[BUENOS AIRES] Giornalista e docente italo-argentino. Collabora con Limes, Il Manifesto e altri. Membro dell’Istituto di relazioni internazionali dell’Università Nazionale di La Plata. Il suo ultimo libro è “Liberlandia. Come l’estrema destra si è presa l’Argentina”, (People 2024)
La narcoguerra insanguina il Messico: 600 morti in 100 giorni
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Una nuova guerra tra i narcos sta insanguinando il Messico in questi giorni. Dal 9 settembre scorso, a seguito di un attacco ordinato da una delle fazioni che cerca di assicurarsi il controllo del Cartello di Sinaloa, la più grande organizzazione narcotrafficante del Messico, si è aperto un conflitto che ha già provocato 600 morti e il sequestro di 700 persone in poco più di 100 giorni. L’origine della faida risiede nella rivalità tra i figli dello storico capo del Cartello, Joaquín Guzmán Loera, alias “El Chapo” (arrestato per la terza volta nel 2017 ed estradato negli Stati Uniti), e uno dei principali leader dell’organizzazione, Ismael Zambada García, detto “El Mayo”, arrestato negli Stati Uniti in circostanze poco chiare. Secondo quanto denunciato dallo stesso Zambada in una lettera pubblicata sul Los Angeles Times, il suo arresto sarebbe stato il frutto di un tradimento da parte di Joaquín Guzmán López, uno dei figli di “El Chapo”, che lo avrebbe ingannato per sequestrarlo e consegnarlo alle autorità statunitensi al confine con il Texas.
L’arresto di Zambada ha scatenato una guerra interna. “Los Chapitos”, come viene chiamata la fazione guidata dai figli dell’ex leader, hanno condotto diverse operazioni per recuperare il controllo di territori strategici lungo le rotte del narcotraffico nello stato di Sinaloa. Il conflitto ha raggiunto livelli senza precedenti: a inizio novembre, il gruppo de “Los Chapitos” ha persino effettuato bombardamenti aerei contro le installazioni strategiche della famiglia Cabrera Sarabia, un clan storicamente alleato dei rivali guidati da “El Mayo” Zambada.
Il Cartello di Sinaloa è l’organizzazione criminale più potente ed estesa dell’intero continente americano. Con una presenza consolidata in 27 dei 31 stati messicani, si dedica principalmente al traffico di fentanyl, cocaina e metanfetamine verso gli Stati Uniti. Gli esperti sostengono che siano stati proprio i leader de “Los Chapitos” a lanciare con forza il traffico di fentanyl, la cosiddetta “droga degli zombie”, negli Stati Uniti. Questa attività ha creato seri problemi a livello bilaterale: Donald Trump, ad esempio, ha minacciato di imporre dazi altissimi su tutti i prodotti messicani se il governo di Claudia Sheinbaum non riuscirà a porre fine alle attività del Cartello di Sinaloa. Nel 2023, su 100.000 casi di morte per overdose registrati negli Stati Uniti, circa l’80% è stato causato proprio dall’uso di questa droga sintetica. La Casa Bianca, da tempo, esercita pressioni sul Messico affinché rafforzi i controlli alla frontiera. Il Cartello di Sinaloa non si limita però al traffico di droga: la sua vasta rete gli consente di imporre un pizzo alla maggior parte delle organizzazioni coinvolte in traffici illegali al confine tra Messico e Stati Uniti, in particolare ai trafficanti di esseri umani.
Sorto alla fine degli anni ’70 come una rete di famiglie contadine dedite alla coltivazione di marijuana e papavero da oppio (piantagioni particolarmente diffuse nella zona di Sinaloa), il cartello ha inizialmente avuto l’obiettivo di proteggere i membri e favorire la cooperazione per espandere i propri affari. Il salto di qualità è avvenuto negli anni ’80, quando gli affiliati hanno iniziato a trafficare grandi quantità di cocaina verso gli Stati Uniti. Questo traffico ha portato i leader storici dell’organizzazione, tra cui Joaquín Guzmán Loera, alias “El Chapo”, a stabilire un sodalizio con il Cartello di Medellín, in Colombia, che ha garantito l’afflusso di enormi quantità di droga via aerea o via mare in territorio messicano. Il trasporto verso il mercato statunitense, gestito attraverso una vasta rete di agenti e funzionari corrotti su entrambi i lati della frontiera, è diventato la grande specialità del Cartello di Sinaloa.
Nei primi anni 2000, durante una delle più sanguinose guerre per il controllo del cartello, “El Chapo” Guzmán mise a capo dell’organizzazione due suoi luogotenenti: Ismael Zambada García, alias “El Mayo”, e Juan José Esparragoza Moreno, alias “El Azul”. Furono loro a dirigere le operazioni del narcotraffico messicano dopo l’arresto di Guzmán nel 2014 e la sua ricattura nel 2017. Dopo la morte di Esparragoza Moreno, alias “El Azul” (ufficialmente deceduto per un infarto, anche se molte voci sostengono che sia ancora vivo e nascosto in un bunker nel sud del Messico), Zambada García, alias “El Mayo”, ha cercato di assumere il controllo totale dell’organizzazione, tentando di eliminare la concorrenza rappresentata dai figli di Guzmán, estradato negli Stati Uniti. Questo è all’origine dell’attuale conflitto tra “Los Chapitos” e “La Mayiza”, la fazione fedele a “El Mayo”, che sta scuotendo l’intero paese.
Durante il fine settimana, la presidente messicana Claudia Sheinbaum ha visitato lo stato di Sinaloa in un chiaro segnale di sostegno al governatore Rubén Rocha Moya. Secondo “El Mayo”, il giorno del suo sequestro si stava dirigendo a una riunione proprio con il governatore Rocha Moya.
Durante la visita nell’epicentro della guerra civile, la presidente messicana ha risposto anche al presidente eletto Trump, che durante un meeting dell’organizzazione ultranazionalista Turning Point a Phoenix, in Arizona, ha annunciato l’intenzione di includere i cartelli della droga messicani nella lista delle organizzazioni terroristiche degli Stati Uniti. “Là si consuma la droga, principalmente, da lì vengono le armi, e qui mettiamo le vite”, ha dichiarato Sheinbaum. “Noi collaboriamo, ci coordiniamo, lavoriamo insieme, ma non ci sottometteremo mai. Il Messico è un paese libero, sovrano e indipendente. E non accettiamo interferenze nel nostro paese”.
L’importanza geopolitica del tandem Meloni-Milei
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“Siamo di fronte a un cambio epocale. Il virus woke sta cedendo di fronte a una nuova politica. Dobbiamo rimanere uniti e stabilire canali di cooperazione in tutto il mondo. La destra deve lottare unita come una falange di opliti o come una legione romana, dove nessuno rompe la formazione”, ha dichiarato Milei durante il suo discorso alla convention della gioventù di Fratelli d’Italia. “Lui sta portando avanti una rivoluzione culturale e, come noi, crede che la politica fatta di sussidi porta verso il baratro, e, come noi, crede che il lavoro è l’unico antidoto contro la povertà”, ha affermato Meloni, invitando i presenti a un forte applauso.
Le ragioni di questo sodalizio intercontinentale sono molte e la sua importanza è stata ribadita durante la visita della presidente del Consiglio italiana a Buenos Aires lo scorso novembre. Un gesto tutt’altro che scontato: prima di Meloni, Matteo Renzi era stato l’unico presidente del Consiglio italiano a visitare l’Argentina dal 1998. Un’assenza senza dubbio sorprendente, dovuta soprattutto alle tensioni create attorno al piano di ristrutturazione del debito estero argentino dichiarato in default dopo la crisi del 2001. Buona parte degli investitori che rifiutarono i termini dell’accordo presentato da Néstor Kirchner nel 2005, e aggiornato da sua moglie Cristina Fernández nel 2010, erano proprio italiani, molti dei quali intrappolati nella famosa vicenda dei cosiddetti “Tango Bond”, che portarono il governo argentino fino alle ultime conseguenze nei tribunali di New York. La questione si risolse nel 2016 con l’arrivo al governo dell’altro ex presidente argentino di origini calabresi, Mauricio Macri, che dopo aver pagato quanto richiesto dalle cordate internazionali, ricevette la visita dell’allora premier Renzi. Ma nemmeno in quel frangente le cose andarono per il meglio. Gli avvicendamenti al governo in Italia e i nuovi guai finanziari di Buenos Aires, inclusi un nuovo e pesantissimo indebitamento con il Fondo Monetario Internazionale, hanno raffreddato il rapporto bilaterale, ripreso solo grazie al tandem Milei-Meloni.
Nonostante l’Argentina sia il paese con il maggior numero di cittadini italiani residenti al mondo, la relazione bilaterale dal punto di vista economico è da sempre al di sotto delle possibilità e delle aspettative. Nel paese operano circa 250 aziende italiane, che danno lavoro a circa 50.000 persone, con un fatturato superiore agli 11 miliardi di euro. Eppure, l’Argentina rimane appena il 61º mercato di destinazione dell’export italiano e il 63º paese fornitore dell’Italia. Secondo gli ultimi dati disponibili, gli investimenti italiani in Argentina superano di poco gli 1,5 miliardi di euro, e l’interscambio commerciale ha raggiunto un valore simile, pari a 1,52 miliardi di euro tra gennaio e settembre 2024.
La distanza, l’instabilità economica argentina, i cortocircuiti tra i governi del passato e l’alto costo dei prodotti italiani sul mercato argentino hanno smussato un rapporto commerciale che, visti i legami culturali e storici tra i due paesi, si presumeva ben più ricco. Proprio per questo la strategia si è orientata verso la selezione di settori specifici su cui collaborare, come quello aerospaziale e quello dei macchinari agricoli. Tuttavia, negli ultimi anni, diverse ragioni geopolitiche hanno spinto l’Italia a rendere più aggressiva la propria strategia in America Latina.
In primo luogo, per una questione ideologica: la destra italiana ha sempre valorizzato il contributo della diaspora italiana nel mondo e promosso l’approfondimento dei legami con le comunità italo-discendenti all’estero. Non per nulla, è stato proprio l’attuale spazio politico al governo a spingere, nei primi anni Duemila, per riconoscere il diritto di voto agli italiani all’estero. Con quasi un milione di cittadini italiani residenti, l’Argentina diventa quindi la punta di diamante dell’azione italiana in America Latina, un continente in cui l’Italia è l’unico paese europeo a poter rivaleggiare con la Spagna per il ruolo di interlocutore naturale in nome dell’Unione Europea.
L’avanzata cinese nella regione e, soprattutto, l’agenda protezionista che si prevede sarà attuata dal governo degli Stati Uniti a partire da gennaio, hanno spinto l’Ue a rafforzare la propria presenza in America Latina. L’Italia potrebbe sfruttare il proprio legame privilegiato con l’Argentina per aumentare il proprio peso a Bruxelles. L’accordo con il Mercosur, inoltre, ha recentemente rimesso in discussione il ruolo dell’America Latina nella strategia internazionale europea.
Nel caso del governo Meloni, inoltre, la relazione con l’attuale presidente argentino le permette di rafforzare il proprio ruolo all’interno dell’internazionale conservatrice, che poco a poco sembra prendere forma in vista del ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca. Il piano di Milei è quello di creare una sorta di lega informale di governi di destra in grado di mettere in discussione buona parte dei principi su cui si basa l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, a partire dalle politiche di genere e dalle proposte per la riduzione dell’impatto del cambiamento climatico, entrambe intese da Milei come elementi centrali della “battaglia culturale” contro l’agenda woke.
Per Milei, in ogni caso, il sostegno dei paesi del G7 è fondamentale in vista di due dossier molto importanti. Il primo è sicuramente l’ennesima negoziazione del debito con il Fondo Monetario Internazionale: il governo argentino ha bisogno di ingenti fondi per stabilizzare l’economia e per poter portare avanti – almeno in parte – il programma proposto da Milei in campagna elettorale, che comprende la dollarizzazione dell’economia, liberalizzazioni, privatizzazioni e l’eliminazione della Banca Centrale. Il secondo riguarda l’entrata dell’Argentina nell’OSCE, un progetto in corso da quasi un decennio ma mai portato a termine. È comprensibile, quindi, che la costruzione di relazioni internazionali che gli consentano di avere maggiore forza per raggiungere questi obiettivi parta da governi con cui sente una certa affinità ideologica.
Esistono inoltre possibilità ed esigenze di breve termine: così come a novembre Milei ha incontrato Flavio Cattaneo, amministratore delegato del gruppo Enel (che, appena insediato il nuovo presidente a Buenos Aires, ha cancellato il piano per la vendita dei propri asset in Argentina), in questa tappa a Roma si è riunito con il presidente di Stellantis, John Elkann, con cui avrebbe concordato nuovi investimenti per la produzione di pick-up in Argentina. Da parte italiana, la possibilità di un canale privilegiato per negoziare l’accesso alle terre rare, il litio e il petrolio argentini è chiaramente un’occasione ghiotta. L’asse Roma-Buenos Aires, che a prima vista sembrerebbe naturalissima, ha trovato un nuovo slancio a causa delle vicissitudini della geopolitica internazionale. Resta vedere, alla luce delle decisioni che prenderà il nuovo governo degli Stati Uniti, fino a che punto il sodalizio andrà fino in fondo.
UE-Mercosur: l’accordo delle tensioni questa volta non può fallire
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L’accordo raggiunto la scorsa settimana a Montevideo tra l’Unione Europea e il Mercosur, volto alla creazione di una delle zone di libero commercio più rilevanti al mondo, continua a suscitare accesi dibattiti su entrambe le sponde dell’Atlantico. Del resto, era già evidente che qualunque dichiarazione emersa durante il summit del Mercosur sarebbe stata più che altro un modo per riaffermare l’interesse a concludere i negoziati, dato che il percorso verso un vero e proprio accordo di libero scambio resta ancora lungo e complesso.
Partiamo dai fatti. Durante il 65º incontro dei presidenti del Mercosur, un’istanza che riunisce semestralmente i capi di Stato di Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay (e, dall’anno scorso, anche la Bolivia, che però non è inclusa nell’accordo UE-Mercosur poiché non faceva parte del blocco durante i negoziati), Ursula von der Leyen ha dichiarato concluse le negoziazioni per un trattato di libero scambio con i paesi sudamericani a nome dei 27 membri dell’Unione Europea. Questo rappresenta già di per sé un dato rilevante e si inserisce nella strategia della Commissione Europea per aggirare il veto imposto da alcuni paesi, come la Francia (i cui agricoltori temono da anni una sorta di “invasione” di prodotti agricoli latinoamericani), la Polonia (principale produttore avicolo dell’UE, che teme la concorrenza di pollame sudamericano con standard sanitari meno rigorosi) e l’Austria.
È vero, però, che il testo annunciato a Montevideo è diverso da quello negoziato negli ultimi 25 anni, pre-accordato nel 2019 e poi bloccato dall’opposizione di diversi parlamenti europei. Tra le novità, è stata inserita una clausola che vincola l’accordo al rispetto del Patto di Parigi sul Clima, obbligando le parti a aderire a tale impegno per continuare a beneficiare del libero scambio tra i due blocchi. Inoltre, i paesi firmatari si impegnano a interrompere il disboscamento entro il 2030, una disposizione chiaramente rivolta ai governi sudamericani. Sebbene in molti dubitino della reale fattibilità di questa misura, essa fornisce ai parlamentari europei un argomento per controbattere le critiche legate alle questioni ambientali. L’UE, dal canto suo, ha promesso di destinare 1,8 miliardi di euro nell’ambito del progetto Global Gateway per favorire la transizione verde nei paesi del Mercosur.
“Le condizioni che abbiamo ereditato erano inaccettabili; era necessario incorporare nell’accordo questioni di grande rilevanza per il Mercosur”, ha dichiarato il presidente brasiliano Lula da Silva durante il suo intervento al summit di Montevideo, riferendosi al pre-accordo del 2019. Secondo Lula, il testo concordato la settimana scorsa è “moderno ed equilibrato, riconosce le credenziali ambientali del Mercosur e rafforza il nostro impegno verso gli accordi di Parigi. Siamo riusciti a preservare i nostri interessi nel settore degli appalti pubblici, il che ci consentirà di implementare politiche pubbliche in aree come la sanità, l’agricoltura familiare e la scienza e tecnologia”.
Il Brasile si è dimostrato uno dei sostenitori più entusiasti del nuovo accordo. Lula stesso ha spinto con forza per riprendere i negoziati durante i preparativi del summit del G20 di Rio de Janeiro, tenutosi a novembre. Secondo le stime ufficiali, l’accordo potrebbe generare per il Brasile un incremento di 130 miliardi di dollari all’anno nel proprio PIL.
Rispetto al testo del 2019, sono state introdotte modifiche significative riguardanti la gradualità dell’entrata in vigore dell’accordo. L’UE avrà a disposizione 10 anni per eliminare i dazi sull’importazione di tutti i beni industriali prodotti nel Mercosur. A sua volta, il Mercosur porterà a zero le tariffe sull’82% delle importazioni provenienti dall’Europa, inclusi automobili (attualmente soggette a un’imposta del 35%), autoricambi (18%) e prodotti farmaceutici (14%).
Per quanto riguarda i prodotti agricoli, settore particolarmente delicato per i produttori europei, sono state ricalibrate le quote di esportazioni a dazi zero che il Mercosur potrà destinare all’UE. Ad esempio, metà delle importazioni di carne bovina dal Mercosur (circa 100.000 tonnellate metriche, pari all’1,5% del consumo di carne dell’UE) potranno entrare con una tariffa doganale speciale del 7,5%. Quote specifiche sono state inoltre concordate per pollame, carne suina, zucchero, riso, etanolo, miele e mais. Sul fronte opposto, i formaggi europei potranno entrare nel Mercosur con tariffe azzerate fino a un massimo di 30.000 tonnellate metriche, insieme a latte in polvere, vino – di cui l’Argentina è uno dei principali produttori mondiali –, olio d’oliva, cioccolato e frutta fresca. I paesi sudamericani, inoltre, riconosceranno 357 denominazioni d’origine europee, un aspetto particolarmente rilevante per l’Italia.
Infine, l’accordo consentirà all’UE di importare metalli e terre rare, riducendo così la propria dipendenza dalla Cina, e aprirà un mercato importante nel settore dei servizi, in particolare per telecomunicazioni e trasporti marittimi.
Ecco una versione più chiara e scorrevole dei paragrafi, con tutte le informazioni preservate:
In questo scenario, il Mercosur aprirebbe un canale preferenziale per i prodotti europei, riducendo le attuali barriere doganali estremamente elevate e mettendo l’UE in una posizione di vantaggio per competere contro i rivali statunitensi e giapponesi nel mercato sudamericano. Questa decisione è stata fortemente influenzata dal ritorno di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, il principale partner commerciale dei paesi latinoamericani insieme alla Cina. L’approccio protezionista previsto per gli Stati Uniti rischia infatti di aggravare ulteriormente le difficoltà economiche del Cono Sud. Un ulteriore fattore determinante è la presenza, per la prima volta, di quattro governi favorevoli all’accordo: in passato, se non era la sinistra argentina dei Kirchner o di Alberto Fernández a ostacolarlo, era l’estrema destra brasiliana di Jair Bolsonaro a bloccarne l’avanzamento. Anche il bisogno della nuova Commissione Europea di presentare risultati concreti nel più breve tempo possibile e la necessità strategica dell’Occidente di contenere l’espansione cinese in America Latina hanno accelerato i negoziati.
Tuttavia, il cammino verso la ratifica dell’accordo resta complesso. La strategia della Commissione Europea di dividere il testo in due parti, per evitare che una minoranza di paesi membri (Francia e Polonia a cui potrebbero aggiungersi Austria, Olanda e Irlanda) blocchi l’intero processo, richiede una delicata ingegneria politico-istituzionale, proprio in un momento in cui a Bruxelles il consenso è tutt’altro che abbondante. Tutto dipenderà dalle garanzie che la Commissione riuscirà a fornire ai paesi ancora incerti, il cui dissenso potrebbe nuovamente far naufragare l’accordo. Anche in Sudamerica, nonostante l’apparente consenso tra i quattro paesi membri, potrebbero emergere ostacoli. La politica estera di Javier Milei, orientata a un allineamento incondizionato con Washington e ostile alle agende ambientali o con prospettiva di genere, come l’Agenda 2030 e le Conferenze sul Clima dell’ONU, potrebbe creare imbarazzo al governo argentino prima ancora che l’accordo venga approvato. Anche in Brasile, la sinistra ha preso le distanze dai termini del trattato sostenuti da Lula. Secondo La Via Campesina, uno dei più grandi coordinamenti di piccoli produttori agricoli al mondo, l’accordo rappresenta “una ricolonizzazione europea dei paesi del Mercosur, che rafforza il modello storico di monocoltura agroesportatrice”. L’organizzazione ha promesso di organizzare grandi mobilitazioni sia in Europa che in America Latina. Insomma, l’ottimismo che ha accompagnato l’annuncio di un accordo sembrerebbe, a priori, motivato più dal bisogno di entrambi i blocchi di riordinare e consolidare la propria linea di politica estera che da concreti indizi di fattibilità dell’area di libero scambio.
L’accordo UE-Mercosur al summit di Montevideo
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Questo giovedì inizia il Summit del Mercosur a Montevideo, un evento centrale per il futuro del blocco commerciale. Durante l’incontro, oltre al passaggio di testimone della presidenza pro-tempore dall’Uruguay di Luis Lacalle Pou all’Argentina di Javier Milei — che lo scorso luglio aveva persino disertato il summit di Asunción — si discuteranno questioni cruciali. Dopo anni di stallo dovuti alle divergenze tra Argentina, Brasile, Paraguay, Uruguay e, più recentemente, la Bolivia (appena integrata formalmente nel blocco), l’Accordo di Libero Scambio con l’UE è tornato al centro del dibattito, con rinnovata attenzione.
I negoziati per questo accordo sono iniziati nel 1999, ma solo nel 2019 si è raggiunto un timido pre-accordo, rimasto poi in sospeso. Recentemente, durante le riunione in preparazione agli incontri del G20 a Río de Janeiro, il Brasile di Lula da Silva ha spinto per la ripresa delle trattative, prospettando addirittura la firma di un’intesa definitiva entro il 2025. Anche la Commissione Europea, che rappresenta i 27 Stati membri nelle negoziazioni, ha mostrato ottimismo, intravedendo la possibilità di raggiungere un consenso nel breve periodo.
L’accordo creerebbe una delle zone di libero commercio più grandi al mondo, coinvolgendo 800 milioni di persone e quasi il 25% del PIL globale. A sostenerlo sono settori potenti da entrambe le sponde dell’Atlantico: il comparto automobilistico europeo (soprattutto quello tedesco), l’industria chimica e metalmeccanica, e il settore agroalimentare del Mercosur, guidato dall’industria della carne brasiliana e dalla produzione agricola argentina. La riduzione — o eliminazione — delle tariffe doganali offrirebbe a questi settori accesso privilegiato a mercati estremamente appetibili.
Per l’industria automobilistica europea, si aprirebbero spazi per competere con colossi giapponesi e statunitensi in America Latina, mentre i prodotti agricoli del Mercosur guadagnerebbero maggiore visibilità nei supermercati europei, con prezzi competitivi. Tuttavia, questa prospettiva suscita preoccupazioni. Da un lato, le industrie latinoamericane temono di non poter reggere la concorrenza europea; dall’altro, gli agricoltori europei — in particolare quelli francesi e polacchi — denunciano che non potranno competere con prodotti che non rispettano gli stessi standard ambientali e sanitari richiesti nell’UE. In Francia, ad esempio, si teme che l’accordo possa sacrificare l’agricoltura locale sull’altare dell’industria automobilistica tedesca, mentre in Sud America si paventa un ulteriore indebolimento dell’industria regionale e una condanna definitiva alla dipendenza dall’esportazione di materie prime.
Per il Mercosur, tuttavia, l’accordo rappresenta una sfida più profonda. Da anni gli analisti parlano di un blocco “in fase terminale”. Nato negli anni ’80 per ridurre le tensioni tra Argentina e Brasile e promuovere l’integrazione economica nel Cono Sud, il Mercosur include oggi un’unione doganale imperfetta e una zona di libero commercio in cui l’80% dei beni proviene da fuori il blocco. Le regole del Mercosur, sancite dal Protocollo di Ouro Preto del 1994, impediscono ai membri di negoziare accordi commerciali individuali, ma le profonde differenze economiche e politiche tra i paesi membri hanno spesso bloccato l’integrazione.
Questa stagnazione ha portato ogni paese a sviluppare strategie commerciali proprie. Il Brasile si muove nell’ambito dei BRICS, l’Argentina di Milei guarda a Stati Uniti e Israele, l’Uruguay spinge per un accordo di libero scambio con la Cina e il Paraguay mantiene relazioni uniche come uno dei pochi paesi al mondo a riconoscere Taiwan. La mancanza di una visione comune rende complessa qualsiasi strategia a lungo termine, incluso l’accordo con l’UE.
Tra i principali ostacoli emergono richieste come quella francese di rinegoziare l’accordo per includere standard ambientali più severi, una posizione che l’Argentina ha contrastato abbandonando il summit della COP29 a Baku. Altre tensioni riguardano la possibilità per i singoli paesi del Mercosur di negoziare accordi bilaterali, una proposta sostenuta dall’Uruguay per dialogare con la Cina. Proprio il padrone di casa, Lacalle Pou, si trova inoltre in una posizione peculiare: le elezioni della scorsa settimana hanno sancito il ritorno al potere della sinistra del Frente Amplio, e il presidente eletto Yamandú Orsi – che ha già visitato Lula per coordinare una posizione comune in vista del Summit – sarà presente durante l’incontro di questo weekend.
Per i governi del Mercosur, dunque, il summit di Montevideo appare più come un’occasione per ricostruire una certa armonia interna piuttosto che per definire i dettagli dell’accordo con l’UE. Tariffe doganali, flessibilità normativa e negoziati bilaterali saranno i temi centrali del dibattito, nel tentativo di salvare un progetto di integrazione sempre più frammentato.
Uruguay: parte la “rivoluzione delle cose semplici” del presidente Orsi
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La sinistra torna al governo in Uruguay. Yamandú Orsi, 57enne professore di storia e candidato dell’ormai mitica coalizione della sinistra uruguaiana, sorta dall’iniziativa degli ex guerriglieri Tupamaros e altre espressioni della resistenza alla dittatura militare (1973-1985), il Frente Amplio, ha battuto al ballottaggio di domenica scorsa il centrodestra al governo. Orsi ha ottenuto circa 4 punti percentuali in più rispetto al conservatore Álvaro Delgado, un distacco che va analizzato soprattutto in chiave geografica: la destra ha infatti vinto nella maggior parte dei distretti del Paese, salvo la capitale Montevideo, Canelones – dove Orsi è stato sindaco per diversi anni – e dintorni. Ancora una volta, la radiografia elettorale mostra un Paese piuttosto diviso tra la metropoli, dove vive oltre il 50% della popolazione, e le regioni rurali.
Nel 2019, quando il conservatore Luis Lacalle Pou strappò il governo al Frente Amplio per soli 37.000 voti, la sinistra comprese la necessità di ridurre il rifiuto nei propri confronti maturato nelle regioni dell’“interior” e di rafforzare la presenza nel proprio bastione, Montevideo: un progetto a lungo termine che sembra aver dato i suoi frutti.
Gli scandali di corruzione che hanno minato la fiducia nel presidente Lacalle Pou, i magri risultati economici a favore dei settori più umili, in particolare tra i giovani, e la debolezza del candidato del centrodestra – scelto, in parte, per consentire a Lacalle Pou di ripresentarsi nel 2029 – hanno segnato una campagna elettorale definita da molti come “l’elezione più noiosa del mondo”.
L’Uruguay si conferma infatti un’anomalia nella regione (e non solo): un sistema di partiti tradizionali forti, senza outsider che ne minaccino l’egemonia; una polarizzazione politica moderata dal dibattito istituzionale; sondaggi capaci di prevedere il risultato con precisione; e una transizione che si prevede ordinata e cordiale. La cultura politica uruguaiana, unica al mondo, è poco attraente per i mass media internazionali, ma una manna per gli investitori globali.
Infatti la stabilità politica non è l’unica peculiarità del Paese: anche l’economia uruguaiana si distingue dai risultati del resto dell’America Latina. Secondo un recente report, tra il 2005 e il 2020, il “paisito” ha aumentato la spesa sociale dal 18% al 25% del PIL, generando programmi che hanno beneficiato il 30% delle famiglie, senza compromettere i conti pubblici. Durante i tre governi consecutivi del Frente Amplio (2005-2019), la povertà è scesa dal 40% al 9%. Tuttavia, i rigidi limiti fiscali imposti dal governo di Lacalle Pou e gli effetti della pandemia hanno fatto risalire gli indicatori di povertà, disuguaglianza e disoccupazione dopo quasi due decenni di miglioramento.
Il nuovo presidente ha deciso di evitare la polarizzazione e, nel suo primo discorso da eletto, si è detto disposto a collaborare con tutte le forze politiche. Ne ha bisogno: sebbene il Frente Amplio abbia conquistato una risicata maggioranza al Senato con 16 seggi su 30, alla Camera dovrà negoziare di volta in volta con i diversi partiti per far approvare i propri progetti. È la prima volta, dalla vittoria di Tabaré Vázquez nel 2005, che la sinistra uruguaiana governa senza maggioranza parlamentare.
L’opposizione, composta dal Partito Nazionale (PN), il Partito Colorado (PC), il Partito Indipendente (PI), l’estrema destra di Cabildo Aperto (CA) e il Partito Costituzionale Ambientalista (PCA), conta 51 deputati su 99. Tuttavia, la vocazione al dialogo di Orsi non è solo una necessità politica. Già durante la campagna elettorale, all’interno del Frente Amplio si era diffuso il nomignolo di “TibiOrsi” (TiepidOrsi) per indicare il moderato spostamento del candidato verso il centro.
È in questo contesto che nasce la “rivoluzione delle cose semplici”, un motto che riflette la volontà del nuovo governo di migliorare la vita quotidiana senza ambire a cambiamenti radicali. Il Movimento per la Partecipazione Popolare 609 (MPP 609), fondato da Mujica e di cui Orsi fa parte, ha definito questa rivoluzione così: “Come nella fisica e nella chimica, piccoli cambiamenti generano trasformazioni radicali, soprattutto nella vita umana. Quando un paio di metri quadrati, i pasti quotidiani e i vestiti puliti possono trasformare la realtà di alcuni, sommata a quella di altri, producono un cambiamento radicale, così come una goccia, pur essendo poca, con un’altra si trasforma in pioggia”.
Si citano i casi di Finlandia, Singapore, Giappone e Corea (tutti modelli poco comuni nella retorica elettorale tipica della sinistra latinoamericana) come esempi di paesi che a partire dall’attenzione alle “cose semplici” hanno fatto grandi passi in avanti: “Paesi che a metà del secolo scorso erano sottosviluppati e che oggi sono tra i più ricchi del mondo. Sebbene tutti abbiano modelli di sviluppo diversi, si possono dare alcuni punti in comune: tutti hanno investito in scienza, tecnologia, infrastrutture pubbliche e istruzione”.
Il modello di Orsi prevede un’economia di mercato aperta agli investimenti internazionali, con grandi incentivi per le aziende straniere, uno Stato sociale forte, aziende pubbliche strategiche e ammortizzatori sociali per i più deboli. Tuttavia, questo modello in America Latina spesso contrasta con la protezione ambientale e promuove un sistema produttivo incentrato sull’esportazione di materie prime, spesso dominato da aziende straniere, penalizzando l’industrializzazione endogena. Queste contraddizioni rendono Orsi un leader scomodo per l’ala sinistra del Frente Amplio, ma vincente. La cultura politica uruguaiana si distingue per un voto basato sui programmi di partito, con candidati controllati dalle strutture politiche.
La moderazione del nuovo governo si riflette nella scelta di funzionari come il futuro ministro dell’Economia, Gabriel Oddone, ex socialista con una visione favorevole al libero mercato, poco apprezzato dai settori più radicali della coalizione.
Infine, restano i nodi geopolitici da sciogliere: la relazione col Brasile, apparentemente buona; quella con l’Argentina di Milei; il futuro del Mercosur, messo in discussione dalle liberalizzazioni economiche di Lacalle Pou; e il dialogo con la Cina per un accordo di libero commercio, osteggiato dalle norme del Mercosur e, probabilmente, dagli Stati Uniti di Donald Trump. Insomma, nonostante le intenzioni di Orsi, il suo governo non sembra affatto avviarsi su un cammino fatto di “cose semplici”.
L’Argentina di Milei si schiera con Usa e Israele contro tutti e contro tutto
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Dopo una fase caratterizzata dalla diplomazia dell’insulto, adottata in particolare nei primi mesi di mandato, il governo di Javier Milei in Argentina, galvanizzato dal recente trionfo di Donald Trump negli Stati Uniti, ha mostrato l’intenzione di adottare una politica di dissociazione dalla maggior parte degli accordi internazionali. Cambiamento climatico, violenza di genere, disuguaglianze e sviluppo sostenibile sono i principali temi da cui l’Argentina si è smarcata, in attesa che un secondo governo Trump dia manforte a Buenos Aires nei prossimi mesi. Solo nell’ultimo mese, l’Argentina ha denunciato il Patto per il Futuro dell’Onu, ha votato in solitaria contro alcune risoluzioni dell’Assemblea Generale, si è dissociata dagli accordi presi al G20 e ha persino ritirato la propria delegazione dalla XIX Conferenza delle Parti della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici a Baku.
