complici le azioni in contropiede costruite dagli altri governi e la necessità di blindare la difesa -, le risposte hanno finito per incrociarsi, causa una certa presbiopia politica: il sì al posto del no, il no al posto del sì.
Stiamo parlando dei due principali dossier economici per l’Europa unita, che cercano di riformare l’assetto come lo abbiamo conosciuto dopo la crisi finanziaria e fino ad oggi: da una parte, la riscrittura del Patto di stabilità e crescita, cioè le regole sui conti pubblici dei Paesi membri dell’Ue; dall’altra, la ratifica del trattato di revisione del funzionamento del Meccanismo europeo di stabilità (Mes), cioè il “famigerato” fondo-salva Stati che nel frattempo si è evoluto in fondo salva-banche in caso di crisi sistemica.
Il Patto, per come è stato confezionato nella trattativa tra i governi, rischia di introdurre un quadro regolatorio complesso e irrealistico per un Paese ad alto – anzi, altissimo – debito come il nostro; il Mes, che è stato ratificato da tutti i membri dell’Eurozona tranne l’Italia, invece, apre un paracadute finanziario a tutela degli istituti di credito per frenare il contagio in caso dei crac, escludendo l’impiego dei soldi dei contribuenti.
Questo, insomma, in estrema sintesi, è il quadro che si veniva a delineare con chiarezza nei giorni in cui, da una parte, il governo italiano decideva di approvare un compromesso franco-tedesco-spagnolo sul nuovo Patto che rischia di reintrodurre l’autolesionistico approccio dell’austerità, e, dall’altra, la Camera dei deputati bocciava l’ok alla riforma del Mes, di fatto stoppando l’entrata in vigore del nuovo Meccanismo per tutta l’Eurozona.
Se il secondo dossier è, dai tempi del governo gialloverde, affetto da un esplosivo quanto insormontabile effetto stigma nella politica italiana di destra e sinistra, soprattutto a causa di una semplificazione propagandistica frutto della vecchia narrativa della troika ai tempi della Grecia sull’orlo della bancarotta, l’altro, il Patto di stabilità, si presenta come più articolato, nella sua complessità tecnica, ma anche stringente, nelle implicazioni concrete. E questo è dovuto, in particolare, alla versione negoziale del Consiglio, l’organo rappresentativo dei governi, profondamente influenzata dalla Germania e dai Paesi frugali, e accettata da tutti gli altri partner Ue, Italia compresa, seppure a malincuore.
La riforma è stata più volte rinviata vista la situazione di estrema eccezionalità con lo scoppio della pandemia prima e l’inizio della guerra russa in Ucraina poi; anni in cui è stata attivata la clausola di sospensione del Patto, definitivamente archiviata il 1° gennaio di quest’anno. Quasi in concomitanza con l’ultimo miglio di trattative sul nuovo Patto di stabilità.
I ministri delle Finanze dei Ventisette, infatti, hanno approvato il pacchetto all’unanimità il 20 dicembre scorso, durante un Ecofin straordinario in videoconferenza. Si tratta della base per il negoziato con il Parlamento Ue, iniziato il 17 gennaio, dopo che pure la plenaria di Strasburgo ha licenziato (a grande maggioranza) un suo testo, più soft di quello deciso dai governi (ma l’Eurocamera è co-legislatore su uno dei tre dossier che compongono il pacchetto). Se il calendario delle trattative seguirà le intenzioni dei due co-legislatori, il nuovo Patto dovrebbe essere approvato definitivamente in primavera ed entrare in vigore a maggio, prima delle elezioni Ue e (quasi) in tempo per essere applicato alle manovre di bilancio dell’autunno 2024.
La nuova dinamica del Patto punta a definire i piani di spesa su 4 o 7 anni in un dialogo attivo tra le capitali dei Ventisette e la Commissione, la quale poi presenterà agli Stati una “traiettoria tecnica” per instradare il debito su un sentiero discendente. È la maggiore autonomia nel dialogo con la Commissione che ricalca, cioè, il funzionamento del modello Recovery: come con i Pnrr, infatti, le capitali dovranno negoziare con l’esecutivo Ue dei piani strutturali di bilancio nazionali basati sul criterio della spesa pubblica netta (il nuovo indicatore di riferimento per misurare la salute dei conti pubblici), e che dovranno poi essere approvati dal Consiglio.
Ma tornando ai suoi profili più delicati, il quadro regolatorio è stato appesantito da tutta una serie di paletti e vincoli introdotti dal fronte del Nord Europa nel cosiddetto “braccio preventivo” e inesistenti nella versione che, nella primavera 2023, era stata messa sul tavolo dalla Commissione europea al termine di un serrato braccio di ferro tecnico-politico in cui l’asse delle “colombe” guidato dal titolare dell’Economia Paolo Gentiloni aveva avuto la meglio. Tanto che è lo stesso ex premier italiano a ricordare apertamente come quello prodotto nel negoziato tra gli Stati membri “non sia il Patto dei miei sogni. Ma è comunque un compromesso accettabile e un passo avanti” che chiude con un passato di rigore difficile da rispettare, mettendo a segno un certo “equilibrio tra stabilità nella finanza pubblica e riforme e investimenti”.
Visto da Roma, nonostante il via libera dell’esecutivo Meloni, il nuovo Patto di stabilità rischia di rivelarsi fortemente penalizzante per chi – come l’Italia, ma anche Francia e Spagna – ha i conti in disordine. I parametri del Trattato di Maastricht, cioè il rapporto deficit/Pil al 3% e debito/Pil al 60% rimangono invariati (rivederli non è mai stato in ballo), ma tra i profili principali ci sono, però, delle inedite e ulteriori “soglie di salvaguardia” per i Paesi, come il nostro, con il rapporto debito/Pil sopra il 90%: quando si collocano al di fuori della procedura per squilibri macroeconomici eccessivi, gli Stati saranno chiamati a tagliare il debito dell’1% ogni anno in media, e a risanare in prospettiva i conti per tendere a un livello-cuscinetto di disavanzo pubblico dell’1,5%, con aggiustamenti annuali dello 0,4% se il piano è su 4 anni e dello 0,25% se è su 7.
L’inedito valore dell’1,5%, tuttavia, è la metà di quello stabilito nei Trattati; il che – secondo gli osservatori più critici – equivale, in buona sostanza, a introdurre un nuovo parametro di riferimento per il deficit pubblico, in grado di rimpiazzare, in tempi normali, il valore figlio del processo di convergenza di Maastricht. È proprio il mantenimento di questo paletto, o la sua eliminazione – come vuole invece l’Eurocamera -, che promette di essere uno dei nodi più difficili da sciogliere durante la trattativa interistituzionale.
L’entità del risanamento dei conti richiesti agli Stati in procedura – e passiamo così alla disciplina del “braccio correttivo” – sarà dello 0,5% del Pil in termini strutturali: per l’Italia, ciò vorrà dire circa 10 miliardi di tagli. Una cifra che dà la misura delle politiche di bilancio restrittive che saranno richieste agli Stati.
Certo, Berlino e le capitali dei frugali hanno dovuto scucire qualche concessione al fronte della flessibilità. A vedere bene, però, si tratta di poca cosa. C’è, ad esempio, quella che spesso è stata descritta come la linea franco-italiana per mettere al riparo gli investimenti. Non lo scorporo tout court dei costi per investimenti strategici dal computo della spesa primaria netta (cioè dal nuovo parametro su cui tarare gli aggiustamenti di bilancio), ma semmai la possibilità di avere uno “sconto” temporaneo dell’aumento delle spese per interessi sul debito tra 2025 e 2027 per gli investimenti nelle priorità comuni, come la transizione verde e digitale.
Lo scomputo si applicherà nella determinazione degli aggiustamenti di bilancio minimi che, per i Paesi sottoposti a procedura per deficit eccessivo, dovranno essere pari allo 0,5% annuo in termini strutturali. Il testo normativo non viene alterato (era la condizione posta da Tedeschi e frugali), ma alla Commissione si danno margini di intervento per “tener conto” dell’incremento del costo del denaro, ora che i tassi della Bce sono ai livelli record dall’introduzione dell’euro.
Inoltre, tra i punti incassati dai fautori della flessibilità, il Recovery Plan varrà come condizione per spalmare su 7 anni, anziché 4, il piano nazionale di spesa e il ritmo del rientro, mentre il bilancio per la difesa (per cui la Nato fissa un obiettivo, ancora distante, del 2% del Pil) conterà come “fattore rilevante” per escludere l’avvio di una procedura per deficit eccessivo.
E, infine, è stata inserita una deviazione massima di 0,3% all’anno e di 0,6% cumulativo tra quanto pattuito nei piani di spesa con Bruxelles e la realtà dei conti pubblici nazionali: è la soglia di tolleranza dello sforamento che consentirà di evitare l’apertura di una procedura per squilibri macroeconomici eccessivi da parte della Commissione.
Le misure che consentiranno di addolcire la pillola nei primi anni della nuova disciplina, combinate con l’arrivo al capolinea dei pagamenti del Recovery Plan a metà 2026 e la natura temporanea dello “sconto” sull’aumento degli interessi, rischiano solo di spostare più in là nel tempo il ritorno dei fantasmi dell’austerità. Quando, cioè, tutti i principali governi in carica che hanno detto sì alla riforma avranno concluso il loro attuale mandato – la Germania di Olaf Scholz nell’autunno 2025, mentre la Francia di Emmanuel Macron e l’Italia di Giorgia Meloni nel corso del 2027 – e per di più in un mondo che, con tutti i delicati fronti aperti, rischia di avere un aspetto ed equilibri internazionali molto diversi da quelli che conosciamo oggi. E l’Europa non potrà restare a guardare e a occuparsi del suo orticello.
Automotive: la svolta verde della Ue
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Diradate le nubi, in Europa si vedono le prime luci dell’alba dell’auto a emissioni zero. Arriverà a compimento a partire dal 2035, quando tutti i nuovi veicoli leggeri nell’Unione europea dovranno essere climaticamente neutri. Alimentati, cioè, con batterie elettriche oppure a carburanti a emissioni zero (ed è stato questo il punto più controverso delle ultime fasi della trattativa). Una formulazione che consente di tenere in vita il motore endotermico anche dopo il 2035, purché il pieno venga fatto non con diesel e benzina, ma con i combustibili sintetici, gli e-fuel.
Il nuovo regolamento sugli standard di CO2 di auto e furgoni è stato approvato definitivamente (con l’astensione di Italia, Bulgaria e Romania e il no della Polonia) dai ministri dei Ventisette riuniti nel Consiglio Energia il 28 marzo scorso. Rientra così nel gruppo di testa dei primi dossier del pacchetto “Fit for 55” che tagliano il traguardo del processo legislativo e possono cominciare la fase esecutiva, instradando l’Ue verso l’obiettivo del taglio delle emissioni carboniche del 55% entro il 2030, rispetto ai livelli del 1990, tappa intermedia nella direzione dello zero netto al 2050 previsto dal Green Deal.
È proprio il maxi-piano verde dell’Ue, però, a uscire ammaccato dalla battaglia sul futuro dell’automotive – combattuta tanto nella litigiosa coalizione di governo tedesca quanto nell’arena politica di Bruxelles e Strasburgo –, e a vedere nuovi agguati politici sempre più realistici, con le politiche per il clima nel mirino, nei mesi che ci separano dalle elezioni europee del maggio 2024. Dietro l’apparente tecnicismo dei provvedimenti, infatti, prende forma la ricerca di maggioranze alternative alle larghe intese targate Ursula von der Leyen.
Dopotutto, il passaggio in Consiglio ha chiuso un iter legislativo che, nelle battute finali (quando l’adozione era data ormai per acquisita, perlomeno secondo le tradizionali liturgie brussellesi), è stato messo in discussione dal profilarsi di una minoranza di blocco, cioè un fronte comune di un numero di Paesi tale da rappresentare più del 35% della popolazione Ue. Soglia che, a sorpresa, si è materializzata quando il voto definitivo sul regolamento stava già per essere calendarizzato all’ordine del giorno per l’ok formale nella prima riunione utile del Consiglio, cioè quello del 7 marzo, dopo che tra giugno e ottobre scorsi i rappresentanti dei governi, senza palesare fughe in avanti, avevano espresso il loro sostegno alla stretta green per l’auto (e che, a breve, riguarderà pure camion e pullman).
Trainata dal pressing interno dei liberali pro-industria dell’Fdp (terza gamba dell’eterogenea coalizione retta dal cancelliere Olaf Scholz), la scelta di Berlino di paventare un’astensione, sommata al no già annunciato da Roma e Varsavia e all’incertezza di Sofia, però, ha congelato tutto. Oltre a spiazzare gli alleati Ue per un inatteso cambio di passo da parte di chi, in Europa, è solito dare le carte. La mossa ha aperto un canale di negoziato diretto, e di emergenza, tra Berlino e Bruxelles, alla ricerca di un compromesso in grado di sbloccare l’impasse. La trama si è sviluppata in parallelo al Consiglio europeo del 23-24 marzo, finendo per contaminare il clima del summit e popolare le dichiarazioni dei leader, i quali formalmente avevano all’ordine del giorno non una questione così tecnica e di dettaglio, ma confronti più strategici sulla competitività globale, la governance economica, la gestione dei flussi migratori e l’unione bancaria.
Al centro del contendere è stata l’interpretazione del considerando 11 del regolamento, testo senza portata normativa ma con valore interpretativo che, nella versione abbastanza generica introdotta lo scorso anno nei negoziati interistituzionali tra Parlamento, Consiglio e Commissione, impegna l’esecutivo Ue “a presentare proposte per immatricolare anche dopo il 2035 veicoli alimentati esclusivamente con carburanti neutrali a livello di CO2”. Un impegno troppo vago – secondo la Germania – che non avrebbe dato vere garanzie sulla messa a punto di regole precise sugli e-fuel, i carburanti prodotti a partire da energie rinnovabili e con processi che “catturano” la CO2 dall’atmosfera e, in tal modo, nel complesso bilanciano le emissioni tra quella assorbita e quella rilasciata quando il motore è in funzione. Si tratta di tecnologie al centro di imponenti investimenti da parte delle case automobilistiche, tra cui varie grandi sigle tedesche.
Dopo un tira-e-molla durato un mese e contatti costanti tra Berlino e Bruxelles, il compromesso messo sul tavolo dalla Commissione europea è riuscito nel duplice obiettivo di non riaprire un testo che aveva ormai completato la navetta con il Parlamento Ue e di prevedere l’impegno – messo nero su bianco in una dichiarazione di natura politica – a presentare in autunno un provvedimento normativo per precisare le specifiche tecniche sull’impiego dei combustibili sintetici. La bozza dovrebbe accompagnarsi a nuove regole tecniche per i produttori di auto che consentano di “intercettare” e bloccare l’eventuale pieno con benzina e diesel tradizionali, in modo da avere la certezza che il motore a combustione sarà alimentato esclusivamente da e-fuel.
Per i tedeschi capitanati dal ministro dei Trasporti Volker Wissing e dal collega di partito e titolare delle Finanze Christian Lindner (che dell’Fdp è pure leader), si trattava di ribadire il principio della neutralità tecnologica nella transizione verde, e avere appigli giuridici più solidi per l’impiego degli e-fuel e la sopravvivenza del motore endotermico accanto all’elettrico.
Ora, c’è una storia nella storia. Perché in molti nelle diplomazie Ue sono convinti che Berlino sia diventata una spina nel fianco in Europa. Archiviata (ma non troppo) la politica d’età merkeliana del “kick the can down the road” che ha lasciato questioni irrisolte maturare al sole (dallo stato di diritto in Ungheria alla dipendenza strategica dalla Russia), la cifra che fa spazientire tanti a Bruxelles è l’inaffidabilità della “coalizione semaforo” in Germania. Per ben due volte in una manciata di settimane, rappresentanti del governo tedesco hanno tirato il freno a mano su dossier Ue: non solo sul futuro dell’auto, ma pure, pochi giorni prima, sulla riforma del Patto di stabilità e crescita, ottenendo in extremis un supplemento di consultazione delle capitali prima che la Commissione possa presentare la proposta legislativa di revisione della disciplina sui conti pubblici, il più classico dei fronti dell’attivismo tedesco. In entrambi i casi, a fare da guastafeste è stato il duo Wissing-Lindner: la Fdp è in forte sofferenza nelle urne e nei sondaggi e nella dialettica di coalizione con i socialdemocratici di Spd e i verdi. I liberali alzano, così, a più riprese la posta, soprattutto per fare da cassa di risonanza alle posizioni dell’industria tedesca; una tendenza che continuerà, e possibilmente aumenterà di intensità, perlomeno fino alle elezioni bavaresi di inizio ottobre.
Tornando all’auto, “sarà il mercato a decidere quale tecnologia climaticamente neutra prevarrà nel futuro”, s’è detto convinto Wissing dopo il via libera al regolamento sulla CO2 dei veicoli leggeri. La linea difensiva che, perlomeno nelle fasi iniziali del pressing sulla Commissione, la Germania ha condiviso pure con l’Italia. È stato il no al regolamento formalizzato a fine febbraio da Roma a motivare i tedeschi a tentare il tutto per tutto e intavolare un negoziato in extremis con l’esecutivo Ue, forte dei numeri della minoranza di blocco. A sua volta, il governo italiano s’è messo al traino di quello tedesco: convinto dell’apertura agli e-fuel, ha voluto sfruttare lo stallo per provare a dare la patente green anche ai biocombustibili, i carburanti alternativi frutto di colture agricole o della lavorazione di sostanze organiche di origine vegetale e animale. Nel nostro Paese, è soprattutto Eni a produrre bio-fuel e a investire sul loro sviluppo. Nonostante una lettera inviata dall’esecutivo italiano a quello Ue a tempo quasi scaduto, però, il tema dei biocarburanti non è mai davvero entrato in agenda. Anzi. La porta della Commissione sembrerebbe per ora chiusa a doppia mandata, tanto che tra le sue garanzie sui combustibili sintetici Bruxelles evoca l’acronimo “Rfnbo”, che fa riferimento ai soli carburanti rinnovabili di origine non biologica. Escludendo, quindi, senza appello i biocombustibili: questi ultimi – è l’argomentazione che circola nei palazzi Ue – emettono CO2, pur se meno di quelli di origine fossile. Roma non intende, tuttavia, cambiare linea: guarderà alle proposte legislative della seconda metà dell’anno e, in particolare, alla revisione del regolamento prevista nel 2026, per tornare all’attacco. Per quella data, l’obiettivo italiano è “dimostrare che anche i biocarburanti possano rientrare nella categoria di combustibili neutri in termini di bilanciamento complessivo di CO2”. La strada, ragionano al governo, è tracciata. Tanto che il ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin ha fatto mettere agli atti del Consiglio l’intervento con cui, motivando l’astensione, ha salutato come “uno sviluppo positivo” la possibilità di continuare a produrre motori a combustione (ambito in cui l’Europa è tra i leader globali), ma ha rilanciato le trattative in nome di “tutte le soluzioni disponibili”, per andare oltre quelle che Roma giudica interpretazioni ancora troppo restrittive.
Ad annunciare la fumata bianca sugli e-fuel e a tenere il punto sul no ai bio-fuel è stato in prima persona il vicepresidente esecutivo della Commissione Frans Timmermans, gran capo del Green Deal Ue. Le concessioni, soprattutto per l’irritualità del passo di lato della Germania, hanno richiesto un intervento politico al più alto livello. Anche perché finora la linea prevalente negli scambi con tecnici e vertici della Commissione vedeva sì un’apertura di massima ai combustibili sintetici nella transizione ecologica, ma non tanto come carburante per le auto su strada, quanto, semmai, per la decarbonizzazione di mezzi di trasporto di ben più difficile riconversione verso l’elettrico, quali navi e aerei. Per l’esecutivo Ue, però mettere il dossier sull’auto al riparo dalle turbolenze era essenziale. Se auto e furgoni, secondo le ricognizioni Ue, rappresentano il 15% delle emissioni di CO2 dell’Unione, ancor più dei numeri, a spiegare i contorni della partita sull’automotive c’è un forte simbolismo politico. Che tocca proposte capaci di avere un impatto radicale sulla vita dei cittadini – dall’auto alla casa passando per la tavola –, e il cambio di passo che vuole imprimere il Green Deal.
Giunti all’ultimo tornante della legislatura Ue e ora che le regole del maxi-piano verde si calano nella quotidianità, l’ambizione emissioni zero che aveva messo (quasi) tutti d’accordo all’inizio del mandato si ritrova sotto un fuoco di fila. Trascinando le politiche per il clima al centro dello scontro. Il contesto politico, dopotutto, è in evoluzione, accelerato dall’esito delle urne italiane e dall’avvento di un governo di destra a Roma che tesse la sua tela in Europa. Trovando, spesso, sponde non da poco. E preparando – o perlomeno questa è la scommessa – un asse alternativo alla maggioranza di larghe intese che ha finora retto le sorti dell’Unione. Non più un fronte che tenga dentro il mainstream di centro, destra e sinistra, ma un’organica alleanza conservatrice capace di far avanzare una nuova agenda.
Come con i flussi migratori, il Green Deal tra partita sulle auto – che presto si estenderà al braccio di ferro sugli standard Euro 7 relativi alle emissioni nocive diverse dalla CO2 (categoria che per la prima volta prende in considerazione il consumo di freni e pneumatici) – e quella, parallela, sull’efficientamento energetico degli edifici e la riscrittura delle classi di consumo, sta offrendo un terreno per mettere in piedi una “culture war” sulla transizione ecologica con motivazioni di carattere industriale e risvolti pratici populisti, tangibili per i cittadini. L’indiziato principale è il Ppe: all’interno del Partito popolare europeo, che è ancora la principale forza parlamentare di centrodestra, non mancano le sirene, soprattutto tra i gruppi dell’Europa centro-meridionale, che per il 2024 guardano a un’alleanza con i conservatori Ue guidati da Giorgia Meloni. I sondaggi, per ora, non lasciano presagire la possibilità di nuove maggioranze, ma i riposizionamenti in corsa sul Green Deal possono fornire un primo laboratorio politico per prendere le misure.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di aprile/giugno di eastwest
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L’Euro digitale
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Se il 2022 ha visto crollare le criptovalute, con il tonfo rovinoso della Borsa Ftx di Sam Bankman-Fried e l’effetto domino sulle altre divise virtuali, il 2023 potrebbe avere le carte in regola per far segnare, invece, un passo avanti per le monete digitali. Ma, beninteso, quelle delle Banche centrali: le “Central Bank Digital Currencies” (Cbdc). L’Europa, già in discreto ritardo rispetto ai suoi principali competitor globali, non vuole farsi trovare impreparata. Entro il primo semestre dell’anno, la Commissione Ue metterà sul tavolo di governi ed Europarlamento una proposta legislativa in grado di fornire il quadro regolamentare per il futuro euro digitale, una forma di valuta elettronica accessibile a tutti nell’Eurozona (che da quest’anno nella sua famiglia accoglie il membro numero 20, la Croazia). In precedenza, la Banca centrale europea (Bce) aveva indicato nel prossimo ottobre il momento della verità per una decisione concreta sull’avanzamento del dossier. Un salto nel futuro per la moneta unica, a poco più di vent’anni dalla sua adozione, per evitare che i nuovi orizzonti per il denaro si sviluppino lontano dal Vecchio continente. E a fronte di una rapida corsa globale verso l’adozione di una Cbdc. E chi primo arriverà, avrà la possibilità di definire le regole del gioco.
Una moneta digitale emessa da una Banca centrale
Ecco che abbiamo davanti un percorso a tappe serrate per fare della Bce una delle pioniere assolute fra gli istituti monetari globali nella corsa alla creazione di un inedito: una valuta virtuale con corso legale garantito da una istituzione pubblica. La moneta digitale emessa da una Banca centrale ha, infatti, un requisito ulteriore che manca alle criptovalute, come Bitcoin e Ethereum, le cui quotazioni sono decisamente volatili: nessuna delle monete virtuali attualmente disponibili sul mercato è emessa o supportata dalla reputazione di un potere pubblico statale o sovranazionale con il potere di preservare il valore della valuta. Al contrario, essendo una passività della Banca centrale, la moneta virtuale non presenterebbe rischi di alcun tipo, siano essi di mercato, di credito o di liquidità. Insomma, nulla di diverso dalle comuni banconote, di cui avrebbe lo stesso valore.
Del resto, come ampiamente chiarito nelle lunghe settimane di braccio di ferro tutto italiano sul nuovo tetto al contante, il cash − usato in Europa per circa il 59% delle transazioni nei negozi fisici, un dato in calo ma comunque molto alto, secondo le più recenti rilevazioni della Bce − non è destinato a sparire di colpo. Anzi, l’Eurotower si dimostra estremamente cauta, pure nelle sue comunicazioni ufficiali, per quanto Francoforte stimi che “i pagamenti non in contanti effettuati nell’Eurozona siano aumentati del 12,5% nel 2021, per un valore totale di 197 trilioni di euro”. Un euro digitale avrebbe però “il potenziale per apportare numerosi vantaggi ai consumatori e alle imprese” poiché “fornirebbe un’alternativa di denaro pubblico ai mezzi di pagamento digitali privati, ha detto Valdis Dombrovskis il vicepresidente esecutivo della Commissione europea responsabile della supervisione sui portafogli economici, parlando alla conferenza congiunta della Bce e dell’esecutivo Ue sul nuovo progetto di moneta virtuale, a inizio novembre scorso. “Sarebbe un mezzo di pagamento digitale sicuro, istantaneo ed efficiente che tutti potrebbero utilizzare”. E a basso costo, proprio come il contante.
Non una valuta alternativa, quindi, e nemmeno un mezzo di investimento, ma solo un (altro) mezzo di pagamento in euro in grado di rispondere alla crescente preferenza per le transazioni digitali. Per questo, ad esempio, potrebbero ipotizzarsi limiti allo stoccaggio (le ultime cifre ventilate parlano di 3mila euro).