I primi segnali di questa nuova politica controcorrente sono arrivati durante il discorso del presidente Milei in occasione dell’apertura delle sessioni ordinarie dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, quando ha definito l’Onu un’organizzazione “di stampo socialista” che, attraverso l’Agenda 2030, cerca di “diffondere il collettivismo” e limitare la libertà umana. “Abbiamo già visto come un’organizzazione nata per difendere i diritti dell’uomo sia stata uno dei principali promotori della violazione sistematica della libertà, come – ad esempio – le quarantene globali del 2020, che dovrebbero essere considerate un crimine contro l’umanità”, ha sostenuto Milei. “Da oggi, sappiate che la Repubblica Argentina abbandonerà la posizione di neutralità storica che ci ha caratterizzato e sarà in prima linea nella lotta per la difesa della libertà”.
Buenos Aires ha stupito votando contro due risoluzioni adottate dall’Assemblea Generale: una che sancisce i diritti dei popoli indigeni e un’altra volta a intensificare gli sforzi per prevenire ed eliminare tutte le forme di violenza contro le donne e le bambine nell’ambiente digitale. In entrambi i casi, l’Argentina è stato l’unico paese su 193 a opporsi. Anche durante le negoziazioni precedenti al Summit del G20 di Río de Janeiro, la delegazione argentina ha assunto posizioni polemiche: è stata l’unica a rifiutarsi di sottoscrivere l’impegno a promuovere “programmi, iniziative e politiche” per ridurre il divario retributivo e digitale di genere. Sebbene l’Argentina abbia firmato il comunicato finale dell’incontro, il governo Milei ha successivamente dichiarato di dissociarsi da diversi punti dell’accordo, tra cui: “la promozione della limitazione della libertà di espressione sui social network, il regime di imposizione globale, la violazione della sovranità e la nozione che un maggiore intervento statale sia il mezzo per combattere la fame”.
Bersaglio principale della diplomazia argentina è stato il Patto Globale contro la Fame, promosso dal brasiliano Lula da Silva, che prevede nuove misure fiscali sui super-ricchi per finanziare un fondo internazionale contro la fame. “Dobbiamo deregolamentare l’attività economica per liberalizzare il mercato e facilitare gli scambi; il capitalismo di libero mercato ha già tirato fuori dalla povertà estrema il 90% della popolazione globale e raddoppiato l’aspettativa di vita”, ha risposto la diplomazia argentina, che con Lula porta avanti un braccio di ferro lungo dieci mesi, cioè da quando Javier Milei si è insediato alla Casa Rosada. L’attuale presidente aveva sostenuto di non voler avere nulla a che fare con “comunisti con le mani sporche di sangue”, ed aveva nominato proprio Lula e Xi Jinping. Con entrambi si è riunito durante il summit del G20 di Río, ma sebbene la relazione col presidente cinese si sia a poco a poco normalizzata, quella con la potenza sudamericana e principale partner commerciale dell’Argentina, rimane tesa.
Il vicepresidente di Lula, Geraldo Alckmin, ha definito Milei un pericoloso “negazionista” del cambiamento climatico alla vigilia del Summit di Río, criticando il ritiro argentino dalla Cop29. Al di là della convenienza in politica interna – Milei condivide infatti la propria posizione sullo sviluppo sostenibile con il leader dell’opposizione brasiliana, Jair Bolsonaro – l’inatteso abbandono del Summit in Azerbaigian da parte della delegazione argentina ha ricadute anche sulla politica estera brasiliana: le negoziazioni tra l’Unione Europea e il Mercosur (composto da Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay) si vedrebbero infatti compromesse per la mancanza di garanzie nell’aspetto ambientale in Argentina, pretese specialmente dalla controparte europea. Il governo argentino starebbe ora valutando la possibilità di ritirarsi anche dall’Accordo sul clima di Parigi, emulando così gli Usa di Trump. É proprio il ritorno del tycoon ora l’evento internazionale più atteso a Buenos Aires: sarà l’impostazione della politica estera di Washington a definire fino a che punto Buenos Aires potrà continuare a prendere le distanze dalla propria politica estera tradizionale e continuare a generare tensioni continentali e globali.
A livello domestico il governo Milei giustifica la propria posizione proprio a partire dall’allineamento con la posizione internazionale di Usa e Israele, considerati i fari della libertà a livello globale dal presidente Milei. Eppure, nei fatti, le ultime posizioni argentine assunte a livello multilaterale contraddicono questa versione. Ne caso del Patto per il Futuro dell’Onu, ad esempio, Buenos Aires ha votato in sintonia con paesi come Venezuela, Iran, Corea del Nord, Haiti, Guinea Equatoriale, Somalia o Uzbekistan.
La strumentalizzazione della politica estera argentina in funzione di necessità politiche interne è stata evidente lo scorso 30 ottobre, quando il governo Milei ha annunciato il licenziamento della ministra degli Esteri Diana Mondino dopo il voto a favore della risoluzione annuale di condanna all’embargo contro Cuba. Sebbene si tratti di una posizione storica dell’Argentina – che vota a favore della risoluzione ogni anno dal ritorno della democrazia nel 1983 – Milei ha denunciato la decisione “scellerata” da parte dell’ex ministra di “schierarsi a favore di una sanguinosa dittatura” invece di seguire l’esempio di paesi “liberi e democratici” come Usa e Israele.
Una mossa dettata dunque esclusivamente dal bisogno del nucleo duro del potere presidenziale di disfarsi della Mondino e sostituirla con qualcuno più vicino alla sua visione, come l’attuale ministro, il multimilionario Gerardo Werthein. Il governo ha poi lanciato una vera e propria caccia alle streghe dentro al servizio diplomatico del paese, con agenti governativi dedicati a scovare diplomatici “che non si adeguano ai principi della libertà” dettati dal presidente. Decisioni che, ad ogni modo, hanno anche ricadute molto importanti per la politica estera del paese a lungo termine.
Il caso della risoluzione sull’embargo a Cuba è strettamente legato ad uno dei dossier più sensibili per la storia argentina: le isole Malvinas, sotto dominio inglese dal 1833. A causa della peculiare situazione data dagli equilibri geopolitici globali della Guerra Fredda, L’Avana ha infatti un ruolo di grande importanza nei lavori della commissione per la decolonizzazione dell’Onu, che segue, tra gli altri, proprio il caso delle isole contese tra Londra e Buenos Aires. La Cuba di Fidel Castro fu una delle prime nazioni a riconoscere la sovranità argentina sulle isole, e da allora è considerata un alleato chiave nell’Assemblea Generale per i negoziati bilaterali con Londra. L’allineamento “senza se e senza ma” del governo Milei con Usa e Israele incrina per la prima volta i rapporti diplomatici del paese con un governo che mantiene un’autorità internazionalmente riconosciuta su un caso particolarmente caro alla diplomazia argentina.
In altri aspetti, le ripercussioni potrebbero essere ancora più dolorose per Buenos Aires. Il ritiro dalla Cop29 di Baku mette a rischio il finanziamento internazionale che l’Argentina riceve per progetti di sostenibilità in atto da decenni nel paese. La dissociazione dal Patto del Futuro dell’Onu potrebbe altresì comportare l’esclusione dell’Argentina da importanti dibattiti globali come lo sviluppo sostenibile, la pace e la sicurezza internazionali. Il negazionismo climatico acuisce le tensioni nella regione, specialmente coi paesi amazzonici che spingono invece per portare il Sudamerica su una strada diametralmente opposta.
Bisognerà attendere il 20 gennaio dunque, per sapere fino a che punto Milei è disposto a tirare la corda del multilateralismo. Il sostegno di Washington sarà cruciale per la proiezione internazionale del governo argentino. Che, secondo molti, a Río ha sfoggiato la veste di “portavoce” del nuovo governo Usa sulle principali questioni dell’attualità internazionale.
Trump e l’America Latina: migrazioni, dazi e sicurezza
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Il ritorno di Trump alla Casa Bianca ha scatenato forti reazioni in America Latina, continente che si prepara ad un nuovo cambiamento nell’ordine regionale.
Messico
Il Messico è il primo paese che ha reagito alla notizia della vittoria elettorale di Trump. Circa l’80% delle esportazioni messicane sono destinate agli Stati Uniti, con un commercio bilaterale che supera gli 800 miliardi di dollari e una frontiera di 3.200 chilometri condivisa. Il termine più usato dagli analisti per descrivere la futura relazione tra Trump e la neoletta presidente messicana, Claudia Sheinbaum, è “tortuosa”. I mercati sembrano confermare questa previsione: il peso messicano ha perso il 21% del suo valore rispetto al dollaro entro le prime 12 ore dalla conferma della vittoria di Trump.
La questione migratoria è tra i dossier principali. Trump ha promesso deportazioni di massa di migranti illegali, che secondo il Dipartimento di Sicurezza Nazionale sono circa 11 milioni, di cui 4 milioni messicani e altri provenienti da America Centrale e Sudamerica. Il piano prevede anche l’abolizione del Temporary Protected Status e dell’Humanitarian Parole, creando un collo di bottiglia in Messico, dove i richiedenti asilo dovrebbero attendere la risoluzione dei loro casi, come avvenuto già durante la prima amministrazione Trump.
Sul fronte commerciale, nonostante l’esistenza del Canada-United States-Mexico Agreement (CUSMA), Trump ha promesso dazi elevati su beni di consumo importati dal Messico, specialmente auto. “Tutto quello che vendono negli Stati Uniti avrà un dazio del 25% finché non smetteranno di importare droga”, ha affermato recentemente a Pittsburgh. Durante la presidenza di Manuel López Obrador, predecessore della Sheinbaum e suo mentore, l’unico modo per evitare dazi fu la trasformazione del Messico in una sorta di “paese terzo sicuro” per i migranti latinoamericani diretti negli Stati Uniti.
E poi c’è la questione cinese. Tra la Repubblica Popolare e il Messico infatti aleggia da anni la possibilità di trasformare il paese centroamericano in un hub per la triangolazione delle esportazioni cinesi verso gli Usa, e per la ricezione di investimenti cinesi nelle filiere d’interesse per l’economica statunitense. Oggi il 16% delle importazioni statunitensi proviene dal Messico, e non esiste norma né accordo che impedisca una possibilità simile, che resta dunque subordinata alla capacità di negoziazione da entrambe le parti.
Brasile
L’altro governo in allarme per il ritorno di Trump è il Brasile. Lula da Silva non solo si trova di fronte a un rivale ideologico, ma anche al sostegno della destra conservatrice brasiliana, rappresentata da Jair Bolsonaro, che ha festeggiato la vittoria di Trump. “Siccome sono un amante della democrazia, credo che sia la cosa più sacra che gli umani possano costruire per governare bene il nostro paese, ovviamente sostengo Kamala per vincere le elezioni”, aveva sostenuto Lula durante un’intervista all’emittente francese TF1 il primo novembre scorso.
Il Brasile compete con gli USA in termini di produzione agricola a livello continentale e globale. Secondo il Ministero dell’Agricoltura brasiliano, le esportazioni agricole brasiliane potrebbero raggiungere i 180 miliardi di dollari entro il 2025, mentre quelle statunitensi sono circa 170 miliardi. Nel 2019, Trump aveva minacciato di imporre dazi sulle importazioni brasiliane di ferro e alluminio. Ma l’influenza della Cina in Brasile è una realtà consolidata, diversamente dal caso messicano, e Trump potrebbe inasprire le tensioni in risposta a eventuali legami più stretti con Pechino.
La questione venezuelana potrebbe aggravare ulteriormente le tensioni. Con l’inizio del nuovo mandato di Nicolás Maduro il 6 gennaio, Trump sembra pronto a riattivare una politica di “massima pressione” verso Caracas, in controtendenza rispetto alla sospensione delle sanzioni attuata da Biden nel 2023. Lula, pur prendendo le distanze da Maduro, teme che la nuova strategia di Trump possa riproporre un’internazionale conservatrice in stile “Gruppo di Lima”, rafforzando così le destre nel continente, e mettendo sotto pressione il governo Lula.
Colombia
Forti le ripercussioni anche per la Colombia, antico alleato strategico di Washington nella regione, in cui però dal 2022 si è instaurato il primo governo di sinistra della storia del paese, guidato dall’ex guerrigliero Gustavo Petro. Una nuova amministrazione Trump, sebbene non terrebbe in primo piano vincoli con Bogotà, potrebbe però ostacolare la realizzazione dei principali progetti messi in atto da Petro: l’implementazione profonda degli Accordi di Pace firmati nel 2016 tra le estinte Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (Farc) e il governo colombiano, che prevedono cambiamenti drastici nella matrice produttiva del paese a favore delle comunità contadine; o il piano della Paz Total, con cui Petro ha aperto un dialogo con tutti i gruppi armati attivi in Colombia (guerriglie, paramilitari, narcos) per raggiungere accordi parziali che portino all’eliminazione della violenza nel paese. Trump, ligio alla politica della mano dura e la “guerra contro il narcotraffico”, potrebbe sospendere il sostegno statunitense ai programmi sociali introdotti in Colombia – da dove proviene la maggior parte della cocaina commercializzata negli Usa – dagli accordi di pace, esigere la reintroduzione dell’eradicazione forzata delle piantagioni di coca (proibita dagli accordi del 2016) o il ritorno addirittura delle irrorazioni aeree di erbicidi contro le piantagioni che hanno storicamente messo in ginocchio l’economia contadina delle regioni andine. Bogotà potrebbe finire nella lista dei “paesi che non collaborano con la lotta alle droghe” del dipartimento di stato, condizionando così la cooperazione in molti altri ambiti, come la conservazione del patrimonio ambientale e culturale dell’Amazzonia, obiettivo su cui Petro si è seriamente impegnato anche in ambito internazionale.
Argentina
Sul fronte opposto, il presidente argentino Javier Milei vede nel ritorno di Trump un’opportunità: spera infatti che il leader repubblicano faccia pressione sul Fondo Monetario Internazionale per ottenere nuovi fondi e condizioni più favorevoli. Milei mira a ottenere l’appoggio di Trump per affrontare il debito ereditato dal prestito del 2018, concesso con il sostegno di Trump per stabilizzare il governo di Mauricio Macri e contenere le forze di sinistra. Sebbene non condivida quasi nulla dell’agenda macroeconomica del repubblicano (protezionista e nazionalista, mentre il presidente argentino si autoproclama globalista e “anarcocapitalista”), il ritorno di Trump al governo Usa rafforza chiaramente l’agenda della destra regionale, di cui Milei si sente principale esponente.
Elezioni Usa: l’importanza del voto latino
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Alla vigilia delle elezioni negli Stati Uniti, il peso del voto degli immigrati latinoamericani torna in primo piano, in una competizione che, secondo la maggior parte dei sondaggi, si deciderà per un pugno di voti. Oltre 62 milioni di latinoamericani risiedono negli USA, rappresentando poco meno del 19% della popolazione e il 15% degli aventi diritto al voto. La comunità latinoamericana potrebbe essere determinante in almeno nove stati, tra cui New Mexico, dove costituisce il 45% dell’elettorato, California (33%), Texas (32%), Arizona (25%), Nevada (22%) e Florida (22%), oltre a Colorado, New Jersey e New York. Secondo l’Università della Florida, rispetto al 2020, un milione di latinoamericani si è trasferito in uno degli swing States, decisivi per l’esito finale delle elezioni.
Un elettorato di questa portata, sebbene tradizionalmente favorevole al Partito Democratico, ha mostrato una chiara variazione nelle preferenze di voto negli ultimi anni. La tendenza del voto latino sta cambiando, innanzitutto perché sempre più elettori sono di seconda o terza generazione e tendono a identificarsi come statunitensi piuttosto che con un’identità etnica specifica. Per molti di loro, la scelta elettorale è influenzata più dalla condizione sociale, dal livello di istruzione o dalle aspirazioni che dall’appartenenza comunitaria. “Gli elettori delle minoranze votano molto più lungo le linee di classe economica che non come una razza o un’etnia,” afferma Mike Madrid, autore di The Latino Century: How America’s Largest Minority Is Transforming Democracy, in un’intervista a Politico. “Il partito che saprà conquistare una classe operaia multietnica sarà dominante nella prossima generazione. I Democratici hanno avuto un vero problema con la classe operaia, poiché il divario tra persone laureate e non ha consolidato gli elettori con istruzione universitaria nelle loro fila. E ciò che è successo quando le persone con un’istruzione universitaria si sono allineate di più al Partito Democratico, e questo è diventato un partito meno diversificato”.
Un altro fattore è la crescente diversità interna della comunità latina. Pur rimanendo i messicani la nazionalità migrante più numerosa negli USA, sono aumentate altre comunità, come i portoricani (oltre 6 milioni di votanti, molti concentrati nello stato-chiave del Pennsylvania), e le comunità venezuelane, cubane, honduregne e salvadoregne. Ciascuna di queste tende a dare priorità a questioni diverse: dalla politica sull’immigrazione a quella sui governi autoritari latinoamericani. I precedenti di entrambi i candidati riguardo all’America Latina non sono entusiasmanti. Se Trump ha spesso lanciato dichiarazioni offensive contro i paesi latinoamericani, Kamala Harris, incaricata dal presidente Biden dei rapporti con i paesi centroamericani, è ricordata per la deludente politica di contenimento dell’immigrazione concordata con Messico, Guatemala e Honduras.
Pochi giorni prima del voto, il comico Tony Hinchcliffe ha scatenato polemiche con un intervento durante un comizio a favore di Trump al Madison Square Garden, definendo Porto Rico “un’isola di spazzatura che galleggia sull’oceano”. Celebrità portoricane come Bad Bunny, Ricky Martin e Jennifer Lopez hanno risposto esprimendo il proprio sostegno a Kamala Harris. Questo episodio è diventato un “October Surprise”, l’evento che a poche settimane da ogni tornata elettorale potrebbe influenzare o addirittura definire l’esito delle elezioni. Tuttavia, a Porto Rico, territorio non incorporato degli Stati Uniti, la situazione appare diversa. Sebbene gli oltre tre milioni di portoricani dell’isola siano cittadini statunitensi, non possono votare alle presidenziali né eleggere membri del Congresso di Washington, che stabilisce le leggi a cui devono sottostare. Due referendum, nel 2012 e nel 2020, hanno mostrato il desiderio della maggioranza di diventare il 51° stato degli USA, ma Washington ha sempre ostacolato o rinviato il processo. Queste frustrazioni, unite a problemi come la corruzione dilagante e la cronica crisi energetica, hanno accresciuto il consenso per il Partito Indipendentista Portoricano, che per la prima volta ha concrete possibilità di eleggere un governatore, Juan Dalmau, nelle elezioni locali che si terranno anch’esse questo martedì.
Negli USA intanto, un’incognita legata al voto latino è l’affluenza. Tra tutti i gruppi etnici, i latinoamericani sono quelli meno propensi a presentarsi alle urne: nel 2020 solo il 54% degli elettori latinoamericani ha votato. L’affluenza è ancora più bassa tra i giovani: solo il 14% dei latini sotto i 30 anni ha votato nelle elezioni del 2022, rispetto al 23% delle presidenziali del 2020. Negli stati che tradizionalmente definiscono le elezioni presidenziali, Arizona, Georgia, Michigan, Nevada, North Carolina, Pennsylvania, e Wisconsin, il 56% dei latini registratisi per votare lo ha fatto come votante del Partito Democratico. Esiste però una storica differenza tra chi si registra e chi poi si presenta effettivamente ai seggi: nel 2020 il 62% dei votanti latinoamericani si registró ma solo il 54% votò. Secondo la maggior parte dei sondaggi, più del 52% quest’anno lo farà a favore di Kamala Harris.
Si conferma la tendenza negativa per la sinistra di Lula
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Il secondo turno delle municipali che si è svolto questa domenica in Brasile ha confermato il verdetto negativo espresso dai votanti della maggior parte delle grandi città del paese nei confronti delle proposte locali del Partito dei Lavoratori (PT) del presidente Lula da Silva. Delle 51 città con più di 200.000 abitanti in cui sono stati celebrati i ballottaggi, il PT ne ha vinte quattro, di cui una sola capitale, Fortaleza. Il bolsonarista Partito Liberale (PL) invece si è imposto in sei municipi, tra cui due capitali: Cuiabá, nello stato del Mato Grosso, storica roccaforte della sinistra brasiliana, e Aracaju, capitale dello stato di Sergipe. L’estrema destra è riuscita anche a vincere in alcune città chiave, come Guarulhos, seconda città più popolosa dello stato di San Paolo e São José do Rio Preto, e governerà così 517 comuni in tutto il paese, contro i 252 in mano al PT di Lula.
Nella città di San Paolo, la più popolosa dell’America Latina e capitale economica del paese, si riconferma il sindaco uscente, Ricardo Nunes, di centrodestra, che ha battuto il deputato di sinistra, apertamente sostenuto da Lula, Guilherme Boulos. Sebbene l’appoggio dell’ex presidente Bolsonaro sia stato palesemente celato da Nunes durante l’ultimo periodo di campagna, per la destra brasiliana si tratta sicuramente di un risultato positivo. Nunes, che nel suo discorso dopo la conferma della vittoria non ha nemmeno nominato Bolsonaro, ha ringraziato calorosamente il governatore dello stato di San Paolo, Tarcisio de Freitas, ex ministro di Bolsonaro e in lizza per rappresentare la destra alle prossime elezioni presidenziali nel 2026. Jair Bolsonaro infatti è stato interdetto dalla corte suprema e non potrà presentarsi a ricoprire cariche elettive fino al 2030, per la condanna ricevuta per la diffusione di informazioni false intorno al sistema elettorale brasiliano durante la campagna elettorale del 2022. Sebbene Bolsonaro e i suoi più stretti collaboratori confidano di poter ottenere una misura cautelare che gli permetta di competere per un nuovo mandato presidenziale, de Freitas sembrerebbe deciso a consolidare la propria carriera verso il Palacio do Planalto, e i risultati delle municipali di quest’anno, un vero e proprio termometro a livello nazionale per i partiti e i movimenti brasiliani, sembrerebbero dargli la ragione in quanto alla strategia.
Sia il risultato del primo turno, svoltosi in simultanea in tutti i municipi del paese lo scorso 7 ottobre, sia quelli dei ballottaggi conclusi questa settimana, hanno smentito la convinzione diffusissima in Brasile e all’estero intorno alla presunta polarizzazione della politica brasiliana, tra la sinistra al governo di Lula, e la destra estrema dell’ex presidente Bolsonaro. L’enorme maggioranza dei comuni brasiliani infatti sarà governata dal cosiddetto Centrão, una costellazione di partiti e partitini locali che subordinano il loro sostegno al governo federale non a una preferenza ideologica ma alla concessione di finanziamenti, agevolazioni e favori da poter mostrare al proprio elettorato nei dipartimenti o città di provenienza. Slegati da questa logica localista, ma disposti comunque a negoziare il proprio sostegno ad una o l’altra coalizione a livello nazionale nazionale, i due partiti che governeranno la maggior quantità di municipi del paese più grande dell’America Latina: il Movimento Democratico Brasiliano (MDB), che dalla caduta della dittatura militare nel 1986 ad oggi ha appoggiato praticamente tutti i governi brasiliani, e il PSD, antico Partito Socialdemocratico divenuto principale riferimento del centrodestra brasiliano.
Stando così le cose, per il governo Lula si apre una fase di revisione della propria strategia negli ultimi due anni di mandato. Sebbene non abbia ancora sciolto la riserva intorno ad un eventuale candidatura alle presidenziali, il leader sorto dai movimenti operai della San Paolo degli anni ’80, oggi settantanovenne, sembrerebbe deciso a correre per mantenersi al potere per altri quattro anni. I risultati finora non sono stati all’altezza delle attese, e la dispersione del voto tra i partiti moderati rende vano il tentativo della sinistra di polarizzare contro Bolsonaro e riproporre un nuovo “fronte democratico” contro l’estrema destra. Alcune decisioni volte a modellare la propria immagine politica e portarla su posizioni più moderate provengono dal fronte internazionale, quello in cui Lula si è mantenuto più attivo dal suo ritorno al potere. Durante gli ultimi giorni infatti il governo brasiliano ha posto il proprio veto all’ingresso del Venezuela come membro pieno dei BRICS, durante il Summit di Kazan concluso la settimana scorsa; e il principale assessore per la politica estera di Lula ed ex ministro Celso Amorim ha ribadito che il paese non entrerà a formar parte della Belt and Road Initiative cinese, nonostante solo tre paesi sudamericani oggi ne siano esclusi (Colombia, Paraguay e Brasile).
In ogni caso, il magro risultato elettorale locale per il PT non è certo una novità, anzi. Erano otto anni che la sinistra non vinceva in una città di più di 200.000 abitanti, e per trovare un risultato migliore rispetto a quello di domenica bisogna ritornare al periodo 2000-2008. Lo stesso ministro Alexandre Padilha, lo ha detto chiaramente dopo la diffusione dei risultati: “il PT è il campione indiscusso a livello nazionale alle presidenziali, ma alle municipali è sempre in retrocessione”. Una costante che non ha impedito al partito di Lula di crescere in tutto il paese e arrivare a governare con ampi gradi di approvazione in tutto il territorio nazionale. Nulla di nuovo dunque per Lula, che nei prossimi mesi dovrà cimentarsi non solo nelle negoziazioni con partiti e partitini galvanizzati dal risultato delle municipali, ma dovrà affrontare una tappa sicuramente più impegnativa come organizzatore del summit del G20 che si aprirà a Río de Janeiro il prossimo 18 novembre.
Tra sicurezza e biodiversità: al via la COP16 in Colombia
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La Conferenza delle Nazioni Unite sulla biodiversità (COP16) ha preso il via lunedì nella città di Cali, con l’obiettivo di dare seguito agli impegni assunti dai 196 paesi che hanno sottoscritto nel 2022 la Convenzione delle Nazioni Unite sulla diversità biologica di Kunming-Montreal. Durante l’incontro, che durerà fino al 1º novembre, i paesi partecipanti dovranno presentare le proprie Strategie e Piani di attuazione nazionali per la biodiversità (NBSAPs). Tuttavia, molti sono ancora in ritardo (tra cui l’Italia): solo il 20% dei paesi firmatari ha già completato il proprio piano d’azione.
Uno degli obiettivi principali del summit sarà la creazione di un meccanismo multilaterale per la ripartizione equa dei benefici derivanti dall’uso delle informazioni genetiche digitali. Tuttavia, il vero nodo da affrontare sarà il finanziamento dei piani. Per proteggere almeno il 30% della superficie terrestre entro il 2030 come previsto dall’accordo preso in Canada, sono necessari ingenti investimenti. Come ha sottolineato il segretario generale dell’ONU Antonio Guterres in un videomessaggio durante la cerimonia inaugurale, l’obiettivo è garantire “investimenti significativi per il Fondo mondiale per la biodiversità” e mobilitare ulteriori fonti di finanziamento pubbliche e private.
La sfida è particolarmente rilevante per la Colombia, che vede in questo summit un’opportunità per attirare l’attenzione globale sulla questione ambientale in America Latina. La regione ospita il 60% della biodiversità mondiale e sarà protagonista anche del G20 di Rio de Janeiro a novembre e della 30ª Conferenza delle Parti sul clima (COP30), prevista per l’anno prossimo in Brasile. I paesi latinoamericani, in particolare Colombia e Brasile, che condividono il 70% dell’Amazzonia sui propri territori, hanno trasformato la questione ambientale in un vero asset diplomatico. Il presidente brasiliano Lula da Silva è uno dei dodici capi di stato attesi a Cali nei prossimi giorni.
Per il presidente colombiano Gustavo Petro, la preservazione dell’ambiente è uno dei pilastri del suo governo. Ha avviato un ambizioso piano per abbandonare la produzione di idrocarburi, una delle principali esportazioni del paese. Inoltre, Petro vede nella COP16 un’occasione cruciale per promuovere il suo progetto relativo alla pace. Infatti, molte delle aree più ricche di biodiversità in Colombia sono controllate da gruppi armati, narcos e paramilitari. Secondo un recente rapporto, questi gruppi criminali hanno iniziato a ricattare il governo, minacciando di disboscare vaste aree ad alta biodiversità in cambio di concessioni nei negoziati di pace o condizioni più favorevoli per le loro attività.
Per Bogotà dunque la questione ambientale e quella della sicurezza sono strettamente legate. Lo stesso slogan del summit vuole in qualche modo mettere in evidenza la duplice valenza strategica degli argomenti della COP per il paese che la ospita: “Facciamo la pace con la natura”.
Nel suo discorso inaugurale, Petro ha affermato: “Siamo il centro tra il Nord e il Sud America, siamo il centro tra la Cina e l’Indonesia e Madagascar e l’Europa senza biodiversità. Forse potremmo chiamarci il cuore del mondo, perché siamo il cuore della vita del pianeta. Allora, mi dissero gli indigeni, della Sierra Tayrona, che ero il presidente del cuore del mondo e che la nostra lotta era per la vita”. Forti le critiche nei confronti del sistema economico globale, visto come causante delle diseguaglianze e anche dei conflitti ambientali: “Le economie rischiose sono quelle che possono sterminare la vita oggi, quelle che più emettono CO2 nell’atmosfera, sono le economie fossili petrolifere, carboniere e gassose, sono le economie potenti degli Stati Uniti, della Cina e dell’Europa. Perché fanno pagare un sovrapprezzo al tasso d’interesse ai paesi che ancora oggi assorbono come spugne il CO2 dalle atmosfere attraverso le nostre foreste e boschi, attraverso la nostra biodiversità? Attraverso la storia dei paesi biodiversi abbiamo anche accumulato le culture dell’umanità”.
Cali, capitale del dipartimento della Valle del Cauca, è stata scelta come sede della COP16 dopo che la Turchia ha rinunciato a ospitare l’evento a causa del devastante terremoto del febbraio 2023. Cali, duramente colpita dalla guerra tra cartelli della droga negli anni ’80 e ’90 e dall’attività di guerriglie e paramilitari, rappresenta oggi un esempio di resilienza. Eppure, le sfide sono ancora tante. Proprio nei giorni che hanno preceduto l’inaugurazione del summit, uno dei tanti gruppi che si sono dissociati dallo storico accordo di pace raggiunto tra la guerriglia delle Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (Farc) e il governo di Juan Manuel Santos – insignito del premio Nobel per la Pace proprio in virtù di quell’evento – hanno minacciato di attaccare i 15.000 partecipanti in un comunicato poi eliminato dai propri canali sui social.
La restituzione delle isole Chagos e la rivendicazione delle Malvinas
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Negli ultimi giorni la diplomazia e la stampa argentina hanno ravvivato con entusiasmo la discussione sulla strategia da adottare per rivendicare la sovranità sulle isole Falkland/Malvinas (a cui l’autore, da Buenos Aires, si riferirà col nome in spagnolo). A dare impulso alla questione è stata la dichiarazione congiunta del primo ministro britannico Keir Starmer e il suo omologo mauriziano Pravind Jugnauth, con cui il Regno Unito si impegna a restituire la sovranità sull’arcipelago delle Chagos, nell’Oceano Indiano, alle Mauritius, che ne rivendicavano il controllo sin dall’indipendenza, avvenuta nel 1965.
Il caso delle Chagos è seguito da tempo dall’Argentina. L’arcipelago, composto da sette atolli e 55 isole, faceva parte dell’Impero coloniale britannico dal 1810 e il suo centro amministrativo si trovava nelle Mauritius. Tuttavia, con l’indipendenza delle Mauritius, la Gran Bretagna decise di separare l’arcipelago dal resto del territorio, mantenendo il proprio controllo su quest’area così strategica dal punto di vista geopolitico.
In quel periodo, caratterizzato dalla bipolarità della Guerra Fredda, si aprivano nuovi fronti per le potenze occidentali, specialmente nel contesto dell’approvvigionamento petrolifero con i Paesi del Golfo. Per Londra e Washington, avere una presenza strategica nell’Oceano Indiano era essenziale. Così, mentre il Regno Unito riconosceva l’indipendenza delle Mauritius, mantenne il controllo sulle Chagos, consentendo agli Stati Uniti di costruire una base militare sull’atollo di Diego Garcia. Nella base operano tuttora circa 2.500 militari, e da lì sono partite missioni statunitensi verso Iraq e Afghanistan negli ultimi sessant’anni. Tra il 1965 e il 1973, l’intera popolazione indigena delle isole venne deportata con la forza per fare spazio alla base, le cui attività dovevano rimanere segrete. Oggi, circa 10.000 discendenti degli abitanti originari vivono tra Mauritius, Regno Unito e le Seychelles.
La disputa per la restituzione dell’arcipelago alle Mauritius è proseguita fino ai giorni nostri. Nel 2017, l’Assemblea Generale dell’ONU ha approvato una risoluzione chiedendo alla Corte Internazionale di Giustizia un parere consultivo sulla contesa territoriale. Nel 2019, la Corte ha emesso un giudizio favorevole alle Mauritius, e l’Assemblea Generale ha votato una nuova risoluzione, appoggiata da 116 Paesi, dando sei mesi di tempo al Regno Unito per cedere l’arcipelago. Da allora i negoziati sono costanti, e il 3 ottobre scorso è stata annunciata l’agognata cessione di sovranità.
Secondo la diplomazia argentina, il caso Malvinas è paragonabile a quello delle Chagos: entrambe sono terre occupate militarmente da una potenza straniera, la popolazione locale è stata deportata con la forza (nel caso delle Malvinas, nel 1833), e una popolazione britannica è stata impiantata nelle isole, rendendo dunque inutile il diritto all’autodeterminazione. L’Argentina ha sostenuto la rivendicazione delle Mauritius sin dal 1965, presentando richieste permanenti alla Corte Internazionale di Giustizia affinché si pronunciasse. La posizione della Corte, sottolinea la diplomazia argentina, “è rilevante per la questione delle Isole Malvinas perché si tratta di una situazione di smembramento territoriale, e si riferisce a principi che sono fondamentali nella rivendicazione sulle nostre Isole.”
La rivendicazione argentina, che include anche gli arcipelaghi delle Georgia del Sud e Sandwich del Sud, si fonda proprio sul principio di unità territoriale, riconosciuto anche nel caso delle Mauritius. Il giornale liberale Clarín spera che la risoluzione della questione Chagos possa costituire un punto di partenza per “porre fine al colonialismo” che colpisce anche l’Argentina. Dall’altro lato, Página/12, di orientamento progressista, evidenzia il “sostegno internazionale” dato alla negoziazione tra Londra e Mauritius, che “indica la via per una soluzione del conflitto con il nostro paese”.
Tuttavia, esistono alcune differenze sostanziali. Innanzitutto, il conflitto armato dell’aprile 1982, quando le Forze Armate argentine, al comando dell’ultima dittatura militare (1976-1983), presero il controllo delle Malvinas nel tentativo disperato di risollevare il consenso interno. Il risultato fu disastroso: oltre ai 649 argentini morti durante i poco più di due mesi di conflitto, la guerra contro l’Inghilterra tatcheriana significó l’isolamento dell’Argentina nell’ambito diplomatico in quella che dall’indipendenza del paese si considera la principale causa nazionale. Londra infatti sospese tutte le negoziazioni, iniziate proprio nel 1965 con la Risoluzione 2065 dell’Assemblea Generale dell’Onu.
A differenza di quanto accaduto con le Mauritius, il Regno Unito si rifiuta da 42 anni di riprendere qualsiasi tipo di dialogo con l’Argentina intorno alle Malvinas proprio a causa dell’attacco lanciato dalla dittatura dei generali. Nel caso delle Mauritius la pressione internazionale è stata chiave per far cadere la strategia diplomatica britannica, la stessa che tuttora mantiene sul caso Malvinas, chiamata “strategia dell’ombrello”: l’Inghilterra sarebbe disposta ad aprire negoziazioni su tutti i punti dell’agenda bilaterale, sempre e quando non coinvolgano la questione della sovranità contesa, che risulta così protetta come da un ombrello.
Un’altra differenza rilevante è geopolitica. Sebbene la Cina abbia mostrato interesse ad espandere la propria influenza nella regione delle Mauritius – motivo di forti critiche da parte di Washington all’accordo sulle Chagos – per Londra l’esigenza di risolvere la disputa sul suo ultimo territorio africano ha prevalso. Nelle Malvinas, invece, la posta in gioco è molto più alta: le isole rappresentano la porta d’accesso all’Antartide, continente fondamentale per le sue risorse naturali e la ricerca scientifica; sono un passaggio strategico dalle acque dell’Atlantico a quelle del Pacifico in caso di blocco del Canale di Panama, e assicurano una presenza militare britannica vicino al Sud America, dove il Regno Unito ha forti interessi economici sin dal XIX secolo. Gli Stati Uniti, inoltre, sono molto preoccupati per la presenza russa e cinese in Antartide e per il desiderio di Pechino di stabilire porti nel sud dell’Argentina.
Sebbene dal punto di vista del diritto internazionale esistano motivi per nutrire un certo ottimismo in Argentina alla luce di quanto avvenuto con le Chagos, le tensioni tra Londra e Buenos Aires e l’importanza geopolitica dell’Atlantico del Sud rendono improbabile una soluzione simile per le Malvinas. L’unica vera possibilità risiede nella pressione internazionale, legata però a fattori esterni, come il disinteresse del governo Milei per la questione Malvinas, l’interesse degli Stati Uniti a mantenere lo status quo nella regione, e la difficile situazione finanziaria dell’Argentina, sotto la pressione dei creditori privati e delle organizzazioni finanziarie internazionali. Il primo ministro Starmer, che ha uno zio morto durante la guerra del 1982, lo ha detto ben chiaro: “Malvinas e Gibilterra sono e saranno britanniche”, al di là di quanto accada in altre latitudini.
Nè Lula nè Bolsonaro, il Brasile è del Centrão
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Le elezioni amministrative di questa domenica in Brasile hanno rappresentato una battuta d’arresto significativa per il governo di Luiz Inácio Lula da Silva, proprio a metà del suo mandato. Complessivamente, 155 milioni di brasiliani sono stati chiamati a eleggere sindaci e amministratori locali in 5.570 comuni. E il Partito dei Lavoratori (PT) non è riuscito a conquistare al primo turno nessuno dei 26 capoluoghi coinvolti nelle votazioni, e solo in quattro di essi parteciperà al ballottaggio previsto per il 27 ottobre. L’unico segnale positivo per il PT è giunto da Rio de Janeiro, tradizionale roccaforte delle milizie bolsonariste, dove il sindaco in carica, Eduardo Paes, del Partito Socialdemocratico (PSDB), sostenuto esternamente dal PT, ha vinto con oltre il 60% dei voti.
Il PSDB, che in passato ha rappresentato un forte oppositore della sinistra lulista – basti pensare al suo ruolo nella destituzione dell’ex presidente Dilma Rousseff nel 2016 – è stato il vero vincitore di queste elezioni. Il partito passerà dal governare 224 comuni a ben 878, in attesa dei ballottaggi di fine ottobre che potrebbero ampliare ulteriormente questo risultato. Gli elettori hanno premiato, in generale, opzioni politiche più tradizionali e conservatrici. Il Movimento Democratico Brasiliano (MDB), partito centrista che ha sostenuto quasi tutti i governi dagli anni Novanta ad oggi, si è affermato come la seconda forza politica a livello territoriale, con il controllo di 844 municipi. Si tratta dei movimenti e partiti che hanno governato il Brasile tra la fine della dittatura militare, nel 1986, e il primo governo Lula, nel 2003, a cui si aggiunge una costellazione di partiti locali con piccole rappresentanze nel congresso nazionale che tessono alleanze pragmatiche, in cambio di concessioni da ostentare nei loro territori. E’ quel che nella politica brasiliana si chiama Centrão, debilitato negli ultimi anni di forte polarizzazione tra Lula e Bolsonaro, ma che esce rinvigorito dalle elezioni di domenica scorsa.
Il Partito Liberale (PL) di Jair Bolsonaro ha conquistato finora 510 comuni, un aumento di 165 rispetto al 2020, mentre il PT ne controllerà 247. Un dato rilevante è la crescita dell’estrema destra non bolsonarista, rappresentata da União Brasil, che ha eletto 578 sindaci, e da Republicanos, il braccio politico di una delle più influenti chiese pentecostali del paese, che governerà 430 città.
Il confronto più significativo si svolgerà però a San Paolo, la città più popolosa dell’America Latina. Il 27 ottobre si sfideranno l’attuale sindaco Ricardo Nunes, del Partito Liberale, che ha ottenuto il 29,5% dei voti, e il giovane deputato dell’estrema sinistra Guilherme Boulos, sostenuto dal governo Lula, che ha raggiunto il 29%. Il futuro politico di Boulos sembra legato all’esito di questa sfida, essendo uno dei nomi in lizza per rappresentare la sinistra alle prossime elezioni presidenziali, qualora Lula decidesse di spostare ulteriormente a sinistra il proprio progetto politico. Gli analisti sono ora concentrati però sul futuro dei voti di Pablo Marçal, un imprenditore e influencer di estrema destra che ha ottenuto il 28% alle elezioni pauliste, diventando il protagonista della campagna elettorale. I suoi spot e i suoi interventi sono stati spesso cancellati dalle autorità federali per il contenuto violento, omofobo e razzista, e poche ore prima dell’apertura dei seggi ha addirittura divulgato un certificato falso che indicava una possibile tossicodipendenza di uno dei suoi rivali. Durante il dibattito televisivo che ha preceduto i comizi di domenica, José Luiz Datena, veterano politico paulista, ha direttamente perso le staffe di fronte ai ripetuti insulti proferiti da Marçal e lo ha aggredito con una sedia in diretta TV. A forza di scandali la sua popolarità è cresciuta a dismisura, e la sua candidatura ha sollevato grandissimi timori: già condannato per truffa nel 2010, il suo partito è sospettato di avere forti connessioni con una delle organizzazioni criminali più grandi del mondo, il Primo Commando della Capitale. Al di lá del risultato di domenica, è particolarmente rilevante lo sbarco di questo tipo di settori nella politica brasiliana, più a destra di Bolsonaro, con legami più o meno evidenti col crimine organizzato, e con un sostegno elettorale esteso specialmente tra i settori più umili della popolazione. Proprio per questo non è scontato che i voti di Marçal vadano direttamente alla destra nel prossimo ballottaggio: il bisogno di un cambiamento a San Paolo potrebbe pesare ancor più della dicotomia Lula/Bolsonaro, che fino a domenica sembrava essere l’unica chiave di lettura della politica brasiliana.
Il governo Lula, che ha puntato con decisione al ritorno del Brasile tra le potenze mondiali, vede ora affievolirsi l’entusiasmo che aveva caratterizzato il suo ritorno al potere due anni fa. Secondo Datafolha, l’approvazione del suo operato si attesta attorno al 35%, in calo rispetto al 2023, quando il 41% valutava positivamente l’esecutivo. Nonostante una crescita economica stabile intorno al 3%, i miglioramenti concreti nella vita dei brasiliani si fanno attendere, e l’elettorato, che sperava in un’inversione di rotta, soprattutto in termini di redistribuzione della ricchezza, si sente deluso. Il PT è inoltre in minoranza nel Congresso e Lula deve affrontare la minaccia dell’impeachment, usata dalla destra e dal Centrão per moderare le iniziative più progressiste del governo.
In questo quadro, si era ipotizzato un ritorno con forza del bolsonarismo nelle amministrazioni locali. Bolsonaro ha sfruttato la polemica sulla sospensione di X (ex Twitter) e il conflitto tra Elon Musk e la Corte Suprema brasiliana, dipingendo le rivendicazioni di Musk come una lotta per la libertà contro la censura, orchestrata da Lula. Tuttavia, anche Musk ha dovuto cedere alle richieste della giustizia brasiliana, e il dibattito politico, almeno in questo contesto, sembra destinato a normalizzarsi.
I risultati delle amministrative condizioneranno fortemente l’azione del governo Lula nei due anni restanti del suo mandato. Da un lato, vi è la necessità di portare avanti le riforme promesse per ampliare il welfare e l’occupazione, dall’altro, il ridimensionamento politico costringerà il PT a stringere alleanze con settori moderati o di destra, o addirittura a sostenere candidati altrui senza poter competere direttamente. Bolsonaro, dal canto suo, vedrà il bilancio politico delle elezioni solo dopo i ballottaggi, con la possibilità di conquistare il governo di nove capoluoghi. Nonostante la sua interdizione a ricoprire incarichi pubblici fino al 2030, dovuta al tentato golpe del gennaio 2023, Bolsonaro sta cercando di consolidare una piattaforma politica nazionale, necessaria per il suo ritorno. Intanto, il Centrão, come da quarant’anni a questa parte, rimane l’arbitro della politica brasiliana. Lula avrà bisogno del suo sostegno per rafforzare il proprio progetto, mentre Bolsonaro dovrà sedurre i suoi leader per garantirsi un eventuale ritorno.
La Presidenta del Messico
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Claudia Sheinbaum ha assunto il proprio mandato in una cerimonia carica di simbolismo. La prima donna presidente della storia del Messico giunge al potere con un sostegno generalizzato, ma affronta anche dure sfide sul piano della sicurezza, l’economia e le relazioni internazionali.
Circondata da donne indigene e afromessicane, la prima donna presidente della storia del Messico, Claudia Sheinbaum, ha voluto inaugurare il proprio mandato con una cerimonia tradizionale delle comunità originarie del suo paese nella tradizionalissima Plaza del Zócalo della capitale, l’antica Tenochtitlán degli Incas. L’intera giornata è stata attraversata da un forte simbolismo.
In primo luogo, l’assenza del Re di Spagna, in prima fila in tutte le cerimonie di insediamento dei presidenti latinoamericani, è stato escluso dalla lista degli invitati per aver ignorato la richiesta ufficiale che l’ormai ex presidente Manuel Lopez Obrador gli fece nel 2021 affinché sporgesse le scuse della monarchia spagnola per il massacro compiuto dal regno contro gli indigeni messicani durante la conquista d’America. E poi la banda presidenziale, diretta da una soldatessa dell’esercito messicano, di cui Sheinbaum è a partire da oggi la prima comandante donna della storia.
A consegnarle ufficialmente alla Camera dei Deputati il simbolo tricolore, che solo un presidente può utilizzare in Messico, è stata Ifigenia Martínez, 94enne storica dirigente della sinistra messicana, eletta ad interim presidentessa della Camera solo con l’obiettivo che fosse una donna a consegnare gli attributi presidenziali ad un’altra donna. Poche ore prima della cerimonia, la nuova segreteria della comunicazione della presidenza ha presentato il nuovo logo che accompagnerà tutte le comunicazioni ufficiali del governo Sheinbaum: si tratta della figura di una giovane messicana, bandiera in mano, che volge il proprio sguardo a sinistra.
“Oggi inizia il secondo piano della quarta trasformazione della vita pubblica del Messico”, sono state le prime parole della Presidenta di fronte a migliaia di sostenitori e simpatizzanti. Il riferimento è chiaramente al movimento iniziato con la presidenza di López Obrador, autoproclamatosi come il fautore della quarta grande trasformazione del paese dopo l’indipendenza all’inizio del XIX secolo, il programma di riforme di Benito Juárez (1861-1872), primo presidente indigeno della storia messicana, e la Rivoluzione di Pancho Villa e Emiliano Zapata del 1910-1920. Un progetto che ha lasciato sicuramente un’eredità potente per la nuova presidente. Da un lato la ricostruzione di uno stato sociale capillare ed effettivo, che ha ridotto la povertà del 5% in sei anni, ha aumentato il salario minimo del 110% per i lavoratori messicani introducendo anche l’obbligo costituzionale di mantenere il livello medio delle retribuzioni al di sopra del tasso annuo di inflazione, e che ha aumentato del 55% l’erogazione di contributi in favore delle famiglie più povere del paese. Diminuzione drastica della povertà, riduzione delle disuguaglianze, ma anche mega opere di infrastruttura (il nuovo aeroporto di Città del Messico, il controverso Tren Maya, le grandi raffinerie di Dos Bocas) hanno segnato il governo di López Obrador dal 2018 fino a martedì scorso. Il tutto si esprime in un aumento generalizzato del consumo privato (+11,5% dal 2018 ad oggi) e, dal punto di vista politico, nell’enorme successo elettorale del partito che Manuel López Obrador e altri dirigenti, tra cui Claudia Sheinbaun, hanno fondato solo 13 anni fa: il Movimiento de Regeneración Nacional (Morena) ha infatti sbancato alle elezioni del 2 giugno ottenendo non solo l’elezione diretta della nuova presidente ma anche la maggioranza all’interno del Parlamento (364 deputati su 500 e 83 senatori su 128), e il governo di 23 dei 32 stati messicani. Morena è oggi il grande “partito egemonico”, come non succedeva da decenni nella storia messicana, capace praticamente di gestire l’intero apparato statale da solo. Una condizione che ha portato molti analisti internazionali e i liberali messicani a lanciare l’allarme intorno alla tenuta democratica del sistema messicano. L’ultima riforma costituzionale approvata da López Obrador, proprio agli sgoccioli del suo mandato, introduce l’elezione diretta dei membri della magistratura, che in un panorama elettorale dominato dal partito di governo potrebbe dare alla nuova Presidenta il virtuale controllo dei tre poteri dello stato.
L’eredità lasciata dai sei anni di governo di López Obrador ha comunque alcuni risvolti che per la nuova amministrazione risultano già problematici. Dal punto di vista economico, il deficit fiscale generato dall’aumento della spesa sociale (che ammonta circa al 6%, il più altro in 35 anni di storia messicana), e la franca opposizione da parte dei settori del potere industriale al partito di governo, mettono in dubbio anche la tenuta a lungo termine del modello economico del “morenismo”, che centra l’attenzione sul benessere sociale anche a costo di rinunciare alla stabilità fiscale. Il capitolo sicurezza è poi uno dei tasti più dolenti per l’attuale esecutivo.
I sei anni di governo di López Obrador sono stati i più violenti della storia recente del Messico con più di 180.000 omicidi registrati, dovuti principalmente alle faide tra i potentissimi cartelli della droga che l’esercito e la polizia non sono riusciti a contenere in questi anni. López Obrador era giunto al potere con la promessa di abbandonare la strategia della “guerra contro il narco” cominciata ad inizio secolo col sostegno di Washington e sfociata in un vero e proprio bagno di sangue. Eppure, sebbene la militarizzazione del territorio sia effettivamente stata ridotta, le forze armate hanno assunto ruoli amministrativi chiave durante il governo di López Obrador, prendendo il controllo della nuova Guardia Nazionale o addirittura assumendo la gestione di settori storicamente in mano ai civili, come i trasporti, l’infrastruttura e l’energia. Toccherà ora a Sheinbaum non solo rivedere la strategia nell’ambito della sicurezza, ma anche fare i conti con un settore delle forze armate nettamente rafforzato nella politica messicana grazie alle decisioni prese dal presidente uscente.
“Sono madre, nonna, scienziata e donna di fede. E da oggi, per volontà del popolo messicano, il presidente costituzionale degli Stati Uniti del Messico”. Così si è definita Claudia Sheinbaum durante la cerimonia di insediamento. Sessantunenne, figlia di un chimico di origine ebreo-lituana e una biologa protagonisti delle celebri proteste universitarie che culminarono nel Massacro di Tlatelolco, il 2 ottobre del 1968, Sheinbaum è stata la prima donna della storia messicana ad ottenere un dottorato in fisica presso l’Università Autonoma del Messico. Negli anni Ottanta è stata protagonista del movimento studentesco che cominciò ad aprire la strada per la formazione di un movimento di sinistra che potesse contendere il potere nel paese. Alla guida di quel settore furono Cuauhtémoc Cárdenas, fondatore del Partido de la Revolución Democrática (PRD) a cui Sheinbaum aderí sin dall’inizio, e Andrés Manuel López Obrador, di cui l’attuale Presidenta è stata una delle principali collaboratrici negli ultimi trent’anni. Sindaca della capitale tra il 2018 e il 2023, ha lasciato il proprio incarico per dedicarsi appieno alla campagna elettorale che l’ha portata alla presidenza della repubblica.
Nel suo discorso di insediamento, la nuova presidente ha assicurato che rispetterà la divisione dei poteri e il sistema repubblicano, e approfondirà le riforme già intraprese dal suo predecessore e vero e proprio mentore politico. Dal punto di vista istituzionale Sheinbaum può contare su una situazione ideale, con il sostegno assicurato di tutti i poteri dello stato. I problemi potrebbero sorgere sul fronte della sicurezza, visto il potere di fuoco dei principali cartelli messicani che proprio in questi giorni hanno messo a ferro e fuoco la città di Sinaloa; nell’ambito economico, dove si attende una ripresa della produttività e una serie di misure per colmare il rosso in bilancio e contrastare l’inflazione; e sul fronte internazionale dove, al di là del sostegno totale ricevuto dai presidenti di sinistra del continente, una possibile vittoria di Donald Trump a novembre negli Usa potrebbe mettere alle strette il nuovo governo sul piano del contenimento delle migrazioni e su quello della relazione commerciale.
Haiti annuncia nuove elezioni
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Il governo di transizione haitiano, guidato dal primo ministro Gary Conille, ha finalmente annunciato la data delle elezioni generali nel paese per novembre del 2025. Saranno le prime elezioni dal 2016, quando venne eletto il presidente Jovenel Moïse e rinnovato parte del parlamento. Da allora tutti i mandati di deputati, senatori e autorità locali sono scaduti, il parlamento decaduto, e nessuna istituzione ha avuto la capacità di garantire la realizzazione di comizi trasparenti e senza violenza nel paese più povero dell’emisfero occidentale.
L’ultima escalation della crisi ad Haiti si registra a partire dalle proteste del 2018, quando un caso di corruzione legato ai fondi del programma PetroCaribe, finanziato dal Venezuela, ed altri programmi di aiuto realizzati dalla cooperazione internazionale, hanno portato migliaia di persone in piazza. La repressione fu feroce, e alimentó le forti contestazioni contro l’allora presidente Jovenel Moïse, già al centro delle polemiche intorno alla durata del suo mandato, che decise di estendere di un anno col sostegno delle principali potenze internazionali per portare avanti una riforma costituzionale che desse maggior stabilità al paese.
Ma Moïse è stato ucciso nel luglio del 2021 da un commando di mercenari colombiani ingaggiati negli Usa da potenti uomini d’affari haitiani, e da allora il caos si è impossessato del paese. Le più di 200 gang presenti da anni nel paese, e spesso usate dai governi di turno come strumento per tenere a bada movimenti sociali, proteste e scioperi, hanno costituito nuovi sodalizi e lanciato progetti sempre più autonomi dal potere politico, prendendo di fatto il controllo di ampi territori in tutto il paese.
Oggi le bande armate criminali controllano circa l’80% della capitale e si stima che 2,7 milioni di haitiani vivono in aree controllate da questo tipo di gruppi. Nel 2023 sono stati registrati 40,9 omicidi per ogni 100mila abitanti, uno dei tassi più alti del mondo. Secondo gli ultimi dati disponibili, la violenza ha provocato circa 580mila rifugiati interni e più di 700mila sfollati. Circa il 40% del personale sanitario haitiano ha dovuto lasciare il paese a causa della violenza, e la cooperazione internazionale poco può fare di fronte ad una simile catastrofe umanitaria.
Per affrontare il vuoto di potere creatosi dopo l’uccisione di Moïse e la grave crisi istituzionale e di sicurezza nel paese, l’ex primo ministro Ariel Henry ha chiesto nel 2022 l’invio dell’ennesima missione internazionale dell’Onu per pacificare il paese e dare manforte alla polizia haitiana. Una forza composta da circa 15.000 agenti per una popolazione superiore agli 11 milioni di abitanti, insufficienti per qualsiasi paese con standard di sicurezza considerati normali.
La missione internazionale, guidata dal Kenya e finanziata quasi integralmente dagli Usa, è stata approvata nell’ottobre del 2023 ma ha cominciato le proprie attività solo tre mesi fa. I risultati sono stati finora deludenti. I 400 agenti delle forze di sicurezza keniane dispiegati – meno della metà di quelli previsti all’inizio dei dialoghi internazionali – non sono riusciti e mettere freno alle violenze, e l’opinione pubblica haitiana è velocemente passata dal fervoroso sostegno dimostrato durante l’arrivo dei rinforzi dall’Africa alle critiche più spietate vista la mancanza di risultati concreti della missione.
Il rappresentante dell’Alto Commissario per i Diritti Umani delle Nazioni Unite per Haiti, William O’Neill, ha recentemente concluso una missione di osservazione che ha mostrato una situazione inquietante: le gang hanno allargato il loro dominio a nuove zone del paese in poco meno di un anno, la violenza sessuale è divenuta pratica quotidiana in tutto il paese, e la mancanza di acqua, cibo e medicine rendono la situazione degli sfollati ancor più critica. O’Neill non ha celato nemmeno le sue perplessità intorno alla strategia intrapresa dalle Nazioni Unite per ripristinare la sicurezza: le forze della Missione Internazionale sono mal equipaggiate, nettamente inferiori in numero rispetto a quanto previsto e le risorse di cui dispongono sono insufficienti per portare avanti la missione che è stata loro affidata.
Durante il suo viaggio per partecipare alla cerimonia di apertura dell’Assemblea Generale dell’Onu a New York, il presidente del Kenya, William Ruto, ha fatto tappa ad Haiti per dare il proprio sostegno agli uomini del contingente internazionale e ha annunciato l’invio di ulteriori rinforzi, si parla di 600 uomini, sempre e quando i propri partner all’Onu garantiranno i fondi necessari.
Intanto nella sede delle Nazioni Unite si susseguono i negoziati intorno alla situazione haitiana. Da una parte, il rafforzamento della missione per il mantenimento della pace, e dall’altra il sostegno alla realizzazione delle elezioni tra poco più di un anno. Due obiettivi che vanno di pari passo ma necessitano di sforzi diversi. Se infatti il contenimento delle gang è condizione necessaria per la realizzazione di comizi democratici, non è assolutamente scontato che in un Haiti virtualmente pacificato e sicuro le elezioni possano svolgersi regolarmente. La sfiducia nei confronti dello “stato-cadavere”, come recita una famosa canzone del carnevale haitiano, è altissima. Gli scandali di corruzione continuano a minare la capacità delle istituzioni nonostante siano già ridotte ai loro minimi termini, e l’ostinazione da parte della classe dirigente locale per escludere dall’arena politica determinati partiti e movimenti sociali di base rendono l’annuncio di nuove elezioni ancor più chimerico.
L’omaggio della democrazia peruviana al suo dittatore
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Conclusi i tre giorni di lutto nazionale, e consumato il funerale di Stato ordinato dalla presidente Dina Bouluarte, in Perù è nuovamente bufera intorno all’eredità politica dell’ex presidente Alberto Fujimori. La bara, trasportata da sei uomini neri, com’era usanza nei funerali dell’antica aristocrazia di Lima ai tempi della colonia, è stata avvolta dalla bandiera ufficiale del Perù, nonostante le dure critiche dei detrattori di Fujimori, che durante diversi anni ha sospeso di fatto la costituzione ed ha accentrato su di sé e i propri collaboratori i pieni poteri. A 86 anni, e nonostante una condanna per crimini contro l’umanità, Fujimori è morto in libertà e la sua salma ha ricevuto tutti gli onori di un eroe nazionale.
Membro della numerosa e potente comunità nikkei, i discendenti dei migranti giapponesi stabilitisi in Perù alla fine del XIX secolo su iniziativa di Tokyo per “occidentalizzare” i propri agronomi, Fujimori era pressoché sconosciuto al grande pubblico quando si presentò per la prima volta alle presidenziali del 1989. Professore di agronomia all’università, portò avanti la campagna elettorale a cavalcioni su un trattore per le strade di Lima, sfruttando il più possibile quel profilo da outsider che lo smarcava da una classe politica estremamente contestata.
Anche il suo rivale al ballottaggio di quell’anno, il premio Nobel per la letteratura Vargas Llosa, proveniva da ambienti diversi dai corridoi del palazzo, ma le urne premiarono a grande sorpresa Il giovane Fujimori. Due le grandi sfide del nuovo governo: un’inflazione annua vicina al 12.000%, in consonanza con la tragica situazione finanziaria sudamericana di fine anni ’80, e l’attività di gruppi guerriglieri quali il Movimento Revolucionario Tupac Amaru (MRTA) e soprattutto i maoisti di Sendero Luminoso.
La ricetta applicata nei primi mesi di governo è passata alla storia come “Fujishock”, uno dei piani economici ultraliberisti più aggressivi della regione: privatizzazioni di tutte le aziende pubbliche, liberalizzazione dei prezzi, tagli a pensioni e sussidi, riduzione dei salari ed eliminazione degli ammortizzatori sociali. L’inflazione si ridusse al 140% circa, ma il costo a livello sociale fu altissimo. Un peruviano su due viveva sotto la soglia della povertà, e il nuovo mercato del lavoro deregolato non offriva vie d’uscita alternative.
Senza una maggioranza parlamentare e indebolito di fronte alle proteste dell’opposizione e dei movimenti sociali, Fujimori annunciò un vero e proprio autogolpe: il 5 aprile 1992 chiuse il parlamento e prese il controllo della magistratura, applicò la censura e sospese tutte le garanzie costituzionali col sostegno del suo braccio destro e capo dell’intelligence, Vladimiro Montesinos.
La scusa fu la reticenza da parte del Congresso a dare all’esecutivo gli strumenti per la lotta contro le attività di Sendero Luminoso nelle zone andina ed amazzonica dell’entroterra peruviano, dove la guerriglia controllava di fatto ampi territori e città intere. Dopo l’autogolpe Fujimori emanò una legislazione speciale per dare maggior libertà d’azione alle forze armate e ai servizi segreti nella lotta al terrorismo. Nel settembre del 1992, a soli tre mesi dall’autogolpe, l’esercito riuscì a catturare il leader di Sendero Luminoso, Abimael Guzmán Reynoso, e lo fece sfilare dentro ad un gabbione montato su un camion per le strade di Lima, alimentando così la popolarità del presidente divenuto in tutto per tutto un dittatore.
La legislazione speciale voluta dal tandem Fujimori-Montesinos però aveva scatenato una violenza inusitata contro i settori sociali sospettati di avere vincoli con la guerriglia: universitari, indigeni, attivisti, vennero messi sotto torchio in tutto il paese. Nel 2009 Fujimori venne condannato a 25 anni di carcere per delitti contro l’umanità, in quanto responsabile dei massacri di Barrio Alto nel 1991, e dell’Università La Cantuta, nel 1992, portati avanti dagli squadroni della morte di Montesinos. In quelle operazioni furono trucidate 25 persone innocenti, tra cui un bambino di 8 anni, segnalati come possibili membri di Sendero Luminoso. Tristemente celebre anche il caso delle sterilizzazioni forzate: un piano per la diffusione di misure anticoncettive applicato con la forza su più di 250.000 donne, la maggior parte indigene e dei settori più poveri del Perù, per ridurre la povertà nel paese.
Nel settembre del 2000 apparvero una serie di filmati in cui si ritraeva l’onnipresente ed onnipotente Vladimiro Montesinos mentre consegnava tangenti a politici e imprenditori in nome di Fujimori, che scappò a Tokio da dove presentò le dimissioni dalla presidenza del Perù via fax. Nonostante le richieste della magistratura peruviana, l’ex dittatore poté viaggiare per il mondo per diversi anni, fino al 2007, quando un tribunale cileno concedette l’estradizione, e Fujimori fu rimpatriato per essere condannato due anni più tardi.
Intanto però era nato il fujimorismo, la corrente politica sostenuta da due dei suoi figli, Keiko e Kenji: durante gli anni Novanta Fujimori aveva goduto di una popolarità che aveva raggiunto l’80% dell’elettorato, e nonostante gli scandali e le condanne, per molti si era trattato di uno dei migliori governi della storia del paese. Tanto che fino al 2011 esistevano ben quattro partiti nel parlamento peruviano che rivendicavano la figura del caudillo, Cambio 90, Nueva Mayoría, Sí Cumple y Siempre Unidos, divenuti poi Fuerza Popular, il movimento conservatore e ultraliberista che ha portato Keiko Fujimori a disputare ben tre ballottaggi presidenziali.
Secondo la tradizionale Encuesta del Poder stilata ogni anno da Ipsos e Semana Económica, Keiko Fujimori è la seconda persona con maggior potere nel paese, e suo padre era rientrato nella top ten dopo la sua liberazione. Di fatto, diversi sondaggisti avevano cominciato a misurare il gradimento di una possibile candidatura alle presidenziali del 2026 – tra l’altro annunciata dalla stessa Keiko pochi giorni fa – dell’ex dittatore.
La principale battaglia del fujimorismo però era stata vinta nel 2024, con la scarcerazione del patriarca, avvolta in grandi dibattiti e scandali in tutto il paese. Nel 2017 l’allora presidente Pedro Pablo Kuczynski aveva concesso un indulto umanitario a favore di Fujimori, quasi ottantenne, per presunti motivi di salute, in cambio del sostegno da parte di Fuerza Popular nella votazione sulla sfiducia che lo avrebbe destituito di lí a poco.
La Corte Suprema però, oltre a riscontrare l’inesistenza di un pericolo per la salute del dittatore, annullò la misura, ordinando l’immediato arresto di Fujimori. Quasi sette anni più tardi, una nuova sentenza ha riconosciuto la costituzionalità dell’indulto, permettendo a Fujimori di passare i suoi ultimi mesi di vita in libertà. La sua morte difficilmente segnerà la fine della fortuna del suo movimento dunque, plasmato in realtà nell’impostazione istituzionale, economica e politica del Perù. Così come era successo dopo l’arresto, Fujimori continuerà ad essere il fulcro del dibattito politico del paese.
Il caos haitiano nella geopolitica mondiale
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La crisi haitiana è ormai una questione internazionale. Dopo l’omicidio del presidente Jovenel Moïse nel luglio 2021 il paese è precipitato nel caos, e le gang criminali hanno preso il controllo di buona parte delle istituzioni: oggi gestiscono l’80% del territorio della capitale, e negli ultimi tre mesi hanno mantenuto chiuso con la forza l’aeroporto internazionale Toussaint Louverture e i principali punti di accesso della cooperazione internazionale, forzando anche le dimissioni del primo ministro Ariel Henry.