Per i cittadini, un accesso più agevole ai pagamenti elettronici
Insomma, il progetto di euro digitale, pronto a ingranare la marcia nel nuovo anno, si affiancherebbe a quello fisico, senza tuttavia sostituirlo. Permetterebbe, invece, ai cittadini-utenti un accesso più ampio e agevole ai pagamenti elettronici, senza disintermediare le banche commerciali, che – sottoposte a vigilanza − continuerebbero a gestire pure i portafogli di moneta digitale. Questa è l’impalcatura attorno a cui Bruxelles costruirà la sua proposta legislativa, che dovrebbe presentare al Parlamento europeo e ai rappresentanti dei governi dei Ventisette riuniti nel Consiglio entro giugno. “Stabilirà per legge l’euro digitale e ne regolerà gli aspetti essenziali”, ha anticipato Dombrovskis. Nella sua proposta, la Commissione intende “preservare l’attuale ruolo delle banche come intermediari”, disegnare “una moneta digitale efficace, che possa essere utilizzata anche al di fuori dell’area dell’euro” e offrire “privacy e inclusione”.
Dopo un 2021 di analisi, raccolta di input e sperimentazione, che ha portato Francoforte all’avvio dell’istruttoria, la fase pilota si è sviluppata lungo tutto il corso del 2022, a stretto contatto con le varie parti coinvolte, puntando ad affrontare i nodi che riguardano la messa a punto tecnologica e la distribuzione stessa della valuta virtuale. Finora non è stata presa alcuna decisione operativa: Francoforte sta, semmai, esaminando i possibili rischi per la stabilità finanziaria e la trasmissione della politica monetaria che potrebbero emergere a seguito dell’introduzione di una Cbdc.
L’anno appena cominciato è quello che la Bce ha designato per la fase realizzativa, che comincerà – spiegano all’Eurotower – “solo se avremo la certezza che questo progetto funzionerà”. Poco distante dalla torre della Bce, è la Bundesbank, la Banca centrale tedesca, in particolare, a premere per una celere definizione del futuro della moneta digitale. E a chiedere (in compagnia di Italia, Francia, Paesi Bassi e Spagna, attraverso un documento di orientamento circolato dopo l’estate) che, oltre a fare bene, si faccia anche in fretta.
La Cina avanza con il renminbi digitale
Dopotutto, che l’attivismo europeo abbia acquisito velocità e risolutezza negli ultimi anni non è certo un caso. Senza una pronta offerta europea, altre valute digitali delle Banche centrali potrebbero dilagare. L’Ue, in particolare, guarda con preoccupazione alla corsa di Pechino, prima grande potenza a lanciarsi nella definizione di una divisa virtuale di Stato. La Cina sta già testando dal 2019 in una ventina di città del Paese (e pure nel villaggio olimpico in occasione dei Giochi invernali 2022) il renminbi digitale. Con l’espansione a buona parte del Dragone entro quest’anno, aspira a definire il nuovo standard mondiale delle Cbdc. Un’azione da first mover cui l’Europa non può davvero permettersi di assistere inerme: ne va della definizione stessa degli standard globali. “Se fosse emesso, l’euro digitale avrebbe conseguenze rilevanti sia su temi di carattere economico-finanziario, quali la trasmissione della politica monetaria, la stabilità finanziaria o il funzionamento del sistema monetario internazionale, sia su aspetti di ampia rilevanza come gli equilibri geopolitici globali e i diritti fondamentali degli individui, quale il diritto alla riservatezza”, ha spiegato infatti Fabio Panetta, membro del Comitato esecutivo della Banca centrale europea con delega ai sistemi di pagamento, tra i principali responsabili dietro l’iniziativa volta alla creazione dell’ecosistema adeguato alla realizzazione di una moneta virtuale. Ma perché la valuta digitale si muova sul binario giusto, “l’Eurosistema deve mantenere il pieno controllo sulla sua emissione e sul regolamento degli intermediari che distribuiscono l’euro digitale agli utenti finali”.
L’euro digitale dovrà ispirarsi ai valori europei
“L’Ue è consapevole che, rispetto al peso economico che ha nel mondo, la sua moneta è poco utilizzata negli scambi internazionali. Con l’euro digitale, vuole pertanto ristabilire la centralità della Bce in una economia sempre più cashless”, ha aggiunto l’italiano. E di fronte alla competizione con altre regioni del mondo, va da sé − come del resto emerso durante una recente consultazione pubblica della Bce −, che l’euro digitale dovrà ispirarsi ai valori europei. A cominciare dalla privacy e dalla protezione dei dati, ambiti in cui l’Europa ha già mostrato tutto il suo potere normativo e rispetto ai quali potrebbe aspirare a definire lo standard globale anche sul fronte delle Cbdc. L’Eurosistema non avrebbe alcun interesse – spiega la Bce – a raccogliere informazioni sui pagamenti dei singoli utenti, a tracciarne le abitudini o condividere questi dati con terzi. Tutt’altro: l’euro digitale ben potrebbe definire anche una soglia di perfetto “anonimato” per transazioni di piccolo taglio su brevi periodi di tempo (si ipotizza un limite di 50 euro per un ammontare complessivo di mille euro al mese). Un’esigenza, questa, ribadita per esempio dal ministro delle Finanze tedesco e leader dei liberali della Fdp Christian Lindner, convinto che “l’euro virtuale sarà accettato dalla gente solo se sarà paragonabile ai pagamenti in contante”. Anonimato compreso, a meno che la tracciabilità delle transazioni non sia necessaria per prevenire attività illecite come il riciclaggio di denaro o il finanziamento del terrorismo (per cui l’Ue è vicina all’adozione di una stretta normativa comune).
Tornando alla riservatezza, una moneta virtuale emessa dalle Banche centrali non cela, oltretutto, scopi commerciali per l’utilizzo dei dati dei consumatori, al contrario dei fornitori privati di servizi di pagamento. Ma rischia di essere veicolo predestinato per una sorveglianza ravvicinata da parte del governo, come hanno segnalato svariati esperti proprio con riferimento all’esperienza del Dragone, oppure per ovviare ai limiti imposti dalle sanzioni occidentali contro la Russia, le cui maggiori banche commerciali sono state “staccate” dal sistema di pagamenti internazionali Swift. Non solo rivalità sistemica con Pechino, però: il progetto di euro digitale rientra a pieno titolo nella cornice della corsa dell’Unione europea verso l’autonomia strategica, pilastro portante dell’agenda geopolitica di Bruxelles, in particolare nella sua accezione tecnologica. Che comprende pure una buona dose di indipendenza rispetto agli alleati tradizionali nel campo occidentale, a cominciare dagli Stati Uniti, vista la volontà non sottaciuta dell’Ue di affrancarsi dal ruolo dominante del dollaro nel sistema finanziario internazionale. Con Washington in fase di rincorsa nella definizione di una versione virtuale del dollaro, per il momento Usa vuol dire soprattutto Big Tech d’Oltreoceano. Il cui ingresso nel mondo dei pagamenti digitali, ha spiegato di recente la presidente della Bce Christine Lagarde “potrebbe aumentare il rischio di dominio del mercato e di dipendenza dalle tecnologie di pagamento estere, con conseguenze per l’autonomia strategica dell’Europa”. Dopotutto, “già oggi più di due terzi delle transazioni con carta sono gestite da società con sede al di fuori dell’Ue”.
Giappone, India e Brasile
Se è fuor di dubbio che la Cina sia ad oggi il leder a livello globale quanto all’avanzamento del renminbi virtuale su una scala sufficientemente ampia, l’Ue non deve guardarsi solo da Pechino. Un’altra grande giurisdizione asiatica che sta facendo sul serio è il Giappone. La Bank of Japan ha in programma di testare la fattibilità dello yen digitale grazie a un progetto pilota in collaborazione con i principali istituti di credito del Paese: anche per Tokyo il 2023 sarà un anno di verifiche e valutazioni, mentre la decisione sull’effettiva emissione non sarebbe presa prima del 2026, e con ogni probabilità solo in seguito a un referendum popolare. Accanto al Dragone, fra i Paesi del blocco Brics, neppure altri due giganti vogliono rimanere indietro: India e Brasile. A inizio novembre, la Reserve Bank of India ha dato il via ai test sulla rupia digitale, in collaborazione con nove banche d’affari. Il Banco do Brasil conta invece di lanciare il suo real digitale nel 2024.
Il Central Bank Digital Currency Tracker del GeoEconomics Center dell’Atlantic Council mappa con regolari aggiornamenti l’avanzamento globale delle Cbdc: quasi tutte le economie del G20 hanno investito risorse sullo sviluppo di una valuta virtuale negli ultimi sei mesi, e si sono pure accordate rispetto alla necessità di collaborare sulla realizzazione di monete virtuali. Tutti i Paesi del G7 si trovano già in fase avanzata. In generale – e il dato è davvero eloquente −, il 2022 si è chiuso con 114 Paesi (il 95% del Pil del pianeta) che stanno esplorando a vario titolo l’istituzione di una moneta virtuale. Numeri che spiegano bene perché l’Europa non potrà perdere un solo giorno, in questo 2023 dedicato al varo della sua strategia per far approdare la moneta unica nell’ecosistema digitale.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/marzo di eastwest
Balcani, l’impatto dell’invasione ucraina sul processo di adesione alla Ue
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Allargamento ai Balcani sì, no, forse. E in ogni caso, a diverse velocità e con l’ormai consueta serie di corse a ostacoli. In tempi di (ri)posizionamenti strategici, mentre Finlandia e Svezia aspettano l’ufficialità del loro ingresso nella Nato, anche l’Unione europea riprende in mano il dossier della sua espansione oltre i confini attuali dei Ventisette. Trovandosi, però, a fare i conti con un’impasse prolungata: riguarda tutti quei Paesi dell’Europa sud-orientale (Serbia, Montenegro, Albania, Macedonia del Nord, Bosnia-Erzegovina e Kosovo) che a più tempi, dagli Anni Duemila in poi, bussano alla porta dell’Ue senza ricevere tuttavia vere aperture. Sulla scia dell’impatto che l’invasione russa dell’Ucraina ha avuto sugli equilibri del Vecchio Continente, Bruxelles ha cercato, con un successo più di forma che di sostanza, di superare l’enlargement fatigue, la “fatica da allargamento” che ha finora tenuto sotto scacco il processo d’ingresso per i Balcani occidentali. Una fase che ha contraddistinto l’ultimo decennio apertosi dopo le adesioni alla spicciolata di Romania e Bulgaria (2007) e Croazia (2013), i tasselli più recenti inseriti a completare il puzzle della riunificazione dell’Europa culminata con il Big Bang Enlargement del 2004, quando otto Stati al di là dell’ex cortina di ferro, più Cipro e Malta, entrarono nell’Ue.
L’Ue ha provato a voltare pagina con un colpo di reni, nell’esatto giorno – beffarda ironia del calendario − in cui cadeva il sesto anniversario del referendum sulla Brexit. Il summit del Consiglio europeo del 23-24 giugno scorso ha confermato le raccomandazioni formulate dalla Commissione presieduta da Ursula von der Leyen e dato luce verde alla concessione dello status di Paesi candidati a Ucraina e Moldova, e di potenziale candidato, ribadendone “la prospettiva Ue”, alla Georgia, ricordando le condizioni preliminari (in particolare in materia di giustizia, anti-corruzione e stato di diritto) che gli aspiranti dovranno soddisfare per avanzare lungo il tortuoso sentiero dell’adesione. Non è tuttavia – va precisato – che il primo passo per l’avvio dell’iter di ingresso; il processo (che si parli di Kiev come di Podgorica o Tirana) è complesso e articolato, strutturalmente destinato a durare anni, ad affrontare incognite e tornanti e a misurarsi con i diktat del voto all’unanimità dei governi.
L’ok in appena una manciata di settimane alle istanze presentate subito dopo l’inizio della guerra da Ucraina, Moldova e Georgia era atteso. Eppure, nella grande stanza multicolore dell’Europa Building che ospita i Vertici dei capi di Stato e di governo, la proposta non ha avuto vita facile. Non perché qualcuno fra i Ventisette volesse tirare il freno a mano, ma poiché lo sprint registratosi per le capitali che più da vicino conoscono o hanno conosciuto l’aggressività di Mosca ha tenuto invece ancora una volta ai margini della discussione gli Stati che si vedono promettere la prospettiva d’ingresso nell’Unione con una regolarità che – vista dai Balcani – è diventata semmai una stanca ritualità di maniera. Così facendo Bruxelles, mettono in guardia gli analisti, rischia insomma di perdere alla causa Ue chi fa la fila da anni. Austria, Croazia e Slovenia hanno, in particolare, insistito perché le conclusioni del summit non perdessero di vista la regione dei Balcani occidentali (meno protagonista l’Italia, nonostante la tradizionale vocazione euro-adriatica). Il braccio di ferro ha tirato un po’ per le lunghe i negoziati, salvo risolversi in una soluzione spuntata, con l’espresso invito alla Commissione (sul tema particolarmente restia) a riferire senza ritardo sui progressi fatti dalla Bosnia-Erzegovina in vista di una eventuale concessione pure a Sarajevo dello status di candidato, un riconoscimento che il Paese emerso poco meno di trent’anni fa dalla guerra aspetta da sei anni.
A raccontare l’amarezza dei Balcani per l’ennesimo passo falso di Bruxelles è stata la tempistica di due conferenze stampa, una poco protocollare e l’altra finita fuori agenda, in quello stesso 23 giugno che ha visto l’allargamento tornare alla ribalta nei palazzi Ue. La prima, con i leader di Belgrado, Tirana e Skopje Aleksandar Vučić, Edi Rama e Dimitar Kovačevski a ribadire da una parte il sostegno allo status di candidati per Ucraina e Moldova, ma dall’altra a sottolineare la frustrazione per i ritardi accumulati invece sulla rotta dei Balcani, rimasti impantanati nell’anticamera dell’Ue. La seconda, cancellata all’ultimo momento, ha evitato ai vertici dell’Unione di esporsi sulla spinosa questione.
In tempi di pandemia e guerra, anche la politica di allargamento Ue, insomma, è finita nella rete delle politiche emergenziali. Bruxelles ha rispolverato il dossier quiescente per allinearlo all’impegno “geopolitico” a sostegno dell’Ucraina, negandogli però al tempo stesso una più ampia visione e una prospettiva sostenibile.
A dirla tutta, qualcosa per i Balcani si è mosso tre settimane più tardi, il 19 luglio, quando a Bruxelles si sono tenute le due conferenze intergovernative con Albania e Macedonia del Nord per l’avvio dei negoziati per l’adesione dopo rispettivamente 8 e 17 anni dalla domanda e a circa due dalla concessione dello status (passata senza rumore in piena pandemia). Apertura irta d’insidie per Tirana e Skopje e non rappresenta un promettente viatico neanche per Kiev e Chişinău. Anzi, le sue modalità rischiano di assestare un ulteriore colpo alla credibilità dell’allargamento. Tenuto stavolta ostaggio dalla Bulgaria, in virtù di una disputa storico-identitaria che contrappone Sofia e Skopje, a proposito dei diritti della minoranza bulgara in Macedonia del Nord e della sua lingua. Il Governo bulgaro aveva quindi posto il veto sull’apertura dei negoziati Ue con i vicini macedoni (bloccando pure l’altro componente del tandem, l’Albania) e vanificando gli anni e i dolori politici che ci sono voluti per siglare, nel 2018, l’intesa di Prespa con cui Atene e Skopje hanno mandato in soffitta la disfida del nome e formalizzato il nuovo appellativo internazionalmente riconosciuto di Macedonia del Nord. La presidenza francese del Consiglio dell’Ue, giunta agli ultimi giorni di attività, ha disinnescato il pericolo con una soluzione di compromesso che in realtà legittima molte delle rivendicazioni bulgare e mette per la seconda volta sul piatto dei macedoni richieste pesanti da mandar giù, per cui serve oltretutto una (improbabile) riforma costituzionale.
L’autunno contribuirà ad aggiungere qualche elemento, ma colpi di scena sarebbero da escludere: a ottobre, da una parte, la Commissione dovrà illustrare il suo annuale pacchetto allargamento; dall’altra, le elezioni politiche che rinnoveranno il complesso sistema di governo della Bosnia-Erzegovina aiuteranno a far luce sul reale avanzamento sul sentiero Ue del Paese. E magari a sbloccare la concessione dello status di candidato. E pure il Kosovo si sarebbe deciso a inviare formalmente la domanda, passaggio finora bloccato dal fatto che Pristina ancora oggi non è riconosciuta da cinque Stati membri dell’Unione (Spagna, Romania, Slovacchia, Grecia e Cipro) e, contemporaneamente, dall’assenza di sviluppi sulla liberalizzazione dei visti Ue necessari ai (soli) kosovari.
Anche se un nuovo afflato è stato dato al processo di adesione dei Balcani, le garanzie che possa procedere senza intoppi e senza finire in un vicolo cieco non sono alte, mentre disillusione e disaffezione verso l’Ue sono ormai radicate in una regione in cui si è invece diffusa la tentacolare presenza dei capitali cinesi e dell’influenza russa, ben sintetizzata dalla Serbia sempre più pecora nera.
Mantenere viva la fiammella della prospettiva di adesione all’Ue per i Paesi candidati è essenziale, ma occorre che sia anche credibile. Le premesse non sono incoraggianti ora che prende forma (si riunisce a Praga a inizio ottobre) la Comunità politica europea messa in pista da Emmanuel Macron, il forum di coordinamento per rilanciare la cooperazione nel continente dall’Islanda all’Ucraina, fino agli stessi Balcani, al di là di formule specializzate o “affaticate” come Osce e Consiglio d’Europa. Non è un’alternativa all’allargamento o alle politiche di vicinato − assicurano Parigi e Bruxelles −, ma in molti vi vedono un concreto stratagemma per rinviare sine die le nuove adesioni.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
L’Europa federale
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En Marche. Proprio come il principale ideologo della Conferenza stessa, l’appena riconfermato Presidente francese Emmanuel Macron. Il futuro dell’Europa riparte da Strasburgo, dove il 9 maggio − a un anno esatto dal suo lancio − si è conclusa la Conferenza sul Futuro dell’Europa (CoFoE), l’esercizio partecipativo dal basso che negli ultimi 12 mesi ha riunito digitalmente e fisicamente i cittadini europei attorno a un inedito canale di democrazia deliberativa. La Conferenza arriva al termine di un itinerario accidentato e non lineare, e le speranze sono tutte rivolte alle modalità che saranno scelte dalle istituzioni di Bruxelles e dai governi degli Stati membri per darvi seguito. Torna così in scena il più classico dei tabù da infrangere: la riforma dei Trattati per dare all’Unione gli strumenti per fronteggiare le crisi globali che, dopo essersi inabissata per oltre un decennio, adesso trova nuova linfa, complice un sostegno esplicito da parte della Germania.
La CoFoE è stata una prima assoluta per Bruxelles, che ha così sperimentato − non senza difficoltà logistiche, metodologiche e politiche − l’integrazione del già caotico panorama multilivello dando la parola agli europei: a tutti, attraverso la piattaforma digitale multilingue futureu.europa.eu, e selezionando a caso un gruppo di 800 cittadini rappresentativi della diversità della popolazione Ue in termini di origine geografica, età, genere, contesto socio-economico e livello di istruzione, per partecipare ai quattro panel dedicati (“Economia, lavoro, cultura, istruzione, digitale”; “Democrazia, valori, sicurezza”; “Cambiamento climatico e ambiente”; “Ue nel mondo e migrazione”). Tanto nella plenaria della CoFoE quanto nei gruppi di lavoro orizzontali, poi, una delegazione di 80 cittadini dei quattro panel si è trovata accanto ai rappresentanti indicati dal Parlamento europeo (108), dal Consiglio (54), dalla Commissione (3) e da tutti i Parlamenti nazionali dei Ventisette (108), a cui aggiungere anche il presidente del Forum europeo dei giovani e quelli dei panel di cittadini tenutisi a livello nazionale (27).
Mentre questo numero va in stampa, la CoFoE è giunta al suo ultimo tornante, con l’approvazione per consenso da parte della plenaria delle raccomandazioni compilate dai gruppi di lavoro a partire dai contributi caricati sulla piattaforma online e dagli input dei panel dei cittadini. Sulla base della versione finale del documento, ciascuna istituzione dell’Ue dovrà fare la propria parte, alla luce delle rispettive competenze e attribuzioni, per l’implementazione delle proposte. Si va dalle liste transnazionali per le elezioni europee all’addio al voto all’unanimità nel Consiglio, passando per una semplificazione dei nomi delle istituzioni.
Inizialmente spalmata su due anni (dal maggio 2020 al maggio 2022), la pandemia ha dato non poco filo da torcere al lancio della CoFoE: prima ne ha ritardato di un anno l’avvio, poi ne ha accorciato di fatto la durata ad appena 12 mesi, con un meeting su tre dei panel dei cittadini che si è svolto online. Nel mezzo, pure i veti incrociati fra le istituzioni per scegliere chi dovesse guidare la CoFoE, tenzone risolta con una presidenza tripartita per Commissione, Consiglio e Parlamento. La conclusione, invece, è stata per l’appunto mantenuta nel maggio 2022, nella fase finale della presidenza di turno francese del Consiglio dell’Unione europea. E questo perché la Conferenza è stata sin dall’origine legata a doppio filo alla Francia e a Macron. Sviluppando un punto contenuto già nel discorso della Sorbonne del 2017 in cui articolava la sua visione per l’Europa, fu in una tribuna pre-elettorale alla vigilia del voto europeo del 2019 che l’inquilino dell’Eliseo propose concretamente il lancio di una “Conferenza per l’Europa” tra le ricette “per il Rinascimento europeo”, strutturata “attorno a delle assemblee cittadine”. La priorità d’azione è poi finita, al pari di altri obiettivi strategici di Parigi, dritta nell’agenda della Commissione, tanto che l’esecutivo Ue assegnò al progetto pure una vicepresidente dedicata, la croata Dubravka Šuica.
Dopo la sfilata nel cortile del Louvre, nel 2017, e la marcia ai piedi della Tour Eiffel, nel 2022, in entrambi i casi con Inno alla Gioia e bandiere Ue d’ordinanza, Macron otterrà il terzo suggello europeo proprio officiando, da presidente di turno del Consiglio, la cerimonia di chiusura della CoFoE, nell’emiciclo del Parlamento europeo di Strasburgo e nel giorno della Festa dell’Europa. Sarà l’incoronazione laica dei prossimi cinque anni (franco-)europeisti: ma il momento della verità riguarderà come Macron vorrà fare tesoro di questo processo dal basso durato un anno, e cosa verrà dopo.
Il pressing francese è la forza motrice che fa avanzare molti dossier prioritari per Parigi sulla scena Ue, dal rafforzamento di un tessuto industriale europeo alle regole chiare per disciplinare le Big Tech d’Oltreoceano: Macron, fresco di rielezione, ha tutto il capitale politico da spendere per prendere in mano l’eredità della CoFoE e portarla a un nuovo livello. Per inquadrarne a dovere la portata storica, prima di soppesarne in concreto e nel merito i suggerimenti, la Conferenza sul Futuro dell’Europa va anzitutto valutata in quanto processo aperto e per il merito di aver innestato una modalità di lavoro partecipativa nella complessa cornice istituzionale Ue. In quanto processo, ha tutte le credenziali per andare avanti, ma spetta alla politica europea indicare come. Secondo alcuni tra i più attenti osservatori delle dinamiche della Conferenza, appena una proposta su dieci, fra quelle portate avanti dai panel dei cittadini, richiederebbe una riforma dei Trattati. Insomma, un intervento puntuale per ampliare, ad esempio le competenze dell’Ue in ambiti in cui, alla prova dei fatti, è stato dimostrato il valore aggiunto dell’azione comune: la salute, con la risposta unitaria alla pandemia e l’approvvigionamento dei vaccini, e adesso la politica estera, con il necessario abbandono dell’unanimità nelle relative decisioni.
La naturale evoluzione della CoFoE passa per la messa a sistema del suo metodo di lavoro e la creazione di uno stabile organismo di democrazia partecipativa attraverso cui dar voce ai cittadini, magari mantenendo la già sperimentata (con tutte le difficoltà del caso) piattaforma online. Ma, per evitare di allungare la liturgia dei tanti pareri che spesso finiscono in fondo ai cassetti delle istituzioni di Bruxelles, la posta in gioco è più alta. Fino alla vigilia della conclusione della CoFoE, il maggiore oppositore dell’idea di usare la Conferenza come rampa di lancio per un ambizioso tentativo di revisione dei Trattati Ue era, manco a dirlo, il Consiglio, dove siedono i rappresentanti degli Stati membri. L’idea trova invece entusiastici sostenitori nel Parlamento europeo, dove si evoca la possibilità di far seguire la Conferenza sul Futuro dell’Europa da una Convenzione sul Futuro dell’Europa, dando pure tono costituente a quel che rimane della legislatura Ue da qui al 2024.
Per l’apertura di una Convenzione, il Consiglio europeo decide a maggioranza semplice. Tocca poi però a ciascuno Stato membro ratificare internamente le modifiche, ed è qui che il sentiero si fa parecchio più scivoloso. Sconfitti gli euroscettici tra Repubblica Ceca e Slovenia, e con la Polonia che tra un anno potrebbe accompagnare alla porta i suoi ultraconservatori di Governo, l’Ungheria di Viktor Orbán − appena riconfermato premier − rimane il principale ostacolo sovranista a un’ambiziosa maggiore integrazione. A voler guardare il bicchiere mezzo pieno, c’è infatti una tradizionale resistenza alla riforma dei Trattati che è nel frattempo saltata, ed è destinata a far rumore: quella della Germania. Nel contratto di coalizione tra socialdemocratici, verdi e liberali è messo nero su bianco che la CoFoE “dovrebbe portare a una Convenzione costituzionale e gettare le basi per lo sviluppo di un’Europa federale”. Il Governo di Berlino non ha ancora completato il primo giro di boa dei sei mesi al potere e sta parallelamente affrontando questioni esistenziali come il superamento della sua tradizionale postura nei confronti della Russia, ma è anche sulla capacità di far avanzare l’integrazione Ue in un’ora di cambiamenti epocali che sarà giudicato.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
Ue, l’evoluzione di Visegrád
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In un’Europa a più velocità c’è chi corre più degli altri. In che direzione, però, è tutto da vedere. Appena un anno fa il Gruppo di Visegrád (V4), baluardo dell’integrazione euro-atlantica dei tre (poi quattro) Paesi dell’Europa centro-orientale all’indomani della disgregazione dell’ex blocco socialista, celebrava il trentennale dalla fondazione, ricordando le aspirazioni di allora – era il 15 febbraio 1991 − e le sfide di oggi. Non più coeso come un tempo, il blocco che mette insieme Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia e Ungheria sperimenta al suo interno notevoli forze centrifughe che potrebbero innescare una nuova metamorfosi politica nel cuore d’Europa. Dopo aver mutato pelle rispetto alle origini liberaldemocratiche ed essersi accreditato nel dibattito politico Ue degli ultimi anni come fortezza sovranista nel cuore del continente, il V4 è infatti semmai descritto, talvolta pure dagli stessi protagonisti, come un V2+2, a marcare la faglia che si è aperta al suo interno.
Il cambio di governo nella Repubblica Ceca che fu di Václav Havel – padre nobile, da leader cecoslovacco, dell’asse di Visegrád insieme al polacco Lech Wałesa e all’ungherese József Antall –, a cavallo fra 2021 e 2022 ha visto il passaggio dai populisti di Andrej Babiš, il magnate accusato di maxi-corruzione, ai moderati filo-Ue di Petr Fiala. Il Ministro degli Affari europei di Praga, Mikuláš Bek, in occasione della prima visita a Bruxelles nella nuova veste, si è fatto interprete del nuovo corso: “Il senso di una cooperazione dei V4 si è indebolito; ma il trend può sempre cambiare dopo le prossime elezioni” in Ungheria, quest’anno, e Polonia, il prossimo, visto che entrambe sono rimaste arroccate su posizioni anti-Ue e di sfida aperta alle istituzioni comunitarie sul capitolo stato di diritto.
Nell’attesa, il V4 può ben finire in standby, è il messaggio senza troppi convenevoli che Bek ha affidato a un dialogo con Politico Europe, in apertura di un 2022 che per i cechi è anche una sfida di credibilità, con la presidenza del Consiglio dell’Ue al via il 1° luglio: “Non vogliamo trascurare la cooperazione all’interno del Gruppo di Visegrád, ma al tempo stesso vogliamo mettere in campo azioni complementari e intensificare il nostro dialogo con altri Stati membri”. A cominciare, ad esempio, da un’intesa mitteleuropea con Germania e Austria.
La spaccatura all’interno del Gruppo Visegrád
La prima a tracciare un chiaro solco nel cuore di Visegrád era stata, in ordine di tempo, la Slovacchia, che tra i quattro è anche l’unico Paese membro dell’Eurozona: una rondine non fa primavera, ma nel 2019 l’elezione a sorpresa alla presidenza della Repubblica di Zuzana Čaputová, indipendente dal profilo di attivista e ecologista, ha cominciato a delineare i tratti del volto dell’altro V4. Poi a Bratislava è stata la volta dell’avvento al potere dei popolari di OĽaNO e del premier Eduard Heger (emerso un anno fa dalle rovine di una crisi di governo lampo innescata da un plagio e rinfocolata dall’acquisto un po’ troppo repentino di 200mila dosi del vaccino russo Sputnik V, sulle orme dell’Ungheria). Conservatori sì, come del resto buona parte del centrodestra che si è appena insediato a Praga in coalizione con il Partito Pirata, ma non certo esponenti dell’internazionale sovranista come i leader al potere a Budapest e Varsavia.
Repubblica Ceca e Slovacchia, insomma, si sono stancate di fare il gioco anti-Bruxelles di Ungheria e Polonia. Una delle più plastiche rappresentazioni del V2+2 di fatto risale all’inverno 2020, nei giorni più tesi dello scontro per l’approvazione del nuovo bilancio settennale e del Recovery Plan: al pacchetto era collegato per la prima volta un meccanismo che condiziona l’esborso dei fondi Ue al rispetto dei principi dello stato di diritto nell’impiego degli stessi, avversato dai governi di Viktor Orbán e di Mateusz Morawiecki. L’opposizione, poi parzialmente disinnescata da una delle ultime mediazioni aperturiste verso l’est di Angela Merkel, non trovò lo sperato sostegno da parte di Praga e Bratislava. A schierarsi al fianco di ungheresi e polacchi nella crociata per mantenere l’accesso indiscriminato al Bancomat Ue fu solo un altro apprendista stregone della nuova Europa: il premier della Slovenia dalle simpatie trumpiane Janez Janša.
Non che la graduale comparsa di un altro volto di Visegrád, più simile a quello delle origini, sia arrivata inattesa: a fine 2019, a farsi carico di ripristinare la narrativa del blocco centro-orientale come pilastro dell’Europa unita erano stati infatti i sindaci delle quattro capitali, tutti a indirizzo pro-Ue, con il “Patto delle città libere” firmato da Gergely Karácsony (Budapest), Rafał Trzaskowski (Varsavia), Zdeněk Hřib (Praga) e Matúš Vallo (Bratislava).
Venivamo da anni in cui, soprattutto su dossier chiave come la migrazione, era quanto mai evidente la sintonia coriacea del Gruppo di Visegrád, diventato pecora nera dell’Europa politica e freno a un balzo qualitativo della legislativa. È questo il contesto in cui, per esempio, Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca vengono condannate dalla Corte di Giustizia dell’Ue per essersi rifiutate di accogliere alcune decine di richiedenti asilo nel quadro del meccanismo temporaneo di ricollocazione attivato per gestire i flussi straordinari del 2015 nel Mediterraneo. Un’unità di intenti oggi sempre più appannata. A voler ragionare di temi, l’ambiente sembra essere quello più al riparo dalle spaccature, con i V4 – alle prese con la complessa decarbonizzazione delle loro economie − compatti dietro la Francia nel sostegno all’inserimento del nucleare, oltre che al gas, nella tassonomia verde dell’Ue, la lista delle fonti green a sostegno della transizione ecologica su cui i governi europei duellano da mesi.
Quale futuro per Visegrád?
Eppure, per il resto, non c’è solo la decisa virata verso ovest di Praga e Bratislava a mettere in luce che il re è nudo e che Visegrád, perlomeno come l’abbiamo conosciuta negli ultimi anni, non esiste più. L’agenda di politica estera, infatti, pone persino il binomio V2 più inossidabile, il Varsavia-Budapest, su due barricate nettamente opposte, con la prima decisa a chiedere un’azione più coraggiosa dell’Ue contro la Russia e la seconda, invece, di fatto vinta alle sirene del Cremlino. Il dossier Ucraina non ha fatto che confermarlo: non è passata inosservata l’assenza di Orbán, il 17 febbraio, al Consiglio europeo informale convocato per appena un’ora per fare il punto sulla crisi a est.
Riavvolgere il nastro di una storia così sfilacciata non è semplice, ma i due appuntamenti elettorali di 2022 in Ungheria e 2023 in Polonia possono contribuire a indicare la strada futura: dopo un giro immenso che ha dimostrato tutta la travolgente potenza dell’eterogenesi dei fini, il Gruppo di Visegrád potrebbe davvero rispolverare la prospettiva inaugurata 31 anni fa.
Un doppio successo del fronte unitario delle opposizioni in Ungheria questa primavera e degli europeisti di Donald Tusk in Polonia nel 2023 innescherebbe un avvitamento carpiato per Varsavia e Budapest con importanti ripercussioni anche sull’agenda Ue. Anzitutto per allentare il continuo braccio di ferro sullo stato di diritto, con la Commissione che alza i toni ma ritarda l’iniziativa nonostante la Corte di Giustizia dell’Ue abbia pronunciato a metà febbraio la legittimità del meccanismo di condizionalità. E poi anche per rilanciare un protagonismo costruttivo dell’Europa centro-orientale: ungheresi e polacchi sono infatti attesi dalla presidenza di turno del Consiglio dell’Ue rispettivamente tra luglio e dicembre 2024 i primi − nei mesi delicati dopo le europee in cui andrà gestita la partita del rinnovo delle istituzioni Ue − e subito dopo, tra gennaio e luglio 2025 i secondi − quando si avvicineranno gli ultimi tornanti del Recovery e l’Unione avrà ormai chiaro il sentiero imboccato dalla ripresa. Se la scommessa filo-Ue sarà vincente, l’Europa potrebbe arrivare senza scossoni a quello che ad oggi sembra un temibile appuntamento con l’annus horribilis dei governi illiberali. Lo spirito di Visegrád, insomma, tornerebbe a soffiare.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
Il sorprendente eroismo della Lituania
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Cosa succede quando un Paese di poco meno di 3 milioni di abitanti − circa la popolazione di Napoli − decide di sfidare due potenze che si atteggiano a colossi neo-imperiali? La piccola Lituania affacciata sul Mar Baltico si è trovata nell’occhio del ciclone geopolitico tra la Russia, lo scomodo vicino con cui condivide 274 chilometri di frontiera, e la lontana Cina, oltre 6.500 chilometri più a est. Se il muro contro muro con la prima non è una novità, con la seconda ha non solo deteriorato le relazioni diplomatiche ma anche interrotto quelle commerciali.
È la contesa di Davide contro Golia, solo che in questa storia i giganti sono ben due, e si dà il caso siano pure i “rivali sistemici” di Nato e Ue. Gradualmente, lungo tutto l’arco dello scorso anno, la Lituania è diventata l’avamposto d’Europa contro la loro assertività. Tutto è cominciato con Mosca (e il suo “proxy” Aleksandr Lukashenko, l’autocrate della Bielorussia) e continuato con Pechino ma, come effetto immediato, ha avuto quello di inchiodare l’Unione europea alle sue responsabilità: vuole (oppure no) una politica estera unitaria del blocco? E, soprattutto, una strategia che sia interprete dei valori alla base del progetto Ue?
Dopo le elezioni dell’autunno 2020, il programma di Governo della coalizione di centrodestra capeggiata dalla premier Ingrida Šimonytė l’ha pure messo nero su bianco: i partiti si impegnano “a contrastare attivamente ogni violazione dei diritti umani e della democrazia e a difendere chi è in lotta per la libertà in ogni angolo del mondo, dalla Bielorussia a Taiwan”. Il filo rosso che unisce le due contese regionali è presto avvolto.
Tra Russia e Bielorussia
Cominciamo dalla prima. Il sollevamento dei bielorussi contro i brogli dell’estate 2020 e, quindi, le repressioni, le incarcerazioni illegittime e le sentenze politicizzate dell’establishment di Minsk lasciano tutt’altro che indifferenti la Lituania e gli altri Paesi della regione. Da Tallinn in giù, i baltici vi rivedono la loro stessa lotta per la libertà combattuta trent’anni fa, quando riottennero l’indipendenza al termine dell’occupazione sovietica iniziata durante la Seconda Guerra mondiale. Per questo la Lituania non solo ha da subito dato asilo agli oppositori di Lukashenko, ma è anche diventata la sede del Governo in esilio scelto dalle urne e dalle piazze e guidato da Sviatlana Tsikhanouskaya.
Insomma, la Resistenza bielorussa ha preso casa a Vilnius, mentre i lituani si sono dimostrati i più risoluti nel rifiutare una normalizzazione delle relazioni “con l’aggressore di Mosca”, imputando oltretutto al monopolista di Stato Gazprom il mancato aumento delle forniture di gas al continente che contribuisce a far schizzare i prezzi dell’energia alle stelle. Anzi, sperano di poter rivendicare per sé la prossima Segreteria Generale della Nato, per cui avrebbero la forte quanto divisiva candidatura dell’ex Presidente della Repubblica Dalia Grybauskaitė.
E fin qui è il racconto di un insolito quanto deciso protagonismo regionale del piccolo Stato baltico, oltretutto di fronte alle proteste nella vicinissima Bielorussia e a una Russia che è ineluttabile e ingombrante protagonista di ogni discussione nello spazio post-sovietico. Se non fosse che l’escalation è stata seguita da un braccio di ferro ancora più serrato, che la Lituania ha ingaggiato con la Cina.
Le tensioni con la Cina
Anche in questo caso all’origine c’è una scelta di campo: stare (più o meno) con Taiwan, l’isola che per Pechino è un territorio indipendentista. Chi la riconosce viola la “One China Policy”, è l’affondo del Dragone. Non che si tratti di una fronda affollata: in avvio di 2022, i Paesi che al mondo riconoscono la Repubblica di Cina con capitale Taipei sono appena 13; in Europa c’è solo la Santa Sede, mentre negli ultimi anni il consenso si è andato assottigliando soprattutto nell’America centrale, con il passo indietro di Repubblica Dominicana, El Salvador e Nicaragua. La Lituania, per intenderci, non hai parlato di riconoscimento diplomatico di Taiwan (non lo fa nessuno fra gli Stati Ue), ma si è mossa con i fatti autorizzando l’apertura a Vilnius di un ufficio di rappresentanza: i locali al numero 16b di Jasinskio gatvė sono diventati così l’epicentro di uno scontro a muso duro con la Cina, che in estate, per tutta risposta, ha richiamato l’ambasciatore in Lituania e dichiarato persona non grata la titolare della sede della repubblica baltica a Pechino. È l’avvio di un domino che innescherà la contesa diplomatica più sottostimata del 2021, ma destinata a espandersi e avere effetti nel nuovo anno.
“Un topo, o forse giusto una mosca, sotto la zampa di un elefante intenzionato a combattere”: il Global Times, quotidiano del Partito comunista cinese, non ha usato mezzi termini per descrivere l’iniziativa baltica e l’intensità della reazione del Dragone. I dirigenti cinesi mettono quindi pressione sul corpo diplomatico lituano rimasto nel Paese, ne vogliono riesaminare le carte d’identità speciali, riducono il rango della sede; un accerchiamento cui Vilnius risponde, poco prima di Natale, trasferendo tutte le operazioni da remoto. Nel frattempo era intervenuta la tagliola commerciale, con un embargo in piena regola e la cancellazione della repubblica baltica dai registri doganali della Cina: stop, in buona sostanza, ai traffici in entrata e in uscita. La ritorsione non si fa sentire subito; Pechino, del resto, è solo il 22esimo mercato per l’export lituano con appena l’1% del mercato, e valori non dissimili anche per l’import.
E l’Unione europea?
Nei giorni di maggiore tensione, la questione aleggia nei corridoi del vertice dei leader del Consiglio europeo, senza finire tuttavia mai al centro della discussione. Qualcosa potrebbe cambiare con l’inizio del 2022. Un dato da tenere d’occhio, come spesso accade quando sono in ballo le catene del valore in Europa, è la postura della Germania, che in questo caso è anche il primo partner della Cina. L’avvertimento della Confindustria di Berlino è semplice: “Le misure adottate contro la Lituania sono di fatto un boicottaggio commerciale che ha un impatto sull’intera Ue”. E sulla componentistica tedesca che, con il colosso dell’auto Continental, ha negli ultimi anni delocalizzato fasi della produzione proprio nel Baltico: una crisi da aggiungere alla strozzatura delle forniture globali di cui il settore non ha proprio bisogno.
Non che Bruxelles sia rimasta con le mani in mano: a metà dicembre la Commissione aveva infatti presentato la proposta legislativa di istituzione di un nuovo meccanismo di rappresaglia contro la coercizione economica, con cui dotare l’Unione di nuovi strumenti sanzionatori in risposta alle restrizioni agli scambi per fini politici. Un’operazione interessante, perché l’esecutivo Ue ha sfruttato la leva del contrasto strategico per ampliare il catalogo delle ipotesi in cui il Consiglio può decidere a maggioranza (come in materia commerciale) e senza seguire la gravosa unanimità propria invece delle deliberazioni di politica estera.
Da Vilnius, insomma, arriva anche la spinta per una più matura Unione geopolitica. L’unico modo per dialogare da pari con Pechino è un format 27+1, ha ribadito di recente il Ministro degli Esteri Gabrielius Landsbergis. Già a maggio dello scorso anno, infatti, la Repubblica baltica aveva abbandonato il Forum 17+1, la piattaforma creata dai cinesi per sviluppare la cooperazione con i Paesi dell’Europa centro-orientale e dei Balcani: un altro sentiero per gli investimenti della Nuova Via della Seta, che ha messo occhi e mani sui progetti infrastrutturali dell’ampia area. I lituani hanno provato a far saltare il tavolo, esprimendo la necessità di un approccio coordinato europeo all’interventismo cinese. Anche perché, se Vilnius continua a sfidare a viso aperto Mosca e Pechino, dalla sua dice di fare affidamento sulla carta di una comunità transatlantica pronta a non lasciarla sola. Ma forse crede nell’unità di intenti del summit delle democrazie persino più del presidente Joe Biden.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
Paesi Bassi, Rutte al suo quarto mandato, da falco a colomba
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In Europa i falchi non volano più (o quasi). C’è un inedito clima nel continente dopo che questa settimana il premier olandese Mark Rutte si è presentato in Parlamento per illustrare il programma di Governo messo a punto al termine di nove mesi di trattative di coalizione fatte di alti e bassi, stop e accelerazioni. Gli alleati, come avevamo raccontato su eastwest, sono gli stessi dello scorso esecutivo (liberali conservatori di Vvd e liberali progressisti di D66, insieme alle due formazioni minori di cristiano-democratici, Cda e Cu), ma la discontinuità rispetto a un passato fatto di austerità non è mai stata così marcata. E, in qualche modo, c’entra l’avvento della coalizione Semaforo in Germania.
Insomma, il quarto esecutivo Rutte diventa parecchio più progressista sulla spesa pubblica e rompe con la precedente etichetta di capofila dei frugali sul dossier forse più simbolico per misurare la temperatura del conflitto fra Nord e Sud Europa sui conti dello Stato: la riforma del Patto di stabilità e crescita, la disciplina di bilancio Ue che adesso non è più vista come un tabù da parte de L’Aia.
Il cambio di rotta degli olandesi è anzitutto una questione di politica interna: nel programma, largamente influenzato da D66 (arrivato secondo nelle urne, ma con una netta crescita nei consensi), per la prima volta si prevedono imponenti investimenti statali che rompono con la tradizione dell’austerità: più stanziamenti per scuola, difesa, edilizia sociale, clima vogliono anche dire che nei prossimi anni i Paesi Bassi supereranno il tetto – previsto nel Patto – del 60% del rapporto debito/Pil, calcola il Financial Times.
Di colpo, insomma, gli olandesi si trovano non più spettatori, ma parte attiva dello sforzo collettivo europeo (guidato da Italia, Francia e Spagna) per modernizzare la disciplina Ue sui conti pubblici. E in fondo finiscono persino a serrare i ranghi di una comunità di falchi convertiti, tra cui pure i tecnici del Mes, il Meccanismo europeo di stabilità, che nelle scorse settimane hanno invocato un superamento della regola del 60% visto che il debito pubblico nella zona euro durante la pandemia si è attestato attorno alla soglia record del 100%.
È proprio sull’agenda europea che si potrà misura l’impatto del nuovo corso olandese: nel 2022 le istituzioni Ue sono chiamate a rivedere la governance economica dell’Unione, compreso il Patto, in modo da arrivare al 1° gennaio 2023 – quando la disciplina di bilancio tornerà operativa dopo quasi tre anni di sospensione causa pandemia – già con regole modificate. Sul punto, il programma del nuovo esecutivo è morbido, anche se non troppo dettagliato: sì alla modernizzazione delle regole fiscali, purché serva alla sostenibilità di bilancio e alla convergenza economica. Insomma, il mantra adottato dal commissario europeo agli Affari economici in questi mesi (“riduzione del debito e investimenti per la crescita”) potrebbe adesso radicarsi pure nei Paesi Bassi.
“Siamo la quinta economia del continente, abbiamo la responsabilità di un ruolo più propositivo di quello che abbiamo avuto negli ultimi tempi”, commenta da L’Aia un portavoce di D66. E siccome la politica è fatta anche dalle persone, ai progressisti andrà con buone probabilità il Ministero delle Finanze, chiudendo così la gestione del super-rigorista Wopke Hoekstra, negli ultimi quattro anni bestia nera per i Paesi ad alto debito del Sud Europa. Tra le altre priorità della politica europea del Governo, pure una riscoperta del ruolo di Paese fondatore dell’Ue attraverso l’avanzamento dell’integrazione europea, in particolare con l’addio all’unanimità in materia di politica estera, ma anche maggiore attenzione ai temi dei diritti fondamentali e delle violazioni dello stato di diritto.
L’Aia, però, non è da sola nel nuovo orizzonte. La rottura con il passato arriva subito dopo l’uscita di scena di Angela Merkel, con Rutte diventato – insieme alla sua nemesi ungherese Viktor Orbán (che è però attesa da complicate elezioni in primavera) il leader più longevo d’Europa. E in effetti, potrebbe esserci anche lo zampino ideale del nuovo corso a Berlino dietro il cambio di passo (Rutte è stato tra i primi leader Ue che il neo-cancelliere Olaf Scholz ha sentito al telefono dopo l’insediamento). D66 non ne fa mistero: “Con questo accordo, il Governo olandese sarà ampiamente allineato alla coalizione Semaforo in Germania”. Pure fra i tedeschi, in effetti, c’è chi ha allentato la precedente linea del rigore a tutti i costi. Christian Lindner, il leader dei liberali che nel nuovo esecutivo presidierà le Finanze, nelle prime uscite s’è parzialmente lasciato alle spalle la vecchia linea rigorista, sposando invece la formulazione contenuta nell’accordo di coalizione con socialdemocratici e verdi, che parla di “garantire la crescita, la sostenibilità del debito e investimenti sostenibili ed ecologici”.
L’Ue vuole maggiori tutele per i rider di Uber e Deliveroo
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“Un passo importante verso un’economia digitale più sociale”. L’annuncio di nuove regole per i lavoratori delle piattaforme digitali in Europa arriva nei giorni più caldi per Uber nella capitale del Belgio e delle istituzioni Ue. Da fine novembre, la popolare app di taxi si è “spenta” nella regione di Bruxelles dopo una pronuncia della Corte d’Appello in applicazione di un vecchio regolamento sul servizio di noleggio con conducente. Eppure, mentre il Governo regionale di Bruxelles riflette sulle modalità per reintegrare parte dei 2mila autisti rimasti senza lavoro e per mettere mano a una complessiva riforma del servizio taxi, l’assist sulla necessità di prevedere tutele nuove e più incisive arriva dal cuore del quartiere europeo.
A palazzo Berlaymont, sede della Commissione europea, questa settimana è stato svelato il contenuto di una proposta di direttiva per regolare il fenomeno della “gig-economy” – dai driver di Uber ai rider di Deliveroo, Just Eat e Glovo – e per prevedere nuove norme per quei lavoratori delle piattaforme digitali che sono qualificati come autonomi ma sono invece di fatto dei dipendenti.
Secondo le stime rese note dalla Commissione, sono 28 milioni gli europei che lavorano attraverso app; un numero destinato a crescere fino ad almeno 43 milioni nei prossimi quattro anni. Tra questi, più di 5 milioni sarebbero autonomi fittizi. La proposta di direttiva presentata ieri dall’esecutivo Ue per la prima volta mette nero su bianco una presunzione che ribalta l’onere della prova a carico delle piattaforme: se la multinazionale dell’online soddisfa almeno due dei cinque criteri individuati da Bruxelles (si va dalla definizione del livello di retribuzione e dell’orario di lavoro all’abbigliamento e alla possibilità di lavorare per clienti terzi), questa – se non sarà in grado di provare il contrario – sarà considerata datore di lavoro e dovrà regolarizzare i rider come dipendenti. Con tutti i diritti che ne derivano, come le ferie retribuite e la protezione sugli infortuni sul lavoro, ma anche sussidi di disoccupazione e diritto ai contributi pensionistici.
Sempre secondo i calcoli dell’esecutivo Ue contenuti nella valutazione d’impatto della misura, tra 1,72 e 4,1 milioni di lavoratori della “gig-economy” potrebbero concretamente beneficiare delle nuove regole, anche se il guadagno netto medio annuo sulla base di queste stime si attesterebbe ad appena 121 euro nelle tasche di ciascun lavoratore (alcuni dei quali prendono già più del salario minimo). Ad avere maggiori introiti, una volta che tutti gli autonomi fittizi della gig economy saranno correttamente classificati come subordinati, potrebbero invece essere le casse degli Stati, che potrebbero ricevere fino a 4 miliardi di euro all’anno di contributi in più.
“Il progresso tecnologico deve essere equo e inclusivo – ha commentato il Commissario europeo al Lavoro Nicolas Schmit -. Ecco perché la nostra proposta riguarda anche la trasparenza e la sorveglianza degli algoritmi delle piattaforme”. Critica invece BusinessEurope, la rete europea delle Confindustrie nazionali, per cui l’iniziativa “non riflette la realtà, perché molti lavoratori scelgono di essere autonomi. La Commissione ha preferito far passare un messaggio politico anziché proporre una soluzione equilibrata per lavoratori, piattaforme e utenti”.
La proposta di direttiva dovrà adesso essere discussa da Parlamento europeo e Governi e, una volta adottata, ci sarà un periodo di due anni prima dell’entrata in vigore delle nuove norme. Per questa ragione c’è già chi – come ad esempio i sindacati in Italia, dove si registra anche l’apertura del Ministro del Lavoro Andrea Orlando -, approfittando della pressione politica sul tema sta chiedendo di anticipare i tempi e mettere mano a un intervento legislativo ad hoc, nelle more della discussione dell’iniziativa Ue.
Nello stesso pacchetto sul lavoro del futuro, l’esecutivo ha anche avviato una consultazione, aperta fino a metà febbraio, su un progetto di linee guida per consentire ai lavoratori autonomi di accedere alla contrattazione collettiva, superando gli ostacoli posti dalle regole Ue sulla concorrenza come il divieto di cartello.
La “Fortezza Europa” si barrica a est: ok di Bruxelles alla stretta su domande d’asilo e rimpatri
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Di fronte al dramma umanitario in atto alla frontiera con la Bielorussia, l’Unione europea decide, in buona sostanza, di voltarsi dall’altra parte. E di cedere al pressing di Polonia, Lituania e Lettonia, i tre Paesi al confine che da mesi denunciano l’azione destabilizzatrice del regime di Aleksandr Lukashenko, impegnato ad agevolare il transito e spingere migliaia di migranti verso la frontiera con l’Ue.