La situazione nel Paese, che era già il più povero del continente americano, è ora drammatica: tra gennaio e maggio sono state assassinate 2.500 persone; 4,5 milioni di haitiani soffrono di fame acuta e 1,4 milioni sono sull’orlo di fare la stessa fine a breve, secondo i dati dell’Onu; si calcola che nel 2024 circa 170.000 bambini hanno dovuto abbandonare le loro case, e che 2 minori su 3 hanno bisogno di assistenza umanitaria. In questo contesto, le istituzioni del paese sono letteralmente collassate: il parlamento virtualmente chiuso, non si possono celebrare elezioni dal 2016 e i servizi base sono ormai quasi inesistenti.
Sia durante la presidenza Moïse, sia durante il periodo di Henry, il sostegno internazionale è stato fondamentale per il mantenimento di governi che non solo erano duramente contestati dall’opinione pubblica haitiana, ma erano anche segnati da evidenti comportamenti antidemocratici, o legami con le gang criminali haitiane. L’istituzione incaricata di garantire una posizione comune delle principali potenze internazionali intorno alla situazione haitiana era il Core Group, istituito nel 2004 dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu e composto dagli ambasciatori a Port-au-Prince di Usa, Brasile, Canada, Francia, Germania, Spagna, Unione europea e l’Organizzazione degli Stati americani. Parigi, ex metropoli dell’epoca coloniale, ha sempre avuto un’influenza determinante sulle posizioni del Core Group, che fino al 2021 rappresentava la principale garanzia dell’autorità istituzionale haitiana. Ma, dopo aver sostenuto Henry decretando di fatto la rimozione di Claude Joseph come primo ministro dopo l’omicidio Moïse, il Core Group si è mantenuto in silenzio, lasciando che gli ambasciatori dei singoli paesi membri prendessero posizione sull’attualità haitiana. Fatto che ha portato molti analisti a pensare che esistano serie discrepanze intorno alla linea da seguire a riguardo, e che il punto a cui sono arrivati i fatti va molto al di là delle possibilità della diplomazia internazionale. L’ex ambasciatore Usa a Port-au-Prince, James Foley, ha addirittura definito l’attuale crisi umanitaria “il frutto delle scelte che abbiamo intrapreso”.
Gli Usa sono tra l’altro il paese più interessato a contenere gli effetti della crisi. Con oltre 350.000 sfollati interni, Haiti è una bomba pronta ad esplodere sulla già fragile – e fortemente contestata – politica per la contenzione dell’immigrazione in Centroamerica del presidente Biden. Che nel passato recente non ha mostrato molte reticenze nel continuare la politica di espulsione e rimpatrio dei migranti haitiani inaugurata dall’ex presidente Trump. Ma oltre a rappresentare un imbarazzante problema politico in vista delle elezioni di novembre, per Washington, Haiti è anche una minaccia dal punto di vista della sicurezza: il rafforzamento del potere delle gang ha alimentato il traffico di armi verso l’isola, la maggioranza di fabbricazione statunitense, nonostante l’embargo internazionale imposto nel 2022; le indagini hanno inoltre dimostrato che il commando che ha assassinato il presidente Moïse è stato assoldato in Florida da alcuni membri di spicco della diaspora haitiana.
Per Biden la “questione Haiti” richiede un’azione urgente, ma non è disposto ad utilizzare le proprie forze per farlo: il ricordo degli scandali legati alla Missione di stabilizzazione delle Nazioni Unite ad Haiti (Minustah, presente nel paese dal 2004 al 2017), la forza multinazionale dell’Onu accusata di favorire la prostituzione minorile e di introdurre un focolaio di colera che uccise 9.000 haitiani, è ancora molto vivido. Washington e Parigi condividono poi un tetro retroscena sulla questione haitiana: così come la Francia è ricordata come il paese colonizzatore, che ha messo in ginocchio l’economia haitiana imponendo con la forza costosissimi risarcimenti alla neonata Repubblica Nera e condizionandone lo sviluppo fino ai giorni nostri, Washington è responsabile della più lunga occupazione militare della storia dell’America Latina, avvenuta proprio ad Haiti tra il 1915 e il 1934, e di numerosi interventi armati finiti male.
Si apre così un nuovo dilemma: un intervento senza gli Usa nell’Emisfero Occidentale non avrebbe sufficiente credibilità internazionale, ma la Casa Bianca non vuole assumere i costi dell’ennesimo intervento. Biden, che a ottobre del 2023 è riuscito a far approvare al Consiglio di Sicurezza dell’Onu lo sbarco di una nuova missione multinazionale a Port-au-Prince, ha trovato anche il modo di delegare l’intervento diretto ad altri. A guidare la missione sarà il Kenya, paese particolarmente legato alla tradizione pan-africana, prospettiva storicamente radicata nella politica estera keniota e che porta il Paese ad intervenire a sostegno dei discendenti della diaspora africana nel mondo, includendo le nazioni afro-caraibiche come Haiti. Che nell’immaginario sociale africano, tra l’altro, risveglia importanti ardori: la Rivoluzione Haitiana del 1804 infatti sancì la creazione della prima repubblica nera del mondo, retta da ex schiavi di origine africana, un punto di riferimento storico per tutti i movimenti di liberazione africani. La missione, composta da 1.000 agenti in maggioranza kenioti inviati a supporto dei 9.000 poliziotti haitiani – per una popolazione di 11,6 milioni di persone – è sostenuta anche da Bahamas, Barbados (membri della Comunità dei Caraibi – Caricom), Benin (la cui popolazione condivide con gli haitiani l’antichissima cultura Yoruba), Chad e Bangladesh, e con l’appoggio delle forze di sicurezza di Cile, Paraguay, Giamaica, Granada, Burundi e Nigeria.
Il grande assente nella nuova coalizione per Haiti è il Brasile di Lula, che nel 2004 guidò con entusiasmo il dispiegamento della Minustah. Oggi però il Brasile possiede altri strumenti per proiettare la propria influenza sul sistema internazionale: Lula ospiterà quest’anno il G20 e si prepara a celebrare una storica Conferenza delle Parti sul Clima in Amazzonia nel 2025. La disastrosa esperienza della Minustah poi, serve come precedente negativo per il gigante sudamericano, la cui diplomazia si è anche dimostrata piuttosto scettica sulle possibilità di successo della missione a guida keniota. In ultimo c’è da sottolineare la sfiducia manifestata da parte del governo Lula nei confronti della cupola militare brasiliana, che tra il 2019 e il 2023 ha sostenuto apertamente il governo di estrema destra di Jair Bolsonaro: Augusto Heleno, comandante della Minustah vent’anni fa, divenne poi uno dei principali ministri del governo Bolsonaro – attualmente è anche imputato per il tentativo di golpe del gennaio del 2023 – insieme ad altri due comandanti dispiegati ad Haiti, Luiz Eduardo Ramos e Carlos Alberto dos Santos. Un ulteriore partecipazione ad una missione internazionale darebbe dunque maggior proiezione ad un settore esplicitamente contrario al suo operato.
Altro attore fondamentale nella crisi haitiana è la Repubblica Dominicana, con cui il paese condivide la sua unica frontiera terrestre: i due Paesi condividono infatti l’Isola Española nel Mar Caraibi. I rapporti però sono tutt’altro che positivi: Santo Domingo ha chiuso le frontiere e sospeso tutti i voli dall’inizio della crisi umanitaria, ha deportato 175.000 haitiani, e il presidente Luis Abinader, riconfermato alle elezioni dello scorso 19 maggio, ha cominciato la costruzione di un muro al confine in stile Trump.
Il mondo punta ora tutto all’intervento multinazionale, che però poco potrà fare per ristabilire l’ordine ad Haiti. Finora sono stati raccolti solo 60 dei 600 milioni di dollari che costerà lo sbarco della missione Onu; si stima che la polizia haitiana avrebbe bisogno di almeno 38.000 agenti per affrontare le gang locali, che di recente hanno sfoggiato sui social e nei media nuove e potentissime armi. Molti poliziotti locali preferiscono disertare, emigrare o addirittura unirsi alle fila del crimine organizzato, piuttosto che continuare a combatterlo. Il leader della coalizione di bande armate haitiane, Jimmy Chérizier, alias Barbecue, ha già lanciato la sfida contro la missione Onu e ha detto che i suoi uomini sono “pronti a combattere una lunga battaglia”.
A fine maggio il Consiglio di Transizione Presidenziale scelto dai rappresentanti dei principali partiti politici e organizzazioni civili haitiane ha raggiunto un accordo per nominare un nuovo primo ministro, Garry Conille, che ha già occupato l’incarico nel 2011 per poi assumere quello come Direttore Regionale per l’America Latina dell’Unicef. Il suo mandato è chiaro: ripristinare la sicurezza nel Paese e portarlo verso nuove elezioni entro il 2026. Date le attuali condizioni però, l’impresa sembra titanica.
Vittoria di Lopez Obrador: approvata la controversa riforma della giustizia
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Il governo uscente del presidente messicano Andrés Manuel López Obrador ha ottenuto un ultimo importante successo questo mercoledì con l’approvazione da parte del Senato della polemica riforma della giustizia voluta dal Movimiento de Refundación Nacional (Morena), al governo. Com’era già successo durante il dibattito alla Camera la settimana scorsa, anche la sessione del Senato è stata segnata da incidenti e scontri: un migliaio di manifestanti infatti hanno fatto irruzione con la forza nel palazzo legislativo per cercare di interrompere i lavori, che sono ripresi però dopo alcune ore. Il governo ha ottenuto in extremis la maggioranza qualificata di 86 senatori di cui aveva bisogno, grazie al voto di tre senatori dell’opposizione.
La manovra fa parte del pacchetto di 20 riforme costituzionali presentate dal presidente López Obrador nel febbraio scorso, e prevede l’elezione diretta dei giudici, la riduzione dei membri della Corte Suprema da 11 a 9, la creazione di un Tribunale di Disciplina e di un organo di amministrazione giudiziaria. Da mesi, la magistratura messicana è virtualmente bloccata da uno sciopero a tempo indeterminato lanciato dai sindacati del settore, accompagnato da grandi manifestazioni che hanno visto scendere in piazza addirittura alcuni membri della Corte Suprema. Mercoledì scorso, durante la discussione alla Camera, in migliaia sono scesi nelle strade della capitale, obbligando addirittura i deputati a tenere la sessione, che ha approvato la riforma, in una sede alternativa.
Il punto più discusso della riforma riguarda l’elezione diretta di circa 1600 membri del potere giudiziario, tra cui i ministri della Corte Suprema, i membri del contestatissimo Consiglio della Magistratura, i giudici del Tribunale Elettorale Federale, e quelli delle diverse circoscrizioni presenti nel paese. Secondo i detrattori del progetto, ciò permetterebbe ad un partito che ha la maggioranza nella maggior parte delle istituzioni dello stato (come nel caso di Morena), di assumere il controllo di tutti i poteri senza un contrappeso.
Il sistema giudiziario messicano però è anche duramente contestato dalla popolazione. Diversi scandali di corruzione, nepotismo e connivenza con i cartelli del narcotraffico hanno scosso la magistratura messicana, e l’attuale struttura istituzionale è stata incapace di dissipare i dubbi e le pesanti accuse che pesano su molti dei giudici messicani. I sondaggi piú recenti mostrano infatti che una schiacciante maggioranza della popolazione messicana è convinta che la magistratura del proprio paese sia dominata dalla corruzione, che i giudici debbano essere scelti direttamente dai cittadini, e che una riforma giudiziaria come quella approvata questa settimana sia necessaria per il futuro del Messico.
L’egemonia ottenuta da Morena in tutti gli ambiti dello stato dopo le elezioni del giugno scorso però, alimenta il timore sulla continuità dell’indipendenza della magistratura. Il governo di López Obrador ha già operato una riforma del Tribunale Elettorale, che ha recentemente convalidato una polemica interpretazione della costituzione che permette a Morena di detenere il controllo del 73% del Parlamento nonostante abbia ottenuto il 55% dei voti alle ultime legislative. Diverse altre istituzioni, tra cui molti organismi di controllo, sono ora nel mirino del partito di governo. Quello della nuova presidente eletta Claudia Sheinbaum sarà dunque un governo sottomesso al vaglio dell’opinione pubblica internazionale in quanto alla tenuta democratica di molte delle istituzioni messicane. Il progetto del governo, in ogni caso, intende ridurre chiaramente il potere della Corte Suprema e dei suoi ministri: ne riduce il mandato da 15 a 12 anni, ne riduce il salario, che non potrà essere superiore a quello del presidente, ed elimina le pensioni a vita che percepivano i giudici in Messico.
Durante le ultime settimane, il dibattito intorno alla riforma della giustizia ha assunto anche una dimensione internazionale. L’Ambasciatore degli Usa a Città del Messico, Ken Salazar, ha pubblicato una nota con forti critiche al progetto presentato dal governo, in cui sostiene che si tratta di una minaccia per la democrazia messicana e per la continuità delle relazioni commerciali tra i due paesi. Anche il Financial Times si è espresso nello stesso senso, lanciando l’allarme sulla possibile ricaduta che potrebbe avere l’approvazione della riforma sulla fiducia degli investitori internazionali in Messico: “Immaginate di essere il country manager di una multinazionale”, esordisce il testo, “che combatte contro un concorrente di proprietà statale che sta competendo in modo sleale. I vostri avvocati dicono che avete un vantaggio, ma il giudice è un alleato del partito di governo, l’autorità di regolamentazione è un funzionario del ministero che possiede il vostro concorrente e l’autorità fiscale sta minacciando di imprigionarvi mentre controlla se le vostre fatture potrebbero essere fraudolente”. Un incubo “alla russa”, è quel che prospetta l’influente testata.
Anche il Washington Post ha sostenuto in un editoriale che la riforma di Lopez Obrador rappresenta una questione che preoccupa l’intero continente. Il governo messicano ha presentato una nota di protesta dopo la pubblicazione del comunicato dell’ambasciata che ha aperto le porte a critiche furibonde sui media internazionali, accusando Salazar di immischiarsi negli affari interni del paese.
Ora la manovra dovrà essere approvata dalla maggioranza dei parlamenti dei 31 stati federali, passo che si dà praticamente per scontato vista la schiacciante vittoria di Morena alle elezioni di giugno anche a livello locale. Poi toccherà organizzare le prime elezioni giudiziarie della storia messicana: l’anno prossimo quelle dei ministri della Corte Suprema, del nuovo Tribunale di Disciplina e la metà dei giudici distrettuali; nel 2027 le cariche restanti.
E’ guerra tra Elon Musk e il Brasile
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La Corte Suprema del Brasile ha convalidato lunedì la sentenza del giudice Alexandre de Moraes che sabato scorso aveva ordinato all’autorità garante delle telecomunicazioni di sospendere l’accesso a X (ex Twitter) in tutto il territorio brasiliano. La decisione è arrivata dopo che il proprietario del social, Elon Musk, si è rifiutato di attenersi ad una serie di sentenze che obbligano l’azienda a chiudere determinati account colpevoli di aver violato la legge sulla diffusione di notizie false in Brasile.
Già a metà agosto Musk aveva lanciato una battaglia senza esclusione di colpi contro De Moraes, quando annunciò la chiusura degli uffici di X in Brasile e accusò il magistrato di voler limitare la libertà di espressione nel paese. Il giudice ordinò dunque all’azienda di nominare un nuovo rappresentante legale nel paese e di pagare una serie di multe accumulate che superano ormai i quattro milioni di dollari.
Musk ha deciso di ignorare le sentenze giudiziarie, giocare sul piano politico e denunciare una presunta campagna di censura contro la propria piattaforma. Ma la decisione di De Moraes ha ottenuto lunedì il sostegno unanime degli altri quattro giudici della Corte Suprema brasiliana, e la sospensione dell’accesso a X nel paese sudamericano è stata confermata.
Il Brasile è il secondo paese più importante in termini di utenti per X con circa 40 milioni di account attivi. La sentenza prevedeva anche una multa di 50mila reais (circa 8.100 euro) per chi usasse una connessione criptata per accedere al social dal Brasile, ma nelle ultime ore la misura è stata sospesa.
Anche il governo di sinistra di Ignazio Lula da Silva ha preso una chiara posizione. Lo stesso presidente ha chiarito che “la legge è uguale per tutti”, e non importa se a ricevere una sentenza sia un lavoratore brasiliano o l’uomo più ricco del mondo: le istituzioni brasiliane vanno rispettate.
“Non può mancare di rispetto al paese solo perché ha un sacco di soldi. Non può andare in giro ad offendere il presidente, deputati, senatori, Corte Suprema. Chi si crede di essere? Deve rispettare la decisione della corte. Deve accettare le regole di questo paese”, ha dichiarato Lula in una recente intervista.
Il giudice De Moraes, oggetto di ogni tipo di critica da parte dell’estrema destra brasiliana da quando ha aperto una serie di inchieste contro l’ex presidente Bolsonaro per la diffusione di Fake News, sostiene che la violazione consapevole e volontaria degli ordini giudiziari da parte di X e SpaceX mirava a creare “un ambiente di totale impunità” e una ‘terra senza legge'”, facilitando così l’azione di gruppi estremisti e milizie digitali sui social media. Dal 2018 infatti De Moraes è a capo di una serie di indagini sulla diffusione di notizie false a scopi politici nel paese, attività esplicitamente vietata dalla legge brasiliana, che coinvolgono l’ex presidente, diversi funzionari del suo governo e molti influencer legati all’estrema destra.
“Xandão” (“Gran Alex”), come viene chiamato De Moraes in Brasile, è ben lontano politicamente dai due poli in cui si divide oggi la politica brasiliana, e affronta forti critiche tanto a livello domestico come a livello internazionale. Sono molti infatti a considerare la sospensione dell’accesso a X una misura esagerata, e secondo alcuni motivata da questioni politiche.
Tutto ciò avviene in un contesto caldo per la politica brasiliana: a ottobre infatti si terranno le elezioni municipali in cui voteranno 153 milioni di brasiliani per scegliere 5.569 sindaci e consigli comunali. Un appuntamento segnato dalla polarizzazione, in cui la maggior parte dei candidati associa senza indugi il proprio nome a quello del presidente Lula o a quello dell’ex presidente Bolsonaro nella campagna elettorale per attrarre i votanti di una o l’altra fazione.
L’oscuramento del social media di Musk compie dunque una duplice funzione: alimentare le accuse di censura già lanciate dal miliardario statunitense contro l’attuale governo, o sostenere il coraggio di Lula e le istituzioni brasiliane contro lo strapotere dell’uomo più ricco del mondo. Musk ha dichiarato che cercherà di ottenere ritorsioni contro le proprietà governative brasiliane in altri posti del mondo: “A meno che il governo brasiliano non restituisca la proprietà illegalmente sequestrata di X e SpaceX, cercheremo di ottenere il sequestro reciproco anche dei beni governativi. Spero che Lula si diverta a volare in aerei commerciali”, ha scritto il magnate sul proprio account.
Intanto la situazione di X potrebbe avere pesanti ricadute anche sugli altri investimenti di Musk in Brasile. Il presidente dell’Agenzia nazionale delle telecomunicazioni (ANATEL), Carlos Baigorri, ha chiarito che, in caso di non regolarizzazione della propria situazione con la giustizia, l’ente è autorizzato ad aprire un caso contro Starlink, il provider di internet via satellite di Musk. Starlink infatti è l’unico operatore attivo nel mercato brasiliano che non ha sospeso l’accesso a X ai propri clienti, violando di fatto l’ordine della Corte Suprema e dell’ANATEL, che potrebbe ritirare addirittura il permesso per le operazioni di Starlink nel paese.
L’affaire Musk è oggi al centro del dibattito politico brasiliano a poco più di un mese da un’elezione chiave per il governo Lula. Ma si presenta anche come un importante precedente a livello mondiale, in cui si gioca la capacità di uno stato di far valere le proprie norme contro la volontà di potenti miliardari, ma anche l’acceso dibattito intorno alla libertà di espressione.
Leggi sulla diffusione di informazione falsa, come quella brasiliana, infatti sono altamente sconsigliate dalla maggior parte degli esperti e dalle associazioni giornalistiche di tutto il mondo, proprio per il rischio che comportano per la libertà di stampa. L’effetto politico che esse hanno avuto in Brasile dal 2018 in avanti però, è innegabile, e nel gennaio 2023 si è arrivati all’estremo di un tentato golpe contro il nuovo governo Lula.
Dalle urne alle piazze: l’ombra dello stallo sul Venezuela
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È scaduto ieri, 27 agosto, il periodo previsto dalla legge elettorale venezuelana per la presentazione di tutti i verbali che convalidano il risultato ufficiale delle elezioni dello scorso 28 luglio. Ma di prove sulla vittoria di Maduro, ancora non ce ne sono, mentre le principali istituzioni dello stato si arroccano a difesa dell’attuale presidente. Il Tribunale Supremo di Giustizia del Venezuela ha convalidato ufficialmente i risultati pubblicati dal Consiglio Nazionale Elettorale (CNE) al termine della giornata elettorale, secondo i quali Nicolás Maduro avrebbe vinto con un ampio margine. Un risultato che contraddice tutti i sondaggi precedenti al giorno dei comizi, inficiato da centinaia di denunce di brogli, e soprattutto non supportato dalla pubblicazione dei verbali dello scrutinio, che secondo l’opposizione indicherebbero invece una chiara vittoria del candidato Edmundo Gozález Urrutia. Contro di lui proprio nelle ultime ore la procura venezuelana ha invece aperto un’indagine per istigazione alla violenza e usurpazione di funzioni pubbliche, e molto probabilmente verrà spiccato un mandato di cattura contro il principale candidato dell’opposizione che si è rifiutato di comparire presso il Ministero Pubblico.
La questione dei verbali resta comunque cruciale. Il CNE ha reso pubblici i risultati attraverso due emissioni televisive, con l’80% e poi con il 97% dei verbali scrutinati, ma a differenza di quanto successo durante gli ultimi 25 anni di governo chavista, non ha fornito i documenti emessi dalle autorità elettorali. Mentre quelli presentati dall’opposizione, ottenuti a forza di insistenza – e spesso con la forza – alla chiusura dei seggi, sembrerebbero essere più attendibili secondo gli esperti.
La posizione del massimo tribunale venezuelano, largamente controllato dagli alleati di Maduro, ha suscitato solo ulteriori condanne al processo elettorale venezuelano. Il dipartimento di stato Usa sostiene che la sentenza non “ha alcuna credibilità, data la schiacciante evidenza che González ha ricevuto la maggioranza dei voti il 28 luglio”. Intanto Washington prepara una lista di funzionari venezuelani passibili di ulteriori sanzioni nei prossimi giorni nel caso in cui la situazione non si risolva.
Brasile e Colombia, i due principali governi della sinistra latinoamericana, temporeggiano, e fino a pochi giorni fa insistevano sulla pubblicazione dei verbali per riconoscere effettivamente i risultati. Resta da vedere quale sarà la reazione di Brasilia e Bogotà, ora che i tempi legali sono scaduti. La settimana scorsa Lula aveva anche proposto l’indizione di nuove elezioni presidenziali per risolvere il conflitto, incassando però lo sprezzante rifiuto di Maduro, che ha definito i tentativi di mediazione del brasiliano come “diplomazia da microfono”.
Una posizione simile al tandem brasiliano-colombiano è stata assunta dal presidente del Messico, Manuel López Obrador: “Il Tribunale sostiene che ha vinto l’elezione Maduro e nello stesso tempo raccomanda che si rendano noti i verbali. Aspettiamo che i verbali siano resi noti per fare altrettanto”, ha sostenuto in conferenza stampa. Intanto Argentina, Perù, Paraguay, Uruguay, Costa Rica e Panama, paesi che hanno di fatto rotto le relazioni diplomatiche con Caracas nell’ultimo mese, hanno pubblicato un comunicato congiunto in cui ratificano la richiesta di un conteggio indipendente e criticano le azioni portate avanti da Maduro.
Una delle posizioni più rilevanti in tutta questa faccenda è sicuramente quella del Generale Vladímir Padrino López, a capo delle Forze Armate Bolivariane, che ha ribadito la “assoluta lealtà” dell’esercito al presidente Maduro, sgombrando il campo così da qualunque tipo di speculazione sulla solidità della cosiddetta “alleanza civico-militare-poliziale” su cui poggia il governo Maduro. Si apre così quello che alcuni analisti chiamano un “legalismo autocratico”, in cui le regole della democrazia vengono utilizzate nella loro versione più tecnicistica per dare sostegno a decisioni antidemocratiche.
C’è da dire, in ogni caso, che neanche l’adesione alle regole della democrazia da parte dei principali leader dell’opposizione venezuelana è poi così solida. La coalizione oppositrice ha accusato il chavismo di brogli in tutte le elezioni realizzate dal 2013 in avanti (tre presidenziali, due legislative, tre referendum, due statali e quattro municipali), salvo in quelle in cui ha ottenuto risultati soddisfacenti. A ciò si aggiungono i tentativi di golpe già portati avanti (nel 2002, nel 2014, nel 2017, nel 2019 e nel 2020) su cui si monta la narrativa di Maduro, secondo cui l’opposizione rappresenta una minaccia alla sicurezza del paese ed è uno strumento dell’imperialismo statunitense.
Molti settori della società venezuelana diffidano dell’onestà dei leader dell’opposizione, specialmente nel caso dell’onnipresente Corina Machado, in passato rappresentante del settore più ultra della destra venezuelana. Oggi però, anche gli alleati internazionali della sinistra sono sempre più scettici sulla legittimità del governo venezuelano e i risultati “poco credibili”, come sostenne il presidente cileno Gabriel Boric, delle elezioni del 28 luglio.
La maggior parte delle manifestazioni anti-governative subito dopo la proclamazione della vittoria di Maduro sono partite proprio da quei quartieri popolari che in passato sono stati bastioni del chavismo, e molti ex funzionari del Partito Socialista Unito del Venezuela ed esponenti di spicco del chavismo hanno preso le distanze dalle decisioni prese da Maduro nelle ultime settimane.
La situazione per i ceti medio-bassi venezuelani poi, è tutt’altro che positiva. I salari medi si aggirano intorno ai 10 dollari mensili, compensati grazie a buoni dello stato che li portano a 120 o 130 dollari, appena sufficienti a garantire una vita decente. Pensioni, contributi e vacanze vengono però calcolati sul salario di base, risultando insufficienti. Sanità e istruzione pubbliche sono totalmente de-finanziate: le scuole funzionano solo poche ore alla settimana e lo stesso governo, promotore di una delle leggi sul lavoro più all’avanguardia del mondo, incita oggi i maestri ad aprire piccoli market-place online per arrotondare i propri stipendi.
Da diversi mesi a Caracas e in altri stati venezuelani non c’è sufficiente acqua, e chi può si è rifornito di cisterne da 500 dollari l’una per garantirsi acqua potabile in casa. Proprio ieri l’ennesimo blackout del sistema elettrico ha paralizzato l’attività in buona parte del paese, e il governo ha risposto con nuove accuse di terrorismo contro l’opposizione. Negli ospedali pubblici sono i pazienti a dover comprare tutti i materiali per le pratiche mediche, e un’operazione può raggiungere costi superiori ai 3.000 dollari, pur essendo un servizio gratuito per legge. L’alternativa privata è accessibile solo alle classi più agiate, anche se sempre più lavoratori si sforzano per pagare scuole e assicurazioni sanitarie private pur di garantire un servizio degno alla propria famiglia.
Una situazione comunque migliore rispetto al periodo 2017-2020, quando le sanzioni Usa e la politica di “massima pressione” voluta dall’allora presidente Donald Trump mise in ginocchio l’economia venezuelana e portò all’esplosione del fenomeno migratorio. Per affrontare la crisi Maduro decise di andare nella direzione opposta alla propria retorica politica: apertura delle importazioni, deregolazione dei prezzi, “dollarizzazione” de facto di buona parte dell’economia. Una svolta ultra-neoliberista insomma che ha però giovato temporaneamente alle classi medie e i lavoratori dipendenti rafforzando il consumo.
La crisi politica aperta dalle elezioni del 28 luglio rischia ora di far ripiombare il paese nell’isolamento internazionale da cui era uscito parzialmente e a fatica. Maduro non è solo sotto pressione da parte dell’opposizione e delle principali potenze regionali, ma anche dei settori che sono stati ampiamente fedeli a Chávez e al suo modello durante più di vent’anni. Le scelte intraprese nelle ultime ore lasciano intravedere la possibilità di un irrigidimento della posizione del chavismo di governo col sostegno delle forze armate e polizia, oltre che di alcune potenze come Russia, Cina e Irán. Bisognerà però seguire le vicende legate al grado di consenso interno, specialmente nei settori popolari, per capire quanto dovrà irrigidire ancor più la propria politica il governo per riuscire a sostenere il proprio potere.
Elon Musk annuncia: “X via dal Brasile”
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Elon Musk ha annunciato la chiusura degli uffici di X in Brasile, dichiarando che questa decisione è una risposta a quella che considera una persecuzione della libertà di opinione da parte della Corte Suprema brasiliana. La giustizia brasiliana aveva infatti ordinato alla piattaforma, precedentemente nota come Twitter, di sospendere una serie di account accusati di diffondere fake news, incitazioni alla violenza e messaggi di odio sin dal 2022. Secondo X, le autorità brasiliane avrebbero minacciato di arrestare i dipendenti dell’azienda per costringerli a compiere atti di censura. Tuttavia, la vicenda è più complessa di quanto sembri.
Questa controversia ha radici in un’indagine iniziata nel 2019, in risposta a crescenti denunce riguardanti l’esistenza del cosiddetto “gabinete do ódio” (gabinetto dell’odio), un’unità comunicativa guidata da Carlos Bolsonaro, il secondo figlio dell’ex presidente Jair Bolsonaro. Questo gruppo era dedito alla diffusione massiva di fake news e contenuti d’odio, e la sua attività risale alla campagna elettorale del 2018. Una volta che Bolsonaro è salito al potere, il “gabinete do ódio” ha continuato a operare, gestendo direttamente gli account social del presidente. Diverse inchieste giornalistiche hanno rivelato che il gabinetto non solo ha proseguito le sue attività con finanziamenti pubblici, ma ha anche beneficiato del supporto di una vasta rete di “milizie virtuali“, incaricate di replicare gli attacchi contro giornalisti, attivisti e oppositori politici attraverso la diffusione di fake news.
Alcuni episodi hanno avuto un particolare risalto a livello nazionale e internazionale. Durante la campagna elettorale del 2018, Bolsonaro accusò il suo avversario, l’ex ministro dell’istruzione Fernando Haddad, di aver distribuito nelle scuole brasiliane un “Kit Gay”, destinato, a suo dire, a pervertire i bambini e a incoraggiarli all’omosessualità. In realtà, si trattava di materiale didattico di un programma contro l’omofobia, attivo da prima che Haddad diventasse ministro. Tuttavia, sui social media si diffusero menzogne di ogni tipo per sostenere le affermazioni di Bolsonaro. Le ultime indagini della polizia brasiliana hanno inoltre suggerito che il “gabinete do ódio” avesse persino il sostegno dei servizi segreti brasiliani e operasse direttamente all’interno del palazzo presidenziale.
Il problema delle fake news e delle campagne diffamatorie, che hanno contribuito in modo significativo all’ascesa di Bolsonaro, ha spinto la Corte Suprema brasiliana a prendere una serie di misure già nel marzo del 2019, pochi mesi dopo l’insediamento del governo Bolsonaro. Il giudice Alexandre de Moraes è stato incaricato di guidare le indagini sulle “milizie digitali” e in breve tempo è diventato il nemico pubblico numero uno di Bolsonaro. X, la piattaforma di Musk, lo ha ora identificato come il capo di un presunto sistema di censura brasiliano, tanto che Musk ha addirittura pubblicato una foto di Moraes, paragonandolo al personaggio di Voldemort.
Moraes, tuttavia, non è una “toga rossa”. Nel 2017, è stato nominato Ministro della Giustizia durante il governo di Michel Temer, che ha preso il potere dopo aver sostenuto la destituzione di Dilma Rousseff nel 2016 e l’incarcerazione di Lula pochi mesi più tardi. Moraes non solo è stato ministro durante il controverso processo che ha portato Lula in carcere per 580 giorni, ma è anche stato nominato membro della Corte Suprema su richiesta di Temer. Gran parte dei casi più delicati che coinvolgono l’ex presidente Bolsonaro e la gestione della giustizia elettorale durante le elezioni del 2022 sono stati affidati proprio a Moraes, comprese le indagini sulle milizie virtuali.
Molti episodi di violenza in diverse parti del Brasile, ispirati da notizie false diffuse sui social o da attacchi orchestrati contro figure pubbliche da influencer, bot e militanti di estrema destra, hanno portato Moraes a richiedere e ottenere la chiusura di numerosi account creati con il solo scopo di diffondere e difendere tali contenuti. Questi account avevano violato le leggi brasiliane sulla disinformazione e sull’incitamento all’odio, e tutte le aziende e piattaforme coinvolte avevano collaborato con la giustizia fino a quando Musk non ha acquisito X, adottando una posizione di difesa della libertà di espressione, in particolare a sostegno dell’estrema destra brasiliana.
Negli Stati Uniti, Musk ha trovato un certo sostegno. Il presidente della Commissione Giustizia della Camera dei rappresentanti, il repubblicano Jim Jordan, ha pubblicato un lungo report nell’aprile scorso, rivelando le presunte ordinanze segrete emesse da Moraes per censurare giornalisti e attivisti dell’estrema destra. Jordan ha anche accusato l’FBI e il governo Biden di aver collaborato per silenziare determinate voci.