Questa settimana la Commissione europea ha infatti annunciato che per i prossimi sei mesi Varsavia, Vilnius e Riga potranno sospendere alcune delle regole in materia di asilo e applicare procedure semplificate per i rimpatri. Si tratta di “una serie di misure temporanee per affrontare la situazione di emergenza”, hanno spiegato da Bruxelles. La base giuridica è la stessa (l’articolo 78.3 del Trattato sul funzionamento dell’Ue) invocata nel 2015 per avviare i ricollocamenti dei richiedenti asilo e alleviare la pressione su Italia e Grecia (e anche Ungheria, se solo avesse accettato). Le similitudini, però, finiscono qui, visto che stavolta non c’è l’ombra di solidarietà e redistribuzioni, ma solo il pugno di ferro su domande d’asilo e rimpatri e l’applicazione delle procedure di frontiera.
Nel dettaglio, si allungano i tempi per la registrazione delle domande d’asilo (a disposizione quattro settimane, anziché l’attuale intervallo di 3-10 giorni) e, nell’attesa, si potranno trattenere i migranti in appositi centri alla frontiera fino a un massimo di 16 settimane (salvo che in casi particolari per richiedenti con problemi di salute). Secondo le organizzazioni per i diritti umani, si tratta di una detenzione di fatto: così facendo “si mette la politica al di sopra delle persone”, ha commentato l’Ong Oxfam, mentre per Human Rights Watch “una disposizione di emergenza usata sei anni fa per far sì che i Paesi Ue condividessero equamente le responsabilità per i richiedenti asilo, nel 2021 è usata per giustificare la detenzione, affrettare l’esame delle domande e rimandarli indietro il prima possibile”.
Eppure, la verità è che “i numeri non sono alti”, ha ammesso la commissaria agli Affari Interni Ylva Johansson, ricordando che “8mila migranti hanno superato la frontiera bielorussa” e “si trovano in Polonia, Lituania e Lettonia, mentre altri 10mila hanno raggiunto la Germania”. Gli attraversamenti nel Mediterraneo centrale da inizio anno sono stati oltre 55mila, e quelli nella rotta balcanica 48.500.
La proposta andrà adesso approvata dai Governi dei Ventisette riuniti nel Consiglio, ma non si prevedono sorprese: la crisi con la Bielorussia ha messo infatti in luce come il contagio geografico (e di agenda politica) sia ormai avvenuto.
L’approccio rispetto agli sbarchi nel Mediterraneo ha fatto da apripista, ma il linguaggio e l’orizzonte non cambiano; anzi: la “Fortezza Europa” si ripropone anche a est. E pure quando si trova davanti migranti strumentalizzati come parte di un attacco ibrido scagliato dall’autocrazia bielorussa, la risposta di Bruxelles è una sola: più rimpatri. La stessa, a dirla tutta, contenuta nel Nuovo Patto Ue sulla migrazione e l’asilo, che infatti il vicepresidente dell’esecutivo Margaritis Schinas vuole adesso rilanciare: “Non ci sarà mai un momento migliore di questo per raggiungere un accordo. L’opinione pubblica ne vede i benefici”.
La Commissione non intende autorizzare respingimenti in conflitto con il diritto internazionale, hanno ripetuto dal podio Johansson e Schinas, ma al tempo stesso non condanna le pratiche della guardia di frontiera polacca e i provvedimenti adottati dai Paesi della regione. Gli stessi che criminalizzano anche la solidarietà: “Chi porta acqua e coperte nella zona rossa rischia la galera”, raccontano gli europarlamentari che si sono recati in missione al confine nelle ultime settimane. Confine a cui non possono accedere né gli organi di stampa né gli operatori delle Ong; e dove – lì sì, non nei documenti interni di Bruxelles – viene cancellato il Natale dell’Europa. Lì, al freddo e al gelo.
Sassoli-Metsola: la presidenza del Parlamento europeo è una poltrona per due
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Il Parlamento europeo va alla battaglia per il rinnovo della presidenza, ma David Sassoli non ha nessuna intenzione di passare la mano. Lo scontro tra i vari gruppi dell’Aula di Strasburgo entra nel vivo dopo che questa settimana gli eurodeputati del Ppe, la principale forza di centrodestra, hanno scelto nel corso di primarie interne con una netta maggioranza la maltese Roberta Metsola come candidata alla carica più alta dell’emiciclo. L’attuale numero due di Sassoli come vicepresidente vicaria del Parlamento è in corsa per quando, a metà gennaio, arrivato il giro di boa della metà del mandato, l’Eurocamera sarà chiamata a rinnovare l’ufficio di presidenza. A cominciare dalla poltrona più alta, quella che dal luglio 2019 è occupata dall’italiano Sassoli, in quota socialdemocratici dell’S&D. Si apre così una lunga, imprevista e imprevedibile campagna elettorale in cui alla fine le altre forze, soprattutto verdi e liberali, faranno pesare i propri consensi.
Secondo gli accordi di legislatura sottoscritti due anni fa dai principali gruppi parlamentari (Ppe, S&D e centristi-liberali di Renew Europe), infatti, dopo due anni e mezzo di presidenza socialdemocratica, la guida del Parlamento deve passare a un esponente popolare. Non uno qualsiasi, ribattono però dal campo del centrosinistra: l’intesa prevedeva infatti un cambio in corso fra Sassoli e il capogruppo del Ppe Manfred Weber, il bavarese sfortunato aspirante alla presidenza della Commissione, cui i capi di Stato e di governo preferirono Ursula von der Leyen. Visto che Weber si è però tirato indietro – interessato com’è semmai a rivestire al contempo i panni di capogruppo e presidente del partito per rilanciare un Ppe in affanno -, l’S&D giudica il patto rotto.
Inoltre, c’è un dato molto politico di cui tenere conto. Sassoli lo ha affidato a un intervento davanti ai colleghi S&D, dicendo disponibile al bis: “Non possiamo permetterci di arrivare alle elezioni europee del 2024 con le istituzioni Ue a trazione conservatrice”. Del resto, secondo molte fonti S&D sarebbero stati i popolari (che hanno già la presidenza della Commissione con von der Leyen) a tradire l’intesa, eleggendo un anno fa a capo dell’Eurogruppo, la riunione informale dei ministri delle Finanze dell’eurozona, l’irlandese Paschal Donohoe anziché la socialista spagnola Nadia Calviño. Cedere senza combattere la guida del Parlamento “sarebbe un errore in un momento in cui in Europa siamo in vantaggio come famiglia politica”, ha aggiunto Sassoli. Nel frattempo, infatti, molto è cambiato nei rapporti di forza: non solo il Ppe ha visto l’addio della delegazione ungherese di Fidesz, il partito di Viktor Orbán (che guarda al consolidamento di una gruppo sovranista), ma ha anche perso la guida del governo tedesco, ultimo Paese a tradizione conservatrice nel club dei grandi.
Adesso punta su Metsola per risalire la china, anche perché il profilo della maltese sembra vincente sotto vari punti di vista. Porterebbe di nuovo una donna sullo scranno più alto di Strasburgo 20 anni dopo Nicole Fontaine, sarebbe la più giovane Presidente del Parlamento mai eletta e anche la prima proveniente da un piccolo Stato membro. E pure del Sud. In cerca di nuove direzioni politiche dopo la batosta rimediata in casa, poi, i popolari tedeschi punterebbero su Metsola nella speranza di conservare importanti presidenze di commissioni parlamentari.
Il nome della maltese – capace di pescare consensi trasversali – potrebbe dare del filo da torcere alla candidatura mediterranea di Sassoli: nel pallottoliere dell’Aula sposta poco, ma ad esempio il premier di Malta Robert Abela, laburista, ha già detto che sosterrà la corsa della connazionale. Decisivi nella conta sono però, a Strasburgo come a Berlino – dove hanno appena inaugurato il Governo di coalizione -, verdi e liberali. Questi ultimi, che con il recente ingresso di Carlo Calenda hanno toccato quota 100 membri, esprimono già, con il belga Charles Michel, la presidenza del Consiglio europeo, altra carica che si rinnova dopo due anni e mezzo, e devono stare attenti a tutelare gli equilibri con Ppe e S&D per non far crollare tutto l’assetto da manuale Cencelli in salsa Ue. Qualcuno fra loro non ha escluso il voto per Metsola, ma nessuno ha finora ufficializzato la posizione del gruppo Renew Europe, che attende paziente di capire come posizionarsi. Stanno (per ora) a guardare con candidature di bandiere la destra sovranista di Ecr e Id e l’ultrasinistra di The Left.
Il copione è in fin dei conti simile a quello del 2017: anche allora l’accordo di legislatura che prevedeva una ripartizione della presidenza fra Ppe e S&D saltò all’ultimo, con la candidatura di Gianni Pittella contro Antonio Tajani. Alla fine prevalse il forzista, grazie al passo indietro del liberale Guy Verhofstadt. Ma da allora il gruppo centrista ha cambiato pelle, e oggi è saldamente controllato da Emmanuel Macron. Che nelle prime settimane della presidenza francese del Consiglio Ue non vorrà certo farsi nemici in Parlamento.
Stop dall’Ue all’import dei prodotti del disboscamento e all’export di rifiuti
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Disco rosso da Bruxelles all’importazione dei prodotti frutto del disboscamento e all’export di rifiuti al di fuori dei Paesi Ocse. La polvere non si è ancora posata sulla timida intesa siglata da quasi 200 Paesi alla Cop26 di Glasgow, e la Commissione europea prova a cavalcare l’onda di un entusiasmo appannato per presentare tre nuove iniziative tematiche nel quadro del suo Green Deal, il maxi-piano per il clima con cui l’Ue vuole ridurre del 55% (rispetto ai valori del 1990) le emissioni di CO2 al 2030, tappa necessaria verso la neutralità climatica al 2050.
Al pacchetto di dodici iniziative legislative e non presentato a metà luglio, l’esecutivo Ue ha adesso aggiunto un nuovo set di norme per contrastare il disboscamento provocato dalle importazioni del blocco e nuove regole in materia di spedizioni di rifiuti all’interno dell’Ue e, in particolare modo, al suo esterno. In entrambi i casi, si tratta, a detta di Bruxelles, dei “tentativi legislativi più ambiziosi al mondo per affrontare questi problemi”.
Partiamo dal primo. Negli ultimi 30 anni, secondo le stime della Fao, il mondo ha perso 420 milioni di ettari di foreste, una superficie più vasta dell’Unione europea. Un dato allarmante, in particolare visto il ruolo dei polmoni verdi del pianeta nell’assorbimento del carbonio, tanto che a Glasgow i Paesi che ospitano l’85% delle foreste (compresi Brasile, Russia, Cina, Indonesia e Repubblica Democratica del Congo) si sono impegnati a porre fine alla deforestazione entro il decennio. “Il regolamento sul disboscamento risponde all’appello dei cittadini che chiedono di ridurre al minimo il contributo europeo a questo problema e promuovere consumi sostenibili”, ha spiegato il Commissario all’Ambiente Virginijus Sinkevičius, annunciando lo stop all’ingresso nel mercato interno Ue dei prodotti legati a pratiche di deforestazione.
Parliamo di beni alimentari e non solo che presenti quotidianamente sulle tavole e nelle case degli europei: dalla soia alla carne bovina, dal cacao al caffè, passando per cuoio e legname. Per adesso, la Commissione non prevede una data per l’entrata in vigore per il divieto, che dovrà essere negoziato dai due co-legislatori dell’Ue (Consiglio e Parlamento) durante trattative in cui certi prodotti potranno comparire come sparire dalla lista predisposta da Bruxelles (dove ad esempio per il momento non è citata la gomma).
Giro di vite anche sui rifiuti. Questa settimana l’esecutivo Ue ha presentato una nuova revisione del regolamento vigente dal 2006 in materia per introdurre norme più rigide per il contrasto dell’esportazione degli scarti fuori dal continente e, al tempo stesso, promuovere l’economia circolare. “Se ci aspettiamo dai nostri partner politiche climatiche più ambiziose, dovremmo smettere di essere noi stessi a esportare l’inquinamento”, ha aggiunto Sinkevičius.
Le spedizioni di rifiuti verso i Paesi non appartenenti all’Ocse saranno limitate e autorizzate soltanto se gli Stati non-Ue si dimostreranno, alla luce di una valutazione indipendente, in grado di gestirli in modo sostenibile. Anche i trasferimenti verso i Paesi più industrializzati e sviluppati potranno essere sospesi se generano gravi problemi ambientali o alla salute umana nei luoghi di destinazione.
La proposta ha pure una dimensione interna: i rifiuti potranno continuare a circolare fra gli Stati membri, ma “le nuove norme promuoveranno l’economia circolare”. Ciò avverrà attraverso un sistema più efficiente per la circolazione dei rifiuti considerati risorsa e l’incoraggiamento – in ottica non solo di inquinamento zero, ma anche di autonomia industriale del continente – dell’adozione di materiali riciclati nell’Ue, che hanno un’impronta di CO2 molto inferiore rispetto alle materie prime vergini. Pure in questo caso le tempistiche non saranno immediate. In particolare, per la disciplina che introduce limiti sull’export è previsto un periodo transitorio di tre anni, in modo da garantire ai gestori di rifiuti margini utili per adeguarsi al cambio normativo.
L’esecutivo europeo prevede di rafforzare la risposta ai reati ambientali: secondo i calcoli della Commissione, fino al 30% dei traffici di rifiuti potrebbe essere illegale, per un giro d’affari illecito pari a circa 9,5 miliardi di euro all’anno. Non solo inasprimento delle sanzioni amministrative per i responsabili: ad assistere gli Stati e a coadiuvare le indagini su scala transnazionale potrà intervenire l’Olaf, l’Ufficio europeo per la lotta anti-frode.
Ad accompagnare le due proposte di regolamento, anche un documento strategico sul suolo, il principale serbatoio terrestre di CO2. Alla luce del fatto che il 70% dei suoli Ue non versa in buone condizioni, la Commissione si propone di promuoverne l’uso sostenibile, aumentando il carbonio presente nei terreni agricoli, combattendo la desertificazione e ripristinando i terreni degradati.
Concessioni balneari: con 15 anni di ritardo l’Italia si adeguerà alla direttiva Bolkestein
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L’alba della Bolkestein per gli stabilimenti balneari italiani comincerà nel 2024. Parecchio in ritardo rispetto al calendario europeo che prevedeva questo passaggio nel 2009 – 15 anni in politica sono un’era geologica -, ma comunque (e finalmente) in tempo utile per mettere fine a un’anomalia tutta italiana nel panorama continentale: quella della mancata messa a gara delle concessioni pubbliche demaniali, come le spiagge. Alla volontà politica, però, s’è stavolta sostituita la certezza giuridica di una pronuncia dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato, che ha messo un punto fermo nella vicenda della protratta proroga (illegittima) delle licenze, dando torto al Governo gialloverde, che nel 2018 aveva esteso al 2033 le concessioni esistenti.
E dire che ci aveva provato pure Mario Draghi, il premier dalle convinte credenziali europeista, a inserire l’apertura delle procedure pubbliche nel ddl Concorrenza approvato la settimana scorsa dal Consiglio dei Ministri, ma senza successo vista la forte opposizione della Lega, che sul tema dà storicamente battaglia (con sponde importanti anche in altre forze politiche): il compromesso trovato dal Governo di larghe intese passa per una ricognizione dello stato dell’arte così da avere un quadro chiaro su tempi, canoni e redditività delle concessioni, alla luce del quale intervenire in tempi stretti.
Del resto, stiamo parlando di uno dei testi normativi più simbolici del diritto Ue, che nel nostro Paese, a dire il vero, è stato sempre usato come bussolotto della propaganda anti-Bruxelles: la direttiva 2006/123/CE relativa alla liberalizzazione dei servizi nel mercato interno, predisposta dall’allora commissario Ue Frits Bolkestein quando l’esecutivo comunitario era guidato da Romano Prodi. Gli Stati membri hanno avuto tempo fino al dicembre 2009 per trasporre le disposizioni della direttiva nel diritto nazionale: l’Italia lo ha fatto (in ritardo) con un decreto legislativo dell’anno successivo, rimasto però lettera morta. I vari Governi che si sono susseguiti nel tempo hanno proceduto secondo un sistema di rinnovo automatico e generalizzato delle licenze esistenti, senza mai davvero metter mano a una modifica organica delle regole del settore, invocata a gran voce da Bruxelles a difesa del principio delle gare aperte a tutti i potenziali concorrenti europei.
Questo nonostante la Corte di Giustizia Ue avesse già una volta bocciato – dichiarandola illegale nel 2016 – la normativa italiana sui balneari, al termine di una procedura di infrazione avviata dalla Commissione. Non è bastato. Poco meno di un anno fa, nel dicembre 2020, l’esecutivo Ue aveva fatto partire una seconda lettera di richiamo formale indirizzata a Roma, contestando non solo la mancata applicazione della precedente sentenza ma anche “la proroga fino al 2033 delle autorizzazioni vigenti, vietando agli enti locali di avviare o proseguire procedimenti pubblici di selezione”.
Adesso è arrivato l’assist del Consiglio di Stato, attesissimo da Palazzo Chigi per sbloccare il lavoro timidamente congelato nel recente provvedimento sulla concorrenza e per avviare un’organica riforma del settore. I giudici amministrativi si sono pronunciati annullando in appello due sentenze del Tar di Lecce – il sindaco del capoluogo salentino, Carlo Salvemini, ha fatto dello stop al regime delle proroghe una battaglia politica – e di quello di Catania, e con forza hanno anche dichiarato l’inutilità di un ricorso in via pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Ue per avere maggiori indicazioni sull’interpretazione del diritto europeo.
Tutto chiaro, per i magistrati di Palazzo Spada, che esprimendosi in adunanza plenaria hanno risolto i contrasti di giurisprudenza finora esistenti nella giustizia amministrativa: la disciplina italiana è illegittima, e pure in assenza di un nuovo intervento normativo; dal 2024 le concessioni non saranno più valide e ogni tentativo di introdurre nuove proroghe sarà da considerarsi privo di effetto “perché in contrasto con le norme dell’ordinamento dell’Unione europea”. Oltretutto, fanno notare i giudici, mettendo mano ai numeri, “il giro d’affari stimato del settore si aggira intorno ai 15 miliardi di euro all’anno, a fronte dei quali l’ammontare dei canoni di concessione supera di poco i 100 milioni”. Una gestione più efficiente e ispirata ai principi della concorrenza e del libero mercato, insomma, comporterebbe un maggiore introito per le casse pubbliche in una congiuntura di grandi investimenti per sostenere l’opera del Pnrr. Gli attuali concessionari potranno ovviamente prendere parte alle gare pubbliche che saranno indette per l’assegnazione delle licenze demaniali.
A Bruxelles, i riflettori dei tecnici della Commissione non si erano mai davvero spenti sulla vicenda. L’invito rivolto alle autorità italiane è di “attuare al più presto” quanto deciso dal Consiglio di Stato: un intervento “urgente per favorire una crescita e uno sviluppo sostenibile dell’intero settore turistico”.
L’atteso via libera dell’Ue a nucleare e gas per accompagnare la transizione verde
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A Bruxelles è ormai diventato un segreto di Pulcinella: energia nucleare e gas saranno ricompresi nella tassonomia Ue, il testo più atteso nel caldo autunno dell’Europa comunitaria. Dovrebbe arrivare già a novembre, in anticipo sulla scadenza prevista entro fine anno, e scongiurando anzi il rischio di un rinvio che sembrava possibile ancora qualche settimana fa. Dietro un’etichetta che su due piedi non dice molto di sé si cela l’atto delegato nel quale la Commissione europea metterà nero su bianco la classificazione delle fonti di energia più o meno verdi, ranking attraverso cui fornire agli investitori finanziari una definizione comune per mobilitare i capitale privati verso progetti sostenibili.
Il pressing a vario titolo dei Governi degli Stati membri è andato in porta, con la Presidente della Commissione Ursula von der Leyen e il suo numero due Frans Timmermans, lo zar ambientalista del Green Deal EU, che negli ultimi giorni hanno anticipato che per accompagnare la transizione ecologica dall’energia fossile alle rinnovabili non si potrà fare a meno di fonti non proprio green come il gas naturale e il nucleare. Purché il riconoscimento “green” (o quasi) di entrambi cammini di pari passo, così da disinnescare opposti veti.
Energia e nucleare
La partita dell’energia (e del contrasto al cambiamento climatico) va ben oltre le classiche fratture Ue nord/sud ed est/ovest. E rimescola anche gli schieramenti, che variano in base alla composizione del mix energetico nazionale che rientra nella piena sovranità dei singoli Stati: i nordici hanno quote più consistenti di rinnovabili, a est il carbone è ancora molto diffuso, nell’Europa occidentale si alternano gas e nucleare. Ecco che le pressioni dei Governi hanno degli identikit ben delineati.
Nelle ultime settimane la Francia non ha perso neppure un’occasione per ricordare il contributo dell’atomo al raggiungimento degli obiettivi del Green Deal (-55% di CO2 nel 2030, rispetto ai valori del 1990, fino ad arrivare al target emissioni nette zero nel 2050). Emmanuel Macron lo ha fatto pure arrivando a Roma per partecipare al summit del G20 all’Eur, la scorsa settimana: “Stiamo assistendo a una fase in cui, nel medio e lungo termine, l’energia fossile costerà sempre di più: è ciò che vogliamo, per contrastare i cambiamenti climatici”, ha detto con riferimento al crescente prezzo delle quote di CO2 sul mercato delle emissioni. “Ma le nostre aziende e i nostri cittadini devono essere accompagnati in questa transizione, o essa non si rivelerà sostenibile”. L’inquilino dell’Eliseo crede nell’atomo – settore in cui Parigi è leader in Europa – anche come arma elettorale, tanto che, in vista delle presidenziali di aprile, anticipare l’apertura di sei nuovi maxi-reattori.
La ritrovata passione per il nucleare non appassiona altri Governi, dall’Austria al Lussemburgo, ma Macron ha al suo fianco un ampio fronte che va dalla Finlandia alla Repubblica Ceca, dalla Romania alla Croazia e mette insieme tutti quei Paesi con centrali nucleari attive (sono 13, su 27 Stati membri).
La strada del compromesso è tuttavia in discesa. Del resto, il nucleare condivide il possibile destino verde (o quasi) con il gas. Stavolta sono Italia e Germania insieme nel fronte che preme per il riconoscimento nella tassonomia green della fonte fossile di minor impatto sull’ambiente. La crisi in atto ha dimostrato quanto non se ne possa ancora fare a meno in tempi brevi.
Il premier Mario Draghi lo ha ricordato ai suoi colleghi del Consiglio europeo, con un esercizio di realpolitik climatica: “Il punto di arrivo sono le rinnovabili, ma per molti Paesi è difficile rinunciare subito al gas”. Nonostante il cambio di Governo, a Berlino non si cambierà idea, soprattutto ora che potrebbe avvicinarsi l’apertura dei rubinetti di Nord Stream 2, il controverso gasdotto che dalla Russia arriva direttamente in Germania bypassando Ucraina e Polonia.
Cosa ha detto Timmermans
L’atto delegato sulla tassonomia dovrà ricevere l’ok anche del Parlamento, dove in tanti si aspettano l’opposizione della sinistra e dei verdi. Proprio il gruppo ambientalista, mai così numeroso in Aula e diffuso in Europa, si troverebbe davanti alla strana ironia di dover fare di nuovo i conti con l’avvento del nucleare, che tre decenni fa fu il grande tema che unì il fronte ecologista. Ci pensano i vertici della Commissione, però, a fare un bagno di realismo e a mandare segnali di fumo conciliatori alle capitali: “Ci servono più energie rinnovabili. Sono economicamente più convenienti, non inquinano e non vanno importate. Allo stesso tempo, però, abbiamo bisogno di una fonte stabile come il nucleare e, durante la transizione, anche del gas”, ha ammesso von der Leyen dopo il Consiglio europeo in cui si è dibattuto per ore della crisi dei prezzi dell’energia, che ha innescato una spirale inflazionistica più duratura del previsto.
Assist prontamente servito a Timmermans, che ha spazzato via ogni riserbo rispetto al lavoro in atto per assegnare il bollino verde anche a gas e nucleare. Non che il gran capo del Green Deal si sia convertito all’atomo. In un’intervista con La Stampa e altre testate europee ha ammesso che l’esecutivo Ue “sosterrà ogni Stato membro che deciderà di procedere con il nucleare; è un nostro compito previsto dai Trattati”, ma ciò non toglie le controindicazioni note a tutti che non la rendono una fonte propriamente verde: dalla produzione di scorie inquinanti al rischio incidenti. Il via libera riguardante il gas dovrebbe invece individuare precisi e contenuti tetti di emissione di CO2 per kilowattora.
Ma per Timmermans la strada da percorrere rimangono le rinnovabili, il cui costo potrebbe diminuire a fronte di aumenti tra le fonti fossili e il nucleare. Intanto, per la prima volta le fonti che producono energia pulita hanno fatto registrare un sorpasso sulle fossili (38% a 37%) nei consumi degli europei: è la fotografia, che fa ben sperare Bruxelles, contenuta nel rapporto “State of the Energy Union” pubblicato dalla Commissione.
Giustizia, la Polonia non vuole pagare l’ammenda Ue
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Altro che un milione al giorno. La Polonia “non pagherà un solo un euro a Bruxelles”, dice Varsavia all’indomani dell’ordinanza della Corte di Giustizia dell’Ue che ha comminato un’ammenda dal valore storico di un milione di euro al giorno.
La multa arrivata per non aver sospeso – nelle more del giudizio – il funzionamento della Camera disciplinare della Corte suprema, accusata di limitare, con l’influenza della politica, l’indipendenza della magistratura, decidendone sanzioni, promozioni e trasferimenti. Criticità chiara anzitutto agli stessi colleghi giudici. Giovedì 28 ottobre, infatti, durante l’assemblea generale a Vilnius, l’Encj, la rete europea dei Consigli della magistratura presieduta dall’italiano Filippo Donati, ha espulso con un voto segreto passato a larga maggioranza e senza opposizione, il Krs, il Csm polacco, che dall’organo comunitario era già sospeso dal 2018. Una “decisione dolorosa ma ineluttabile”, ha spiegato il vicepresidente del Csm italiano David Ermini, che ha partecipato alla riunione e si è unito al coro di chi ha denunciato “la progressiva ed evidente compromissione dei requisiti di indipendenza e autonomia della magistratura polacca e del suo organo rappresentativo”.
Per quanto spinoso, questo non è il solo fronte aperto tra Polonia e Ue. Il Ministro della Giustizia polacco Zbigniew Ziobro ha detto chiaramente che il Governo non verserà nelle casse della Commissione neppure l’altra penalità, inflitta il mese scorso per un valore di 500mila euro al giorno in seguito alla mancata chiusura della miniera di carbone di Turow. Con la Polonia intenzionata a non pagare le due ammende, Bruxelles potrà pur sempre detrarre le somme dovute dai finanziamenti che versa periodicamente a Varsavia, principale beneficiaria del bilancio Ue, spiegano fonti Ue. Pronta la risposta polacca: “Vorrà dire che ciò che perderemo lo toglieremo dal nostro contributo al budget comune”.
Insomma, nell’autunno caldo del Vecchio continente non passa giorno, nelle stanze del potere europeo, senza che il dossier Polonia non accenda la fiamma dello scontro con le istituzioni Ue. E il caos è presto servito. Non è bastata la settimana che ha visto prima il duello in Parlamento europeo tra la Presidente della Commissione Ursula von der Leyen e il premier di Varsavia Mateusz Morawiecki e poi il confronto a porte chiuse fra quest’ultimo e i suoi colleghi al vertice del 21-22 ottobre. Due appuntamenti seguiti dall’affondo a mezzo stampa di Morawiecki, che rispondendo a una domanda del Financial Times ha bollato come scintille di una “terza guerra mondiale” le richieste dell’Ue sul rispetto dello stato di diritto e lo stop alla riforma della giustizia in Polonia; e dalla replica a distanza del premier belga Alexander De Croo, in occasione all’apertura dell’anno accademico del Collegio d’Europa di Bruges: “Non puoi intascare tutti i soldi ma rifiutare i valori”.
A questo punto della storia, nel cuore dell’Europa è un tutti contro tutti. E il capolinea è sempre Lussemburgo, dove ha sede la Corte di Giustizia. Protagonista in prima linea nella battaglia sulla legalità nel blocco di Visegrád (e non solo), il Parlamento europeo ha confermato con i fatti, venerdì 29 ottobre, l’annuncio che era arrivato una settimana fa: porta la Commissione davanti ai giudici europei per non aver finora attivato il meccanismo di condizionalità che subordina l’erogazione dei fondi al rispetto delle norme a tutela dello stato di diritto. Si tratta di un ricorso in carenza in piena regola, con tutte le difficoltà del caso – fanno notare gli europarlamentari più esperti -, perché la Corte Ue ben potrebbe non ravvisare un effettivo obbligo della Commissione nell’attivazione dello schema. La posta in gioco è anzitutto politica, e questo tutti gli attori coinvolti lo sanno.
Per questa ragione, la Presidente della Commissione Ursula von der Leyen – che si è impegnata a non usare lo schema fino alla pronuncia sulla sua legittimità da parte della Corte Ue -, è tornata a parlare in maniera costruttiva di Recovery Plan polacco: un bottino, fra prestiti e sussidi, di 36 miliardi di euro. L’esecutivo Ue non ha ancora dato il via libera alla strategia di Varsavia ma von der Leyen si è detta pronta a sbloccare la procedura se le riforme necessarie verranno realizzate. Tra queste rientra anche lo smantellamento dell’organo disciplinare, su cui c’è adesso si registra l’apertura di Varsavia. “Ma ci vorranno comunque mesi”, ha fatto sapere Morawiecki, il quale vorrebbe prima passare all’incasso.
Energia, migranti e Polonia: al suo ultimo Consiglio europeo, Angela Merkel frena e media
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Dice Charles Michel che “un Consiglio europeo senza di lei è come Roma senza il Vaticano o Parigi senza la Tour Eiffel”. L’ultimo vertice di Angela Merkel dopo 16 anni alla guida della Germania è il numero 107 sui 214 che hanno avuto luogo da quando esiste l’istituzione dove siedono capi di Stato e di Governo dell’Ue – un’esoterica esatta metà del totale – e offre una buona sintesi del ruolo che in tantissimi, tra i suoi colleghi ma pure oppositori politici, le hanno sempre riconosciuto: quello di infaticabile mediatrice. E pazienza se qualche volta – anche su dossier pesanti come le violazioni dello stato di diritto – questo si sia tradotto in un gioco al rinvio.
Il dibattito sulla Polonia
È successo del resto anche il 21-22 ottobre a Bruxelles: sul tavolo dei leader temi particolarmente spinosi – dall’allarme caro-energia alla gestione della migrazione e delle frontiere esterne, passando per il punto sulla Polonia – su cui la discussione è andata avanti ben oltre il tempo previsto in agenda e bloccando in più di un’occasione la bozza di conclusioni predisposta dagli sherpa. A smorzare la tensione solo la foto ricordo poco prima di cena, giovedì, parte del pacchetto dell’”arrivederci Merkel”. A fare da sfondo al vertice la disputa in corso con Varsavia, che questa settimana ha visto Ursula von der Leyen duellare con il premier polacco Mateusz Morawiecki a Strasburgo ed è proseguita con la decisione del Parlamento di far causa alla Commissione per non aver ancora attivato il meccanismo di condizionalità che congela i pagamenti dal budget Ue (e per ora Bruxelles non intende farlo, in attesa del pronunciamento della Corte sulla legittimità dello schema, ha chiarito la Presidente dell’esecutivo).
Ma mentre alcuni premier hanno affrontato a muso duro il collega polacco (su tutti, l’olandese Mark Rutte, che ha invocato fermezza e detto no all’esborso dei pagamenti del Recovery Plan finché Varsavia non avrà corretto il tiro sull’indipendenza della magistratura), i più hanno tentato la carta della conciliazione. Facilitata, manco a dirlo, proprio dai buoni uffici di Merkel: “Un fiume di ricorsi davanti alla Corte di Giustizia non è la soluzione al problema del rispetto dello stato di diritto. Dobbiamo trovare un punto d’incontro”. Per la Cancelliera, quello in atto non sarebbe un problema isolato dei polacchi, “ma parte di un dibattito più ampio”, che riguarda quanto e in che termini gli Stati vogliono cedere porzioni della loro sovranità all’Europa “da affrontare nel quadro della Conferenza sul futuro dell’Europa”. E ottimista s’è detto pure Emmanuel Macron al termine della due giorni: c’è bisogno di “dialogo e rispetto reciproco”.
Il dibattito sull’energia
Se sul nodo Polonia il leit motiv era ricucire (nonostante gli incontri paralleli di Morawiecki con la paladina dell’ultradestra francese Marine Le Pen, andati di traverso a molti leader), la contrapposizione si è registrata subito dopo l’inizio del summit sui rincari dell’energia. All’Europa Building a forma di uovo di Bruxelles (a proposito, la Cancelliera ne ha ricevuto una miniatura in dono) se n’è parlato per oltre sei ore, al termine delle quali è arrivato l’ok a un documento congiunto sufficientemente vago da accontentare tutti e che rinvia di fatto il confronto al Consiglio europeo di dicembre. La discussione è aggiornata a martedì prossimo, a livello ministeriale, mentre la Commissione è chiamata a “esaminare il funzionamento del mercato del gas” e “valutare l’adozione di misure di medio e lungo termine per mettere un freno alla corsa dei prezzi dell’energia”: non vengono nominate, ma tra queste ci sono anche le centrali di acquisto e le scorte comuni a livello Ue, sull’esempio di quanto fatto con i vaccini, proposta sostenuta dal sud Europa – Italia, Francia, Spagna e Grecia in testa – e su cui si è acceso lo scontro con i Paesi del nord. L’opzione è ancora osteggiata dai frugali, spalleggiati da Berlino che ha schierato una gelida e poco risolutiva Merkel sul punto (la posizione – al netto di una maggiore problematizzazione del gasdotto Nord Stream 2 con l’avvento dei Verdi al Governo – non cambierà con la nuova coalizione “Semaforo”).
In buona sostanza, i nordici insistono sulla natura temporanea della crisi del gas e sui provvedimenti di breve termine e di natura essenzialmente nazionale che sono stati sintetizzati anche nel “toolbox” presentato dieci giorni fa dalla Commissione europea (dai voucher per le famiglie in difficolta alla riduzione delle aliquote fiscali, dagli aiuti di Stato alle imprese alle dilazioni temporanee dei pagamenti delle bollette). Nella comunicazione si menzionano anche le riserve comuni, ma unicamente su base volontaria: dovrebbero essere specificate nella proposta di riforma del mercato del gas che la Commissione presenterà a dicembre, in tempo utile per il prossimo summit. Ma la partita sull’energia si intreccia anche con il lavoro sulla “tassonomia”, la classificazione delle fonti energetiche verdi prevista inizialmente per fine anno ma che l’esecutivo ha adesso rinviato all’inizio del 2022; l’Italia, ma pure la Germania, premono perché il gas venga riconosciuto come energia di transizione, pressing analogo arriva da Francia, Finlandia e Repubblica Ceca, invece, a favore del nucleare.
Il dibattito sui flussi migratori
Anche la migrazione, tema clou del secondo giorno di lavori, è stata al centro di più di cinque ore di trattative fra i leader: pur in crescita, gli sbarchi nel Mediterraneo centrale hanno ceduto il passo nel dibattito a un più marcato focus a est e alle minacce della Bielorussia, che “usa” i migranti per mettere pressione ai confini orientali dell’Unione. Ma sulla possibilità di fermare i flussi con muri, barriere o filo spinato pagati con i fondi europei, la Presidente della Commissione Ursula von der Leyen è stata netta: “Non si farà”. D’accordo anche il premier italiano Mario Draghi: “Per una strana eterogenesi dei fini quello che doveva essere un paragrafo sul finanziamento dei muri non contiene questa possibilità, ma ha aperto uno spiraglio sulla discussione sul Patto Ue sull’asilo e la migrazione, ferma da un anno”. E sui movimenti secondari – gli spostamenti dei richiedenti asilo tra i vari Stati membri dell’Ue – l’Italia ottiene un’aggiunta nelle conclusioni del summit: da ridurre sì, ma “va garantito un giusto equilibrio tra responsabilità e solidarietà tra Stati membri”.
Se ne riparlerà. Ma stavolta senza Angela Merkel a facilitare o frenare – a seconda dei casi – il negoziato.
Il primo green bond europeo conferma la potenza di fuoco dell’Ue sui mercati
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Aspettando una natura autonomia strategica sui principali dossier internazionali, intanto l’Unione europea si conferma leader mondiale sui mercati finanziari. E lo fa dimostrando una volta di più che la chiave per finanziare la ripresa si trova (anche) nel debito pubblico congiunto, e pure verde. Questa settimana la Commissione ha lanciato, con l’emissione sindacata di un bond a 15 anni – scadenza febbraio 2037 – per un valore complessivo di 12 miliardi di euro, il suo primo titolo green a lungo termine. Un’operazione che si è rivelata anche la più imponente mai registrata finora nell’ambito delle obbligazioni sostenibili, superando pure il primato di 10 miliardi di sterline stabilito appena un mese fa dal Regno Unito. A Bruxelles non nascondono l’entusiasmo: non è la prima volta in cui l’Ue dimostra la potenza di fuoco del suo debito comune sui mercati; né sarà l’ultima, ha sottolineato il commissario al Bilancio Johannes Hahn.
L’emissione ha fatto registrare ordini record per oltre 135 miliardi, una domanda che ha superato di oltre 11 volte l’offerta: l’ampio successo consentirà all’Ue di risparmiare sugli interessi, collocando il titolo con un rendimento inferiore rispetto a quanto previsto in origine.
Ancora un avvio sprint per l’Ue che si presenta agli investitori con un nuovo prodotto, dopo che un anno fa la prima emissione di bond sociali a copertura di Sure – la cosiddetta cassintegrazione pandemica dell’Ue – aveva fatto registrare il più grande portafoglio di ordini di sempre, con 233 miliardi di sottoscrizioni, 13 volte superiori ai 17 miliardi complessivi dell’offerta.
Un exploit che fece titolare al New York Times “There’s a new gorilla in the bond market” e che Bruxelles vuole adesso trasformare in costante. A cominciare proprio dall’ambito sempre più in espansione del debito green (nei primi mesi del 2021 emesso in 49 Paesi e 29 valute).
Ue, riferimento globale per i green bond
Nei prossimi cinque anni la Commissione europea vuole diventare il principale protagonista del mercato globale dei titoli verdi, tanto per volumi quanto per capacità di orientare gli investimenti, e rivaleggiare così con i titoli del Tesoro americano, che costituiscono lo standard per il debito pubblico a basso rischio.
La Commissione conta di reperire sul mercato fino a 250 miliardi di euro entro il 2026 attraverso i green bond: serviranno per finanziare circa un terzo dei fondi del Recovery Plan post-pandemico dal valore di 800 miliardi e ripagare così gli investimenti per la transizione ecologica contenuti nei Piani di ripresa e resilienza (Pnrr) dei Paesi membri, di cui devono rappresentare obbligatoriamente almeno il 37%. I fondi così reperiti serviranno solo ed esclusivamente per finanziare i progetti verdi dei Governi in vari ambiti, dall’energia ai trasporti passando per le infrastrutture. Un obiettivo per cui Bruxelles si impegna come garante e su cui riferirà puntualmente.
“Vogliamo fare dell’Ue il maggiore emittente al mondo di bond verdi – ha spiegato il commissario Hahn – e avere un forte impatto sui mercati internazionali”: l’Ue intende infatti orientarli a partire dallo standard volontario per le obbligazioni sostenibili che ha presentato in estate; una proposta che è adesso oggetto di negoziato fra Parlamento europeo e Governi, ma che l’esecutivo Ue spera possa diventare presto anche un riferimento globale. E dare così un prezioso contributo alla costruzione, mattoncino dopo mattoncino, del perimetro dell’autonomia strategica europea.
React-EU: l’Italia fa l’en plein delle risorse del piano Ue
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Non c’è solo il Recovery Plan “principale”, di cui l’Italia è in assoluto la prima beneficiaria – fra sovvenzioni e prestiti agevolati – e rispetto al quale ha già ricevuto i 24,9 miliardi di pagamento anticipati. L’impianto di Next Generation EU, il maxi-piano europeo per la ripresa dal valore di oltre 800 miliardi di euro su cinque anni, prevede anche un pacchetto di minore entità economica ma di immediato impatto sulle casse pubbliche, in particolare delle aree maggiormente colpite dalla pandemia (e anche in questo caso l’Italia fa la parte del leone). Si tratta di React-EU, per così dire la “sorella minore” del Dispositivo per la ripresa e la resilienza da cui arrivano i fondi per i Pnrr degli Stati membri. React-EU stanzia 47,5 miliardi di euro tra 2021 e 2022 per la coesione territoriale in Europa.
Sanità e transizione ecologica
Con l’ultimo assegno dal valore di 1,2 miliardi “staccato” questa settimana dalla Commissione europea in direzione Roma, l’Italia ha fatto l’en plein, ricevendo nel giro di due mesi tutti gli 11,3 miliardi previsti nel 2021 dalla sua dettagliata strategia che era stata presentata ad aprile a Bruxelles dai tecnici del dicastero del Sud e della Coesione territoriale. Altri due miliardi arriveranno nei prossimi mesi, a completare la dotazione di 13,5 miliardi cui ha diritto il nostro Paese per interventi di vario genere, che vanno dal potenziamento del sistema sanitario e dell’istruzione al sostegno alle politiche attive del lavoro fino alla transizione ecologica.
In particolare, della tranche ricevuta nei giorni scorsi, 761 milioni sono destinati all’acquisto di 68 milioni di dosi di vaccini anti-Covid (una buona notizia mentre l’Ema, l’Agenzia europea del farmaco, dà l’ok alla terza dose per gli over 18), 374 milioni saranno impiegati per l’assunzione di nuovo personale della sanità e il pagamento delle ore di straordinario, e i restanti 108 per il rafforzamento del sistema amministrativo nazionale e regionale sempre in ambito sanitario.
L’ultima rata chiude in positivo (e in anticipo) il bilancio 2021 per le politiche di coesione in Italia per investimenti da fare subito (o per rimborsare iniziali stanziamenti anticipati dal Governo).
Le misure per il Mezzogiorno e a sostegno dell’occupazione
Il 64% del totale del React-EU italiano è destinato alle regioni del Mezzogiorno (Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna), che sono le principali interessate dalle misure a sostegno dell’occupazione.
I primi pagamenti – 1,6 miliardi per gli investimenti delle piccole e medie imprese nella transizione verde e digitale, 1,1 miliardi per istruzione superiore e sanità (tra cui taglio delle tasse universitarie e borse di studio per gli iscritti a medicina) e 1 miliardo per le città metropolitane – sono arrivati a Roma a inizio agosto. La quota più consistente è però quella ricevuta a metà settembre, con 4,7 miliardi destinati alle politiche attive per l’occupazione giovanile e femminile, per nuove assunzioni al sud e per potenziare i centri per l’impiego, mentre una quota va anche agli aiuti alimentari ai nuclei familiari in difficoltà.
“L’Ue ha confermato la qualità delle nostre scelte, dicendo sì a tutte le nostre proposte per l’uso dei fondi di React-EU. – ha commentato la Ministra per il Sud e la Coesione territoriale Mara Carfagna – Siamo stati veloci nel presentare la programmazione e questo ci ha permesso di ricevere velocemente i primi 11,3 miliardi per sanità, lavoro, scuola e ambiente”.
Paesi Bassi, verso un nuovo Governo Rutte (che è identico al precedente)
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Provaci ancora, Mark. Qualcosa si muove nei Paesi Bassi e tutto fa pensare che una riedizione del tetrapartito che ha finora governato a L’Aia sia adesso a portata di mano, nonostante i tanti distinguo collezionati negli ultimi tempi. Giovedì 30 settembre le quattro forze politiche che hanno sostenuto il Governo di Mark Rutte fino al voto dello scorso marzo hanno concordato di riprovare a sedersi attorno a un tavolo per superare lo stallo che va avanti da sei mesi.
Le elezioni legislative del 17 marzo scorso avevano restituito una fotografia variopinta del Parlamento, confermando la tenuta di Vvd, i liberali moderati di Rutte ancora primo partito, ma dall’altra facendo registrare la crescita nei consensi dei liberali progressisti di D66. Proprio la fazione guidata da Sigrid Kaag, arrivata seconda nel voto, ha fatto un passo di lato nelle scorse ore: dopo aver provato senza successo a riequilibrare la maggioranza a sinistra e a sbarrare il campo alle componenti più conservatrici, ha accettato di avviare un nuovo negoziato con i partner del precedente esecutivo. Oltre a Vvd, ci sono anche i cristiano-democratici della Cda e la piccola ChristenUnie (Cu), che pure aveva più volte assicurato di voler negare una nuova fiducia a Rutte, soprattutto dopo la mozione di censura approvata nei suoi confronti ad aprile.
“Stavolta sarà diverso”
L’obiettivo delle nuove grandi alleanze è evitare un nuovo ritorno alle urne che potrebbe rivelarsi tutt’altro che risolutivo (ne sa qualcosa la Bulgaria, che a novembre voterà per la terza volta in otto mesi non essendo riuscita, dopo l’exploit delle forze populisti, a mettere insieme una maggioranza). Anche perché a guadagnare consensi da un nuovo pantano politico sarebbero i partiti estremisti e populisti, mette in guardia la leader del centrosinistra, in un Paese in cui la minaccia “nera” rappresentata dagli xenofobi del Pvv di Geert Wilders è sempre dietro l’angolo. Per far ciò, Kaag ha tolto il veto al proseguimento di un’alleanza con la Cu, che da par suo avrebbe accettato di non inserire nell’accordo di coalizione il veto (oltretutto una chiara violazione delle prerogative parlamentari) rispetto a iniziative legislative su temi etici (come l’eutanasia, che nei Paesi Bassi è legale).
“Stavolta sarà diverso”, assicurano gli esponenti di tutte le forze politiche. Anche per Rutte – “Teflon Mark”, secondo il soprannome che si è guadagnato per la capacità di resistere alle alterne fortune politiche – l’esecutivo sarà caratterizzato da una nuova cultura politica e da un nuovo programma (“necessariamente più aperto e progressista”, fa eco Kaag).
La formula trovata per spezzare lo stallo passa anche per un (possibile) coinvolgimento dei partiti di sinistra, dai laburisti del PvdA ai verdi del GroenLinks, fino ai federalisti europei di Volt, su alcuni precisi temi, a cominciare dalle finanze pubbliche. Realtà da coinvolgere in prima battuta a titolo di consultazione ma – è il responso dell’esploratore incaricato dal re di trovare la quadra, Johan Remkes -, possibilmente anche dando loro la possibilità di indicare qualche esponente del prossimo Consiglio dei Ministri. Anche perché la maggioranza a quattro Vvd-D66-Cda-Cu ha, seppur di poco, la maggioranza alla Camera, ma non al Senato, dove è sotto di sei seggi.
Più influenza sull’agenda europea
Un Governo olandese nella pienezza dei suoi poteri avrà inevitabilmente una più corposa influenza sull’agenda politica europea. Con l’uscita di scena di Angela Merkel, Mark Rutte diventerà – insieme all’ungherese Viktor Orbán – il decano del Consiglio europeo, il vertice dei capi di Stato e di Governo dell’Unione, dove siedono dal 2010: un doppio “onore” per due figure che all’integrazione Ue danno non poco filo da torcere, uno capeggiando il fronte dei “frugali” insieme all’Austria, l’altro – che però dovrà vedersela in primavera con delle legislative per la prima volta dall’esito non scontato – con la sfida aperta a tutto campo su stato di diritto e libertà fondamentali lanciata al resto del blocco.
Sull’approfondimento dell’unione fiscale dell’Ue Rutte è stato più volte tranchant e lo stesso dicasi per i suoi Ministri delle Finanze, tutti appassionati iscritti alla scuola del rigore: la posizione di rifiuto rispetto alla messa a sistema permanente di alcune caratteristiche di Sure, la cassa integrazione Ue, o del Recovery Plan Next Generation EU: per L’Aia sono tutti provvedimenti una tantum e irripetibili. Un grande ritorno delle posizioni “frugali” che non aiuterà, anche sulla riforma delle regole del Patto di stabilità e crescita, la sintonia politica che si respira a Roma e Parigi e che può essere rilanciata con la nuova cancelleria Scholz a Berlino (al netto del peso che qui avranno i liberali dell’Fdp).
La fumata quasi bianca arriva in giorni di forti tensioni nei Paesi Bassi, dopo che le misure di sicurezza attorno a Rutte – di solito abituato a muoversi in bicicletta e senza nutrite scorte – sono state rafforzate per via di una serie di movimenti sospetti registrati attorno all’abitazione del premier, lasciando presagire un imminente attentato o un rapimento connessi al ritrovato attivismo dei cartelli del narcotraffico olandese di origine marocchina. Un consigliere comunale de L’Aia, fondatore di un micro-partito di ispirazione islamista, è stato arrestato, ma poi subito rilasciato, con l’accusa di lavorare a un piano per uccidere il capo del Governo.
La beffa dello spareggio: la Germania soffia all’Italia la guida dell’Esma
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Italia-Germania 0-1 per la guida dell’Esma, l’Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati, la Consob dell’Ue con sede a Parigi. Non è la prima volta che una procedura di voto irrituale a livello Ue affossa una candidatura italiana sulla carta fortissima. Era già capitato quattro anni fa, con un lancio della monetina che – pilatesca soluzione adottata per la prima e ultima volta nelle vellutate stanze del Consiglio dell’Ue – decretò l’assegnazione ad Amsterdam anziché a Milano della sede dell’Ema, l’Agenzia europea del farmaco divenuta in seguito protagonista di tutte le cronache con la pandemia.
Lo spareggio inedito tra Di Noia e Ross
La storia si è ripetuta questa settimana, sempre a Bruxelles, durante una riunione del Coreper, il Comitato dei rappresentanti permanenti dei Governi dei Ventisette. Nel segreto dell’urna, gli ambasciatori hanno infatti ribaltato l’indicazione iniziale, fornita come di consueto da un panel indipendente della stessa Esma sulla base di curriculum e competenze. La valutazione aveva messo al primo posto di una lista ristretta l’italiano Carmine Di Noia, commissario della Consob, e scelto invece la tedesca Verena Ross, per 10 anni direttrice generale dell’Esma, nome sponsorizzato con forza da Berlino.
Lo spareggio inedito fra Di Noia e Ross costituisce “un precedente atipico su cui riflettere”, fanno notare autorevoli fonti nelle stanze Ue; un allarme sollevato a più riprese tanto dalla rappresentanza permanente dell’Italia a Bruxelles quanto dal Ministro dell’Economia Daniele Franco, davanti ai suoi colleghi dell’Ecofin. Già, perché la selezione per la guida delle Authority dell’Unione europea è stata di solito piuttosto lineare e sottratta all’agone politico: la graduatoria elaborata secondo criteri di indipendenza si è finora sempre tradotta nella fumata bianca da parte dei rappresentanti dei Governi, poi solitamente validata dal Parlamento europeo, a cui spetta un eventuale potere di veto.
A favore del riequilibrio di genere
Proprio l’Assemblea di Strasburgo ha però negli ultimi mesi portato avanti con forza una campagna a favore della nomina di più donne nei posti chiave dell’architettura finanziaria dell’Unione europea: una battaglia che ha dimostrato la sua forza nell’estate 2020, quando gli eurodeputati per un voto bocciarono la candidatura di François-Louis Michaud alla direzione dell’Eba, l’Autorità bancaria europea. Ecco che, mentre continuava lo stallo sulla presidenza dell’Esma (il mandato del chairman precedente è scaduto il 31 marzo scorso), la Germania decide di far suo l’argomento a favore del riequilibrio di genere. Berlino chiede e ottiene – con la complicità della presidenza portoghese del Consiglio dell’Ue, che ha calendarizzato il ballottaggio poco prima della fine del mandato – un voto a scrutinio segreto tra Carmine Di Noia e Verena Ross.