Durante la campagna elettorale del 2022, la diffusione di notizie false e messaggi di odio è stata onnipresente. Un esempio rilevante è l’affermazione dello stesso Bolsonaro secondo cui il sistema elettorale brasiliano era estremamente vulnerabile e manipolabile. Bolsonaro è stato condannato dal Supremo Tribunale di Giustizia, allora presieduto da Moraes, per la diffusione di informazioni false sulla sicurezza elettorale del paese.
Tuttavia, il clima di sfiducia era già stato instillato, e la stretta vittoria di Lula nelle elezioni del 2022 ha consolidato le teorie complottiste sui presunti brogli a favore della sinistra, sia online sia nelle strade brasiliane. La manifestazione più evidente di questa frangia complottista è stata l’assalto dell’8 gennaio 2023 alla spianata dei tre poteri a Brasilia da parte di centinaia di sostenitori di Bolsonaro, nel tentativo di impedire l’insediamento di Lula. Anche in questo caso, è stato Moraes a condurre le indagini per identificare e punire i responsabili delle violenze e i loro mandanti. Moraes ha inoltre presieduto il tribunale elettorale che ha condannato Bolsonaro a otto anni di ineleggibilità per i suoi attacchi, basati su notizie false, al sistema elettorale brasiliano.
“La lotta per lo Stato democratico di diritto e contro un colpo di Stato, che è sotto indagine in questa Corte, è stata condotta con il massimo rispetto del giusto processo,” ha recentemente scritto il presidente della Corte Suprema brasiliana, Luís Roberto Barroso. “Il non conformismo verso la democrazia continua a manifestarsi nella strumentalizzazione criminale delle reti sociali.”
Tuttavia, il Brasile non è l’unico paese latinoamericano in cui Musk ha interessi significativi. Il suo coinvolgimento nella politica del continente riflette una forte inclinazione a sostenere leader e movimenti di estrema destra, utilizzandoli come esempio nel dibattito politico statunitense. Un caso emblematico è quello del presidente argentino Javier Milei. Mentre Moraes avviava un’indagine contro Musk per la sua reiterata disobbedienza alle sentenze che obbligavano X a chiudere account che violavano la legge brasiliana, Milei, a capo del principale partner commerciale del Brasile in America Latina, ha visitato Musk personalmente per offrirgli il suo appoggio.
L’estrema destra argentina ha dimostrato un notevole supporto a Elon Musk. Con un Decreto Urgente, il presidente Milei ha facilitato la deregolamentazione del mercato delle telecomunicazioni, aprendo le porte all’ingresso di Starlink, l’azienda di Musk, nel paese. Starlink è diventata un esempio di efficienza e innovazione nei discorsi di Milei, e oggi inonda le pagine locali di X con pubblicità dei suoi servizi satellitari, contribuendo a rafforzare la presenza e l’influenza di Musk in Argentina.
L’inclinazione di Musk a intervenire nelle dinamiche politiche latinoamericane non è nuova. Già nel 2019, in risposta a un utente su Twitter che collegava il colpo di stato in Bolivia contro il governo di sinistra di Evo Morales agli interessi statunitensi per le immense riserve di litio del paese, Musk aveva scritto, in un post poi cancellato: “Faremo un golpe contro chi vogliamo. Abituatevi.” Questo commento aveva sollevato un’ondata di polemiche, evidenziando l’arroganza con cui Musk si affacciava alla politica della regione. Più di recente, Musk ha accettato una sfida lanciata dal presidente venezuelano Nicolás Maduro a un incontro di boxe, dopo averlo definito un asino e un dittatore. In risposta, Caracas ha sospeso il servizio di X per dieci giorni, un segnale chiaro della tensione tra Musk e i governi che non rientrano nella sua sfera di influenza.
In definitiva, Elon Musk è diventato un attore centrale nella politica latinoamericana, sfruttando la sua influenza mediatica e imprenditoriale per consolidare legami con i leader di estrema destra del continente. La controversia in corso con la giustizia brasiliana non fa che aumentare il suo peso all’interno di questi circoli, rafforzando la sua posizione come figura chiave nelle dinamiche politiche e sociali della regione.
Lula e la nuova sinistra latino-americana
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Il ministro degli esteri del Brasile, Mauro Vieira, ha annunciato lo scorso 8 agosto l’espulsione dell’ambasciatrice del Nicaragua a Brasilia, Fulvia Patricia Castro Matus, in risposta all’espulsione dell’ambasciatore brasiliano a Managua, Breno de Souza da Costa, ordinata dal presidente Daniel Ortega e avvenuta poche ore prima. Il rappresentante del governo Lula in Nicaragua, avrebbe ricevuto l’ordine – non ufficiale – di abbandonare il paese a fine luglio, per non esser stato presente in occasione delle celebrazioni del 45º anniversario della Rivoluzione Sandinista lo scorso 19 luglio.
Le relazioni tra i due paesi, in ogni caso, erano già molto fredde dall’ottobre del 2023, quando Lula accettò la richiesta di Papa Francesco per mediare in favore dell’Arcivescovo di Metagalpa, Rolando Álvarez, arrestato dal governo di Ortega con l’accusa di sedizione. Da allora, sostengono fonti diplomatiche, tra i due presidenti, in passato alleati, non ci sono stati più contatti diretti.
La crisi col Nicaragua mette in evidenza un nuovo profilo del governo Lula, a capo della principale potenza a livello regionale ed in passato molto più condiscendente coi governi in aperto conflitto con gli Usa e l’Unione Europea. Durante il suo primo periodo come presidente (2003-2011) infatti allacciò stretti rapporti coi governi di Hugo Chávez in Venezuela, Evo Morales in Bolivia, Rafael Correa in Ecuador, Raúl Castro a Cuba e lo stesso Ortega in Nicaragua, pur non entrando a far parte dell’alleanza strategica proposta da Caracas in aperto contrasto nei confronti degli Usa, l’ALBA-TCP.
La buona sintonia tra il settore più moderato della sinistra latinoamericana capitanato da Lula – e sostenuto dai coniugi Kirchner in Argentina, da José “Pepe” Mujica e Tabaré Vázquez in Uruguay e Fernando Lugo in Paraguay – e quello più estremo guidato da Chávez, aveva permesso negli anni d’oro del progressismo latinoamericano il consolidamento di una struttura istituzionale ordinata e solida per la proiezione internazionale della regione. La nascita della Comunità di Stati Latinoamericani e dei Caraibi (Celac), dell’Unione delle Nazioni Sudamericane (Unasur), e l’allargamento del Mercato Comune del Sud (Mercosur) a Bolivia e Venezuela ne sono una testimonianza.
Il Brasile, attraverso la propria Banca Nazionale per lo Sviluppo (Bndes), assieme a diverse aziende private (tra cui la tristemente celebre Odebrecht), e col sostegno finanziario del petrolio venezuelano e gli investimenti cinesi, aveva posto le basi per un progresso regionale tradotto ben presto in autostrade, porti e piani di sviluppo. Ma l’ondata conservatrice che ha investito il continente a partire dal 2016 (con l’avvento dei governi di Macri in Argentina, Bolsonaro in Brasile, Lacalle Pou in Uruguay, Moreno in Ecuador, Piñera in Cile e Trump negli Usa), e il crollo dei prezzi globali delle materie prime post crisi finanziaria del 2008, hanno stroncato rapidamente la primavera sudamericana. Il ritorno di Lula nel 2022 e di una nuova generazione di governi progressisti in America Latina sembrava riproporre il clima di sintonia e sostegno mutuo nella sinistra latinoamericana, ma ben presto è risultato evidente che l’armonia di inizio secolo è oggi improponibile.
Tra i primi a mostrare forti critiche nei confronti di governi come Cuba, Nicaragua e Venezuela nella sinistra latinoamericana è stato il presidente cileno Gabriel Boric, che già dai primi giorni della sua presidenza si è smarcato dal discorso accondiscendente che la sinistra latinoamericana ha nei confronti di questi paesi, provocando anche serie polemiche nella coalizione di governo. Ma la cartina di tornasole che ha messo pienamente in luce la revisione di certe posizioni storiche della sinistra latinoamericana è rappresentata sicuramente dal risultato delle elezioni presidenziali in Venezuela dello scorso 28 luglio.
La polemica sorta attorno ai verbali elettorali mai pubblicati dal Consiglio Elettorale, che ha proclamato la rielezione di Nicolás Maduro senza però presentarne le prove, ha portato molti alleati storici del chavismo su posizioni più critiche. I governi di Nicaragua, Cuba e Bolivia, assieme a Russia, Cina e Iran, hanno riconosciuto immediatamente la vittoria di Maduro. Ma i presidenti di Cile, Brasile, Colombia e Messico non si sono ancora pronunciati in merito, e hanno lanciato una strategia diplomatica, sostenuta dalla Casa Bianca, per trovare una soluzione pacifica alla crisi venezuelana. L’obiettivo è quello di ripristinare il dialogo tra governo e opposizione, e arrivare alla pubblicazione di un risultato trasparente. Ma Boric, Petro, Lopez Obrador e soprattutto Lula, non possono scartare a priori che tale procedura eviti l’unica opzione inaccettabile per Maduro, una transizione di governo.
Un contrasto reso possibile soprattutto dal consenso, generato tra le fila della sinistra latinoamericana, sulla condanna verso qualunque tentativo di giocare sporco da parte del governo venezuelano. Alle critiche poco celate di Lula contro la gestione della situazione post elettorale da parte di Maduro, si aggiungono quelle del presidente della Colombia, Gustavo Petro, del presidente uscente del Messico, Andrés Manuel López Obrador, della presidente eletta del Messico, Claudia Sheinbaum, del presidente del Cile, Gabriel Boric, dell’ex presidente cilena Michelle Bachelet e dell’ex presidente argentina Cristina Fernández de Kirchner.
Lula sa che però deve avanzare con estrema cautela se vuole garantire un risultato positivo alla propria strategia. La titubanza di Brasilia, secondo i detrattori di Lula, è in realtà un salvagente lanciato a Maduro per permettergli di vantare ancora certa legittimità internazionale. Sul fronte interno, l’opposizione critica aspramente la tendenza del governo brasiliano di astenersi dal condannare enfaticamente le azioni di determinati governi, come nel caso della Russia di Putin.
Eppure Lula è cosciente di essere un tassello fondamentale per le potenze occidentali nella relazione con governi ostili. Si tratta della potenza media capace di definire se Caracas si getterà completamente nelle braccia di Russia, Cina e Iran, o se manterrà quella via di mezzo in cui naviga sin dall’introduzione delle prime sanzioni da parte del governo di Barack Obama nel 2016.
Una rottura definitiva col Brasile di Lula, e dunque con la maggior parte del sistema latinoamericano, porterebbe senz’altro Maduro sulla strada dell’isolamento “alla Ortega” sul piano internazionale, e alla consolidazione dell’asse con Pechino e Mosca – come d’altronde sta già facendo il Nicaragua -. La situazione di Lula, dunque, è tutt’altro che semplice, e l’allontanamento da Managua dà sicuramente un indizio del fatto che esistono limiti che il Brasile di Lula non è disposto a superare. Quel che sembra a molti un eccesso di pragmatismo, o peggio ancora un sostegno verso autocrati e dittatori, è in realtà un difficilissimo equilibrio basato sul principio tutto latinoamericano del “non allineamento attivo”, volto ad approfondire i lacci con il mondo non-occidentale e l’equidistanza nei conflitti internazionali, privilegiando le istanze di risoluzione regionali delle controversie.
La situazione attuale è propiziata inoltre dall’incerto clima elettorale imperante negli Stati Uniti, che porta la Casa Bianca a voler evitare di fare nuovi passi falsi sul dossier Venezuela, delegando a Lula la gestione della soluzione diplomatica. Le situazioni in Nicaragua e in Venezuela dunque parlano chiaro dell’indirizzo che sembrerebbe voler intraprendere la sinistra latinoamericana, molto più impegnata su fronti più ostici per i governi di Maduro e Ortega come il femminismo o lo sviluppo sostenibile. La visione classica, legata ancora a logiche da Guerra Fredda, non solo allontana le sinistre latinoamericane dagli elettori, ma ora le isola nell’assetto regionale e internazionale. Questo Lula sembra averlo capito.
La strategia di Maduro per rimanere al potere
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Il Consiglio Nazionale Elettorale del Venezuela (Cne) ha consegnato tutti i verbali delle elezioni presidenziali del 28 luglio scorso alla Corte Suprema. Dopo dieci giorni di polemiche e intense proteste nelle strade di Caracas, il governo di Nicolás Maduro spera di ottenere dalla Corte la conferma della vittoria del chavismo. Oltre all’attuale presidente venezuelano, sono stati convocati dal massimo tribunale anche i principali leader dell’opposizione: Edmundo González Urrutia, candidato della Plataforma Unitaria Democrática (Pud), proclamatosi vincitore delle elezioni con ampio margine, il presidente della Pud, José Luis Cartaya, e altri candidati come il segretario generale del Movimiento Para Venezuela (Mpv), Simón Calzadilla, o il governatore dello stato di Zulia, Manuel Rosales. Si stima che la Corte emetterà sentenza nel giro di 15 giorni, ma l’opposizione difficilmente ne accetterà il verdetto: i 20 membri dell’attuale Tribunale sono stati scelti dall’Assemblea Nazionale, a maggioranza chavista, nel 2022, in un procedimento che era già stato denunciato per diverse irregolarità. La maggior parte dei giudici della Corte hanno legami diretti col potere politico – basti pensare che uno dei membri, Calixto Ortega, è cognato della first lady, Celia Flores -, e la metà di essi sono stati in passato deputati del governante Psuv.
Il panorama post elettorale in Venezuela è però ancor più complesso di quanto sembra. L’opposizione sostiene che l’ex diplomatico e candidato della destra, González Urrutia, ha ottenuto più del 67% dei voti. Per dimostrarlo, ha pubblicato su una pagina web creata ad hoc, i verbali che gli osservatori del Pud sono riusciti a raccogliere durante la chiusura dei seggi, e che rappresenterebbero circa il 70% del totale. L’analisi delle schede digitalizzate però presenta alcune inconsistenze. Molti dei verbali pubblicati infatti non sono stati firmati dalle autorità del seggio, nemmeno dagli stessi osservatori dell’opposizione, compromettendone dunque la legalità. Insomma, sebbene il sistema elettronico venezuelano sia riconosciuto da entrambe le parti come attendibile, né il governo né l’opposizione possono presentare prove irrefutabili del risultato che dicono di aver raggiunto.
A ciò si aggiungono le perplessità e le riserve presentate a livello internazionale. Russia, Cina, Irán, Bolivia, Cuba e Nicaragua, tra altri, hanno già riconosciuto la legittimità dell’elezione di Maduro. Argentina, Perù, Costa Rica, Panama e Uruguay riconoscono invece Urrutia come presidente eletto. Una posizione piuttosto ambigua è quella assunta dalla Casa Bianca. Il Segretario di Stato Antony Blinken ha rotto gli indugi a 72 ore dall’elezione sostenendo che Urrutia “ha ottenuto la maggioranza dei voti” e che “la volontà dei venezuelani deve essere rispettata”. Poche ore più tardi però, il portavoce dello State Department, Matthew Miller, ha chiarito che gli Usa ancora non riconoscono Urrutia come presidente, e attendono la pubblicazione dei verbali da parte del Cne. L’amministrazione di Joe Biden si era pronunciata sin dall’inizio a favore della mediazione offerta dai presidenti di Brasile, Lula da Silva, Colombia, Gustavo Petro, e Messico, Manuel Lopez Obrador. I tre principali rappresentanti della sinistra latinoamericana che si sono immediatamente smarcati dalla posizione di Maduro e hanno chiesto trasparenza nello scrutinio prima di riconoscere il vincitore. Un’altra esponente del progressismo latinoamericano che ha sorpreso prendendo le distanze dal chavismo è l’ex presidente argentina, Cristina Fernandez de Kirchner, che ha chiesto a Maduro di rendere pubblici i verbali “in nome della memoria di Hugo Chavez”. Anche la presidente delle Abuelas de Plaza de Mayo, Estela de Carlotto, ha sostenuto che Maduro “sta barando”, e ha chiesto trasparenza. L’unica organizzazione internazionale accolta in Venezuela per osservare le elezioni, il Carter Center, ha abbandonato il paese poche ore dopo la pubblicazione del risultato favorevole a Maduro da parte del Cne ed ha reso noto un comunicato in cui sostiene che “le elezioni presidenziali del 2024 in Venezuela non hanno soddisfatto gli standard internazionali di integrità elettorale e non possono essere considerate democratiche”.
A partire dalle proteste scaturite il lunedì seguente all’elezione, il governo ha riattivato la cosiddetta “Operación Tun Tun”, un protocollo di sicurezza che coinvolge forze di polizia, servizi segreti, e civili per contrastare l’azione “sovversiva” dell’opposizione. Sono stati aperti una pagina web, una app per smartphone e un numero telefonico affinché i venezuelani possano denunciare anonimamente qualunque tipo di attività sospetta dei propri vicini. L’opposizione denuncia che in questo modo si sta incoraggiando la persecuzione delle voci dissidenti. Molti venezuelani hanno deciso direttamente di chiudere i propri account sui social o eliminare alcune app dai propri cellulari per evitare di essere segnalati come “sovversivi”. Il saldo della repressione contro le manifestazioni dell’opposizione è di almeno 11 morti e più di 2000 persone arrestate.
Secondo la narrativa costruita dal governo, l’opposizione guidata da María Corina Machado, storica dirigente della destra venezuelana ed esclusa dalla corsa alla presidenza dal Cne, ha messo in moto un tentativo di colpo di stato subito dopo la chiusura delle urne. La giustizia ha aperto un’inchiesta contro Machado e Urrutia, che negli ultimi giorni sono passati alla clandestinità. Il primo passo del piano, secondo il chavismo, è stato quello di creare scompiglio ai seggi con la scusa di ottenere i verbali dello scrutinio da contraffare. Poi, è stato portato avanti un attacco informatico contro il sistema elettronico del Cne, motivo per il quale il risultato parziale del voto è stato annunciato con diverse ore di ritardo domenica notte, e i verbali sono stati consegnati alla giustizia solo dieci giorni dopo la realizzazione dei comizi.
Per Maduro, Corina Machado è il limite che non è disposto a superare. Qualunque negoziato in vista di una futura transizione politica dovrà essere realizzato senza la presenza della leader oppositrice. Proprio per questo i governi di Messico, Colombia e Brasile, premono per una soluzione diplomatica che permetta al presidente venezuelano e al principale candidato dell’opposizione, González Urrutia, di trattare. Condizione necessaria però affinché ciò avvenga, è la pubblicazione dei verbali delle elezioni di domenica, tenuti sotto chiave da dieci giorni dal Consiglio Elettorale, composto a maggioranza da funzionari che rispondono politicamente al presidente Maduro, e ora in mano al Tribunale Supremo di Giustizia, anch’esso strettamente legato al governo.
Le alternative che si aprono per il futuro della nazione sudamericana ora sono diverse. Maduro potrebbe riuscire ad imporre la propria vittoria, obbligando nuovamente l’opposizione a proclamare un presidente virtuale e senza potere, come già accaduto con Juan Guaidò nel 2019. Una alternativa possibile solo grazie alla fedeltà delle Forze Armate e i Servizi Segreti verso il governo attuale. Ma né la Casa Bianca né la maggioranza dei governi latinoamericani sembrerebbero disposti a ripetere una strategia che si è già dimostrata fallimentare.
Nel caso di una continuità di Maduro al potere, i settori dell’estrema destra latinoamericana, guidati dal governo argentino di Javier Milei, non escludono la possibilità di un intervento internazionale in Venezuela. Sebbene sia molto improbabile una possibilità così drastica in un continente che ha vissuto solo due brevissime guerre nell’ultimo mezzo secolo, non è detto che una vittoria di Donald Trump alle elezioni Usa di novembre non dia maggior forza a proposte estreme. Già durante il suo primo mandato, Trump sostenne la strategia della “pressione totale” per rovesciare il governo venezuelano, col sostegno dei governi conservatori della regione riuniti nel cosiddetto “Gruppo di Lima”.
L’altra possibilità, quella di una transizione pacifica, vede anch’essa seri ostacoli nel cammino. Innanzitutto perché, al di là delle discussioni interne al chavismo sull’opportunità della strada scelta dalla cupola per riaffermare il proprio potere, la coalizione di governo può contare ancora su un appoggio popolare non indifferente, specialmente nelle zone rurali e periferiche del paese. La possibilità di doversi sottomettere a processi sommari una volta consegnato il potere a un governo di transizione o all’opposizione, allontana ancor più i leader di governo, forze armate e polizia dall’idea di affrontare un processo tale.
Ancor più tenendo conto del fatto che dirigenti oppositori come Corina Machado, rappresentano un’ala di ultra destra che attende da anni una rivincita contro il chavismo, e il cui programma politico ed economico è molto più simile a quello ultra-liberista di Javier Milei che alla destra moderata di Urrutia. A Bogotà e a Brasilia lo sanno bene, e per questo cercano di mantenere certa equidistanza nel caos venezuelano, volendo così isolare gli attori più estremi di entrambe le fazioni.
Sebbene piaccia a pochi, dunque, Maduro è l’unica opzione conveniente oggi per moltissimi governi della regione – includendo forse anche l’amministrazione Biden, che quel che meno vorrebbe è una complessa transizione politica nel “giardino di casa” nel pieno della campagna elettorale verso le generali di novembre -, situazione che rende ancor più complesso prevederne il futuro.
La trappola venezuelana. Di nuovo.
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Alla fine è andata come era facile prevedere. Si sapeva da mesi a Caracas che entrambe le forze politiche che disputavano la presidenza del paese alle elezioni di domenica, si sarebbero aggiudicate la vittoria. Si sapeva che l’autorità elettorale venezuelana avrebbe giocato a favore del presidente Nicolás Maduro. E si sapeva anche che chi fosse risultato sconfitto nello scrutinio finale, avrebbe denunciato brogli. La fase più complessa da comprendere delle elezioni venezuelane comincia ora, col braccio di ferro intorno alla legittimità dei risultati annunciati dal Consiglio Nazionale Elettorale nella tarda nottata di domenica. Ma andiamo con calma.
All’alba di lunedì, molto più tardi del previsto, tre dei cinque membri del CNE – i due membri dell’opposizione non si sono presentati – hanno annunciato ufficialmente il risultato delle elezioni di domenica: il presidente Maduro si è imposto col 51,2% sul candidato delle opposizioni, l’ex diplomatico Edmundo González Urrutia, fermo al 44,2% I numeri pubblicati dall’autorità elettorale hanno subito alimentato forti perplessità: perché resi noti con più di tre ore di ritardo rispetto al previsto; perché l’unico bollettino pubblicato riferisce il conteggio dell’80% dei voti, e lo scarto tra i due principali candidati (circa 2 milioni di voti) è minore rispetto alla quantità di voti non scrutinati; perché tutti i sondaggi precedenti al voto di domenica parlavano di una vittoria schiacciante dell’opposizione, che vantava quasi 20 punti percentuali di vantaggio rispetto alla lista di governo; perché l’opposizione ha denunciato che non gli è stato permesso accedere alla totalità dei verbali, non potendo dunque verificare il conteggio del CNE.
La leader della destra venezuelana, María Corina Machado, vera protagonista della coalizione oppositrice ed esclusa dalle elezioni a causa di una condanna per corruzione e riciclaggio, ha presentato lunedì quello che sostiene essere “il vero risultato”: 6,3 milioni di voti per Urrutia e 2,76 milioni per Maduro. Né governo né opposizione hanno presentato finora registri o prove dei numeri che dicono di aver ottenuto. Intanto il CNE nel pomeriggio di lunedì, dodici ore dopo il primo annuncio, ha proclamato ufficialmente la vittoria di Maduro, senza aver aggiornato i dati, né aver presentato i risultati dei singoli seggi. La versione ufficiale parla di un “attacco hacker” contro il sistema del CNE – la pagina web ufficiale è oscurata dalla sera di domenica – per il quale il governo ha accusato pubblicamente la stessa Machado.
Uruguay, Argentina, Costa Rica, Ecuador, Panama, Paraguay, Perù e Repubblica Dominicana hanno lanciato un comunicato congiunto in cui rifiutano il risultato ufficiale e chiedono il riconteggio dei voti. La risposta del governo venezuelano è stata l’espulsione delle rappresentanze diplomatiche della maggior parte di questi paesi. In diverse città venezuelane sono scoppiate nel pomeriggio di lunedì manifestazioni spontanee, sfociate in violenza e represse dalle autorità. Sono state divelte diverse statue dell’ex presidente Hugo Chávez, mentre si moltiplicano le denunce di persone uccise a colpi di arma da fuoco sia tra i manifestanti dell’opposizione sia tra i simpatizzanti del governo.
Maduro ha lanciato l’appello per una grande manifestazione nazionale in difesa del risultato elettorale per martedì 30 luglio, mentre Machado ha convocato l’opposizione a manifestare di fronte alla sede dell’Onu praticamente alla stessa ora.
Le elezioni di domenica sono di per sé da considerarsi come un evento cruciale nel Venezuela attuale. La coalizione oppositrice, che va dal centrosinistra più progressista fino all’estrema destra conservatrice, è tornata alle urne dopo più di dieci anni di assenza: dal 2013 infatti la maggioranza dell’opposizione ha rifiutato di partecipare alle elezioni presidenziali – che si sono comunque consumate con una vittoria sempre scontata del chavismo ed una partecipazione sempre più ridotta – puntando invece alla destabilizzazione del governo. Nel 2013, dopo la prima vittoria di Maduro alle elezioni convocate immediatamente dopo la morte di Hugo Chávez, l’opposizione guidata allora da Henrique Capriles portó avanti il cosiddetto piano “La Salida”, mirato a far cadere il governo attraverso la mobilitazione popolare. Non solo fu un fallimento, ma la strategia evidenziò le forti divergenze tra i differenti leader oppositori: Machado, la più estremista allora, chiedeva un intervento armato degli Stati Uniti per deporre Maduro, mentre la maggioranza dell’opposizione cercava vie istituzionali o di piazza per rovesciare il chavismo al governo. Alle elezioni del 2018 la maggior parte delle opposizioni aderì al boicottaggio, con un fortissimo sostegno a livello internazionale, che derivò in una nuova strategia: la dichiarazione di illegittimità dell’elezione di Maduro da parte dell’Assemblea Nazionale, e la proclamazione del presidente dell’organo legislativo, Juan Guaidó, come presidente ad interim del Venezuela. Fu il periodo in cui il paese ebbe due presidenti, uno concretamente al potere, Maduro, ed uno simbolicamente riconosciuto da mezzo mondo come forma per esercitare pressioni su Caracas, Guaidó.
Ma anche questa strategia è fallita miseramente: sotto pressione per gli scandali di corruzione scoppiati nel seno del suo “governo ombra”, che riceveva ingenti finanziamenti internazionali, e delle divisioni interne alla fazione antichavista, Guaidó ha concluso il suo mandato simbolico, ed è oggi una figura senza alcun rilievo nella politica internazionale.
Nel frattempo si sono verificati due tentativi di golpe in Venezuela: nel maggio del 2019, quando un piccolo settore dell’esercito riconobbe Guaidó e venne liberato il leader del piano “La Salida”, Leopoldo López; e l’Operazione Gedeon, portata avanti da ex funzionari delle Forze Speciali degli Stati Uniti nel maggio del 2020. Entrambi i casi hanno dimostrato la fedeltà delle forze armate e delle forze di polizia al governo, situazione che si mantiene ancora oggi. Da allora la destra venezuelana era stata incapace di presentarsi come alternativa di governo, fino al ritorno di Corina Machado nell’arena politica, in una veste sorprendentemente più istituzionalista: nell’ottobre del 2023 ha vinto delle controverse primarie nella coalizione oppositrice col 90% dei voti, e da allora conduce lo schieramento rappresentato alle urne da Urrutia.
Anche il chavismo deve essere considerato come un attore eterogeneo e variegato al proprio interno. Sono molti i settori dentro alla sinistra venezuelana disposti a passare all’opposizione, alcuni addirittura sostengono sottovoce che perdere il governo forse gioverebbe al movimento, e gli darebbe maggior slancio per tornare al potere in futuro. La conduzione del blocco chavista, in ogni caso, è in mano ad una cupola diretta oggi da Nicolás Maduro e i suoi collaboratori più stretti, decisi a mantenere nelle proprie mani il governo del paese nonostante le molteplici crisi che attraversa il proprio schieramento politico. C’è da sottolineare che, nonostante la situazione drammatica che ha investito il paese nell’ultimo decennio, il sostegno nei confronti di Maduro e del chavismo si mantiene relativamente alto. In molti casi, il ricordo del lungo periodo della cosiddetta “Venezuela Saudita”, segnata dal mantenimento al potere di un’élite che garantiva a poche famiglie venezuelane una smisurata ricchezza proveniente dalla rendita del petrolio, funge ancora da propulsore per la coalizione di governo, nonostante i risultati dal punto di vista socio-economico oggi siano tutt’altro che favorevoli.
Di certo per Maduro il contesto internazionale si presenta favorevole per forzare la mano: una regione divisa, incapace di fare pressioni sulle fazioni in disputa, e praticamente ormai senza alcuna istituzione internazionale che vanti una chiara legittimità a livello continentale; un presidente a Washington in ritirata, che si può giocare punti importantissimi dell’attesa rimonta – ormai altrui – nella corsa alle elezioni di novembre, sulla questione Venezuela; la guerra che persiste alle porte d’Europa, inoltre, mantiene Bruxelles e gli stati dell’UE attenti a questioni ben distanti da Caracas, che continua tra l’altro ad essere un’alternativa seria per l’approvvigionamento di greggio date le sanzioni imposte alla Russia.
Una delle chiavi internazionali per cominciare a trovare una soluzione alla situazione in Venezuela sta ora nelle mani del presidente brasiliano, Lula Ignacio da Silva, e del colombiano Gustavo Petro. Entrambi considerati alleati di Maduro, pur mantenendo le distanze dalle decisioni prese da Caracas in certi aspetti della politica interna, Bogotà e Brasilia si presentano come gli interlocutori naturali tra il governo Maduro e la comunità internazionale, ma soprattutto gli unici in grado di influire sulle scelte che intraprende il governo venezuelano. Per Caracas una rottura con Petro, e specialmente con Lula, sarebbe disastrosa in termini di legittimità interna e internazionale. In Venezuela si trova dalla settimana scorsa uno degli uomini chiave per la proiezione globale del Brasile, Celso Amorim, ex ministro degli Esteri e uomo di estrema fiducia del presidente brasiliano. Messico, Brasile e Colombia stanno portando avanti intensissime negoziazioni con i funzionari di Maduro da giorni, per cercare di evitare lo scoppio di una crisi di portata continentale.
Kamala Harris e l’America Latina
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“Do non sei come”. Non venite. Era il 7 giugno del 2021, Kamala Harris stava portando avanti la conferenza stampa che concludeva il suo primo tour da vicepresidente degli Stati Uniti in Centroamerica. Lo scenario era il Palacio Nacional de la Cultura, sede del governo del Guatemala, e la frase venne immediatamente interpretata come una chiarissima presa di posizione del governo Biden intorno al problema dei flussi migratori dall’America Latina verso gli Usa. “Gli Stati Uniti continueranno a far rispettare le proprie leggi e a proteggere i nostri confini. Se arrivate al nostro confine, sarete rispediti indietro”, sentenziò.
Insomma, poco sarebbe cambiato rispetto alla tolleranza zero imposta dall’ex presidente Donald Trump in materia di immigrazione, e a dirlo era proprio la persona incaricata di affrontare la problematica durante il periodo 2020-2024. Biden aveva voluto dare alla propria vicepresidente lo stesso incarico che Barack Obama aveva assegnato a lui nel 2014, quello di coltivare relazioni profonde con le istituzioni e il settore privato centroamericano per condurre politiche mirate a ridurre i flussi migratori verso gli Stati Uniti.
Biden, da espertissimo uomo della politica statunitense e assiduo membro della commissione degli Affari Esteri in Senato, aveva stabilito una meticolosa politica di alleanze con attori molto influenti nella regione durante i suoi 16 viaggi ufficiali in America Latina tra il 2014 e il 2018. Sebbene il problema migratorio non solo non era stato risolto ma si era acuito durante quel periodo, l’amministrazione Obama poteva contare allora su una strategia di lungo termine, forte del sostegno di importanti organizzazioni ed aziende locali. Strategia che Trump e la pandemia si sono incaricati di smantellare nel giro di pochi mesi.
Kamala Harris, figura poco nota allora nel panorama politico latinoamericano, fu incaricata di raccogliere quanto seminato da Biden nella regione a partire dal 2021, e istituzionalizzare una serie di programmi volti a sradicare i motivi dell’emigrazione centroamericana verso gli Usa.
In termini istituzionali si può dire che l’amministrazione Harris ha numeri molto positivi da mostrare. La Partnership for Central America (PCA), lanciata da Harris proprio nel 2021, ha raggiunto a marzo di quest’anno la favolosa cifra di 5,2 miliardi di dollari in investimenti allo sviluppo in Guatemala, El Salvador e Honduras, quasi quattro volte di più rispetto ai fondi raccolti da Biden durante la sua vicepresidenza. Secondo la Casa Bianca, questi investimenti hanno creato più di 70.000 posti di lavoro nella regione, fornito formazione professionale a oltre 1 milione di persone, hanno portato più di 2,5 milioni di persone nell’economia finanziaria formale, e collegato più di 4,5 milioni di persone a Internet. Il programma di Harris ha raccolto il sostegno di decine di organizzazioni, fondazioni e aziende private, disposte a contribuire al finanziamento dei progetti del PAC assieme al governo degli Stati Uniti.