Peccato, però, che nel frattempo la francese Natasha Cazenave e l’olandese Petra Hielkema erano state indicate per correggere lo squilibrio di genere a favore degli uomini rispettivamente alla direzione generale dell’Esma, proprio al posto di Ross, e alla presidenza dell’Eiopa, l’Autorità europea delle assicurazioni e delle pensioni aziendali e professionali. La parità, insomma, era già garantita, si notava a Roma: il monito tedesco sembrava più un pretesto per stoppare il forte profilo dell’italiano. Ross, da parte sua, è bene accreditata a Berlino, tanto che dietro l’operazione per averla alla testa dell’Esma c’è l’identikit di chi, dopo le elezioni federali del 26 settembre, potrebbe diventare il nuovo Cancelliere della Germania al termine di 16 anni di Governo Merkel, di cui nell’ultimo mandato è stato anche vice: il potente Ministro delle Finanze socialdemocratico Olaf Scholz, alla cui corte qualche Paese si sarebbe già voluto accreditare sostenendo la candidatura della tedesca.
La Brexit sullo sfondo
Ma non basta. Sullo sfondo della partita fra Italia e Germania si staglia pure l’eterna Brexit e il futuro dei rapporti con la City londinese, dossier a orologeria adesso sul tavolo dell’Esma. La candidata tedesca parla infatti (e pure bene) anche inglese. Ross, oltre a quello tedesco, ha il passaporto britannico e una consuetudine radicata al di là della Manica: prima di approdare all’Esma era stata nei ranghi della Bank of England e poi della Fsa, l’Autorità per i servizi finanziari di Sua Maestà. A ben vedere, insomma, un profilo in odor di incompatibilità che per altri ruoli di vertice nell’Ue sarebbe stato visto come troppo compromesso con gli “ex amici” del Regno Unito, soprattutto in un momento in cui le relazioni con Londra continuano a essere turbolente.
Pnrr, il titanico piano di ripresa dell’Italia
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“Il Pnrr dell’Italia ha l’ambizione necessaria per fare del Paese un motore per la crescita di tutta l’Ue”. Nel giorno in cui sono arrivati nelle casse del Ministero dell’Economia e delle Finanze i primi fondi del Dispositivo per la ripresa e la resilienza (il Recovery Plan a Ventisette), la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha ribadito quello che nei palazzi delle istituzioni di Bruxelles è diventato un motivo ricorrente: con l’Italia prima beneficiaria del piano (e protagonista del nuovo ciclo politico Ue iniziato con la pandemia), il successo dell’intera strategia dell’Unione spalmata sui prossimi cinque anni dipende in buona misura dall’effettiva realizzazione degli obiettivi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) tricolore.
Superata la corsa a ostacoli della serrata procedura prevista per la redazione del suo Pnrr, la presentazione a Bruxelles (30 aprile), la validazione da parte della Commissione (22 giugno) e la successiva approvazione del Consiglio (13 luglio), l’Italia ha potuto festeggiare poche ore prima di Ferragosto − quinto Paese fra i 16 sino a quel momento “promossi” − l’esborso degli iniziali 24,9 miliardi euro per avviare la ripartenza. E benché i numeri siano tutto sommato assimilabili a quelli di una manovra finanziaria nazionale, non si tratta che della tranche di pre-finanziamento destinata al nostro Paese, un’anticipazione pari al 13% del totale di 191,5 miliardi (68,9 in sussidi, 122,6 in prestiti agevolati) cui l’Italia ha diritto.
Pre-finanziamenti
Erogazioni che adesso sono state effettuate in un certo senso “sulla fiducia”, in seguito alla positiva valutazione delle priorità strategiche individuate dall’Italia, ma che a partire da fine anno dovranno fare i conti con la tecnica di rendicontazione propria del Recovery Plan; da dicembre, infatti, Bruxelles staccherà con cadenza semestrale le 10 rate effettive a valere sul bilancio del Dispositivo di ripresa e resilienza a condizione che vengano raggiunti gli obiettivi socio-economici concordati nel Pnrr: i famosi “milestones” e “target” − traguardi di natura intermedia e finale, rispettivamente − contenuti nel piano negoziato fra il Governo Draghi e i tecnici dell’esecutivo Ue. Sono gli indicatori, in buona sostanza, del rispetto di un fitto e dettagliato cronoprogramma che sarà indispensabile rispettare per non perdere accesso ai pagamenti a consuntivo in arrivo da Bruxelles. La fiammata sui 100 metri, testimoniata dallo sprint italiano nelle tappe iniziali del processo del Recovery, è fonte impareggiabile di ottimismo − verrebbe da dire in un momento in cui l’Italia dell’atletica è diventata simbolo della fiduciosa ripartenza del Paese −, ma non bisogna perdere di vista la staffetta a squadre e la maratona, specialmente quella su lunga percorrenza.
58 riforme e 132 investimenti aspettano al varco l’Italia entro il 31 dicembre 202658 riforme e 132 investimenti aspettano al varco l’Italia entro il 31 dicembre 2026 (possono essere monitorati sul sito Internet dedicato italiadomani.gov.it): l’obiettivo politico è mettere a segno gli interventi pattuiti con Bruxelles nei tempi previsti, ma anche spendere in fretta e bene. Per questo il regolamento europeo istitutivo del Dispositivo per la ripresa e la resilienza introduce espressamente una clausola di retroattività a copertura ex post di spese per la ripresa effettuate già nel 2020: poco più di un miliardo e mezzo dei 24,9 della tranche di pre-finanziamento sarà destinato a questo scopo.
Progetti e investimenti
Si aggiunge agli oltre 13 miliardi in investimenti da portare a termine entro l’ultimo trimestre dell’anno: se le spese così preventivate saranno rispettate, nel 2021 l’Italia assorbirà poco più del 60% dello stanziamento iniziale arrivato da Bruxelles, trattenendo le restanti risorse nelle finanze pubbliche, vincolate integralmente all’implementazione dei progetti del Pnrr. Nei prossimi mesi il Governo dovrà realizzare 105 progetti − supereranno quota 170 fra 2022 e 2023, gli anni più impegnativi nella messa a terra del Recovery Plan −; a fare da apripista nella spesa delle risorse provenienti dall’Ue sono iniziative già in corso d’opera, per cui i fondi europei vanno a sostituire finanziamenti nazionali.
Nel bottino ci sono, ad esempio, Transizione 4.0, il programma di incentivi fiscali in forma di credito d’imposta agli investimenti per le imprese (1,71 miliardi, la maggiore quota di spesa dell’anno in corso), il rifinanziamento del fondo Simest per gli aiuti alle aziende italiane sui mercati stranieri (1,2 miliardi) e del superbonus al 110% per la riqualificazione energetica degli edifici (460 milioni), così come i primi interventi sull’Alta velocità ferroviaria, per ora concentrati al nord, con i collegamenti Liguria-Alpi e Brescia-Verona (873 milioni), e sul Piano Asili − 650 milioni, uno degli investimenti chiave per incentivare l’occupazione femminile. Al via anche le assunzioni di oltre ottomila giovani giuristi nel quadro degli “Uffici del processo” istituiti nei tribunali italiani per l’evasione dell’arretrato giudiziario (402 milioni).
Fin qui, le spese con cui il Governo intende mettere in circolo i fondi Ue, ma il resto del 2021 − dopo il via libera prima della pausa al decreto legge sulla governance del Pnrr e sulle semplificazioni − sarà anche monopolizzato dal lavoro politico sugli obiettivi delle riforme che sbloccheranno la prima effettiva rata di dicembre (poco meno di 24 miliardi). I ritardi estivi sulla presentazione alle Camere della riforma fiscale e della legge annuale sulla concorrenza − mancata la scadenza interlocutoria del 31 luglio, sono slittate come piatti forti della riapertura del Parlamento − hanno acciaccato un po’ la partenza. Il vero banco di prova della seconda metà dell’anno, però, è l’adozione della riforma della giustizia (civile, penale e tributaria), nota dolente nei rapporti con Bruxelles, che a luglio ha ancora una volta dato a Roma la maglia nera per la durata dei processi.
React EU e transizione digitale
Ma non c’è solo il Pnrr, per quanto titanico. Tra fine luglio e inizio agosto, l’Italia è passata all’incasso anche dei fondi di un altro programma che si colloca sotto l’ampio ombrello del piano Ue per la ripresa e che è − per così dire − il fratello minore del Dispositivo per la ripresa e la resilienza. Si tratta di React-EU, lo schema che fra 2021 e 2022 stanzia 50,6 miliardi di risorse aggiuntive per la coesione territoriale delle regioni d’Europa più colpite dalla pandemia, andando a incrementare le dotazioni già esistenti per i programmi operativi nazionali dei fondi strutturali (dalla spesa per lo sviluppo regionale a quella sociale). Anche in questo caso, con 11,3 miliardi di euro solo nel 2021, l’Italia riceve la principale fetta di finanziamenti fra i Ventisette.
Tra gli assegni staccati in piena estate, 1,6 miliardi sono stati destinati a sostegno degli investimenti delle piccole e medie imprese nella transizione verde e digitale, 1,1 miliardi per il rafforzamento del sistema sanitario e di quello universitario (vi rientrano il finanziamento dei corsi di specializzazione per i medici, borse di studio per chi proviene da famiglie a medio e basso reddito e riduzione delle tasse universitarie) e 1 miliardo per le città metropolitane (per investimenti verdi, digitali e sociali); mentre altri 322 milioni sono dedicati al miglioramento della rete idrica e alla riduzione delle perdite nelle condotte del sud Italia.
La tavola Ue è imbandita, e con Germania e Francia alle prese, la prima con una delicata transizione politica al termine di 16 anni di cancellierato di Angela Merkel, e la seconda con delle presidenziali dense d’incognite per la riconferma di Emmanuel Macron all’Eliseo, mai come ora l’Italia s’è trovata nella cabina di regia dell’Ue e mai come ora ha la possibilità di guidare con l’esempio l’avvio della ripresa Ue, ponendo anche le basi − come si augura Mario Draghi − per rendere permanenti alcuni profili del Recovery Plan, come il debito comune. Un lavoro che comincia inevitabilmente dalla realizzazione dei primissimi progetti del Pnrr.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
Occupazione di giovani e donne in Italia: le nuove misure di sostegno dall’Ue
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Per una volta, l’occupazione giovanile in Italia fa notizia non per i numeri poco lusinghieri che vedono il nostro Paese fanalino di coda in Europa per tasso di chi, tra le nuove generazioni, non ha un lavoro (27,7%, secondo i dati Istat diffusi a inizio settembre), ma per gli investimenti sbloccati o che arrivano dall’Europa per sostenere la creazione di nuovi posti. Tra il 16 e il 17 settembre la Commissione europea ha dato prima il via libera a uno schema di aiuti di Stato di 1,24 miliardi di euro a beneficio delle imprese che assumono giovani under36 e poi “staccato” un nuovo assegno di 4,7 miliardi del fondo React-EU – il “fratello minore” del Recovery Plan sotto lo stesso ombrello di Next Generation EU – che stanzia poco più di 50 miliardi tra 2021 e 2022 a sostegno della coesione territoriale delle aree del blocco maggiormente colpite dalla pandemia.
Ma andiamo con ordine. L’Antitrust comunitario guidato dalla vicepresidente esecutiva della Commissione Margrethe Vestager ha approvato il regime di aiuti – adottato dal Governo e notificato a Bruxelles – che, con l’obiettivo di ridurre il costo del lavoro, consiste nell’esonero dal pagamento dei contributi previdenziali per le imprese che nel corso del 2021 assumono per la prima volta e a tempo indeterminato lavoratori al di sotto dei 36 anni, oppure ne trasformano i contratti da tempo determinato a indeterminato. “Sono soprattutto i giovani che incontrano difficoltà a trovare un lavoro con contratti a tempo indeterminato.
Questo regime adottata dall’Italia sosterrà l’occupazione e aiuterà le imprese a offrire loro posti di lavoro stabili”, ha commentato Vestager. L’esenzione si applicherà per un periodo massimo di 38 mesi (ma nelle regioni del Mezzogiorno potrà essere estesa fino a 48 mesi) e per un importo massimo annuo di 6mila euro a dipendente. Per poter beneficiare della misura di vantaggio, i datori di lavoro non devono però aver licenziato dipendenti nei sei mesi precedenti l’assunzione o la trasformazione del contratto né farlo nei nove mesi successivi. Il regime ha ricevuto luce verde nell’ambito del quadro temporaneo per le misure di aiuti di Stato, lo schema – in vigore fino al 31 dicembre – che garantisce flessibilità nell’applicazione delle regole della concorrenza con lo scopo di non far mancare sostegno pubblico all’economia mentre si avvia la ripresa e arrivano i primi finanziamenti di Next Generation EU.
E a proposito del maxi-schema di 800 miliardi per la ripresa nei ventisette Stati membri: continuano ad arrivare in Italia nuove tranche di finanziamenti di React-EU. Con 11,3 miliardi nel solo 2021, Roma riceve la principale fetta di risorse dello schema, che vanno a incrementare i programmi operativi nazionali dei fondi strutturali e di coesione. Dopo tre stanziamenti ad agosto a favore delle piccole e medie imprese nella transizione verde e digitale, per le città metropolitane e per il rafforzamento del sistema sanitario e di quello universitario, il nuovo pagamento di 4,7 miliardi è diretto ad aumentare le assunzioni di giovani e donne, ma anche a creare nuovi occasioni di formazione per i lavoratori e a sostenere servizi su misura per chi è in cerca di un impiego.
In particolare, l’Italia utilizzerà 2,7 miliardi per ridurre del 30% le imposte versate dai datori sui contributi previdenziali nelle piccole imprese di Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna; e rispettivamente 200 milioni e 37,5 milioni come sgravi contributivi per occupazione giovanile e femminile. Il “Fondo nuove competenze” – che finanzia le ore non lavorate e dedicate alla formazione dei lavoratori – riceverà un sussidio pari a 1 miliardo, mentre 500 milioni serviranno per rafforzare e modernizzare la rete dei servizi pubblici per l’impiego. La nuova dotazione di React-EU per l’Italia prevede anche 190 milioni per fornire aiuti alimentari a chi è maggiormente in difficoltà, in partnership con le migliaia di organizzazioni del terzo settore attive nel Paese. “React-EU – ha detto la commissaria alla Coesione Elisa Ferreira – aiuterà gli italiani delle regioni più colpite a riprendersi dalla crisi e porre le basi per economie moderne e rivolte al futuro”.
Lo stato dell’Unione secondo Ursula von der Leyen
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La accoglie in aula poco prima dell’inizio del suo discorso sullo stato dell’Unione (SOTEU, qui la versione integrale in italiano), ed è a lei che si rivolge alla fine dell’ora o poco più di intervento, il secondo che pronuncia da quando è Presidente della Commissione, di fronte al Parlamento europeo riunito in seduta plenaria.
Ursula von der Leyen sceglie Bebe Vio, la plurimedagliata campionessa paralimpica italiana, come simbolo “di una rinascita contro ogni aspettativa. Di un successo raggiunto grazie al talento, alla tenacia e a un’indefessa positività”. Per von der Leyen, la schermitrice è “l’immagine della sua generazione: una leader e una sostenitrice delle cause in cui crede, che è riuscita a raggiungere tutto questo rimanendo fedele alla sua convinzione secondo cui, se sembra impossibile, allora si può fare. Questo è lo spirito dei fondatori dell’Europa e questo è lo spirito della prossima generazione di europei”.
Tanta continuità ma poca ambizione
Immagini evocative a parte, il SOTEU è stato un compendio in cui la Presidente ha tutto sommato giocato sul sicuro: tanta continuità e poca ambizione, von der Leyen ha condensato quanto fatto nell’ultimo anno e i principali dossier dell’agenda dell’esecutivo Ue per i mesi a venire. Tutto come previsto, magari con qualche elemento di dettaglio in più.
Von der Leyen parte dai successi, innegabili, dell’ultimo anno: “Quando sono venuta qui dinanzi a voi dodici mesi fa non sapevo ancora quando o addirittura se avremmo potuto avere un vaccino efficace contro il virus. Oggi, invece, nonostante le tante voci critiche, l’Europa è leader a livello mondiale”. I numeri danno forza alle parole: più del 70% degli europei ha completato il ciclo vaccinale. Non solo: “Siamo stati gli unici a condividere la metà della nostra produzione di vaccini con il resto del mondo, consegnando oltre 700 milioni di dosi in più di 130 Paesi”. Alle 250 milioni di dosi promesse all’Africa, se ne aggiungeranno altre 200 milioni entro metà 2022, insieme all’impegno “a rafforzare la produzione di vaccini mRNA nel continente”. Ci siamo mossi “all’europea”, dice la leader della Commissione, e questo spiega anche la buona riuscita del certificato digitale Covid-19: ne sono stati rilasciati “oltre 400milioni, con 42 Paesi connessi in quattro diversi continenti. Mentre il resto del mondo parlava, l’Europa ha agito e ce l’ha fatta”.
Sguardo anche al rischio futuro di emergenze sanitarie planetarie: “Per garantire che mai più nessun virus trasformi un’epidemia locale in una pandemia globale”, la Commissione ha formalizzato l’istituzione di un’autorità ad hoc, HERA, con una dotazione iniziale di 50 miliardi di euro entro il 2027.
Più autonomia strategica
Il prossimo futuro, secondo von der Leyen, è fatto anche di una buona dose di autonomia strategica europea: un’agenda che condivide con Emmanuel Macron, con cui co-organizzerà – durante il semestre francese di presidenza del Consiglio Ue – un summit dedicato alla Difesa. Una maggiore integrazione militare in seno all’Ue – ostaggio tradizionale “non della mancanza di capacità, ma di volontà politica” – è stata protagonista del discorso di colei che, prima di assumere il ruolo di Presidente della Commissione, è stata a lungo Ministra della Difesa in Germania. Questo non vuol dire tagliare fuori la Nato (“Stiamo lavorando a una nuova dichiarazione congiunta da presentare entro la fine dell’anno”), ma avere la consapevolezza che “vi saranno missioni internazionali in cui l’Alleanza Atlantica o l’Onu non saranno presenti, ma a cui l’Ue dovrebbe comunque partecipare”, come ha messo in luce il drammatico ritiro degli Usa dall’Afghanistan. Tra le proposte più concrete per avanzare sulla strada delle sinergie, quella di valutare “l’esenzione dall’Iva per l’acquisto di materiale di difesa sviluppato e prodotto in Europa”.
Quando l’autonomia strategica incontra la transizione digitale, von der Leyen affronta di petto il nodo dei semiconduttori (“quei minuscoli chip che fanno funzionare tutto: dagli smartphone ai treni) e annuncia l’avvento di un Chips Act “per sviluppare un ecosistema europeo all’avanguardia”, a cominciare dalla produzione, in un frangente in cui – nonostante l’esplosione della domanda – la carenza di semiconduttori mette a repentaglio “la nostra sovranità tecnologica”.
Crescita, Green Deal, migranti
In ambito economico, la priorità della Commissione si conferma il lancio della consultazione pubblica sulla riforma del Patto di stabilità e crescita già nelle prossime settimane, “per raggiungere il consenso sulla via da seguire ben prima del 2023”, quando tornerà operativa la disciplina fiscale Ue dopo quasi due anni di sospensione delle regole.
Un calendario molto ambizioso, visto che otto Stati membri – a vario titolo annoverabili nel fronte dei frugali – hanno già puntato i piedi rispetto all’accelerazione sul dossier, preferendo “la qualità alla velocità” (parola del Cancelliere austriaco Sebastian Kurz). L’esecutivo Ue proporrà a breve le nuove risorse proprie necessarie per ripagare i debiti contratti sul mercato per finanziare il Recovery Plan “Next Generation EU”: un impegno che prova a rassicurare gli europarlamentari, nonostante i ritardi accumulati da Bruxelles rispetto alla tabella di marcia. Più fondi Ue anche alla transizione ecologica, con 4 miliardi aggiuntivi entro il 2027 e, mentre in varie capitali sale la tensione sul caro bollette, von der Leyen ribadisce che il Green Deal sarà accompagnato da un Fondo sociale per il clima “per far fronte alla povertà energetica”.
A proposito di iniziative sul tavolo, ma che hanno bisogno di raccogliere consenso politico, la Presidente rilancia il patto Ue sulla migrazione e l’asilo, perché “la migrazione non deve essere usata per dividerci”. Nell’espressione della solidarietà nei confronti dei Paesi dell’est nel mirino della Bielorussia dell’autocrate Aleksandr Lukashenko (che ha aperto i confini ai flussi migratori, usati come arma di ricatto nei confronti dell’Ue), nessuna parola sui muri eretti da Lituania, Polonia e Lettonia e il loro disallineamento rispetto ai valori Ue. Valori ribaditi, invece, ricordando i giornalisti uccisi ogni anno in Europa e “la libertà che dà voce a tutte le altre libertà, quella dei media”, così come – in risposta all’intervento di un eurodeputato – annunciando che la Commissione non approverà i Recovery Plan e anzi formalizzerà le procedure di infrazione contro gli Stati membri che violano lo stato di diritto “nelle prossime settimane”.
Del tutto assente la Brexit, nonostante Londra abbia appena comunicato il rinvio nell’istituzione dei controlli doganali e le tensioni continuino sul Protocollo sull’Irlanda del Nord. Ma c’è la Next Generation, a parole e con i fatti: il 2022 sarà l’Anno europeo dei giovani, mentre ai NEET – la categoria tra i 15 e i 29 anni che non è né occupata né inserita in un percorso di istruzione o di formazione – sarà dedicato “Alma”, un nuovo programma per permettere loro di fare un’esperienza di lavoro in un altro Stato europeo.
Transizione ecologica: l’Ue verso l’emissione di green bond
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La transizione ecologica è un affare anche per i mercati finanziari. Ne è convinta l’Unione europea, che vuole diventare il principale emittente al mondo di green bond. L’intenzione della Commissione, comunicata questa settimana alla ripresa delle attività a Bruxelles, è di emettere fino a 250 miliardi di euro in obbligazioni verdi entro la fine del 2026: non solo un ammontare di tutto rispetto, ma anche e soprattutto circa un terzo del totale degli 800 miliardi destinati a finanziare la ripresa dei Ventisette attraverso il Recovery Plan Next Generation EU.
I fondi così mobilitati sui mercati serviranno a finanziare solo ed esclusivamente i progetti verdi al centro dell’impianto del piano. A conferma del fatto che la transizione ecologica costituisce il principale pilastro del Next Generation EU, gli interventi green devono necessariamente rappresentare almeno il 37% della dotazione economica di ciascun Piano nazionale di ripresa e resilienza (Italia e Germania si attestano attorno al 40%, la Francia supera il 50): si va dall’efficientamento energico alle rinnovabili, passando per la modernizzazione dei trasporti e la “cura del ferro”, – come l’ha chiamata anche il Ministro italiano per le Infrastrutture e la mobilità sostenibili Enrico Giovannini – cioè il potenziamento delle reti ferroviarie (nel nostro Paese già avviata nei mesi scorsi a partire dai collegamenti Liguria-Alpi e Brescia-Verona).
Leggi l’intervista del Direttore Giuseppe Scognamiglio a Enrico Giovannini.
La prima emissione di green bond è già in calendario: l’esecutivo Ue comincerà a ottobre, tramite sindacazione. In preparazione alla prima operazione, il commissario al Bilancio Johannes Hahn ha presentato il quadro di riferimento per i titoli verdi, che è stato sottoposto a revisione esterna indipendente: con esso Bruxelles vuole fornire agli investitori la certezza che i fondi reperiti sui mercati saranno destinati ai progetti green degli Stati membri contenuti nei vari Pnrr, e che la Commissione riferirà sul loro impatto ambientale.
Verso una finanza sostenibile
Il quadro adottato da Bruxelles dovrà anche combattere la pratica del “greenwashing”: per questo, alla vigilia della pausa estiva, la Commissione aveva proposto la creazione del primo standard volontario per le obbligazioni sostenibili che vorranno avere il bollino Ue. In tal modo Bruxelles spera che il proprio standard diventi un riferimento globale. Ma l’iter legislativo fra Parlamento e Governo è solo all’inizio e non sarà ultimato in tempo utile dell’emissione dei primi green bond.
“Il nostro impegno pone la finanza sostenibile in prima linea nello sforzo di ripresa dell’Unione”, ha aggiunto Hahn, confermando quanto emerso già dalle classifiche di inizio anno: a fronte di una crescente domanda globale per obbligazioni sottese al finanziamento di progetti sostenibili (nella prima metà del 2021 emesse in 49 Paesi e 29 valute), il mercato migliore per tali operazioni è proprio l’Europa.
“A giudicare dalle nostre esperienze con precedenti emissioni di obbligazioni comuni, ci aspettiamo una forte domanda per i green bond del Recovery Plan”, ha annunciato il commissario al Bilancio. Dopo i bond sociali per finanziare Sure, la cosiddetta “cassa-integrazione Ue” – che un anno fa dimostrarono la potenza di fuoco dell’Ue sui mercati, facendo registrare il più grande portafoglio di ordini di sempre – gli occhi degli investitori sono adesso tutti puntati sull’ambizioso piano delle obbligazioni verdi, pronte a rivaleggiare con i titoli del Tesoro americano.
Con l’annuncio dei green bond, Bruxelles ha anche aggiornato a prezzi correnti gli importi del Recovery Plan (le nuove cifre da tenere a mente sono 421,5 miliardi di euro di sovvenzioni e 385,2 miliardi di prestiti) e confermato l’intenzione, che era stata comunicata già a giugno, di emettere entro quest’anno un totale di circa 80 miliardi di obbligazioni a lungo termine. Tra le altre novità in arrivo, adesso anche i piccoli risparmiatori avranno la possibilità di investire per sostenere il maxi-piano Ue per la ripresa. Dal 15 settembre la Commissione emetterà i primi buoni dell’Ue, esclusivamente mediante aste, che saranno in seguito organizzate orientativamente due volte al mese, il primo e il terzo mercoledì.
Maxi multa a WhatsApp: sulla privacy online l’Ue fa sul serio
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È l’ora della maturità per il Gdpr, il regolamento europeo sulla riservatezza dei dati entrato in vigore nel 2018. In poche settimane, dopo la sanzione record di 746 milioni di euro comminata dal Lussemburgo ad Amazon a fine luglio, una nuova condanna, stavolta contro WhatsApp, fa risuonare nel Vecchio continente il ruggito di una tigre che finora era stata ritenuta piuttosto un quasi inoffensivo micio ma che, a regime, consente di multare le aziende fino al 4% del loro fatturato globale annuo.
Il 2 settembre, al termine di indagini risalenti a tre anni fa, il Garante per la Privacy dell’Irlanda ha condannato l’app di messaggistica istantanea, dal 2014 di proprietà di Facebook, a pagare 225 milioni di euro per aver violato gli obblighi di trasparenza relativamente alle comunicazioni agli utenti sul trattamento dei loro dati personali da parte della piattaforma e sulla loro condivisione con la casa madre di Menlo Park e le altre società controllate.
Sulla privacy, nonostante il maxi-quadro normativo adottato a livello Ue, non c’è infatti – come avviene invece in ambito Antitrust – un’autorità centralizzata deputata al controllo e alla sanzione (compito che è rimesso invece ai regolatori nazionali). Proprio l’Irlanda è il Paese che più di altri si trova in prima linea di fronte ai colossi dell’online, visto che le principali aziende tech americane hanno la loro sede legale sull’isola, un quasi-paradiso fiscale nel cuore dell’Europa per le sue bassissime imposte per le società (Dublino è anche uno dei tre Stati membri Ue, insieme a Ungheria e Estonia, a opporsi all’idea di un’imposta minima globale per le multinazionali, attualmente in discussione al G20 e che potrebbe assorbire la proposta Ue di una web tax). L’eccessiva indulgenza verso la Silicon Valley non è piaciuta alle altre Autorità nazionali, tanto che la multa inizialmente proposta dal Garante irlandese (per un massimo di 50 milioni) è stata rivista al rialzo e più che quadruplicata sulla base di un parere vincolante dello European Data Protection Board, la rete europea dei Garanti per la privacy, in seguito alle rimostranze di otto Stati che giudicavano la somma troppo bassa.
Oltre alla condanna a pagare 225 milioni, a WhatsApp è stato ordinato di intraprendere tutte quelle azioni correttive per adeguare le informazioni sul trattamento dei dati al Gdpr Ue, comprese maggiori indicazioni su come presentare un reclamo alle autorità di vigilanza. La piattaforma social, da parte sua, è pronta a ricorrere contro la misura, ha spiegato un portavoce, parlando di “sanzione del tutto sproporzionata”.
Il Garante di Dublino ha almeno una dozzina di altre indagini in corso che vogliono far chiarezza su come vengono usate le informazioni degli utenti dalle Big Tech: tra le società interessate anche Apple, Google, Microsoft e Twitter. L’ultimo colpo assestato a un colosso digitale manda un chiaro segnale politico Oltreoceano: dalle nuove e più stringenti regole sui servizi digitali alla web tax – entrambe in discussione a Bruxelles e su cui sono attesi sviluppi nei prossimi mesi -, passando appunto per l’implementazione concreta delle regole già esistenti, l’Europa fa sul serio. E i quasi 100 milioni all’anno che le grandi sigle dell’online spendono ogni anno in attività di lobbying a Bruxelles (una cifra sensibilmente maggiore a quelli di altri comparti industriali) potrebbero non bastare più come scudo in una partita che ha assunto una innegabile dimensione geopolitica.
Il gruppo editoriale tedesco Axel Springer compra la testata americana Politico
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Le due società hanno annunciato l’acquisizione in una nota congiunta, confermando le indiscrezioni emerse già nei giorni scorsi, dopo mesi di trattative proseguite sottotraccia: una mossa dai molteplici risvolti anche in ottica transatlantica. Le parti si sono impegnate a non rendere noti i termini finanziari dell’intesa, ma secondo fonti citate dal New York Times prima dell’annuncio ufficiale l’operazione avrebbe un valore di 1 miliardo di dollari. La transazione, che dovrebbe compiersi nell’ultimo trimestre dell’anno, oltre all’edizione Usa di Politico riguarda anche l’edizione europea Politico.eu (di cui Axel Springer possedeva già il 50%, nell’ambito di una joint venture con il gruppo americano) e il nuovo sito di informazione tecnologica Protocol, creato nel 2020. L’operazione – l’acquisizione più grande mai fatta dal mediagroup tedesco e tra le principali fusioni del panorama mediatico internazionale negli ultimi anni – rappresenta una nuova tappa nel consolidamento dei grandi gruppi dei media digitali (dopo che BuzzFeed ha rilevato un anno fa HuffPost da Verizon Communication), ma pure la conferma del piano di espansione di Axel Springer nel mercato editoriale online americano. Un interesse tanto pronunciato che la società berlinese aveva in corso una trattativa (adesso interrotta in seguito alla fumata bianca con l’azienda di Allbritton) anche con la start-up Axios, il principale competitor di Politico fondato da alcuni ex del sito Usa.
Dopo aver abbandonato il tentativo di comprare il Financial Times sei anni fa e aver venduto una serie di giornali locali (comprese partecipazioni in media ungheresi, secondo alcuni osservatori cedute in maniera fin troppo disinteressata a investitori vicini al premier Viktor Orbán), la società tedesca ha puntato gli occhi in particolare sull’informazione digitale di qualità e sui modelli di news a pagamento riservate agli abbonati. Seguendo questa strategia, nel 2015 Axel Springer ha acquisito per 500 milioni di dollari Business Insider (oggi semplicemente Insider), pagando un valore nove volte superiore alle entrate del sito e mettendone i contenuti dietro paywall, mentre l’anno scorso ha rilevato la quota di maggioranza di Morning Brew, portale che punta sulle newsletter. Politico, che genera circa 200 milioni di dollari all’anno, sin dalla sua nascita ha avuto bilanci sempre in attivo: l’accesso alle varie edizioni del sito è gratuito, come anche la ricezione di Playbook – le sue newsletter più lette sulle due sponde dell’Atlantico -, mentre altamente redditizio è Politico Pro, il servizio di news, aggiornamenti e approfondimenti su abbonamento, che genera più della metà dei ricavi annuali dell’azienda. “L’eccezionale team di Politico ha rivoluzionato il giornalismo e ha stabilito nuovi standard”, ha commentato l’amministratore delegato del colosso editoriale tedesco Mathias Döpfner. “La nostra ambizione è diventare il principale editore digitale nel mondo democratico”. Un’impresa molto ambiziosa e adesso tutta a trazione europea che può essere letta anche come una buona notizia per l’autonomia strategica Ue. Acciaccata in questi giorni dalle difficoltà di Bruxelles sul fronte afghano, per concretizzarsi davvero ha bisogno anche del concorso dei campioni industriali del Vecchio continente in grado di competere ad armi pari con le aziende di Usa e Cina. L’editoria può – per una volta – indicare la rotta; e magari saranno altri settori dell’economia a seguire, dai trasporti alla difesa.
Dai migranti al terrorismo: come reagisce l’Ue al dramma Afghanistan
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I Talebani di oggi “mi sembrano uguali a quelli di prima. Ma parlano un inglese migliore”. Josep Borrell, l’Alto rappresentante dell’Unione europea per la politica estera e di sicurezza comune, non crede alla tesi della svolta moderata degli “studenti coranici” insorti e, dopo la caduta dell’Afghanistan il giorno di Ferragosto, indica la strada da seguire di fronte alla crisi del Paese centro-asiatico, al termine della videoconferenza urgente dei Ministri degli Esteri dell’Ue presieduta in collegamento da Madrid.
Il capo della diplomazia Ue sceglie di fare esercizio di realpolitik, ma esclude un riconoscimento internazionale del nuovo establishment che ha preso il potere a Kabul: “I Talebani hanno vinto la guerra. È con loro che bisogna parlare per evitare non solo una crisi migratoria ma anche un disastro umanitario”. Un imperativo ancor più vero adesso che la priorità numero uno per i Paesi membri dell’Ue e della Nato – dopo vent’anni di presenza in Afghanistan con la coalizione internazionale – è garantire che venga evacuato in sicurezza il maggior numero possibile di occidentali che si trovano nel Paese e tutti quegli afghani che con loro hanno collaborato e che desiderano andar via. “Non possiamo abbandonare chi ha lavorato per noi in tutti questi anni; stiamo facendo il possibile per dare loro rifugio nei Paesi Ue”, spiega Borrell, dando conto delle prime operazioni effettuate, attraverso ponti aerei assicurati dall’Italia e con l’assistenza di Francia e Spagna che hanno messo a disposizione rispettivamente la forze di sicurezza all’aeroporto di Kabul e un hotspot per gli arrivi nel continente.
Intanto, mentre proseguono le evacuazioni, il capo della delegazione dell’Unione europea in Afghanistan, l’ambasciatore Andreas von Brandt, rassicura tutti su Twitter, pubblicando vari scatti che dimostrano che non ha ancora lasciato il Paese e sta seguendo in prima persona le operazioni: “Adesso dobbiamo evitare il panico e il caos, che rischiano di costare ulteriori vite”.
Per Bruxelles – gestione dell’assoluta emergenza a parte – sono due i macro-temi sul tavolo: la “pressione migratoria” alle proprie frontiere, da una parte, ed evitare che l’Afghanistan si ritrasformi in un “santuario per il terrorismo internazionale” (parola del Presidente francese Emmanuel Macron), dall’altra.
Le dichiarazioni della Commissaria agli Affari interni
“Siamo consapevoli che la domanda di accoglienza in Europa aumenterà”, ammette Borrell. “Ci stiamo quindi preparando per tutti gli scenari”, gli fa eco la Commissaria europea agli Affari interni Ylva Johansson, che a nome della Commissione partecipa invece a un Consiglio straordinario dei Ministri degli Interni dei Ventisette convocato in origine dalla presidenza di turno slovena per fare il punto sulla frontiera calda tra Bielorussia e Paesi del Baltico, esposti ai flussi di migranti “organizzati” dal regime di Aleksandr Lukashenko per mettere alle strette l’Ue che ha sanzionato e isolato Minsk, ma che si estende presto anche alla crisi afghana.
“Per come stanno le cose, la situazione in Afghanistan non è chiaramente sicura. Non possiamo costringere le persone a tornare nel Paese”, precisa Johansson, mettendo una volta per tutte a tacere le voci di quegli Stati membri che avevano chiesto – quando ancora Kabul non era stata presa dai Talebani – di non sospendere i rimpatri. Quattro dei sei Paesi che avevano indirizzato una nota all’esecutivo Ue hanno nel frattempo fatto marcia indietro (Germania – dove la nuova “crisi migratoria” è diventata anche elemento di campagna elettorale in vista del voto federale di settembre -, Danimarca, Belgio e Paesi Bassi), mentre Austria e Grecia tirano dritto, intenzionate a non aprire indiscriminatamente le frontiere dell’Ue. Bruxelles prova ad accontentare tutti: se da un lato mette in chiaro il dovere di far reinsediare in Europa chi necessita di protezione internazionale, dall’altro non sconfessa il mantra della “Fortezza Europa”.
Per Johansson, esternalizzare la gestione dei flussi resta una delle principali linee d’azione del blocco in termini di politiche per la migrazione, come già cinque anni fa, ai tempi del negoziato con la Turchia sui profughi siriani: “Dovremo lavorare a stretto contatto con i Paesi della regione ed essere pronti a fornire loro l’assistenza umanitaria e allo sviluppo necessaria”. Destinando alle nazioni vicine una buona fetta di assistenza finanziaria, i leader degli Stati membri intendono coinvolgere sin da ora gli omologhi dei Paesi dell’area per dirottare qui i migranti afghani. Se i corridoi umanitari vengono invocati a gran voce dal Parlamento europeo, i Ministri Ue e la Commissione vogliono “impedire agli afghani di dirigersi verso l’Unione europea attraverso rotte insicure, irregolari e incontrollate gestite da trafficanti. Non dobbiamo aspettare che arrivino alle frontiere esterne dell’Ue”, dice Johansson. E allora si attiva il filo diretto con le capitali dell’Asia centrale e del Golfo per tenere lontano dai riflettori e dal dibattito pubblico dei Paesi europei il maxi-esodo degli afghani.
Dopo l’Europa, ora la Polonia preoccupa anche Usa e Israele
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La sfida della Polonia all’Unione europea non si attenua neppure in piena estate e stavolta – fra colpi che riguardano il pluralismo dei media e la restituzione dei beni confiscati durante il dominio comunista – si estende fino a coinvolgere gli Stati Uniti e anche Israele.
Con dei voti in rapida successione in un Parlamento nel frattempo terremotato dal collasso della coalizione di ultra-destra riunita attorno al PiS del premier Mateusz Morawiecki e del potente Jarosław Kaczyński, Varsavia mette a segno due controversi provvedimenti che allarmano la comunità internazionale. Il primo limita la possibilità per i sopravvissuti e i discendenti delle vittime della Shoah, così come di tutti gli altri espropriati dal regime comunista, di chiedere la restituzione delle proprietà e dei beni confiscati dopo la fine della Seconda guerra mondiale – una pratica che era stata introdotta in seguito al crollo del comunismo nel 1989 -, prevedendo adesso un termine di prescrizione di 30 anni per l’impugnazione delle decisioni amministrative riguardanti le istanze di rivendicazione. Il Governo difende la scelta giustificandola come una risposta alle varie frodi e irregolarità che si sono registrate nel tempo e che sono finite pure davanti alla giustizia civile, ma per le organizzazioni che tutelano il diritto alla restituzione si tratta di un oltraggio “per tutti, ebrei e non-ebrei”. E per il Ministro degli Esteri israeliano Yair Lapid la decisione “arreca danno alla memoria dell’Olocausto e delle sue vittime”.
Ma c’è di più. Il secondo disegno di legge che ha ricevuto il via libera con 8 voti di scarto racimolati fuori dall’ex coalizione – che proprio su questo punto si è disgregata, con la cacciata del vicepremier Jarosław Gowin e l’uscita dalla maggioranza degli alleati di Accordo – vieta alle società che non hanno sede nello Spazio economico europeo (i 27 Paesi Ue insieme a Norvegia, Islanda e Liechtenstein) di possedere quote di maggioranza nei media polacchi. Varsavia dice che è uno scudo contro gli investitori cinesi, arabi e russi, ma secondo i manifestanti che sono scesi in piazza lamentando nuove restrizioni alla libertà di informazione si tratta di una legge ad hoc che ha un obiettivo preciso da colpire: Tvn, la rete nazionale controllata dal gruppo statunitense Discovery, che si è spesso dimostrata isolata voce critica rispetto alle tendenze autocratiche nel Paese. L’azienda Usa sarebbe adesso intenzionata ad avviare una procedura di arbitrato prevista nel quadro di un accordo sugli investimenti tra Stati Uniti e Polonia.
Le reazioni di Usa e Ue
L’irritazione a Washington, partner tradizionale della Polonia, è forte per entrambi i provvedimenti: per il segretario di Stato Usa Antony Blinken “contraddicono i valori fondamentali dell’Occidente e della comunità transatlantica”. E c’è anche chi arriva a immaginare una rappresaglia nei confronti di Varsavia, attraverso il trasferimento in Romania delle truppe di stanza nel Paese, dove si trovano nel quadro del rafforzamento del fianco orientale della Nato.
Visto da Bruxelles, il doppio voto di metà agosto costituisce l’ennesimo fronte aperto dalla Polonia – che insieme all’Ungheria è finita nella lista nera della Commissione per le ripetute violazioni dello stato di diritto e delle libertà fondamentali: “Un segnale negativo per il pluralismo dei media e la libertà di opinione”, dice la vicepresidente dell’esecutivo Ue Věra Jourová; le fa eco il numero uno del Parlamento europeo David Sassoli: “Non ci può essere libertà senza media liberi”. Entrambi i ddl non sono però definitivi. Quello sui media dovrà passare al Senato, dove l’opposizione ha la maggioranza e, in caso di bocciatura, di nuovo alla Camera (ma stavolta avrà però bisogno dei due terzi di sì, una soglia improbabile); quello sulle restituzioni delle confische comuniste aspetta invece solo la firma del Presidente della Repubblica Andrzej Duda, anch’egli esponente del PiS: Usa e Israele sono adesso in pressing su di lui per chiedere di fermare la promulgazione.
Chi spera che il caos politico si traduca in elezioni anticipate è Donald Tusk: ex premier polacco, dal 2014 al 2019 è stato presidente del Consiglio europeo ed è poi rimasto a Bruxelles a guidare il Ppe, il Partito popolare europeo che è la principale famiglia politica continentale dei moderati. Adesso vuole tornare alla politica attiva in Polonia e, a partire dalla sua Piattaforma civica, federare tutte le forze che si oppongono all’attuale Governo.
Recovery Plan, in Italia arrivano le prime risorse europee
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Ultimata la trafila burocratica tra Roma e Bruxelles, l’Italia è il quinto Paese (fra i 16 che avevano ricevuto luce verde dal Consiglio a luglio) a ricevere i prefinanziamenti del Recovery Plan Ue, il Dispositivo di ripresa e resilienza che all’interno di Next Generation EU stanzia 723,8 miliardi di euro per la ripresa fra il 2021 e il 2026. La rata di anticipo cui hanno diritto i 27 Paesi previo via libera ai piani nazionali è pari al 13% del totale: per l’Italia – prima beneficiaria dell’intero schema – si tratta di 24,9 miliardi, arrivati venerdì 13 agosto dopo la firma dei due accordi fra i tecnici del Ministero dell’Economia e quelli della task force Recovery dell’esecutivo Ue: uno per le sovvenzioni (68,9 miliardi in tutto), l’altro per i prestiti (122,6).
“Impegno mantenuto. Ora la grande sfida del piano di riforme e investimenti”, twitta il Commissario europeo all’Economia Paolo Gentiloni. “Risorse concrete per trasformare l’Italia in un Paese più giusto, più green e più digitale”, aggiunge il sottosegretario agli Affari Ue Enzo Amendola. Con Roma che è la principale beneficiaria dei fondi della strategia Ue (191,5 miliardi in tutto), la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ribadisce quello che è diventato nei palazzi delle istituzioni di Bruxelles un motivo ricorrente: “Il Pnrr italiano ha l’ambizione necessaria per fare dell’Italia un motore per la crescita di tutta l’Ue”. Insomma, occhi puntati su Roma, anche da parte delle altre capitali. Adesso, infatti, è tempo di entrare appieno nella logica di puntuale e ritmata rendicontazione che è propria dell’impianto del Recovery. A cominciare da dicembre, infatti, il restante 87% dei fondi cui ha diritto l’Italia (162,7 miliardi) saranno sborsati con cadenza semestrale in dieci rate a condizione che vengano raggiunti gli obiettivi socio-economici concordati nel Pnrr: i famosi target e milestones che fungono da indicatori del rispetto di un fitto e dettagliato cronoprogramma contenuto in un documento di lavoro allegato alla decisione del Consiglio.
React-EU
In questi stessi giorni l’Italia è intanto passata all’incasso dei fondi di un altro programma che si colloca sotto l’ombrello di Next Generation EU e che è, per così dire, il fratello minore del Recovery Plan. Si tratta di React-EU, che fra 2021 e 2022 stanzia 50,6 miliardi di risorse aggiuntive per la coesione territoriale delle regioni d’Europa più colpite dalla pandemia. Anche in questo caso, con 11,3 miliardi di euro solo nel 2021, l’Italia riceve la principale fetta di finanziamenti.
Tre gli assegni staccati nelle prime due settimane di agosto che vanno a incrementare i programmi operativi nazionali dei fondi strutturali e di coesione: 1,6 miliardi di euro a sostegno degli investimenti delle piccole e medie imprese nella transizione verde e digitale (tra cui lo sviluppo delle smart grid per la trasmissione e la distribuzione dell’energia e l’efficientamento energetico degli edifici pubblici), 1 miliardo per le città metropolitane e 1,1 miliardi per il rafforzamento del sistema sanitario e di quello universitario. In quest’ultimo caso, tra gli interventi di varia natura – secondo il dettaglio del piano redatto dal dicastero guidato dalla Ministra Mara Carfagna e inoltrato a Bruxelles ad aprile -, saranno finanziati anche corsi di specializzazione per i medici, borse di studio per chi proviene da famiglie a medio e basso reddito, riduzione delle tasse universitarie e training formativi dedicati alla transizione verde e digitale. Altri 322 milioni saranno dedicati al miglioramento della rete idrica e alla riduzione delle perdite nelle condotte del sud Italia. Al Meridione sono destinati due terzi dei finanziamenti di React-EU, ma il sud è anche uno dei principali beneficiari anche del Pnrr, con interventi per il 40% del totale. La parte del leone nel React-EU predisposto dal Governo Draghi, con oltre 4 miliardi, la fa la fiscalità di vantaggio per il lavoro nelle regioni del sud, con il taglio del 30% dei contributi per le assunzioni da parte di imprese con sede nel Mezzogiorno.
Monte dei Paschi di Siena: la partita europea
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È un doppio binario europeo quello su cui si muove la vicenda del Monte dei Paschi di Siena ora che sono iniziate le trattative fra il ministero dell’Economia e Unicredit per l’acquisto di una parte delle attività dell’istituto toscano oggi in mano per il 68% allo Stato (nella cui pancia rimarrebbero in ogni caso i crediti deteriorati). Un processo, visto da Bruxelles, che ha come epicentro la Torre Madou, sede dei tecnici della Direzione generale Concorrenza (DG COMP) della Commissione europea, ma che segue – o perlomeno, seguirà – due filoni separati.
Da una parte, infatti, l’esecutivo Ue monitora il rispetto degli impegni presi nel 2017 con il governo italiano dopo il via libera a 5,4 miliardi di euro di aiuti di Stato per la ricapitalizzazione di MPS: si tratta, in particolare, dell’uscita dell’azionista pubblico dal capitale della banca al termine di un periodo di tolleranza di cinque anni che scade il 31 dicembre prossimo.
Dall’altra, invece, Bruxelles potrebbe attivare il meccanismo di “merger control”, il controllo delle concentrazioni di impresa nel mercato unico nel caso in cui – come spiegano fonti Ue – l’operazione di acquisto da parte di Unicredit dovesse andare in porto presentando una “dimensione di interesse europeo”.
Per il momento nessuna informazione in questo senso è stata recapitata alla DG COMP; ma è presto e la trattativa con lo Stato non è ancora matura. Toccherebbe in ogni caso al gruppo bancario guidato da Andrea Orcel notificare a Bruxelles l’operazione e attivare così il controllo preventivo da parte dei tecnici dell’Antitrust prima di completare la transazione. Un eventuale “secondo tempo” – risolta la questione proprietà – per la partita europea che riguarda MPS, senza contare che l’ipotesi “spezzatino” allontanerebbe le preoccupazioni sullo scrutinio anti-concentrazioni.
Com’è consolidato costume di Bruxelles quando sono sul tavolo complessi dossier di diritto della concorrenza, dai palazzi Ue trapelano poche indicazioni. Ancora a inizio luglio, prima dell’annuncio del matrimonio con Unicredit, la vicepresidente esecutiva della Commissione e zarina della Concorrenza Ue Margrethe Vestager aveva riservato poche ma perentorie parole sulla vicenda MPS: “Le cose stanno andando nel verso giusto”. Un verso che, secondo Bruxelles, coincide con la privatizzazione della più antica banca italiana nei tempi concordati con Roma. Torniamo, insomma, nel bacino del “primo tempo” del match, che riguarda le condizioni per cui nel 2017 – al termine di un negoziato con l’allora ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, oggi presidente di Unicredit – fu considerato legittimo e avallato dalla Commissione il salvataggio della banca da parte del governo italiano.
Se da un lato la pandemia ha allentato le rigide maglie del controllo Ue sull’erogazione degli aiuti di Stato (introducendo un quadro temporaneo di autorizzazione eccezionale delle misure e pure, nei giorni scorsi, nuove regole di tolleranza dei sussidi che sosterranno gli obiettivi della transizione verde e digitale), dall’altro, in questo momento una proroga del termine per l’uscita dello Stato dal capitale di MPS sarebbe vista come un rinvio per prendere (ulteriore) tempo senza tuttavia una chiara strategia all’orizzonte (o un’alternativa concreta, serie e credibile al negoziato con Unicredit).
L’ipotesi attendista è caldeggiata da varie forze di maggioranza – dalla Lega ai Cinque Stelle – e non esclude un mantenimento del controllo pubblico di MPS; soluzione che non incontra entusiasmi al ministero dell’Economia – determinato a onorare gli accordi, soprattutto in un momento in cui l’Italia a Bruxelles è tornata a muoversi da protagonista – né, come detto, in Commissione europea, dove un disegno sul futuro (privato) di MPS c’è, tempistiche comprese, ed è noto a tutte le parti in causa da anni.
Gli stress test condotti dall’Eba, l’Autorita bancaria europea, insieme alla Bce, hanno restituito la fotografia di una situazione senza ritorno: il capitale del Monte dei Paschi di Siena – peggiore istituto fra i 50 esaminati – sarebbe travolto nel caso di shock economico-finanziario imprevisto e molto severo. Insomma, un (ennesimo) segnale di allarme che a Bruxelles prendono molto sul serio. Il tempo è finito, la soluzione è sul tavolo. L’Europa, ancora una volta, ci guarda; l’Italia ha la possibilità di non farsi trovare impreparata.
Transizione ecologica: Ue più flessibile negli aiuti di Stato
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La Commissione europea torna a semplificare le norme sugli aiuti di Stato, purché le misure siano impiegate come incentivi a sostegno della transizione verde e digitale, o comunque in connessione ad altri macro-obiettivi europei. L’esecutivo Ue ha infatti esteso la deroga che consente ai Paesi membri di adottare gli aiuti senza dover richiedere e attendere ogni volta il controllo preventivo dell’Antitrust comunitario.
Per beneficiare di questo scivolo, le misure concesse dalle autorità nazionali dovranno integrare due ipotesi: sostenere la doppia transizione (ecologica e digitale) su cui fa perno tutto l’impianto del Recovery Plan Next Generation EU, oppure contribuire a progetti già finanziati dai programmi del bilancio comune europeo 2021/2027 (come il maxi-schema di finanziamento a ricerca e innovazione Horizon Europe), dove è intrinseco il valore aggiunto Ue.