Eppure, il programma portato avanti, nonostante le grandi campagne di marketing montate nei paesi ricettori, è sicuramente una goccia d’acqua in un oceano. Da un lato risulta evidente che non si possono affrontare “le cause profonde dell’emigrazione” con un programma così ridotto rispetto alla dimensione della crisi economica dei paesi della regione. E dall’altro, gli aspetti affrontati dal programma non rappresentano il nucleo della problematica dell’emigrazione secondo molti esperti, come il mantenimento di pochi e potenti oligopoli nell’industria alimentare, l’informalità dilagante nel mondo del lavoro, la debolezza delle istituzioni dedite al monitoraggio e imposizione delle regole legate alla concorrenza e trasparenza nel settore privato ecc…
I risultati concreti ottenuti dalla Vicepresidente in America Latina non sono stati giudicati positivamente né nella regione né negli Usa. Di fatto, la Casa Bianca a metà del 2022, e in vista delle elezioni di midterm di novembre di quell’anno, ha affiancato all’azione di Harris quella della first lady Jill Biden, che in un solo tour a giugno ha visitato più leader latinoamericani di quelli incontrati da Harris in due anni di mandato.
Proprio in quell’epoca si celebrava a Los Angeles il IX Summit delle Americhe, un importantissimo punto di inflessione nella relazione tra gli Usa e i paesi dell’America Latina. L’amministrazione Biden, sotto la pressione dei repubblicani e dei latinos espatriati negli Usa, volle imporre una sorta di clausola democratica all’ora di inviare gli inviti ufficiali alla riunione, escludendo dunque Cuba, Nicaragua e Venezuela dal summit. La reazione da parte dei governi latinoamericani fu molto dura, e diversi presidenti di peso – tra cui il messicano Lopez Obrador, il boliviano Luis Arce e l’argentino Alberto Fernandez, che poi si dovette disdire e partecipò “in nome dei paesi esclusi”- disertarono l’appuntamento in segno di protesta.
Tra i paesi che si rifiutarono di partecipare al Summit c’erano proprio tutti quelli “assegnati” a Kamala Harris per la tessitura della sua rete diplomatica centroamericana: il Guatemala, sotto accusa da parte del Dipartimento di Stato per la nomina della procuratrice generale María Consuelo Porras, iscritta nelle liste dei politici corrotti dell’America Latina secondo la Casa Bianca; El Salvador, in piena controversia con Washington dovuta al piano di introduzione del Bitcoin come valuta legale; e l’Honduras, dove la sinistra guidata da Xiomara Castro aveva appena spodestato l’ex presidente Juan Orlando Hernandez, oggi condannato per narcotraffico negli Usa.
Il caso del Guatemala è forse il più significativo. Si tratta del paese dove, sin da subito, Harris e il suo entourage hanno posto i maggiori sforzi per ottenere risultati tangibili nel breve termine nell’ambito degli investimenti e la lotta alla corruzione. Eppure, il governo Giammattei ha mancato più di una volta gli impegni presi con gli inviati della Casa Bianca, vicepresidente in primis, mettendola spesso in imbarazzo: il procuratore generale del pool anticorruzione, Juan Francisco Sandoval, fu licenziato solo una settimana dopo il discorso pronunciato dalla vicepresidente al Palacio Nacional de la Cultura, e tutti i suoi collaboratori sono dovuti andare in esilio per evitare il carcere. Il cambio di governo ha sicuramente migliorato la relazione, ma le difficoltà interne alle istitutzioni guatemalteche non si sono risolte.
È comunque vero che l’accento posto dalle istituzioni statunitensi sulla lotta contro la corruzione dilagante tra le élite centroamericane non ha certo aiutato il lavoro di Kamala Harris durante gli ultimi anni. Nel dicembre del 2020 il Congresso degli Stati Uniti ha pubblicato la prima versione della famosa Engel’s List, una lista di politici, funzionari e imprenditori di Honduras, El Salvador e Guatemala, colpiti da sanzioni Usa perché considerati parte di schemi corrotti all’interno delle istituzioni dei loro paesi e accusati quindi di impedirne lo sviluppo democratico. La lista è stata aggiornata per tre volte, e dal 2022 include anche il Nicaragua.
Molti dei funzionari con cui Harris dovette sedersi a negoziare, sono stati poi inclusi nella lista delle sanzioni, un biglietto da visita certo poco attraente per i leader locali. Ma che, in teoria, doveva servire a guadagnarsi il sostegno delle popolazioni dei paesi centroamericani, considerate vittime della corruzione e principali beneficiari della presenza statunitense nei loro territori. Una visione quantomeno ingenua, vista l’ostilità poco celata ancora presente nelle società latinoamericane nei confronti degli Usa a causa dei tanti interventi diretti effettuati su questi paesi e, più recentemente, di una politica disumanizzata e aggressiva nei confronti dei migranti latinos tanto al confine come nel territorio Usa.
Come scrisse la Rappresentante Alexandra Ocasio-Cortez di fronte al discorso di Harris in Guatemala: “Gli USA hanno trascorso decenni contribuendo al cambiamento di regime e alla destabilizzazione in America Latina. Non possiamo bruciare la casa di qualcuno e poi incolparlo per essere scappato”.
Insomma, sebbene i piani di cooperazione allo sviluppo servano alla vicepresidente in carica per mostrare precedenti positivi nel suo intervento in America Centrale, la sintonia politica con le strutture di potere locali è tutt’altro che solida. Se a ciò si aggiunge che durante il periodo della gestione Biden gli arrivi di latinoamericani alla frontiera sud col Messico sono praticamente raddoppiati rispetto al periodo di governo di Trump, non c’è da stupirsi se, da un lato e dall’altro del confine si guarda con una certa diffidenza alla capacità di Harris di affrontare le sfide della relazione tra Usa e il sud del continente.
A 45 anni dalla rivoluzione, il Sandinismo è più isolato che mai
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Il 19 luglio del 1979, i guerriglieri del Frente Sandinista de Liberación Nacional (FSNL) entrarono vittoriosi a Managua, la capitale del Nicaragua, ponendo fine a quarant’anni di dittatura sanguinosa portata avanti dalla famiglia Somoza, al potere dal 1936 col sostegno degli Stati Uniti. Prese il via in quegli anni uno dei processi più seguiti della storia latinoamericana: il sandinismo si incaricò di portare avanti riforme ed interventi radicali inediti in Centroamerica, dall’alfabetizzazione di massa all’estensione della sanità, un tentativo di riforma agraria e il consolidamento del sistema educativo.
Il Nicaragua era allora esempio e speranza della sinistra latinoamericana e internazionale, e agli sgoccioli della Guerra Fredda, rappresentava una sfida inaccettabile all’egemonia degli Usa nella regione, che reagì col finanziamento e addestramento dei famosi Contras, gruppi paramilitari ingaggiati per rovesciare il governo sandinista. La guerra civile durò fino al 1990, quando Violeta Chamorro, col suo partito Unión Nacional Opositora, anch’esso finanziato dagli Usa, vinse le elezioni, e succedette proprio a Daniel Ortega, che tra il 1985 e il 1990 ebbe il suo primo periodo come presidente della repubblica.
Tra le prime azioni di Chamorro spicca quella del condono del debito di 17 miliardi di dollari che Washington manteneva col Nicaragua: la Corte internazionale di giustizia aveva condannato gli Stati Uniti a pagare quella somma in termini di risarcimento per le azioni dei Contras. Nella sentenza era stato stimato che l’intervento Usa causò la morte di circa 38mila persone durante il primo periodo di governo del Sandinismo.
Ortega sarebbe tornato al potere, per la via del voto, nel 2007. Ma il nuovo sandinismo da lui guidato era ormai molto diverso da quello originario. Negli anni Novanta diversi leader che erano stati protagonisti della rivoluzione del ’79 avevano preso le distanze dalla guida del partito, e l’indirizzo dato da Ortega nei primi anni del suo secondo periodo al governo confermò la deriva conservatrice del suo progetto. In sintesi, il cosiddetto orteguismo basò il proprio potere sul sostegno delle tre istituzioni più potenti del Nicaragua: il suo partito, il Fsln epurato dagli elementi più radicali e i critici di Ortega, e strettamente legato ai sindacati e organizzazioni territoriali in tutto il paese; la Chiesa cattolica, a cui fece grandi concessioni, prima su tutte la draconiana legge che proibisce l’aborto in qualsiasi circostanza; e il Consejo Superior de la Empresa Privada (COSEP), che riunisce i grandi proprietari delle industrie e grandi investitori, che fecero affari favolosi nel periodo d’oro della politica del petrolio venezuelano a basso costo e gli incentivi di Caracas agli investimenti nei paesi alleati.
Negli anni ’90 Ortega aveva già mantenuto un certo grado di connivenza con le forze della destra liberale al governo, specialmente con l’ex presidente Arnoldo Alemán (1997-2002), con cui arrivò ad un tacito accordo di impunità: in vista di un probabile avvicendamento al potere, Ortega garantì a Alemán il silenzio sulle pesanti accuse di corruzione contro il suo governo, e in cambio ricevette, nel 1999, l’assoluzione nel processo per violenza sessuale contro Zoilamérica Narváez, figlia del primo matrimonio di Rosario Murillo, che lo accusa di averla stuprata sin dai tempi del primo governo sandinista negli anni Ottanta, quando aveva appena nove anni. Il caso Zoilamérica Narváez è ancora oggi una questione molto scomoda per il governo nicaraguense: la stessa Murillo, che negli anni Novanta fece pressioni di ogni tipo sulla figlia affinché ritirasse la denuncia, ha infangato apertamente la reputazione di Zoilamérica, oggi in esilio in Costa Rica, e la sua denuncia è uno dei principali fattori che hanno mantenuto i movimenti femministi latinoamericani molto lontani dal sandinismo degli ultimi decenni.
L’equilibrio politico ed economico raggiunto dall’orteguismo in Nicaragua crollò definitivamente nell’aprile del 2018. La scintilla che accese la più grande rivolta popolare dai tempi della rivoluzione del ’79 fu l’incendio senza precedenti della Reserva Biológica Indio Maíz, uno dei tesori del Nicaragua che perse allora 10mila ettari rasi al suolo dalle fiamme. Migliaia di giovani riempirono le strade del Nicaragua contro l’inazione governativa, e la rivolta servì a far convergere vertenze molto diverse tra loro, contenute negli anni e dirette chiaramente contro un unico obiettivo: il governo Ortega. La decisione del FSLN di far approvare una controversa riforma delle pensioni proprio durante quello stesso periodo fece esplodere il malcontento popolare, che si tradusse in barricate nelle strade di Managua, con le università e i quartieri popolari sotto occupazione. La repressione fu feroce. Sebbene il numero di vittime non sia mai stato accertato, la Commissione Interamericana per i Diritti Umani (Cidh) sostiene che i morti a causa dell’azione della polizia durante quelle giornate furono più di 400.
A partire da allora la coppia Ortega-Murillo ha perso l’immagine di garanzia di ordine per i poteri forti dell’economia nicaraguense, e il patto che legava grandi imprenditori e chiesa cattolica al governo si è definitivamente rotto. Il governo accusò i manifestanti di voler portare avanti un colpo di stato finanziato dagli Stati Uniti e impose durissime pene ai leader della rivolta. Cominciò così una vera e propria caccia alle streghe in nome della pace e la stabilità, che portò moltissimi ex dirigenti sandinisti a prendere le distanze dal governo. Le purghe all’interno del FSLN oggi non risparmiano nessuno: anche il fratello del presidente Ortega, Humberto, storico leader rivoluzionario ed ex capo dell’esercito del Nicaragua, è oggi sotto custodia della polizia per le sue critiche contro il “potere dittatoriale” del governo.
La persecuzione contro l’opposizione divenne sempre più cruda in vista delle elezioni presidenziali del 2021: il governo fece approvare la “Legge di protezione della pace e l’indipendenza della patria”, strumento usato per chiudere Ong ed associazioni presuntamente legate a piani di destabilizzazione, e soprattutto per sciogliere i principali partiti di opposizione ed incarcerarne i candidati alle elezioni di novembre. Le accuse erano sempre le stesse: cospirazione, tentativo di colpo di stato e riciclaggio. A poche settimane dalle elezioni la polizia prese il controllo dei principali municipi in mano a partiti di opposizione e sette candidati alla presidenza vennero arrestati. I comizi sancirono un’ampia vittoria per Ortega e sua moglie, che col 75% dei voti rafforzarono il loro potere interno, anche se i risultati non sono stati riconosciuti dalla maggioranza della comunità internazionale.
Alla fine del 2018 il governo Trump promulgò la Nicaragua Investment Conditionality Act, conosciuta come Nica Act, preparata già dopo le polemiche elezioni del 2016 vinte da Ortega tra accuse di brogli, e che impone dure sanzioni economiche contro il paese centroamericano. Più tardi arriverà anche la Reinforcing Nicaragua’s Adherence to Conditions for Electoral Reform Act, la Renacer Act, firmata dal presidente Biden nel 2021 e che allarga le sanzioni imposte contro i membri del governo Ortega, e permette agli Usa di escludere il Nicaragua dalle operazioni commerciali realizzate sotto l’Accordo di Libero Scambio che Washington mantiene con la maggior parte dei paesi centroamericani.
L’isolamento internazionale del Nicaragua è stato sempre più pressante, a tal punto che in occasione del 45º anniversario della rivoluzione di venerdì 19 luglio, praticamente non è prevista la presenza di delegazioni internazionali alle celebrazioni ufficiali. Lontani sono ormai i giorni in cui il 19 luglio era una grande festa internazionale, in cui migliaia di nicaraguensi accorrevano ad ascoltare i lunghi discorsi di Fidel Castro, Hugo Chávez, o a mostrare la propria ammirazione nei confronti di leader internazionali come Yasser Arafat. Quello di venerdì sarà sicuramente un atto simbolico, intimo, e soprattutto l’ennesimo contributo al culto della famiglia presidenziale. Lo ha già detto la potentissima vicepresidente Murillo durante il suo consueto monologo quotidiano alla TV di Stato, in cui invece di invitare la cittadinanza a celebrare nelle piazze, ha esortato i nicaraguensi a farlo “ciascuno nel proprio angolo di patria”.
Usa, Cina, Russia e Iran nella campagna elettorale venezuelana
A tre settimane dalle presidenziali in Venezuela, Washington riapre il dialogo col governo Maduro. Che però avverte: “Cina, Iran e Russia pronte a difenderci”.
Uruguay: il ritorno del Frente Amplio
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La storica coalizione della sinistra uruguaiana, il Frente Amplio, ha chiuso la notte di domenica con una grande festa a Montevideo. I risultati delle primarie celebrate per scegliere i candidati alle presidenziali del 27 ottobre sorridono al frenteamplismo, che da solo ha ottenuto più voti della somma di tutti gli altri partiti del Paese. Il 57enne professore di storia Yamandú Orsi si è imposto col 75% delle preferenze, e sarà candidato alla presidenza, accompagnato dalla sua rivale alle primarie di questa domenica, l’ex sindaca di Montevideo, Carolina Cosse, che sarà la sua candidata a vice.
Sindaco del municipio di Canelones, distretto chiave sia dal punto di vista economico sia come serbatoio elettorale, Orsi è il candidato sostenuto dall’ex presidente José “Pepe” Mujica, e dal suo Movimiento de Participación Popular (MPP 609). Il Frente Amplio infatti è un “partito di partiti” della sinistra uruguaiana, all’interno del quale convivono una dozzina di forze politiche che costituiscono una piattaforma elettorale comune dal 1971, e che ha governato il paese tra il 2004 e il 2019. Il MPP di Mujica è il partito politico sorto per iniziativa degli ex guerriglieri del Movimiento de Liberación Nacional-Tupamaros, attivi prima e durante la dittatura militare (1973-1985), e oggi rappresenta un settore più pragmatico dentro al Frente Amplio, mentre Cosse, sostenuta dal Partito Comunista, rappresenta l’ala più a sinistra della coalizione.
La campagna elettorale di Orsi è stata attraversata dunque dalla dirompente partecipazione dell’ex presidente Mujica, che ad aprile ha annunciato di avere un cancro all’esofago. In terapia presso la clinica oncologica dell’ex presidente Tabaré Vázquez, suo rivale dentro al Frente Amplio morto nel 2020, “el Pepe” non si è voluto perdere gli ultimi comizi di Orsi, in cui è apparso in splendida forma, ballando addirittura al ritmo del candombe nonostante la radioterapia. La campagna di Orsi però è stata anche offuscata da alcune denunce false sul suo conto. Una deputata del governante Partido Nacional, Romina Celeste Papasso, ha chiesto nel marzo scorso ad una amica trans di mentire pubblicamente per incolpare Orsi di averla picchiata in una delle zone rosse della capitale dopo essersi rifiutato di pagarla. Ma la pubblicazione dei dialoghi tra Papasso e la sua complice hanno scagionato il candidato del FA a maggio, fatto che ha dato un maggior slancio alla sua campagna e screditato i suoi avversari al governo.
Il partito del presidente Lacalle Pou ha ottenuto un risultato deludente in termini di partecipazione alle proprie primarie, quasi 10 punti percentuali al di sotto del Frente Amplio. Il Partido Nacional ha scelto come candidato alle presidenziali di ottobre l’attuale Segretario di Governo, Alvaro Delgado, ma quelle di domenica passeranno alla storia come le primarie con la minor partecipazione di sempre (meno di 300mila voti a livello nazionale) dentro al partito fondato nel 1836. Durante il suo discorso a fine giornata, Delgado ha annunciato che l’attuale presidente, Lacalle Pou, sarà candidato a senatore nella sua lista.
A spiegare in parte il calo nel sostegno al governo vi sono gli scandali scoppiati nelle scorse settimane che coinvolgono due alti esponenti della forza al potere: il senatore Gustavo Penadés, imputato in 22 casi di abuso di minori; e quello di Alejandro Astesiano, responsabile della scorta del presidente e a capo di un’organizzazione dedita alla falsificazione di passaporti uruguaiani venduti poi a cittadini russi.
L’attuale governo di centrodestra è sostenuto in parlamento anche dall’altro partito storico della politica uruguaiana, il Partido Colorado, tra le cui fila militò anche un italiano illustre come Giuseppe Garibaldi durante il suo periodo a Montevideo tra il 1841 e il 1848. Anche per i Colorados i risultati di questa domenica sono stati deludenti. Il vincitore delle primarie è il giovane Andrés Ojeda, avvocato quarantenne e figura molto nota a livello mediatico, ma il partito ha ottenuto solo il 10% del totale dei voti a livello nazionale.
Il grande flop della giornata è stato comunque quello dell’estrema destra di Cabildo Abierto, guidata dall’ex comandante dell’esercito Guido Manini, che ha ottenuto solamente l’1,7% dei voti totali espressi domenica scorsa. Grande rivelazione alle elezioni del 2019, tanto da diventare cruciale per garantire la vittoria della coalizione di destra contro il Frente Amplio e portare Lacalle Pou al potere, Cabildo Abierto ha poi perso slancio una volta entrato nelle istituzioni. Lo stesso Manini, durante la conferenza stampa di domenica, ha ammesso che il risultato “ci obbliga a riflettere” sul futuro politico del partito.
Si apre ora una campagna elettorale intensa, in cui i risultati di domenica avranno peso, anche se molti analisti tendono a moderarne l’impatto. La partecipazione alle primarie – dove il voto non è obbligatorio – è stata molto bassa, con solamente il 36% degli aventi diritto che ha partecipato, il dato più basso dal 1999.
Nonostante la sinistra sembri rinvigorita in vista delle presidenziali, dove emerge come il partito più votato in assoluto, il Frente Amplio è consapevole che per tornare al governo quest’anno dovrà ottenere un risultato schiacciante al primo turno. In caso di ballottaggio, previsto per il 24 novembre, è probabile che si ripeta lo scenario del 2019, quando tutti gli altri partiti si unirono per sostenere Lacalle Pou contro la sinistra. Molto probabilmente sarà proprio questo lo scenario dei prossimi mesi di campagna politica: un Frente Amplio forte del sostegno elettorale che promette un ritorno ai risultati positivi ottenuti da Mujica e Vázquez, ed un governo sulla difensiva, che cerca di non distruggere i ponti costruiti tra i diversi partiti che lo sostengono.
Venezuela: al via la campagna elettorale
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Sebbene la campagna elettorale verso le presidenziali del prossimo 28 luglio inizierà ufficialmente tra una settimana, il clima pre-elettorale è già in moto in Venezuela. Dopo le polemiche che hanno seguito la confezione delle liste elettorali, il panorama è ormai ben chiaro: Nicolás Maduro, al potere dal 2013, cercherà di ottenere il suo terzo mandato consecutivo, e il principale sfidante sarà il diplomatico Edmundo González Urrutia, della Piattaforma Unitaria Democratica, la coalizione che riunisce la maggior parte delle forze di opposizione in Venezuela. Vi sono altri otto candidati alla presidenza, ma Maduro e Urrutia concentrano, secondo i principali sondaggi, più del 95% dei voti.
Non esiste, per ora, alcun sondaggio favorevole all’attuale presidente. La differenza oscilla tra il 20 e il 40% dei voti a favore della coalizione di opposizione secondo tutti i sondaggi finora pubblicati. Il grande mistero però è l’astensionismo: la carta che potrebbe giocare a favore del chavismo oggi – contrariamente a quel che ha contraddistinto il movimento popolarissimo in passato – è proprio l’astensione di una fetta considerevole dell’elettorato. Se i sostenitori più convinti del governo – tra il 25 e il 30% della popolazione secondo le stime più generose – non hanno dubbi sul fatto che andranno a votare il 28 luglio, il resto dell’elettorato non sembra così convinto.
Un fenomeno già determinante in passato: alle presidenziali del 2018 si recò a votare solo il 46% dell’elettorato, e alle amministrative del 2021, dove il chavismo sbancò a sorpresa in quasi tutti gli stati del paese, la media fu del 42%. La crisi economica permanente, il susseguirsi di grandi mobilitazioni condotte dai dirigenti dell’opposizione concluse in violenza negli ultimi anni sembrerebbero aver demotivato un settore grande degli elettori. Proprio per questo la campagna dell’opposizione in vista della nuova tornata elettorale parte proprio dalla promozione del voto, anche tra la consistente diaspora venezuelana, cavalcando l’onda lunga dell’entusiasmo generato dalle primarie vinte dalla leader della destra, Corina Machado, nell’ottobre scorso. Il Consiglio Nazionale Elettorale ha poi deciso di proibirle di partecipare ai comizi, e dopo una serie di negoziazioni interne all’eterogenea coalizione, si è deciso di appoggiare González Urrutia, che inizialmente si sarebbe presentato in una lista indipendente.
Molti analisti a livello internazionale si sono soffermati sulla presunta prova di coesione dimostrata dall’opposizione venezuelana, che ha deciso di presentare una candidatura unificata. Ma oltre a trattarsi di uno scenario evidentemente improvvisato, a fronte delle decisioni del governo Maduro che hanno spinto l’opposizione a convergere in fretta e furia attorno ad una figura sicuramente poco attraente per le grandi masse, non rileva il grande pericolo che affronta la coalizione della destra venezuelana nel gestire un simile Frankenstein politico, guidato formalmente da un democristiano riformista ma animato da una ultra liberista come Machado, più vicina alle posizioni del presidente argentino Javier Milei che a quelle dei suoi compagni di coalizione.
Le differenze tra Machado e González Urrutia sono estremamente evidenti, e sarebbe tra l’altro particolarmente difficile stabilire chi dovrebbe mettersi alla testa di una possibile transizione dopo le elezioni. L’appoggio generale che riceve oggi l’opposizione – dovuto più che altro ad un rifiuto della situazione socio-economica attuale, più che ad un vero e proprio sostegno del programma della Piattaforma Democratica – permette comunque di porsi l’interrogativo intorno al futuro immediato post-elezioni: Maduro governerà, vinca o perda a luglio, fino al 1º gennaio 2025, un lunghissimo periodo di transizione, in caso di avvicendamento, su cui si concentra oggi l’attenzione internazionale.
Ma le elezioni prima si devono svolgere, e il risultato ancora deve essere scritto. Nonostante la situazione economica e sociale sia ancora drammatica, il chavismo sta crescendo nei sondaggi: se un anno fa Maduro aveva l’appoggio del 18% degli elettori, oggi è ormai sopra al 27%. Un miglioramento forgiato soprattutto grazie alla breve primavera vissuta dall’economia venezuelana dopo gli accordi che hanno permesso alla statale Petroli del Venezuela (PDVSA) ed altre aziende internazionali (tra cui l’italiana ENI) di riprendere le esportazioni di greggio dal Venezuela – sospese dal 2019 per ordine di Washington, una vera e propria ecatombe sulla fragile economia nazionale – per sostituire il petrolio russo nel pieno del boicottaggio internazionale dichiarato dopo l’invasione in Ucraina. Ma l’arresto di diversi esponenti dell’opposizione, e gli ostacoli posti alle candidature di vari dirigenti hanno portato Washington a ritornare alla linea dura contro Caracas.
Anche sul fronte regionale il governo Maduro sembrerebbe aver perso quel tacito sostegno di cui pareva giovare in passato. I nuovi governi di sinistra in Sudamerica non sono certo così condiscendenti con la Rivoluzione Bolivariana come lo erano stati quelli del periodo del famoso “pink tide” dei primi anni duemila. Il presidente cileno, Gabriel Boric, si è più volte smarcato dal chavismo nei suoi discorsi ufficiali, e ha recentemente sostenuto che la situazione in Venezuela è particolarmente complessa. Nei mesi scorsi le tensioni tra i due paesi sono tra l’altro aumentate a causa della presenza in Cile di membri del Tren de Aragua, la più importante organizzazione criminale venezuelana, di cui il governo Maduro nega però l’espansione internazionale.
Anche il Brasile di Lula ha preso certe distanze dal governo Maduro, e le elezioni del mese prossimo potrebbero rappresentare un punto di flessione nella relazione tra Brasilia e Caracas: Lula ha approfittato della visita di Macron in Brasile nel marzo scorso per lanciare un avvertimento contro la decisione del Consiglio Nazionale Elettorale di escludere Corina Machado dalla corsa presidenziale. A inizio giugno ha chiamato personalmente il presidente Maduro per chiedergli di garantire elezioni trasparenti ed un’ampia rete di osservatori internazionali.
Agli appelli del presidente brasiliano si è sommato anche il colombiano Gustavo Petro, che durante una recente visita a Caracas si è impegnato a presentare un progetto di Accordo di Pace per garantire una transizione politica pacifica nel caso di una vittoria dell’opposizione. Il ministro degli Esteri colombiano, Luis Gilberto Murillo, ha già annunciato che il suo Paese non invierà osservatori elettorali propri.
Proprio quello dell’osservazione internazionale delle elezioni è oggi un fronte molto caldo per il governo venezuelano. A fine maggio il Consiglio Nazionale Elettorale ha revocato l’invito esteso all’Unione Europea per il dispiegamento di una missione elettorale nel paese in risposta alle sanzioni emesse da Bruxelles contro alcuni membri del governo. Nelle ultime ore l’Organizzazione delle Nazioni Unite e il Centro Carter hanno confermato la presenza dei loro esperti, anche se in entrambi i casi hanno ammesso che l’osservazione sarà solo parziale.
L’opposizione sostiene che non esistono garanzie del fatto che il governo accetti il risultato elettorale del 28 luglio. González Urrutia ha poi però declinato l’invito a firmare un patto in questo senso, accettato da tutti gli altri candidati alle presidenziali, sostenendo che si tratta di un’imposizione unilaterale da parte del governo, e ha lanciato un appello affinché la comunità internazionale garantisca il rispetto della volontà popolare espressa nelle urne. Molte le questioni in gioco: dal futuro del petrolio venezuelano – che i settori più ultra della coalizione oppositrice vorrebbero privatizzare al più presto – a quello dei quasi 7 milioni di venezuelani espatriati negli ultimi vent’anni. La diaspora venezuelana è ormai una delle più grandi al mondo, e la presenza delle comunità di migranti ha già causato problemi diplomatici in passato. Le elezioni del 28 luglio sono dunque molto rilevanti per la regione, il cui equilibrio geopolitico dipende anche dall’ordine che verrà stabilito intorno alla gestione della spinosa “questione venezuelana”.
Javier Milei ottiene la sua prima legge in Parlamento
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È passata in extremis la Ley Bases, la norma che pone le fondamenta del progetto “liberal-libertario” di Milei in Argentina. Dopo il pareggio in Senato tra opposizione e alleati, ci ha pensato la vicepresidente Victoria Villarruel, che per costituzione presiede anche la camera alta, a dare al governo la prima vittoria legislativa a sei mesi dall’inizio del mandato.
Nel congresso infatti l’estrema destra di Javier Milei non era riuscita ancora a far approvare una sola norma: forti del risultato del ballottaggio del novembre scorso, i membri del suo partito, La Libertad Avanza, pretendevano che il parlamento approvasse quel che veniva inviato dall’esecutivo in nome della legittimità ottenuta dal voto popolare. Di negoziare e raggiungere accordi con le opposizioni non ne volevano proprio sapere nulla.
A febbraio, quando il governo provò a far passare questa stessa Ley Bases senza alcun tipo di negoziato, bocciata poi alla Camera, l’ufficio del presidente pubblicò addirittura una lista nera dei “traditori del popolo”, con nome e cognome dei deputati che si erano opposti al volere presidenziale.
Questa volta però di negoziazioni ce ne sono state eccome. Milei e i suoi hanno messo in pratica tutto l’arsenale di procedure opache, tipiche della politica “della casta” contro cui si scagliano con violenza da anni. Il caso più emblematico è quello della senatrice Lucila Crexell, appartenente ad un partito di opposizione che ha però votato a favore della Ley Bases in cambio della nomina ad ambasciatrice argentina presso l’Unesco. Parigi ben vale un atto di slealtà. Al netto del risultato il suo voto è stato determinante, ma non certo l’unico a far scalpore.
Il Senato argentino si compone infatti di 72 membri, tre per ogni provincia del Paese, ed è l’istituzione federale più legata al potere territoriale dei governatori di provincia. La Libertad Avanza, che può contare solo su 7 senatori propri, ha superato in molti casi i limiti fissati durante gli ultimi mesi per ridurre le spese dello stato pur di ottenere i voti di cui aveva bisogno: ha promesso la costruzione di rotonde, strade e autostrade, rivisto il gettito fiscale a favore dei governatori disposti a sostenere la legge, ed ha anche accettato diverse modifiche al testo originale della norma.
Il risultato è una legge mutilata delle sue parti più polemiche (la privatizzazione di tutte le aziende statali, la cessione di funzioni legislative al governo per quattro anni, ad esempio), ma che introduce comunque una serie di riforme profonde. Lo stesso nome lo dice: Ley de Bases y Puntos de Partida para la Libertad de los Argentinos (Legge sulle basi e punti di partenza per la libertà degli argentini) è il titolo completo della norma, che vorrebbe parafrasare uno dei saggi più famosi della storia politica argentina, Bases y puntos de partida para la organización política de la República Argentina, pubblicato nel 1852 da Juan Bautista Alberdi, padre del liberalismo argentino, e ispirazione della prima Costituzione Nazionale emanata l’anno successivo.
Ma se i padri fondatori del paese volevano porre le basi di uno Stato forte e solido dopo le guerre di indipendenza del XIX secolo, attraverso l’istruzione, la sanità, l’industria nazionale, il progetto di Milei sembrerebbe voler andare nella direzione opposta. La legge approvata in Senato la settimana scorsa dichiara lo stato di emergenza nazionale in materia amministrativa, economica, finanziaria ed energetica, in modo da dare all’esecutivo facoltà straordinarie per emanare decreti con forza di legge in queste aree durante un anno.
Nel secondo capitolo si dà al presidente la facoltà di privatizzare buona parte delle aziende statali, tra cui le Poste, il sistema di gestione dell’acqua, l’intera rete ferroviaria nazionale, e di chiudere un centinaio di enti pubblici considerati “spese inutili”: istituti tecnologici, culturali e di azione sociale dipendenti dai ministeri nazionali. Viene inclusa la “partecipazione attiva a blocchi stradali o occupazioni di stabilimenti” tra le cause giustificate di licenziamento.
Si conferma la sospensione di tutti gli appalti pubblici, salvo quelli che abbiano un finanziamento internazionale – o siano entrati nella lista di concessioni ai governatori in cambio di voti. Modificata anche la legge sugli idrocarburi: la politica energetica nazionale non avrà più come obiettivo l’indipendenza energetica del paese, ma “l’ottimizzazione del profitto delle aziende petrolifere” secondo il testo della nuova legge.
Il capitolo che ha generato più polemiche è sicuramente quello del Regime di Incentivi ai Grandi Investimenti, che introduce una serie di sgravi fiscali a favore delle aziende straniere che investano almeno 200 milioni di dollari nei settori agroforestale, minerario ed energetico. Grazie a questa norma le aziende locali avranno un regime impositivo meno vantaggioso di fronte a competitor che sono spesso colossi multinazionali, e che potranno addirittura importare macchinari usati dall’estero senza pagare diritti doganali, escludendo dunque l’industria locale anche dal mercato dei rifornimenti.
Il testo è passato con modifiche sostanziali rispetto a quello girato dalla Camera a maggio, e il governo Milei, incoraggiato dal primo successo raccolto in un terreno così ostile come il Congresso, pretende ora di revocare le modifiche apportate dai senatori durante l’approvazione definitiva alla Camera Bassa. Per farlo però dovrà ottenere l’appoggio dei due terzi dei deputati entro il 27 giugno, data in cui è stata fissata la votazione, un obiettivo che però ora sembra meno irraggiungibile.
L’approvazione della Ley Bases infatti è una boccata d’ossigeno non indifferente per un governo che dal suo insediamento vive una paralisi legislativa senza precedenti ed è già assillato da scandali di corruzione e manovre poco trasparenti di diversi funzionari. Anche i mercati internazionali hanno reagito con euforia all’approvazione della legge: tutti i titoli argentini quotati all’estero hanno subito variazioni al rialzo. A livello internazionale e domestico infatti si attendeva un’indicazione in merito alla governabilità, che il presidente Milei doveva dimostrare.
L’altro aspetto in cui l’estrema destra ha mostrato l’indirizzo scelto è quello della gestione delle piazze: la discussione in Senato della Ley Bases è stata accompagnata da grandi mobilitazioni popolari represse con una violenza poche volte vista a Buenos Aires. 39 persone sono state arrestate e 18 di esse accusate di “attentato contro l’ordine costituzionale”, un’imputazione gravissima che li terrà in custodia cautelare per un lungo periodo.
Le immagini diffuse da organizzazioni internazionali per i diritti umani però mostrano che molte delle persone fermate nei pressi del Congresso erano in realtà semplici passanti, o manifestanti totalmente pacifici, e che le forze dell’ordine hanno invece evitato di intervenire contro i gruppuscoli che hanno incendiato auto e lanciato bombe molotov nelle prime ore del pomeriggio di mercoledì.
Esistono appelli internazionali e denunce contro l’azione della polizia argentina, che il governo ha rigettato con forza. Di fatto, in un comunicato ufficiale, Milei ha sostenuto che i manifestanti riuniti contro la sua Ley Bases sono “terroristi” il cui obiettivo era fare un “colpo di stato”.
Un riassunto della posizione governativa l’ha dato la stessa vicepresidente Villarruel durante il suo voto di spareggio nella sessione del Senato: “Oggi abbiamo visto due argentine: una violenta, che ha dato fuoco alle auto e ha lanciato pietre, e che mette in discussione l’esercizio della democrazia. E un’altra, quella dei lavoratori, che aspettano con molto dolore e sacrificio che si rispetti il voto che nel novembre dello scorso anno ha scelto un cambiamento. Per quegli argentini che soffrono, che sperano che si cambi una situazione che si è perpetuata nel dolore per molti anni, che non vogliono vedere i loro figli lasciare il paese, e che meritano l’orgoglio di essere argentini, e pensando per sempre a tutto per l’Argentina: il mio voto è affermativo”.
Colombia: la rottura di Petro con Israele
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Gustavo Petro ha scelto di fare un altro passo avanti nella condanna nei confronti del governo di Israele dopo l’escalation diplomatica già cominciata ad ottobre dopo l’avvio delle operazioni militari israeliane su Gaza. Questa settimana Petro ha annunciato il taglio definitivo all’invio di carbone a Tel Aviv, principale asset delle esportazioni colombiane verso Israele. “Fino a quando non si fermi il genocidio”, ha annunciato il presidente, sollevando però forti proteste da parte dell’Associazione Colombiana delle Miniere: per i produttori di carbone infatti Israele rappresenta quasi il 6% delle proprie esportazioni e la sospensione significherà perdite milionarie oltre a “colpire la credibilità internazionale del paese”, assicurano gli imprenditori in un comunicato.
Si tratta dell’ennesima presa di posizione decisa da Petro contro Israele, da mesi ormai portavoce latinoamericano della condanna contro le azioni intraprese dal governo di Netanyahu dopo gli attacchi del 7 ottobre scorso. L’intesa tra Colombia e Israele però è stata in passato molto intensa. Tutti i governi colombiani, storicamente legati ad una matrice conservatrice e subordinata alle posizioni degli Stati Uniti nell’ambito delle relazioni internazionali, si sono sempre mantenuti neutrali di fronte al conflitto palestinese sin dai primi anni Cinquanta. Il silenzio di Bogotà – e la sua vicinanza a Washington in molti altri aspetti – è stato spesso interpretato come un assenso da parte di Israele, che a partire dagli anni ’80 ha stabilito una forte cooperazione con la Colombia, specialmente nel settore militare. Il paese sudamericano strinse accordi per l’acquisto di aerei da combattimento Kfir, fucili d’assalto Galil – che dal 1994 vengono fabbricati direttamente in Colombia -, e si cominciarono anche a mettere le basi per la creazione di programmi di formazione e addestramento delle forze armate colombiane in tecniche antiterrorismo da parte dei servizi segreti israeliani.
Un caso che trascese a livello internazionale e obbligò entrambi i paesi a raffreddare le relazioni negli anni ’90 fu quello di Yair Klein, ex colonnello dell’esercito israeliano condannato in Colombia nel 2002 per aver partecipato alla formazione e addestramento di gruppi paramilitari assieme ad altri ex agenti del Mossad. Il legame in questo ambito tra i due paesi visse però un nuovo impulso nei primi anni 2000, dopo l’istituzione del Plan Colombia, l’accordo di cooperazione siglato tra Usa e il governo di Álvaro Uribe Vélez per la lotta contro i cartelli narcos e le guerriglie di sinistra nel paese. Israele vedeva in quel piano una doppia opportunità: rafforzare la propria presenza in America Latina, dove poteva contare sul sostegno dell’Argentina e dove sembravano sempre più attivi gruppi legati a Hezbollah; e ottenere una via privilegiata per l’approvvigionamento di materie prime, specialmente il carbone colombiano, sotto la protezione del proprio alleato principale, gli Stati Uniti.
Il 95% delle esportazioni colombiane verso Israele sono proprio di carbone, per un valore di circa 1,1 miliardi di dollari nel 2022. Un volume commerciale non indifferente per un paese di reddito medio e con una forte dipendenza dalle esportazioni di idrocarburi. Le relazioni bilaterali hanno poi raggiunto il loro apice nel 2014, quando i due governi hanno firmato un Accordo di Libero Scambio, entrato in vigore nel 2020, che ha trasformato la Colombia nel secondo partner commerciale di Israele in America Latina, dopo il Brasile.
Il conflitto tra Gustavo Petro – che da ex guerrigliero del M-19 negli anni ’80 conosce in prima persona l’azione dell’esercito israeliano e del Mossad nel suo paese – e il governo di Netanyahu, è iniziato già ad ottobre del 2023, quando Bogotà prese subito le distanze dalle operazioni militari nella Striscia di Gaza, e l’ambasciatore israeliano mantenne una diatriba sui social con lo stesso presidente colombiano e il ministro degli Esteri.
Il governo israeliano accusò Petro di antisemitismo, e la risposta fu immediata: “Se dobbiamo sospendere le relazioni esterne con Israele, le sospendiamo. Non sosteniamo genocidi”. Fu proprio in quei giorni che Israele sospese a tempo indeterminato la cooperazione militare con la Colombia, inclusi la consulenza e l’invio di aggiornamenti di sistemi di cybersicurezza e vigilanza aerea.
Lo scorso 1 maggio il governo colombiano ha annunciato la rottura diplomatica definitiva con Israele: “La Colombia non può essere né complice né mantenersi in silenzio, intrattenendo relazioni diplomatiche con un governo che si comporta in questo modo e affronta così gravi accuse di genocidio, crimini di guerra e violazioni del diritto internazionale umanitario”, ha giustificato il ministero degli Esteri colombiano.
A Bogotà è arrivato poi il Consigliere presidenziale per gli affari internazionali della Palestina, Riad Malki, che oltre a consegnare l’Ordine al Merito a Gustavo Petro, ha siglato un’alleanza che riconosce a livello globale il giro a 360 gradi realizzato dalla Colombia: da principale alleato dei governi israeliani in America Latina, a portavoce della causa palestinese nella regione. A fine maggio il presidente colombiano ha dato istruzioni al ministero degli Esteri di istituire un’ambasciata colombiana a Ramallah. In quegli stessi giorni aveva cercato di far esporre una bandiera palestinese gigante in occasione dell’incontro valido per la qualificazione alla Coppa Libertadores tra i colombiani del Millonarios e la squadra cilena Palestino, fondata dalla diaspora palestinese a Santiago. A negare la possibilità fu la stessa federazione calcistica sudamericana, la Conmebol, che ritenne la proposta “discriminatoria”.
L’impatto di tale svolta diplomatica può essere duro. Specialmente per i 5000 colombiani che risiedono oggi in Israele, ma anche dal punto di vista economico le ricadute potrebbero farsi sentire. Il volume del commercio bilaterale e degli investimenti israeliani in Colombia (particolarmente nei settori fintech, insurtech, blockchain e tecnologia per l’industria) si è triplicato dal 2020. E sebbene alcuni paesi latinoamericani abbiano preso le distanze da Israele negli ultimi mesi, nessuno sembra, come vorrebbe lo stesso Petro, voler seguire le orme della diplomazia colombiana: un ritorno della destra al potere a Washington potrebbe condannare i governi disallineati dell’America Latina all’isolamento che già pesa su Venezuela, Cuba, Nicaragua e – in parte – la Bolivia.
Argentina: Javier Milei e la sua shock-therapy
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L’economista “anarco-capitalista” argentino, Javier Milei, ha inaugurato lo scorso 10 dicembre il suo governo all’insegna di una promessa di rifondazione del paese. Si tratta del primo esperimento “liberal-libertario” al mondo, come lo stesso presidente lo ha definito, in un paese strangolato dalle continue crisi economiche, il debito estero e dove la grande maggioranza della popolazione diffida ormai di tutta la dirigenza politica tradizionale. Questi i principali motivi che spiegano l’ampia vittoria di Milei, stravagante protagonista dei talk-show politici nella tv argentina dal 2018, divenuto presidente dopo soli due anni dal suo sbarco ufficiale in politica.
Il suo discorso in campagna elettorale, violentissimo nei confronti della classe politica tradizionale, la “casta” spendacciona contro la quale brandiva la motosega simbolo dei tagli al welfare, in fin dei conti ha retto la sfida del passaggio alla politica istituzionale. Nei primi giorni afosi di dicembre a Buenos Aires, Milei e il suo entourage si sono trovati di fronte alla scelta tra una moderazione della propria posizione in cerca di maggior sostegno parlamentare, visto che il suo partito, La Libertad Avanza, può contare solo su 40 deputati su 257, e 7 senatori su 72; oppure mantenere la linea dura in difesa dello smantellamento dell’apparato statale nell’ambito economico.
La strada intrapresa è proprio quest’ultima. Prima ancora di assumere il potere, Milei ha annunciato il dimezzamento del numero di ministeri e un taglio del 35% delle segreterie di stato con i conseguenti licenziamenti in massa. Durante il suo discorso di insediamento ha avvertito che il suo piano “avrà un impatto negativo sul livello di attività, l’occupazione, i salari reali, il numero di poveri e indigenti. Ci sarà la stagflazione, è vero, ma non è molto diverso da quello che è successo negli ultimi 12 anni”.
Due giorni più tardi il ministro dell’Economia, Luis “Toto” Caputo, ha annunciato in un videomessaggio trasmesso su Youtube una serie di misure volte ad azzerare il deficit fiscale, superiore al 5%: svalutazione del 50% della moneta nazionale, eliminazione dei sussidi all’energia, cancellazione di tutte le opere di infrastruttura previste e privatizzazione di quelle in corso.
Il quadro si è poi ampliato con l’emanazione di un Decreto d’Urgenza da parte del Presidente col quale, saltando di fatto l’iter parlamentare, ha riformato o abrogato circa 600 leggi in un colpo solo per permettere la “deregolamentazione” dell’economia argentina. La norma prevede tra le altre cose la privatizzazione di tutte le aziende dello stato, forti limitazioni ai diritti sindacali, ampie libertà in materia di licenziamenti, riduzione dei contributi delle aziende, riforma delle leggi di protezione ambientale per estendere le attività estrattive.
Il terzo passo della costruzione del modello dell’Argentina Libertaria è stata la presentazione della cosiddetta Legge Omnibus, un pacchetto di 300 riforme che allargano l’azione riformatrice iniziata dall’ordinanza ministeriale di Caputo e il Decreto di Milei, a quegli ambiti normativi che per Costituzione solo possono essere riformati attraverso una legge votata dal parlamento: i codici civile e penale, la struttura tributaria e le attribuzioni delle Provincie in materia produttiva e fiscale. La strategia, molto simile a quella adottata dal presidente del Salvador, Nayib Bukele all’inizio del suo mandato, è quella di mettere il Parlamento alle strette: se non si approvano tutte le riforme volute dal governo, deputati e senatori saranno responsabili dell’ecatombe economica del paese, e sarà il popolo a chiedergliene conto con le buone (il voto) o con le cattive.
I sondaggi sembrerebbero dargli la ragione. L’immagine positiva del Presidente si mantiene stabile dalle elezioni di ottobre, e il 54% degli elettori approva le misure prese nei primi due mesi di governo.
Che nella pratica rappresentano uno shock brutale per l’intero apparato produttivo e per la società argentina. Gli effetti delle prime decisioni si sono fatti sentire immediatamente: l’inflazione di dicembre è schizzata al 25,5% mensile (a novembre era stata del 12,8%), la più alta degli ultimi 35 anni. Nemmeno dopo il crack del 2001 l’economia argentina aveva sofferto un colpo simile. “Un male necessario” ha sostenuto Milei, citando una serie di predizioni di dubbia origine secondo le quali senza il suo intervento l’inflazione di dicembre sarebbe stata del 45%.
Uno degli ambiti in cui l’Argentina ha chiaramente praticato una svolta è anche quello internazionale. Il governo Milei, applicando una lettura piuttosto stilizzata del sistema globale, si è impegnato in una sorta di “occidentalizzazione” del proprio inserimento internazionale, aprendo addirittura forti scontri coi suoi due principali partner commerciali, Brasile e Cina.
Il Decreto emanato dal presidente lo scorso 20 dicembre parla esplicitamente di un “allineamento in materia di relazioni esterne con tutte le cause democratiche del mondo”. Dopo aver rifiutato l’invito a fare parte dei BRICS a partire dal 1º gennaio, la ministra degli Esteri Diana Mondino ed alcuni legislatori del partito di Milei hanno tenuto incontri pubblici con l’incaricata d’affari di Taiwan a Buenos Aires, Miao-hung Hsie. Milei, inoltre, ha volutamente ritardato la nomina del nuovo ambasciatore a Pechino per settimane, lasciando l’incarico della relazione a una segretaria di terzo livello e scatenando la furia del governo di Xi-Jinping. Che a fine dicembre ha addirittura chiamato a consultazioni il proprio rappresentante in Argentina, Wang Wei, e ha annunciato l’intenzione di non rinnovare l’accordo Swap col Tesoro argentino, in passato vitale per il pagamento del debito estero da parte di Buenos Aires.
Il rifiuto nei confronti dei BRICS è stato controbilanciato con la ripresa delle negoziazioni ufficiali per l’ingresso dell’Argentina nell’OSCE, in sospeso dal 2018, e un energico sostegno alla firma dell’Accordo di Libero Scambio tra il Mercosur e l’Unione Europea in ballo dal 1994. Milei si è schierato apertamente a favore delle posizioni di Washington e Tel-Aviv nei principali conflitti aperti a livello globale a Gaza e in Ucraina, smarcandosi così dalla posizione sostenuta negli ultimi anni più vicina al tono conciliatore ed equidistante del Brasile.
Ma è nell’ambito della politica energetica dove si cominciano a intravedere le prime avvisaglie di un cambiamento drastico nel posizionamento argentino a livello globale. Un esempio chiaro lo si può trovare nell’incipiente industria argentina del litio. Si tratta di un minerale raro, fondamentale per la confezione di batterie elettriche a la cui domanda è schizzata alle stelle a partire dai processi di decarbonizzazione messi in atto in tutto il mondo nel contesto dell’accordo di Parigi sul clima e l’Agenda 2030 dell’Onu.
Si stima che la domanda globale di litio, già duplicata rispetto al 2020, si quadruplicherà nei prossimi sei anni. Secondo dati dell’Istituto Geologico degli Stati Uniti, le riserve di litio a livello globale ammontano a 98 milioni di tonnellate, di cui 21 si trovano in Bolivia, 20 in Argentina e 11 in Cile. Questi sono i paesi che formano il cosiddetto Triangolo del Litio, dove si concentra più del 53% delle riserve mondiali del minerale, e l’Argentina è l’unico di essi che non ha una compagnia propria per l’estrazione e l’esportazione.
L’obiettivo di Milei è quello di privatizzare il comparto, in alleanza coi principali global player occidentali del settore. A fine dicembre ha dichiarato di aver ricevuto una chiamata personale da parte di Elon Musk, proprietario di Tesla, azienda dedicata alla fabbricazione di automobili elettriche che ha recentemente lanciato un progetto per la creazione di un impianto proprio per la lavorazione del carbonato di litio. Attraverso il suo Decreto d’Urgenza, Milei ha già aperto il mercato satellitare argentino a Starlink, altra azienda di Musk addirittura citata esplicitamente nel testo della norma, ed ora ha comunicato l’interesse del miliardario “e del governo degli Stati Uniti” di partecipare nel mercato del litio argentino.
Un duro colpo nei confronti della Cina, da dove proviene il 50% degli investimenti nel litio argentino e dov’è diretta la maggior parte delle esportazioni del minerale. Secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia, solo tra il 2018 e il 2021 Pechino ha investito 4,3 miliardi di dollari nel triangolo del litio in Sudamerica, ed è l’attore principale nel settore.
L’altro dossier fondamentale per comprendere la strategia internazionale di Milei ha a che fare con il bacino petrolifero di Vaca Muerta, nella Patagonia settentrionale, la quarta riserva al mondo di shale oil e la seconda di shale gas. Una zona dove Pechino nel 2017 ha installato una base di osservazione spaziale operata da membri dell’Esercito Popolare Cinese, unica nel continente americano.
Il pacchetto di riforme voluto dal governo prevede modificazioni alla legge sugli idrocarburi per liberalizzarne i prezzi e permettere l’ingresso di capitali internazionali nel settore, fino ad ora considerato strategico e dunque protetto dall’ingerenza straniera. Le aziende del settore verranno esentate dall’obbligo di garantire l’approvvigionamento del mercato interno prima di procedere all’esportazione di combustibile, e verranno garantiti i prezzi internazionali anche a livello domestico senza che lo stato possa intervenire.
Viene modificata anche la “Ley de Tierras”, che impediva a cittadini o imprese straniere di acquistare terre con un’estensione superiore al 15% del dipartimento a cui appartengono, e si aprono le porte ad ampliare la partecipazione straniera nelle azioni di YPF, la compagnia petrolifera statale che detiene finora il semi-monopolio delle operazioni a Vaca Muerta.
Il modello di Milei, che presuppone un cambiamento drastico dell’indirizzo che ha seguito il paese negli ultimi anni, è esposto però a condizionamenti esterni e domestici. Non è ancora chiaro quanto durerà questa luna di miele dell’attuale presidente con l’opinione pubblica: i primi due mesi di governo hanno significato un colpo durissimo all’economia di classi medie e settori popolari, e le risposte di piazza non si sono fatte attendere. Lo stesso Fondo Monetario Internazionale teme che il presidente non regga la pressione interna e debba riformulare il proprio programma, e per questo ha chiesto maggiori garanzie per il rilascio di un nuovo pacchetto di aiuti da 4,7 miliardi di dollari ai primi di gennaio. Il piano occidentalista di Milei prevede inoltre il ridimensionamento dell’influenza cinese e brasiliana sull’economia argentina. Un obbiettivo che il paese è incapace di raggiungere da solo, ed ha assoluto bisogno del sostegno dell’egemone regionale. Milei punta dunque sull’elezione di Donald Trump a novembre come condizione necessaria per il successo del proprio piano, e una buona performance del bolsonarismo alle elezioni locali brasiliane ad ottobre. Il governo degli assiomi economici dunque è condizionato da troppe variabili di natura politica. Investitori, creditori ed alleati interni ed esterni lo sanno.
Messico: approvata alle urne la “Quarta Trasformazione”
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Claudia Sheinbaum, candidata del governante partito Morena, è stata eletta presidente della repubblica messicana alle elezioni di domenica scorsa. Il trionfo è storico e contundente. Perché sarà la prima donna della storia del Messico ad assumere la presidenza. Perché ha battuto il record del suo predecessore e mentore, il presidente Andrés Manuel López Obrador che nel 2018 aveva vinto col 53% dei voti: secondo i dati preliminari Sheinbaum avrebbe raggiunto tra il 58 e il 60% dei voti e sarà la presidente più votata di sempre. Perché nonostante i timori della sinistra messicana, Morena ha sbancato su tutto il territorio nazionale: ha vinto 7 degli 8 stati disputati questa domenica, compresa la capitale, Città del Messico, confermandosi al governo di 24 dei 32 stati messicani. Perché anche alle elezioni legislative Morena ha stravinto: se si confermano nelle prossime ore i dati preliminari, la coalizione di sinistra potrà vantare maggioranza assoluta in entrambe le camere, e portare avanti così il progetto più ambito da López Obrador, la riforma della Costituzione.
Nel suo primo discorso come presidente eletta, Sheinbaum ha promesso di dare continuità al vincente programma lanciato da López Obrador nel 2018, primo presidente di sinistra della storia moderna del Messico: “Dedicheremo, con convinzione, il bilancio pubblico a garantire tutti i programmi di benessere lanciati dal presidente López Obrador. Porteremo il Messico sulla strada della sicurezza. Rispetteremo la libertà imprenditoriale e promuoveremo e faciliteremo onestamente gli investimenti privati nazionali ed esteri che promuovono il benessere sociale e lo sviluppo regionale, garantendo sempre il rispetto dell’ambiente. Con gli Stati Uniti ci sarà un rapporto di amicizia, rispetto reciproco e uguaglianza come è stato finora, e difenderemo sempre i messicani che si trovano dall’altra parte del confine”.
Una “figlia del ’68”, come ama autodefinirsi, la vita di Sheinbaum è da sempre attraversata dalla politica e l’amore per la scienza. Figlia di un chimico di origine ebreo-lituana e una biologa protagonisti delle celebri proteste universitarie che culminarono nel Massacro di Tlatelolco, il 2 ottobre del 1968, Sheinbaum ha seguito le orme della sua famiglia, diventando negli anni ’80 una notevole ricercatrice dopo la laurea in Fisica e una dirigente studentesca di prim’ordine.
Nel 1986 era la presidente dell’Unione degli Studenti del Messico durante la seconda protesta studentesca più importante della storia del paese dopo quella vissuta dai suoi genitori. Il salto alla politica di partito fu un passo quasi naturale. Militò nelle fila del Partido de la Revolución Democrática (PRD), una scissione a sinistra del tradizionale Partido de la Revolución Institucional (PRI), che mise per ben due volte in crisi l’intero sistema politico messicano: nel 1988, quando il fondatore del PRD, Cuauhtémoc Cárdenas, perse per un soffio le elezioni presidenziali, e nel 2006, quando a perdere per un pugno di voti fu l’attuale presidente Andrés Manuel López Obrador.
Intanto l’attuale presidente eletta del Messico continuava la propria carriera scientifica: è stata membro dell’Intergovernmental Panel on Climate Change che ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace nel 2007, ed ha scritto libri e articoli scientifici su energia e sviluppo sostenibile sulle più prestigiose riviste internazionali. Quando anche il PRD sembrò ormai troppo moderato e dilaniato dai conflitti interni, Sheinbaum decise di seguire López Obrador nella sua nuova avventura, la fondazione del Movimiento de Regeneración Nacional (Morena) per il quale è stata eletta sindaca della gigantesca Città del Messico nel 2018, anno in cui López Obrador ha assunto l’incarico di presidente. È già da allora che si prepara per raggiungere la presidenza.
Il programma con cui Sheinbaum ha vinto domenica scorsa è quello ambizioso della Quarta Trasformazione (4T), progetto che vorrebbe aggiungersi alle altre tre svolte epocali vissute dal Messico nella sua storia: l’indipendenza all’inizio del XIX secolo, il programma di riforme di Benito Juárez (1861-1872), primo presidente indigeno della storia messicana, e la Rivoluzione di Villa e Zapata del 1910-1920.
I principi del movimento che Sheinbaum si accinge a guidare sono stati posti dallo stesso López Obrador: annientare la corruzione, rafforzare le istituzioni democratiche, ridurre ai minimi storici la povertà specialmente tra le comunità indigene, promuovere una maggior distribuzione della ricchezza, ripristinare il ruolo dello Stato come attore fondamentale nell’economia, costruire una società più egualitaria.
Gli strumenti messi a punto dal governo di Morena negli ultimi cinque anni per raggiungere tali obiettivi hanno ottenuto considerevoli successi, pur non essendo estranei alle critiche. Oltre ad avere un rapporto molto conflittuale con la stampa, accusata permanentemente di rappresentare gli interessi dell’oligarchia messicana detronizzata che vuole infangare il suo progetto, il presidente uscente si è spesso lanciato in vere e proprie crociate che si sono dimostrate lontanissime dalle esigenze popolari. Come le dispute pubbliche durante le sue Mañaneras, le conferenze stampa quotidiane che rilascia nel palazzo di governo, sulle percentuali dei principali indicatori economici del paese; o come quando volle portare alla sbarra tutti gli ex presidenti vivi del Messico, proposta sonoramente bocciata nel referendum del 2021. Anche i sostenitori più acerrimi di López Obrador, come lo scrittore Paco Taibo II, ammettono certa impazienza per vedere gli effetti concreti sul popolo messicano delle nuove raffinerie, della nazionalizzazione del litio, delle nuove centrali idroelettriche.
Di ricadute positive sulla vita quotidiana dei messicani, in ogni caso, ce ne sono sicuramente state. A partire dalla spesa sociale del governo, che ha raggiunto il 71% delle famiglie del paese ed ha ottenuto risultati positivi in vari ambiti, come la riduzione del 30% dell’abbandono scolastico. La povertà durante il periodo di López Obrador è diminuita drasticamente, dal 41,9% del 2018 al 35,6% del primo trimestre del 2024. Il salario minimo in Messico è stato portato a 500 dollari mensili, uno dei più alti dell’America Latina (il doppio rispetto all’Argentina ad esempio) e secondo dati ufficiali i salari hanno avuto un incremento medio del 14,2% tra il 2018 e il 2022.
A questo si aggiunge il fenomeno del “Super Peso”: la politica monetaria di López Obrador ha permesso un significativo apprezzamento della moneta nazionale, specialmente in relazione col dollaro: nel 2018 con un dollaro si potevano comprare 25 pesos, oggi invece la moneta statunitense ne vale 16. A sostenere la crescita è soprattutto l’aumento degli investimenti internazionali in Messico, che nel 2023 hanno raggiunto un nuovo record storico, e nel primo trimestre 2024 hanno già superato i 20 miliardi di dollari.
A guadagnarci col modello 4T dunque non sono stati solo i settori umili e i lavoratori, ma anche i grandi imprenditori, specialmente quelli legati al mondo delle finanze: secondo López Obrador le banche hanno incassato più di 16 miliardi di dollari nel periodo 2018-2023. Le ragioni della vittoria di Sheinbaum vanno ricercate proprio nel successo del governo di Morena.
Sheinbaum si propone ora di rafforzare ed ampliare il percorso già iniziato da López Obrador, il “secondo piano della quarta trasformazione”, che prevede ingenti investimenti in infrastruttura per il trasporto, l’energia e la sicurezza. Quest’ultimo è sicuramente uno degli elementi più interessanti e polemici del progetto della sinistra messicana.
Giunto al potere con la promessa di chiudere definitivamente il capitolo della Guerra contro la Droga, il piano di militarizzazione del paese per combattere il flagello dei cartelli messicani, López Obrador ha invece approfondito la relazione con le Forze Armate, a tal punto da aver aperto le porte ai militari in settori ad essi estranei fino ad ora: ha creato un nuovo corpo, la Guardia Nazionale, che agisce di fronte a problematiche estremamente diverse, dalle migrazioni alla delinquenza urbana; ha permesso a ufficiali dell’esercito di integrare alti incarichi nelle compagnie statali; li ha integrati nei progetti di costruzione di infrastruttura (come nel caso del polemico Tren Maya, progetto turistico avversato dalle comunità indigene del sud del paese). Oggi, il 20% della spesa pubblica messicana viene gestita da militari.
La grande sfida per Sheinbaum sarà ora sostenere questo ritmo di crescita, mitigando però gli effetti negativi della strategia fin qui seguita da López Obrador: lo strapotere delle forze armate nel governo e la relazione evidentemente subordinata ai voleri della Casa Bianca nell’ambito delle migrazioni e la politica commerciale fanno storcere sempre più il naso ai settori progressisti della coalizione che sostiene il progetto di Morena.
La nuova presidente, tra l’altro, pur essendo rappresentante dell’ala più a sinistra del Movimento, non è particolarmente gradita a certi settori molto influenti della sinistra messicana, come il movimento femminista, che le rimprovera di non aver abbracciato la maggior parte delle cause delle donne messicane e di aver addirittura ordinato lo sgombero e la repressione di alcune manifestazioni femministe nella Capitale; o i movimenti per i diritti umani, che le chiedono un impegno più concreto a favore delle famiglie dei desaparecidos e delle vittime delle violazioni ai diritti umani commesse da esercito e polizia.
Messico al voto: le elezioni più violente di sempre
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Il Messico si prepara a celebrare questa domenica un’elezione storica. Da un lato perché si tratta delle più grandi elezioni di sempre. Oltre al presidente della repubblica, verranno eletti altri 20.708 incarichi, includendo 500 deputati e 128 senatori; alle urne sono chiamati a votare più di 98 milioni di messicani.
Sarà storica perché, salvo un miracolo, a governare a partire dal 1º dicembre di quest’anno sarà per la prima volta una donna: le due candidate con maggior intenzione di voto secondo tutti i sondaggi sono Claudia Sheinbaum, del governante Movimiento de Regeneración Nacional (Morena), di sinistra, e Xóchitl Gálvez della coalizione oppositrice Fuerza y Corazón por México. Sheinbaum, fino a poco tempo fa sindaca della capitale, Città del Messico, si incammina verso una vittoria ormai sicura: quasi tutti i sondaggi la collocano ben oltre il 50% delle preferenze, contro il 30% della principale esponente dell’opposizione. Al terzo posto si trova Jorge Álvarez Máynez, del Movimiento Ciudadano, con circa l’8-10% dei voti secondo gli ultimi sondaggi.
Le elezioni di domenica però saranno storiche anche per il grado di violenza che circonda la campagna elettorale. Secondo gli ultimi dati pubblicati, dal 4 giugno del 2023 sono stati commessi 82 omicidi per motivi politici in tutto il paese, 34 dei quali direttamente contro candidati. Tra le vittime anche assessori, famigliari e amici di candidati a posti elettivi. I casi registrati di minaccia di morte e attentati contro la sicurezza di candidati e persone ad essi affini sono 272, il numero più alto da quando si registra questo tipo di fenomeni.
C’è da sottolineare che lo stato messicano non mantiene un registro pubblico, e che il monitoraggio della violenza politica durante il periodo elettorale viene generalmente eseguito da Ong, associazioni e fondazioni dedicate alla lotta contro il crimine organizzato. Tra le mappature più accreditate si trova quella de El Colegio de México (Colmex), università pubblica messicana dal prestigio internazionale, che nel 2021, in occasione delle elezioni amministrative per il rinnovo di parte del parlamento dei governi di alcuni dei 32 stati messicani, rilevò ben 32 omicidi commessi per ragioni politiche in tutto il paese, numero che, fino a maggio di quest’anno, era tristemente considerato il record storico della violenza elettorale in Messico.
Un dramma che va comunque molto al di là del periodo elettorale. Dall’arrivo al potere di Lopez Obrador ad oggi, sono stati registrati 167.000 omicidi e 43.000 sparizioni. Si tratta del periodo presidenziale più violento della storia recente del Messico: Enrique Peña Nieto (2012-2018) chiuse il suo mandato con 150.000 casi, Felipe Calderón (2006-2012) con 122.000 seguito, per numero di omicidi da Ernesto Zedillo (1995-2000) con 80.000 casi.
Il 27,4% delle famiglie messicane piange almeno una vittima della violenza criminale tra i propri membri. Il Messico è altresì il paese più pericoloso del mondo per l’esercizio del giornalismo: dal 2000 ad oggi sono stati assassinati 164 giornalisti. ll costo della violenza in Messico è anch’esso fuori controllo: si stima che l’impatto economico dell’attività criminale corrisponda a 245 miliardi di dollari l’anno, l’equivalente al 19,8% del PIL messicano.
Secondo gli esperti, il fenomeno ha vissuto due grandi momenti di configurazione nella storia recente. Il primo risale all’anno 2000, quando arrivò al potere il presidente conservatore Vicente Fox, del Partito di Azione Nazionale (PAN), mettendo fine a quasi 60 anni ininterrotti di governo del Partito Rivoluzionario Istituzionale (PRI). Il cambiamento riordinò la distribuzione dei poteri in Messico, obbligando anche le bande criminali a rivedere la propria strategia, e a tessere nuovi legami con la politica e le istituzioni.