Nella prima categoria rientrano, in particolare, gli aiuti a iniziative di efficientamento energetico degli edifici (che in Italia formano uno dei pilastri fondanti di ecobonus e superbonus), ma anche le forme di sostegno alle infrastrutture di ricarica e rifornimento per le macchine elettriche: l’obiettivo di Bruxelles è sovvenzionare i produttori delle vetture a basse emissioni per rendere realistico l’obiettivo dello stop alla fabbricazione dei veicoli a diesel e benzina nel 2035, come previsto dal maxi-pacchetto Fit for 55 che dettaglia in concreto le ambizioni del Green Deal. Ultimo ambito di intervento espressamente previsto dalle nuove linee guida, la messa a terra della banda larga 4G e 5G.
Insomma, Bruxelles vuole dimostrare che uno tra i suoi strumenti più temuti dalle capitali nazionali – lo scrutinio dell’effettiva erogazione di aiuti di Stato in grado di distorcere il funzionamento del mercato interno – può invece convertirsi in un fattore abilitante per i maxi-investimenti pubblici statali indispensabili alla piena realizzazione degli obiettivi della ripresa.
Il compito di verificare la compatibilità con il mercato interno degli aiuti di Stato concessi dai Paesi Ue ai settori produttivi è affidato dai Trattati in via esclusiva alla direzione generale Concorrenza della Commissione europea: secondo la procedura generale, i Governi sono tenuti a notificare preventivamente a Bruxelles ogni progetto di concessione di aiuti di Stato e, nell’attesa, astenersi dal darvi attuazione. Esentare nuove tipologie di aiuti dal sistema di notifica preventiva non è soltanto uno sgravio formale, ma “un’importante semplificazione che facilita la rapida attuazione delle misure da parte degli Stati”, spiegano in Commissione.
Non è però un liberi tutti: l’obbligo di notifica rimane, ma solo a posteriori. “Per gli Stati sarà più semplice fornire rapidamente i finanziamenti necessari per sostenere una ripresa sostenibile e resiliente dagli effetti economici della pandemia”, ha commentato la vicepresidente esecutiva della Commissione Margrethe Vestager, titolare della Concorrenza.
Di allentamento delle rigide maglie sulle sovvenzioni pubbliche alle economie nazionali Bruxelles s’era occupata già a inizio pandemia, introducendo il quadro temporaneo per le misure di aiuti di Stato, la cui operatività è stata prorogata fino al 31 dicembre, con l’obiettivo di non far mancare sostegno pubblico all’economia mentre si avvia la ripresa e arrivano i primi finanziamenti del Recovery Plan. Attraverso il quadro temporaneo, Bruxelles ha dato il via libera al sostegno emergenziale destinato dall’Italia, tra gli altri, al settore aereo (circa 325 milioni sono arrivati ad Alitalia – ben al di sotto tuttavia delle cifre miliardarie autorizzate per Air France e Lufthansa -; 800 milioni, invece, la settimana scorsa a favore di aeroporti e società dei servizi di assistenza a terra), ma anche al trasporto ferroviario, alla produzione audiovisiva e alle fiere commerciali. L’elenco di tutte le misure approvate negli ultimi 16 mesi è consultabile sul portale della Commissione.
Tutta la discontinuità fra Alitalia e Ita voluta da Bruxelles
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Parola d’ordine: discontinuità. È stato il mantra lungo tutti i mesi della trattativa tra Roma e Bruxelles sull’avvenire di Alitalia dopo cinque anni di amministrazione straordinaria. Un negoziato serrato, a volte anche aspro – come ha di recente rivelato Margrethe Vestager, vicepresidente esecutiva della Commissione europea e titolare della Concorrenza -, con i tecnici della Torre Madou determinati a chiedere che la nuova compagnia di Stato, Ita, arrivasse sul mercato come “un attore economico nuovo, redditizio e distinto da Alitalia.
Sull’operatore in via di dismissione, infatti, pesa un’indagine della direzione generale Concorrenza (DG COMP) per aiuti di Stato illegali pari a oltre 1,3 miliardi di euro: la condanna altamente probabile rende necessaria una significativa cesura con il passato per far sì che i debiti rimangano a carico di Alitalia (e in ultima analisi dei contribuenti) ed evitino di pesare invece sulle casse della neonata compagnia.
Anche perché i rischi che l’operazione venga portata davanti alla Corte di Giustizia dell’Ue da competitor privati è alto: Ryanair, per dirne una, ha impugnato negli scorsi mesi molti provvedimenti che durante la pandemia hanno immesso nuova liquidità nelle casse in difficoltà delle compagnie di bandiera di quasi tutta Europa; la necessità che il passaggio Alitalia/Ita sia difendibile nelle aule del tribunale comunitario è, per la Commissione, un elemento imperativo.
I chiari parametri di discontinuità richiesti da Bruxelles e concordati a fine maggio tra Vestager e i Ministri Giancarlo Giorgetti (Sviluppo economico) e Daniele Franco (Economia e Finanze) sono stati recepiti dal piano industriale pubblicato da Ita il 15 luglio, al termine della rifinitura degli ultimi dettagli d’intesa con la Commissione, cui ha fatto seguito l’annuncio della data per il lancio di Ita e la fine delle attività di Alitalia: il 15 ottobre (ma gli utenti potranno cominciare ad acquistare i biglietti per volare con il nuovo vettore già da Ferragosto).
Il bilancio è doloroso ma tutto sommato positivo, considerati i persistenti rischi di fallimento e i due rinvii a inizio anno perché il tira-e-molla non trovava uno sbocco: la newco potrà, con il benestare di Bruxelles, acquistare tramite negoziato diretto con Alitalia gli asset necessari per gestire il ramo volo; sarà invece messo a gara lo storico brand, per lunghe fasi del negoziato ritenuto da Roma un elemento irrinunciabile. Sarà una procedura pubblica, con tutte le incognite del caso: non è detto, quindi, che sia necessariamente Ita ad aggiudicarsi il marchio. E saranno oggetto di gare che Alitalia si prepara a bandire anche le attività di handling (i servizi a terra) e quelle di manutenzione: se nel primo caso Ita potrà partecipare come azionista di maggioranza della nuova società, nella seconda ha facoltà di tenere per sé solo una quota di minoranza, affiancando altri investitori.
Gli elementi di discontinuità
A marcare la discontinuità ci sono pure la fine del programma fedeltà “Millemiglia” (i punti accumulati sfumeranno e Ita dovrà sviluppare un nuovo schema) e la riduzione della flotta. Da subito, ITA opererà con 52 aerei (7 “wide body” e 45 “narrow body”), ma il piano industriale prevede che crescerà fino a 78 velivoli nel 2022 e 105 entro il 2025, con un obiettivo ambizioso improntato alla sostenibilità ambientale: il 77% dei nuovi aeromobili sarà di nuova generazione, con minori emissioni di CO2. Tagli importanti anche al personale: poco meno di 3mila i dipendenti in forze a Ita, ma con l’obiettivo di arrivare a 5.500-5.700 nei prossimi 4 anni: alla fine del 2025 i lavoratori contrattualizzati dovrebbero arrivare a circa 9.650, contro i 10.500 attuali, e con stipendi in linea di massima invariati.
La riassunzione dello staff che ha vestito finora la divisa di Alitalia non va contro le direttive di Bruxelles: “Qualsiasi nuova azienda deve assumere dipendenti; da dove arrivano non è necessariamente un indice di continuità”, aveva detto a inizio mese Vestager. A gestire il passaggio del personale dalla vecchia alla nuova compagnia sarà una società esterna: un ulteriore elemento di garanzia di un cambio di passo non solo di facciata. Cassa integrazione, prepensionamenti e possibile ricollocazione in altre società pubbliche sono le opzioni allo studio del Governo per chi non troverà impiego in Ita. E poi ci sono gli slot, asset preziosissimo per ogni operatore dei cieli: Ita manterrà l’85% di quelli di Milano Linate e il 43% di Roma Fiumicino. Beninteso, nei prossimi anni, in linea con i piani di crescita, Ita potrà acquistare nuovi diritti di atterraggio e decollo.
Intanto, la newco di Stato ha proceduto all’aumento di capitale di 700 milioni di euro, indispensabile per avviare l’attività tra meno di tre mesi (ma basteranno?, si chiedono gli osservatori): Ita opererà da subito su 45 rotte, ma con un focus sul lungo raggio che sarà a regime dall’inverno (con collegamenti verso America e Asia) e l’orizzonte del pareggio di bilancio nel 2023. E cosa ne sarà dei biglietti già acquistati con Alitalia? In ossequio al principio di discontinuità, non potranno essere usati a bordo di un volo Ita. Ma qui entra in gioco la protezione dei consumatori, una stella polare per la Commissione Ue: il fondo da 100 milioni istituito dall’esecutivo ha infatti ricevuto luce verde da Bruxelles, ed è verosimile che anche altre iniziative di Roma per tutelare i passeggeri vengano approvate.
Regno Unito: fuori gli europei!
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Quel che resta della Brexit è un gioco di specchi. Sono passati cinque anni dal referendum con cui il 23 giugno 2016 il Regno Unito decise di lasciare l’Unione europea, sul filo del 52% a 48% e con importanti differenze geografiche al suo interno, e sei mesi dall’effettiva uscita di Londra dal mercato unico europeo.
L’impressione è che – fra “guerra delle salsicce” nell’Irlanda del Nord, Royal Navy schierata contro i pescherecci francesi al largo dell’isola di Jersey e chiusura dei confini ai lavoratori stranieri – “Little England” si trovi adesso a recitare a soggetto la parte di “Global Britain” che s’era cucita addosso già durante la campagna referendaria; una visione che nei mesi scorsi ha approfondito in un documento strategico che guarda alla proiezione esterna del Paese fino al 2030. Londra prova a salpare verso nuovi orizzonti senza esser riuscita, tuttavia, a togliere gli ormeggi che la tengono ancora legata al mai troppo amato approdo continentale.
Il peso dell’ambizione, del resto, era palpabile al G7 di inizio giugno in Cornovaglia, il primo appuntamento su scala internazionale ospitato dal Regno Unito post-Brexit, finito per essere funestato anch’esso dall’ombra lunga dell’addio all’Ue: in particolare, dal rischio – evidenziato anche dal Presidente degli Stati Uniti Joe Biden nel suo viaggio europeo – che mosse “disinvolte” da parte del Governo di Sua Maestà possano mettere a rischio la delicata pace sull’isola d’Irlanda. Per evitare un hard border – come prescritto dagli Accordi del Venerdì Santo 1998, che sancirono una difficile pace -, Belfast è infatti rimasta all’interno del mercato unico, con una frontiera doganale individuata nel Mare d’Irlanda e l’Ue che delega di fatto ai britannici i controlli sul rispetto dei propri standard (come quelli fitosanitari che riguardano le carni, da cui discende la battaglia delle salsicce adesso in pausa). Ma al di là del significato pratico, la situazione irrita gli unionisti fedeli alla Corona e rilancia le spinte degli indipendentisti che sperano nella riunificazione con Dublino 100 anni dopo la Partition.
Secondo un sondaggio pubblicato alla vigilia dell’anniversario del voto che sancì il divorzio, anni di interminabili negoziati non hanno rivoluzionato gli equilibri in campo: realizzata dal guru britannico delle rilevazioni John Curtice per il gruppo What UK Thinks, l’indagine fotografa una situazione inamovibile. L’80% dei britannici – rivela lo studio – confermerebbe il proprio voto di cinque anni fa, tanto fra i Leave quanto fra i Remain, anche se soltanto il 20% degli interpellati dice di approvare il Trade and Cooperation Agreement concluso fra Londra e Bruxelles quasi fuori tempo massimo, il pomeriggio della Vigilia di Natale 2020.
Proprio sei mesi dopo la data di (provvisoria) entrata in vigore dell’accordo che regola le relazioni post-Brexit tra le due sponde della Manica, temi e tempi restituiscono la complessità degli effetti dell’operazione che ha posto fine a 47 anni di membership del Regno Unito nell’Ue. A cominciare dal capitolo commerciale, ma con conseguenze dirompenti anche per gli europei che vivono e lavorano nel Paese, visto che la libertà di circolazione – tra i temi contro cui si scagliò la propaganda identitaria Brexiteer – non rientra tra le misure concordate nell’intesa.
I dati del primo quadrimestre 2021 diffusi da Eurostat vedono le esportazioni britanniche verso l’Ue registrare un -27,1% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, “intrappolate” dalle nuove regole che ripristinano i controlli doganali. Se la misurazione del crollo dell’export è ostaggio di criteri diversi seguiti dagli uffici statistici di Londra e Bruxelles, il tema conferma però il suo impatto prepotente anzitutto sulla catena dell’approvvigionamento alimentare: a giudicare dalle posizioni allarmiste dei rappresentanti di settore, infatti, i tempi supplementari della Brexit si starebbero giocando fra gli scaffali dei supermercati, con l’export dell’agrifood verso il continente dimezzato (e picchi fino al -90%, ad esempio, per il comparto caseario), un incremento dei prezzi al dettaglio e il concreto rischio – come successo a inizio anno – che molti prodotti freschi e di stagione non raggiungano i consumatori.
Provando a giocare in contropiede, e sognando una Global Britain che avvia il nuovo corso anzitutto con i Paesi del Commonwealth, il Governo Johnson ha concluso con l’Australia il primo accordo di libero scambio al di fuori dello schema di gioco comune dell’Ue (che sulla politica commerciale ha competenza esclusiva e negozia per conto degli Stati membri), mentre altri sono in discussione ad esempio con l’India. Peccato che il valore aggiunto stimato per il Pil britannico derivante dall’intesa con Canberra – che sarà applicata gradualmente nell’arco di 15 anni – oscilla sulla forbice dell’irrilevanza: tra 0,01% e 0,02%.
Ad avere esasperato i toni all’alba dell’era post-Brexit è stata, però, la campagna vaccinale. Soprattutto la prima parte dell’anno, infatti, ha fatto registrare uno sprint nelle somministrazioni britanniche. Londra s’è mossa in autonomia – cominciando prima dei cugini europei e con piani d’acquisto e autorizzazione propri – e ha fatto esultare i tabloid: “Ecco la migliore pubblicità per la Brexit”. La complicità di AstraZeneca ha fatto il resto, finendo per aprire un nuovo fronte tra Londra e Bruxelles anche sui vaccini: come riconosciuto anche dalla giustizia belga nella prima ordinanza pronunciata sul tema dei ritardi nella consegna delle dosi alla Commissione, la compagnia anglo-svedese avrebbe promesso le stesse fiale a britannici ed europei, salvo destinare la produzione degli impianti Uk unicamente alle forniture per Londra.
Duello sulle dosi a parte, la contesa permanente tra i britannici e gli europei ha assunto anche i contorni della farsa, con battaglie di una guerra-spezzatino combattute su dossier economicamente marginali, ma simbolicamente esplosivi. A cominciare dalla pesca, il simbolo forse più eloquente sin dai tempi della campagna referendaria della volontà di “take back control”, da parte di Londra, delle proprie acque, ma che ripropone l’anatema dello “zero virgola”. Il contributo del settore al Pil britannico è inferiore allo 0,1% – meno dei grandi magazzini Harrod’s –, ma la possibilità di mantenere l’accesso per gli europei al pescoso mare territoriale britannico ha apparecchiato un braccio di ferro conclusosi solo parecchi mesi dopo l’intesa generale sul Trade and Cooperation Agreement. Alla fine, la soluzione escogitata passa per più burocrazia – quello stesso red tape, ma maggiorato, per cui a Londra stavano strette le norme Ue -: si fissano infatti delle quote di pescato per oltre 70 specie che popolano le acque condivise, intavolando un negoziato perenne che dovrà aggiornarsi orientativamente con cadenza annuale.
Se i pesci sono liberi di muoversi fra le ricche acque della Manica, lo stesso non si può dire per i cittadini europei nel Regno Unito: scaduto il termine del 30 giugno per registrarsi per ottenere il permesso di residenza, il sistema si annuncia già in difficoltà in vista dell’esame dell’enorme volume di richieste. Le anticipazioni sul modo in cui Londra intende gestire il dossier immigrazione, poi, sono tutt’altro che rassicuranti, visto il trattamento riservato nei primi mesi dell’anno a centinaia di cittadini Ue, tra cui degli italiani. Considerati “irregolari senza visto” – nonostante alcuni avessero colloqui di lavoro già fissati o precedenti periodi di occupazione nel Paese -, le autorità Uk li hanno fermati all’ingresso nel Regno Unito e trasferiti in centri di detenzione, dove sono stati trattenuti senza cellulare anche per diversi giorni. Un caso che ha provocato la mobilitazione consolare degli Stati europei coinvolti e anche una levata di scudi fra i leader Ue, che hanno ottenuto garanzie da Londra sulla sostituzione della reclusione con un ingresso su cauzione prima del rimpatrio.
La stretta sugli ingressi di lavoratori non altamente qualificati scontenta anche i settori produttivi Uk – manifatturiero, edilizia e servizi sanitari in testa (molti infermieri, ad esempio, in prima linea nella lotta alla pandemia) -, che chiedono infatti a gran voce di allentare le misure e non bloccare l’afflusso di forza lavoro dal continente. Per ora, una mini-deroga applicabile agli stagionali per il raccolto nei campi prevede la possibilità per 30mila operai di arrivare nel Paese per sei mesi.
Cinque anni dopo, insomma, va in scena “La Grande Illusione”. Non a casa il titolo che il capo negoziatore Ue sulla Brexit Michel Barnier ha scelto (anche) per il suo libro di memorie da poco in libreria (Gallimard, 544 pagine, per ora solo in francese; in autunno anche in inglese).
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di luglio/agosto di eastwest.
Sulla web tax Bruxelles ha tirato il freno
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Web tax no (almeno per il momento), carbon border tax forse (ma non subito).
È stata una settimana di alterne fortune per le nuove risorse proprie che dovrebbero contribuire a foraggiare Next Generation EU, il maxi piano di rilancio dal valore di oltre 800 miliardi che l’Unione europea mette in campo da qui al 2026. Nella prima metà dell’anno, Parlamenti e Governi dei 27 Stati membri sono stati impegnati in una maratona da record che ha portato alla ratifica più rapida nella storia dell’integrazione europea di una decisione sull’aumento delle risorse proprie, che porta il massimale al 2% del reddito nazionale lordo dell’Unione. Con l’incremento delle risorse proprie, Bruxelles ha le garanzie economiche per l’emissione di Eurobond sui mercati finanziari (tra giugno e luglio le prime tre distinte operazioni hanno consentito di raccogliere oltre 45 degli 80 miliardi previsti entro fine 2021) e cominciare a erogare i primi finanziamenti agli Stati membri i cui Pnrr sono stati già approvati (finora 12, tra cui Italia, Germania, Francia e Spagna, ma altri 5 si aggiungeranno il 26 luglio).
La web tax
Eppure, se il treno del Recovery va spedito, quello delle risorse proprie sembra indugiare. Cominciamo dalla web tax, la nuova imposta sui giganti del digitale che, secondo un documento di lavoro della Commissione che accompagna l’architettura di Next Generation EU, varrebbe all’erario comunitario circa 1,3 miliardi in più all’anno. Dopo una serie di incontri ad alto livello con la segretaria Usa al Tesoro Janet Yellen, però, Bruxelles ha tirato il freno. L’annuncio della proposta, inizialmente previsto il 20 luglio, è stato rinviato all’autunno: un’apertura da parte dell’esecutivo Ue nel quadro della ritrovata sintonia transatlantica e che viene incontro alle pressioni di Washington per lo stop a un’iniziativa che avrebbe nel mirino pressoché esclusivamente le Big Tech d’Oltreoceano. La battuta d’arresto alla web tax europea ha come dichiarato obiettivo quello di consentire il perfezionamento dell’accordo su una imposta minima globale del 15% per le multinazionali – che, per inciso, riguarderebbe pure i colossi tech della Silicon Valley -, dopo le fumate bianche all’Ocse e al G20 economico-finanziario di Venezia.
Prima con i toni aspri di Trump, quindi con la diplomazia multilaterale di cui s’è rappropriata l’amministrazione Biden, la web tax non è stata mai gradita negli Stati Uniti: se l’iniziativa andasse fino in fondo, infatti, potrebbe inquinare il dibattito americano sulla global minimum tax e mettere a rischio l’iter parlamentare al Congresso, dove i democratici hanno una fragile maggioranza.
La carbon border tax
Sorte diversa per la carbon border tax, annunciata come parte del pacchetto Fit for 55 per dare esecuzione agli obiettivi del Green Deal. Il Carbon Border Adjustment Mechanism (Cbam) – questo il nome completo – è un prelievo sul carbonio alle frontiere che sarà applicato alle importazioni di beni extra-Ue provenienti da Paesi che non hanno lo stesso set di norme a tutela dell’ambiente, così da contrastare – secondo l’intenzione di Bruxelles – il fenomeno del carbon leakage, la pratica della delocalizzazione delle imprese per evadere le norme sulle emissioni. La nuova misura sarà applicata in via sperimentale tra 2023 e 2025 solo ad alcuni settori energivori (fertilizzanti, cemento, alluminio e acciaio) e senza il balzello fiscale; dal 2026 sarà invece a regime. Secondo i calcoli contenuti nei documenti della Commissione, però, porterebbe al bilancio comunitario “appena” 10 miliardi in più entro il 2030.
Durante la conferenza stampa di presentazione della Cbam, il 15 luglio, il Commissario all’Economia Paolo Gentiloni ha detto che la proposta è stata “complessivamente accolta bene” dai Paesi del G20; e uno schema simile sarebbe allo studio pure fra i democratici Usa. Eppure, l’iniziativa europea non ha mancato di generare irritazione fra vari partner del blocco, che accusano la carbon border tax di gettare nuovo scompiglio nei commerci internazionali e di essere incompatibile con le regole del Wto. Senza contare un dato poco politico e ben più pratico, mettono in guardia gli osservatori: la difficoltà a determinare l’effettivo prezzo del carbonio da imputare a un bene importato.
Next Generation EU è partito, ma le “sue” risorse proprie arrancano.
In Italia l’economia cresce ma la giustizia preoccupa
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Settimana di promozioni inattese e bocciature annunciate per l’Italia a Bruxelles. Pagelle che consentono di celebrare ma non troppo, e che confermano un assunto di fondo nella capitale Ue: con i suoi 191,5 miliardi di euro – la massima dotazione fra tutti gli Stati membri dell’Ue -, il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) dell’Italia è il viatico per innescare e sostenere un cambio di passo del sistema Paese.
Cominciamo dalle buone notizie. L’Italia fa meglio della media europea, secondo le previsioni macroeconomiche d’estate che il commissario all’Economia Paolo Gentiloni ha presentato mercoledì 7 luglio: “La più alta revisione che abbiamo fatto in più di 10 anni”. I tecnici di palazzo Berlaymont rivedono al rialzo (+0,8%) le stime di crescita del Pil italiano per il 2021 rispetto a maggio, portandolo al 5%, poco sopra la media Ue e della zona euro (4,8%). Un pronostico che conferma le previsioni delle scorse settimane di Bankitalia e del Mef guidato da Daniele Franco, ma anche le preoccupazioni per un valore “gonfiato” dalle contingenze economiche e non in grado di mantenersi costante nel medio termine.
Sull’impennata si fanno sentire l’effetto dello sprint della campagna vaccinale, che nell’Ue sta per sfiorare il target 70% della popolazione adulta con una prima dose entro luglio, ma anche delle timide stime al ribasso effettuate a inizio anno. Il rischio che si tratti di un rimbalzo dettato dalle riaperture e dalla ripresa delle attività economiche è, però, dietro l’angolo, anche perché, se si guarda ai valori del 2022, Roma torna a calare, attestandosi al 4,2%, di nuovo sotto il livello medio del blocco.
“In un certo senso, queste sono cifre da boom economico”, ha commentato Gentiloni, “ma dobbiamo sapere che non possiamo accontentarci di un semplice rimbalzo che ci faccia tornare ai livelli striminziti di sviluppo e crescita che l’Italia ha avuto negli ultimi vent’anni”. La sfida non è solo tornare ai numeri pre-crisi, ma “confermare questa spinta positiva nei prossimi 5-10 anni” e avere “una crescita duratura e sostenibile”. Per farlo serve “usare gli investimenti e i grandi finanziamenti europei” del Next Generation EU.
I margini per fare meglio, insomma, ci sono, e portano inevitabilmente ai 58 interventi di riforma e ai 132 investimenti attorno cui è strutturato il Pnrr italiano. Per ora, le stime di crescita non tengono conto dell’impatto – ancora troppo aleatorio – che avranno le riforme strutturali inserite nella strategia. Ma i primi obiettivi da raggiungere nell’esecuzione degli impegni presi dall’Italia con la Commissione e i partner Ue sono lì: si parte dalla giustizia, su cui – come ha ricordato la Guardasigilli Marta Cartabia – si gioca tutta la credibilità del Pnrr del Governo Draghi. Tra gli impegni presi e su cui è alta la vigilanza di Bruxelles, ci sono la riduzione del 40% della cause civili e del 25% dei procedimenti penali. Sui tempi della giustizia, infatti, l’Italia arranca e si aggiudica, per l’ennesima volta, la maglia nera nell’Ue.
Nel Tabellone sulla giustizia con cui la Commissione dà i voti ai sistemi giudiziari degli Stati membri, pubblicato appena 24 ore dopo le previsioni economiche, quello tricolore non se la passa bene: ci vogliono in media 532 giorni per chiudere un processo civile in primo grado, 791 in appello e 1300 per la sentenza definitiva (il dato più alto di tutta l’Unione; Malta, che ci segue in classifica, si ferma a 875). Pure i giudizi amministrativi restano sopra la media europea, con 821 giorni davanti al Tar e 694 in Consiglio di Stato. Non va meglio se si guarda alla fiducia che hanno l’opinione pubblica e le imprese nelle aule di giustizia italiane: piazzamento in fondo alla classifica, in cattiva compagnia di Paesi che con lo stato di diritto hanno più di un problema, come Polonia e Ungheria.
Un promemoria da tenere bene a mente, anche perché nel frattempo, esattamente un anno dopo l’impresa politica che produsse l’intesa, i primi fondi del Next Generation EU cominciano ad arrivare: martedì 13 il Consiglio Ecofin darà l’atteso via libera al primo round di Pnrr già approvati dalla Commissione. È l’ultimo passaggio della complessa procedura – per ora -; a seguire, l’arrivo a Roma dei primi 24,9 miliardi. Il valore di una manovra finanziaria.