Il potere del PAN si protrasse fino al 2012. Durante questo periodo sia Fox, sia il suo successore, Felipe Calderon, inaugurarono la cosiddetta “Guerra contro la droga”, un imponente programma di azione militare interna per annientare il potere dei cartelli messicani. Nel 2008 il programma ricevette anche un forte sostegno da parte degli Stati Uniti attraverso l’Iniziativa Mérida, un programma di cooperazione militare istituito sulla falsa riga del tristemente celebre “Plan Colombia”, e attraverso il quale Washington ha inviato mezzi e assistenza militare in Messico per quasi 3 miliardi di dollari.
I risultati sono stati a dir poco deludenti: si stima che tra il 2006 e il 2021 sono state assassinate 350.000 persone nel contesto della guerra contro la droga in tutto il paese, e i cartelli messicani non hanno fatto altro che crescere. Quando il presidente George W. Bush e Felipe Calderón concordarono l’avvio dell’Iniziativa Mérida, in Messico esistevano quattro organizzazioni criminali radicate a livello nazionale: il cartello di Sinaloa, il cartello di Juárez, il cartello di Tijuana e il cartello del Golfo. Oggi sono 28 i cartelli con potere a livello nazionale ed internazionale, e più di 100 gruppi su tutto il territorio messicano con un radicato potere locale.
La Guerra di Vicente Fox e Felipe Calderón ha spinto queste organizzazioni a moltiplicare il proprio potere di fuoco, e con gli anni si sono verificate scissioni e divisioni che hanno portato alla configurazione attuale. Il potere della criminalità organizzata ha trasceso l’ambito della droga, e le gang si sono impossessate anche della gestione di servizi: riscuotono le tasse in alcuni municipi, gestiscono la rete di gas, acqua, elettricità, controllano il mercato degli alcolici, e in alcuni casi sono padroni di cliniche private e centri di salute.
Un ventaglio di attività che richiedono il beneplacito delle istituzioni locali per poter sussistere, e che le organizzazioni ottengono spesso con la violenza. Proprio per questo la grande maggioranza delle vittime della violenza scatenata durante la campagna elettorale sono candidati a dirigere enti locali, dove il potere territoriale dei narcos si scontra direttamente con la gestione statale sul territorio.
Il presidente Andrés López Obrador è giunto al potere alla fine del 2018 con la promessa di “sostituire il piombo con gli abbracci”, e portare avanti una politica di sicurezza cittadina il cui fulcro sarebbe stato il rispetto dei diritti umani e il miglioramento delle condizioni di vita dei giovani nei territori più colpiti dall’attività dei narcos.
Alcuni risultati sono positivi: il 70% della popolazione messicana riceve oggi una qualche forma di assistenza statale secondo dati del 2023, e il miglioramento dei principali indicatori sociali è evidente. Eppure, la militarizzazione della gestione territoriale non è stata ridotta ma anzi ampliata ad altri aspetti, come la gestione dei flussi migratori, la gestione aeroportuale, la costruzione di infrastrutture, tutte funzioni che hanno comportato un significativo aumento del peso dell’esercito nelle funzioni civili dello stato, e soprattutto un incremento del budget a disposizione di un’istituzione sempre sospettata di delitti contro l’umanità.
Si aggiunga a ciò che in media l’89% degli omicidi in Messico rimane impunito e solo il 4% degli accusati arriva ad un processo. Insomma, le sfide per la gestione che si apre a partire da dicembre sono numerosissime, a partire proprio dalla sicurezza pubblica, e la connivenza della politica col crimine organizzato, ad oggi uno degli elementi che purtroppo contraddistinguono la politica messicana nel mondo.
Milei straparla al convegno di Vox: rottura tra Buenos Aires e Madrid
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Il presidente argentino Javier Milei ha partecipato lo scorso weekend all’evento dell’ultradestra europea promosso da Vox a Madrid intitolato Europa Viva 24. Assieme ad altri leader conservatori provenienti da tutto il mondo (dall’ungherese Viktor Orbán al cileno Antonio Kast), Milei è stato l’ospite d’onore dell’evento organizzato per lanciare la campagna della destra europea in vista delle elezioni previste tra il 6 e il 9 giugno nell’UE.
Ma il suo discorso dal Palacio Vistalegre ha provocato in seguito una crisi diplomatica tra Spagna e Argentina. In un passaggio del suo intervento, in cui argomentava sulla malvagità delle idee del socialismo e la scarsa etica dei suoi leader, Milei ha fatto un brevissimo inciso dedicato evidentemente al presidente del governo spagnolo, Pedro Sanchez, e sua moglie, Begoña Gómez: “Le élite globali non si rendono conto di quanto possa essere distruttivo attuare le idee del socialismo, perché sono troppo lontane; non sanno che tipo di società e di paese possono produrre e che tipo di persone sono al potere e quali livelli di abusi possono generare”, ha assicurato Milei, per poi aggiungere: “Anche quando si ha la moglie corrotta, ci si sporca le mani e si prende cinque giorni per pensarci”, ottenendo una standing-ovation dal pubblico presente.
Il riferimento è chiaro. Nelle ultime settimane diversi membri dell’opposizione hanno presentato una denuncia contro la consorte di Sánchez accusata di utilizzare la propria posizione per favorire determinate aziende nell’accesso ad appalti e contratti milionari. L’accusa, basata esclusivamente su una serie di inchieste giornalistiche, ha provocato a fine aprile una vera e propria crisi di governo, in quanto lo stesso Sánchez – che alle elezioni argentine del 2023 ha sostenuto pubblicamente il rivale di Milei alla presidenza – aveva annunciato di essere in procinto di presentare le proprie dimissioni.
Le parole di Milei giungono dunque in un contesto delicatissimo e, come ormai sua abitudine, hanno generato un conflitto molto serio per l’Argentina pur non essendo intervenuto in veste ufficiale. Il viaggio di Milei a Madrid aveva infatti causato una forte polemica in patria. Si tratta dell’ennesima occasione in cui il presidente si reca all’estero per motivi di indole politica, e senza un’agenda ufficiale. Dalla sua assunzione lo scorso 10 dicembre, il presidente ha visitato per ben tre volte gli Stati Uniti, dove ha partecipato alla Conservative Political Action Conference insieme a Donald Trump, ha ricevuto la distinzione di “Ambasciatore internazionale della Luce” da parte dell’organizzazione ultra ortodossa, la Jabad Lubavitch, e in due occasioni si è recato in visita dal suo amico Elon Musk in Texas e a Los Angeles.
Quella di Madrid è dunque la quarta trasferta in cui il presidente visita membri dell’opposizione politica o sociale al governo di stati chiave per la proiezione internazionale dell’Argentina. E questa volta però le sue dichiarazioni da leader politico hanno avuto gravi conseguenze per il suo governo. Il Ministro degli esteri spagnolo, José Manuel Albares, ha annunciato il ritiro sine die dell’ambasciatrice a Buenos Aires, María Jesús Alonso Jiménez, per quello che ritiene “un attacco frontale contro la nostra democrazia”.
Anche l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell ha espresso la sua condanna alle parole di Milei, e ha indicato che “un attacco di questo calibro a uno degli stati membri è un attacco all’insieme della Comunità Europea”.
Il governo di Pedro Sanchez esige ora una scusa pubblica da parte del presidente argentino, che attraverso il suo portavoce, Gabriel Adorni, ha già annunciato che non ha nessuna intenzione di scusarsi. Il prossimo passo sarebbe la rottura definitiva delle relazioni diplomatiche, decisione che Madrid si dice disposta a prendere nei prossimi giorni.
L’incidente può avere serie ricadute per il Paese sudamericano: la Spagna è infatti il secondo investitore internazionale in Argentina dopo gli Usa, con investimenti superiori ai 21 miliardi di dollari, ed è il principale partner commerciale di Buenos Aires nell’UE con uno scambio pari a 4 miliardi di dollari l’anno. Poche ore prima dell’incontro organizzato da Vox, Milei si è riunito con le autorità delle principali aziende spagnole presenti in Argentina, come Santander, BBVA, Mapfre, Telefónica e Naturgy. In Argentina risiede inoltre la comunità spagnola più grande al mondo fuori dalla penisola iberica, e la Spagna è a sua volta la principale meta delle migrazioni argentine.
Si tratta del secondo conflitto che il governo Milei apre con la Spagna in poche settimane. Il 4 maggio scorso il Ministro dei trasporti spagnolo, Oscar Puente, aveva sostenuto pubblicamente che secondo lui Milei aveva “ingerito qualche tipo di sostanza” prima di tenere i propri discorsi nella campagna elettorale del 2023. Dichiarazioni che hanno portato il governo argentino a diffondere un durissimo comunicato in cui, tralasciando le parole di Puente – che si è poi scusato -, lancia durissime invettive contro il governo di Sánchez proprio per il caso legato alla moglie del presidente del governo, e accusa addirittura il PSOE di “mettere in pericolo l’incolumità delle donne spagnole permettendo l’immigrazione illegale”.
Gli eccessi verbali nell’ambito della diplomazia sono ormai una caratteristica ricorrente del nuovo governo “libertario”. Poche settimane fa la ministra degli Esteri, Diana Mondino, al concludersi una serie di sopralluoghi presso la base di osservazione astronomica operata dalla Repubblica Popolare Cinese in Patagonia, ha sostenuto: “Nessuno ha notato che c’era del personale militare. E comunque non sono stati identificati. Sono cinesi, sono tutti uguali”.
La pericolosità della diplomazia dell’insulto è molto evidente nel caso cinese. Milei ha dovuto modificare la propria retorica nei confronti della Repubblica Popolare – con cui aveva promesso di tagliare le relazioni in quanto “sanguinaria dittatura comunista”- vista la profonda influenza cinese in Argentina.
Pechino sembra infatti il principale attore esterno capace di modificare i piani di Milei in politica economica: proprio in questi giorni il ministro dell’Economia Luis Caputo sta negoziando il rinnovo dell’accordo sullo Swap di monete con la Cina, che permette l’accesso da parte di Buenos Aires a capitali vitali per sostenere la propria fragilissima stabilità economica. In cambio però il governo di Xi Jinping esige che Milei faccia un passo indietro nella sua politica di congelamento degli appalti pubblici per permettere la conclusione delle dighe per la generazione di energia idroelettrica finanziate dalla Cina in Patagonia e della costruzione del porto “multi-proposito” in Terra del Fuoco a cui Pechino è particolarmente interessata.
A fine marzo Milei aveva chiamato il presidente della Colombia, Gustavo Petro, “assassino e terrorista”, in riferimento al suo passato come membro della Guerriglia M-19 negli anni ’80. Anche in quel caso lo scambio di insulti aveva portato i due paesi sull’orlo della rottura diplomatica, ricomposta all’ultimo momento, anche se lo strappo nelle relazioni risulta più che evidente.
Nei confronti di Manuel López Obrador, il presidente del Messico, Milei aveva sostenuto: “È un complimento che un ignorante come Lopez Obrador parli male di me, mi esalta”. Relazioni tesissime anche con il Brasile di Lula da Silva, snobbato addirittura in occasione della cerimonia di insediamento del nuovo governo, lo scorso 10 dicembre, a cui è stato invitato prima l’ex presidente Bolsonaro.
Insomma, la diplomazia dell’insulto del governo di Milei non sembra conoscere limiti, e pone a rischio la stabilità internazionale dell’Argentina in un momento molto delicato per il paese latinoamericano.
Milei rompe la politica dell’equidistanza argentina in Medio Oriente
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Solo 9 stati si sono opposti alla risoluzione approvata settimana scorsa in seduta straordinaria dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che prevede l’ampliamento delle prerogative dei rappresentanti dello stato della Palestina negli organismi Onu.
Sebbene mantenga lo status di Osservatore, e quindi senza il diritto di voto, la Palestina potrebbe accrescere le proprie possibilità di intervento e rappresentanza in vista del riconoscimento della condizione di membro a pieno titolo dell’Onu, bloccata dal veto degli Usa nel Consiglio di Sicurezza. Repubblica Ceca, Ungheria, Israele, Micronesia, Nauru, Palau, Papua Nuova Guinea, Stati Uniti e Argentina si sono opposte durante la votazione. L’ambasciatore di Tel Aviv è stato anche protagonista di una scena che ha fatto il giro del mondo: con un tritacarta in miniatura ha distrutto una copia della Carta dell’Onu in segno di protesta contro “l’integrazione di uno stato terrorista” nell’organizzazione.
Ma circa la votazione di venerdì scorso, nella diplomazia latinoamericana si è prestata speciale attenzione alla decisione di Buenos Aires di allinearsi a Usa e Israele per la prima volta in più di 70 anni. Tutti gli stati latinoamericani, eccezion fatta per l’Argentina di Milei e il Paraguay che si è astenuto, hanno votato a favore della risoluzione che riconosce alla Palestina una maggior rappresentanza diplomatica. Anche il Guatemala, unico paese al mondo ad aver seguito i passi del governo Trump nel trasferimento della propria ambasciata a Gerusalemme. Quella del nuovo governo argentino sembrerebbe essere l’ennesima svolta in politica estera, nel contesto del ritorno delle cosiddette “relazioni carnali” con Washington.
L’Argentina infatti manteneva dal 1947, anno in cui è approdata la questione palestinese all’Onu, una politica detta “dell’equidistanza”, basata sul riconoscimento del diritto del popolo palestinese ad organizzarsi in uno stato indipendente e quello del popolo israeliano a vivere in sicurezza, dentro a frontiere internazionalmente riconosciute. Il 29 novembre del ‘47 il governo del presidente Juan Domingo Perón si astenne alla votazione che stabilí la divisione del territorio palestinese, ma fu tra i primi a stabilire relazioni diplomatiche col neonato stato di Israele nel maggio del 1949.
L’obiettivo esplicito della strategia inaugurata negli anni ’50 fu quella di compensare qualsiasi gesto ufficiale fatto a favore di una delle due parti, con un avvicinamento nei confronti dell’altra per bilanciare sempre la posizione argentina ed evitare ricadute sulle relazioni degli alleati più stretti dell’una e l’altra parte. In quegli anni, e in buona parte ancora oggi, si trattava di una questione molto sentita nel paese, la cui tradizione di accoglienza di migranti da ogni parte del mondo è alla base dell’identità nazionale: la comunità araba è la terza per presenza in Argentina dopo gli italo-discendenti e gli spagnoli, e Buenos Aires ospita la più grande comunità ebraica dell’America Latina e la quinta più numerosa del mondo. L’equidistanza intorno al conflitto israelo-palestinese è dunque anche una questione di equilibrio interno.
I primi cenni di revisione della politica dell’equidistanza arrivarono negli anni ‘90 durante il governo di Carlos Saúl Menem, primo presidente di origini arabe dell’Argentina, e primo presidente argentino a visitare ufficialmente Israele. L’orientamento della politica estera di Menem era segnato da un allineamento totale con Washington, il ché portò l’Argentina a schierarsi con Tel Aviv e i propri alleati in diverse occasioni.
Il paese in quegli anni arrivò addirittura a inviare i propri militari alla prima Guerra del Golfo del 1991, e ruppe le relazioni con la Repubblica Islamica dell’Iran, con cui l’Argentina aveva stabilito linee di cooperazione intorno allo sviluppo nucleare per uso pacifico negli anni precedenti.
Il cambiamento di rotta comportò un altissimo costo per il governo Menem: nel 1992 un attentato contro l’ambasciata di Israele a Buenos Aires provocó la morte di 22 persone ed una commozione inedita nel paese. Due anni più tardi, un altro attentato terrorista colpì la sede dell’Associazione Mutuale Israelita Argentina (Amia), e uccise 85 persone nel cuore della capitale, il più grande attentato internazionale della storia dell’America Latina.
Qualche settimana fa la giustizia argentina ha confermato la conclusione a cui sono arrivati gli inquirenti sul caso Amia, secondo cui ad organizzare l’attentato furono alti funzionari del governo iraniano dell’epoca, e gli autori materiali furono membri di Hezbollah.
Ma nemmeno gli attentati degli anni ‘90 modificarono radicalmente la posizione ufficiale del paese, saldamente costruita attorno all’assioma “due popoli, due stati”, e l’azione diplomatica argentina fu generalmente coerente. Nemmeno Israele fece particolari pressioni su Buenos Aires per rompere questa tradizione, anche perché i conflitti in Medio Oriente rivestivano, e rivestono tuttora, un’importanza secondaria nell’attività diplomatica argentina.
Nel dicembre del 2010, durante il governo di Cristina Fernandez de Kirchner (2007-2015) l’Argentina ha riconosciuto formalmente lo Stato Palestinese, “entro i confini esistenti nel 1967 e secondo quanto stabilito dalle parti nel corso del processo negoziale”, una formula che permette al paese di mettere le mani avanti in caso di nuovi accordi ed eventualmente riconoscere le rivendicazioni israeliane nel futuro.
Il governo conservatore di Mauricio Macri (2015-2019) riprese lo slancio dato da Menem alle relazioni con Israele e Usa: nel settembre del 2017 Benjamin Netanyahu realizzò la prima visita di un capo di governo israeliano nella storia dell’Argentina, e pochi mesi più tardi il governo Macri annunciò l’inclusione di Hezbollah nella lista delle organizzazioni terroriste riconosciute dall’Argentina.
A livello internazionale Buenos Aires modificò il proprio voto storico e cominciò ad astenersi nel seno dell’Unesco di fronte alle risoluzioni sui territori occupati; stessa posizione assunse anche in occasione dello storico voto sulla risoluzione dell’Onu che annulla la proclamazione di Gerusalemme come capitale unica di Israele.
Il ritorno del peronismo al potere nel 2019 con Alberto Fernandez vide anche il ritorno ad un maggior equilibrio nella posizione argentina sulla questione. Fernandez ha condannato senza mezze misure l’attacco portato avanti da Hamas il 7 ottobre del 2023, ha espresso personalmente la propria solidarietà al presidente e al primo ministro israeliani, e ha istruito la diplomazia argentina a lavorare assieme a quella israeliana per liberare gli ostaggi portati nella striscia di Gaza: tra essi vi erano 15 argentini. Il paese però votò a favore della risoluzione che chiedeva una tregua umanitaria alle operazioni israeliane a Gaza, e in un polemico comunicato il 1º novembre 2023 condannò le “violazioni al diritto internazionale umanitario” portate avanti dall’esercito israeliano.
L’arrivo di Milei alla Casa Rosada ha stravolto l’equazione. Gerusalemme è stata la prima città che ha visitato da presidente, rompendo la storica tradizione secondo la quale il Brasile è la prima meta di tutti i presidenti argentini appena eletti. Assieme a Netanyahu ha annunciato la sua intenzione di trasferire l’ambasciata argentina da Tel Aviv alla città sacra, ha annunciato l’inclusione di Hamas nella lista delle organizzazioni considerate terroriste, e ha confermato che Israele e Stati Uniti saranno i nuovi alleati strategici dell’Argentina.
“Schierarsi non è una scelta tra le altre, ma un obbligo morale”, ha riassunto recentemente durante un omaggio alle vittime dell’Olocausto. “Denunciare il terrorismo islamico è un obbligo. L’Argentina sarà a fianco di Israele, con fermezza e per sempre”.
Tra le eccentricità che contraddistinguono la vita politica e personale di Javier Milei spicca la sua recente conversione all’ebraismo, guidata da un rabbino locale, Axel Wahnish, nominato ambasciatore argentino in Israele e in attesa dell’approvazione (tutt’altro che scontata) da parte del Senato.
Il 13 aprile, dopo il raid missilistico iraniano su territorio israeliano, Milei aveva addirittura accennato alla possibilità di un coinvolgimento militare argentino in difesa di Israele. Sospese il proprio viaggio in Europa, dove avrebbe dovuto firmare un accordo per l’acquisto di una flotta di aerei da combattimento dalla Danimarca, per celebrare una riunione del Comitato di Crisi da lui ordinato per discutere la situazione in Medio Oriente.
L’ambasciatore israeliano a Buenos Aires, Eyal Sela, fu invitato a partecipare alle riunioni del gabinetto di governo durante i giorni successivi, un fatto inedito per l’amministrazione pubblica argentina.
L’allontanamento argentino dai paesi arabi risponde a un più generale distacco dai paesi del Sud Globale, come si è visto nel caso del rifiuto di entrare a far parte dei BRICS a gennaio, e ad una rapidissima subordinazione agli indirizzi che gli Usa vogliono dare all’ordine internazionale.
Milei ha riattivato le manovre argentine per poter entrare a formar parte a pieno titolo dell’OSCE, ha cercato di riprendere le negoziazioni per un trattato di libero scambio tra l’UE e il Mercosur, e ha riaperto le porte alla presenza militare degli Stati Uniti nella strategica zona antartica.
Lo slancio dato al vincolo con Tel Aviv dunque risulta chiave nella proiezione geopolitica del nuovo governo argentino, che attende un’ulteriore spinta alla propria posizione dalle elezioni negli Usa di novembre: la consolidazione del tandem Trump-Milei infatti potrebbe significare una grande svolta per Israele in America Latina.
Il Brasile soffre di cambiamento climatico
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Le forti piogge registrate nello Stato di Río Grande Do Sul, nel Brasile meridionale, tra Argentina e Uruguay, si sono trasformate in tragedia. Dal 29 aprile scorso si è abbattuto senza sosta un nubifragio che ha interessato il 78% dei municipi dello stato secondo l’ultimo report della Difesa Civile.
1,4 milioni di persone hanno subito perdite a causa dell’evento climatico estremo. Le vittime ufficiali sono 90, 132 i dispersi, 361 i feriti e gli sfollati superano le 200.000 persone. L’aeroporto di Porto Alegre, la capitale dello stato dove risiedono 1,4 milioni di persone, è chiuso dal fine settimana, e la maggior parte delle vie di comunicazione sono bloccate. Si teme per i saccheggi, già cominciati in alcune zone popolose della capitale, e l’espansione di malattie dovute alle difficili condizioni sanitarie e le difficoltà per raggiungere i centri ospedalieri.
I danni dal punto di vista economico sono ancora difficili da calcolare. Rio Grande do Sul è il quinto stato brasiliano per contributo al Pil nazionale, superato solo da São Paulo, Río de Janeiro, Minas Gerais e Paraná. Gli economisti del JP Morgan, sebbene abbiano sostenuto che l’impatto sulla crescita globale del Brasile non è considerevole, hanno avvertito di un possibile aumento dei prezzi del riso, di cui lo stato di Rio Grande do Sul è il primo produttore nazionale, che potrebbe spingere al rialzo l’inflazione in tutto il paese. Secondo la Confederazione Nazionale di Municipi, i danni in solo 36 dei più di 400 comuni dello stato sommano già quasi 100 milioni di euro. Il presidente Lula da Silva ha sorvolato le zone colpite dal nubifragio e ha annunciato investimenti straordinari per la ricostruzione. “Il Brasile deve molto a Rio Grande do Sul, è uno stato molto importante dal punto di vista artistico, culturale, lavorativo e della nostra cultura. Quello che faremo è restituire a Rio Grande do Sul ciò che merita per poter andare avanti con la sua vita”, ha affermato Lula in conferenza stampa, dopo aver presentato in parlamento un decreto per la dichiarazione della catastrofe e l’invio immediato di un pacchetto straordinario di aiuti.
I disastri climatici in Brasile non sono certo nuovi, ma negli ultimi anni hanno visto un enorme incremento. Nel febbraio del 2022 la caduta di oltre 530mm di pioggia in 24 ore ha praticamente distrutto la città di Petrópolis, nello stato di Río de Janeiro, causando la morte di 230 persone. A marzo del 2023 gli stati del nordest sono stati colpiti da piogge senza precedenti che hanno provocato centinaia di migliaia di sfollati. Solo qualche mese fa il Brasile era sui giornali di tutto il mondo a causa delle temperature da record registrate nell’ultima estate: 45º a Río de Janeiro e altre città del centro-nord. E proprio il Rio Grande do Sul era stato colpito da diversi mesi di siccità che hanno messo in grave pericolo il raccolto di mais e di soia di inizio anno.
Secondo il Sistema Integrato di Informazione di Disastri, dal 2003 a oggi sono state registrate 27.459 dichiarazioni di emergenza dovute a fattori climatici, e 574 casi dichiarati come calamità naturali, la maggior parte concentrati nella regione del nordest, mentre solo l’11,7% corrispondono a casi registrati nel Río Grande do Sul. Si calcola che in Brasile i profughi interni dovuto a disastri climatici hanno superato i 700.000 nel 2022.
Una situazione che ha già fatto suonare i campanelli d’allarme in tutto il mondo, essendo il Brasile la principale potenza economica dell’America Latina e uno dei principali fornitori di materie prime a livello globale. Secondo un recente studio dell’OSCE, il cambiamento climatico costa ogni anno al paese l’1,3% del prodotto interno lordo. Il 55% delle perdite riguarda le infrastrutture di trasporto, il 44% l’approvvigionamento energetico e il 2% l’approvvigionamento idrico.
L’OSCE sottolinea che la questione idrica è particolarmente sensibile per il sistema economico brasiliano: due terzi del sistema elettrico del paese infatti dipendono dalle centrali idroelettriche. Gli effetti di allagamenti e siccità sono molto duri anche nell’ambito alimentare, uno dei settori di punta dell’export brasiliano. L’indice della produzione agricola a livello nazionale è calato del 5,2 % nel primo trimestre del 2022 rispetto allo stesso periodo del 2021 a causa di una diminuzione della produzione di soia e mais dovuta all’emergenza idrica.
La situazione del Brasile risulta particolarmente eccezionale proprio a causa della sua esuberante geografia, e l’azione dell’essere umano su di essa. La distruzione della Selva Amazzonica (il 12% della superficie originale è stato disboscato nell’ultimo mezzo secolo) ha ridotto drasticamente la produzione di ossigeno nella regione centro settentrionale del paese, causando così l’aumento della temperatura generale nel centro e sulle coste brasiliane, che a loro volta causano l’alternanza di lunghi periodi di siccità ed altri brevi di intense precipitazioni.
Tutto questo, sommato al fenomeno de El Niño, che aumenta la temperatura delle acque dell’Atlantico sudamericano, ha alimentato un cocktail fatale che è evidente nelle immagini devastanti di Rio Grande do Sul di questi giorni.
Una situazione che ha già portato il governo brasiliano ad assumere un ruolo di primo piano nei summit internazionali legati al cambiamento climatico. La prossima Conferenza delle Parti (COP) della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC), si svolgerà nel 2025 a Belêm, in piena Amazzonia, e il governo Lula si è impegnato a ricavarne risultati concreti per la lotta al cambiamento climatico, uno dei capisaldi della politica estera del suo terzo mandato.
Elezioni a Panama: tra crisi economica e sfide geopolitiche
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Si terranno questa domenica le elezioni generali a Panama, paese chiave nella geopolitica del continente americano, il cui il panorama elettorale fa presagire incertezza nel futuro prossimo. Il candidato che fino a febbraio appariva in cima a tutti i sondaggi, l’ex presidente Ricardo Martinelli, è stato infatti escluso dai comizi a causa di una condanna a 10 anni di prigione per un caso di riciclaggio e corruzione iniziato negli Usa.
I figli di Martinelli, Ricardo Alberto e Luis Enrique Martinelli Linares, avevano già confessato a un tribunale di New York di aver intascato circa 28 milioni di dollari grazie alla rete di corruzione costruita in America Latina dal colosso brasiliano Oderbrecht. Questa settimana l’ex presidente, auto esiliatosi presso l’ambasciata del Nicaragua a Panama City, ha chiuso la campagna elettorale con un video di appoggio a José Raúl Mulino, che era suo candidato a vicepresidente fino alla conferma della condanna da parte della corte suprema. Mulino è in testa a tutti i sondaggi col 35% delle preferenze, seguito da un altro ex presidente, Martín Torrijos, figlio del generale Omar Torrijos Herrera che ha governato il paese tra il 1968 e il 1981, e fondatore di uno dei movimenti più popolari del paese.
La popolarità di Martinelli è legata all’ultimo periodo di benessere economico che ha vissuto il paese, che ha coinciso proprio col suo mandato tra il 2009 e il 2014. Lo stato, durante quel periodo – ed in buona parte anche durante il periodo del suo successore Juan Carlos Varela -, ha giovato di condizioni internazionali favorevoli legate all’espansione del commercio internazionale e soprattutto degli investimenti nel settore finanziario panamense, mondialmente conosciuto per l’opacità delle proprie transazioni e la quasi nulla pressione fiscale sui capitali internazionali.
I problemi sono sorti a partire dal 2020, dopo l’elezione dell’attuale presidente Laurentino Cortizo.
Lo shock economico rappresentato dalla pandemia ha fatto cadere il pil del 17% nel giro di un anno, un colpo dal quale il Paese non si è più ripreso. A guidare il tentativo di riportare a galla l’economia sono stati gli introiti del Canale bi-oceanico e l’estrazione di rame della mega mina a cielo aperto di Donico, una delle più grandi e moderne al mondo.
Per allargare i benefici che l’esportazione di minerali sembrava dare al resto dell’economia, durante l’anno scorso il presidente Cortizo ha rinegoziato il contratto di concessione con la canadese First Quantum Minerals Ltd., provocando però una delle ondate di protesta più grandi della storia del Panama.
Indigeni, contadini, studenti universitari e movimenti sociali hanno paralizzato il paese durante settimane, fino a quando la Corte Suprema non ha sancito l’incostituzionalità dell’accordo tra il governo e la multinazionale canadese e il presidente ha annunciato la chiusura definitiva della miniera.
Secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale, la cancellazione delle operazioni a Donico significherà una contrazione del PIL del paese superiore al 5%, rendendo ancor più difficile la ripresa economica.
Il presidente Cortizo conclude dunque il suo mandato con un grado di popolarità bassissimo: non solo per l’affaire della First Quantum Minerals ma anche per il fatto di lasciare il paese in una condizione macroeconomica peggiore rispetto a quando ha assunto il potere.
Il suo candidato alle elezioni di domenica, il vicepresidente José Gabriel Carrizo, non supera il 7% di intenzione di voto in tutti i sondaggi.
Il Canale di Panama: la crisi idrica
Le elezioni panamensi però aprono anche un interessantissimo dibattito intorno al futuro geopolitico della regione centroamericana. La prima grande sfida geopolitica per il futuro governo sarà la gestione del Canale di Panama, un tratto di soli 65 chilometri che attraversa l’istmo centroamericano per collegare l’Oceano Pacifico e l’Oceano Atlantico, e attraverso il quale passa il 5% del commercio globale.
Secondo le stime dello stesso governo del Panama, gli introiti garantiti dal Canale rappresentano il 20% del PIL del paese.
Dalla metà del 2023 però l’attività di trasporto attraverso i serbatoi che compongono il canale è fortemente limitata a causa della siccità. Il sistema attuale, un vero e proprio gioiello dell’ingegneria mondiale, richiede una enorme quantità d’acqua: l’imboccatura d’ingresso al canale e quella di uscita hanno un dislivello di 28 metri d’altezza, che le navi percorrono attraverso un sistema di chiuse che vengono colmate d’acqua per permettere alle imbarcazioni di salire fino al livello del tramo successivo.
Il passaggio da una parte all’altra del canale dura circa 10 ore, e si calcola che per ogni nave che lo percorre si utilizza la stessa quantità d’acqua che consumano mezzo milione di residenti panamensi in un giorno. La siccità attuale, dovuta al fenomeno climatico di El Niño e che, come conseguenza del cambiamento climatico sta provocando serissimi inconvenienti in tutta la regione, ha ridotto la quantità di imbarcazioni che possono attraversare l’istmo ogni giorno dalle 38 del 2022 alle 32 attuali. Si prevede che, se la situazione idrica nella zona non migliora, il traffico dovrà essere ridotto ulteriormente, con gravissime ricadute sul commercio internazionale.
Tra le problematiche del futuro governo vi è dunque anche l’espansione del Canale attraverso una serie di nuove ampliazioni nella zona di Río Indio che permetterebbe di far giungere alle chiuse un maggior carico d’acqua e quindi di aumentare il traffico di circa 12-15 imbarcazioni in più al giorno.
La costruzione però richiederebbe un investimento di circa 900 milioni di dollari, e la discussione parlamentare sarebbe sicuramente ostica: già in passato infatti vi furono numerosi scandali intorno all’aumento dei prezzi dall’ultimo allargamento fatto al Canale concluso nel 2016, per non parlare poi della ferrea opposizione che scaturisce contro un simile piano per l’impatto ambientale che avrebbe. Eppure, a causa della siccità, senza una nuova fonte d’acqua che alimenti i serbatoi del Canale, sarebbe impossibile sostenere i livelli di trasporto standard mantenuti sin qui.
Le alternative all’uso del Canale di Panama sono costosissime. Il 57% delle merci che vi passano provengono dal Mar Cinese del Sud, dirette alla costa est degli Stati Uniti. In caso di chiusura a Panama, i container dovrebbero approdare sulla costa est del continente americano per essere trasportati via terra fino ai porti della costa Ovest.
Salvo alcuni tratti dell’istmo centroamericano su territorio messicano, dove sono però estremamente attivi i cartelli del narcotraffico, non vi sono zone che possiedano l’infrastruttura necessaria per realizzare un simile tragitto limitando i costi.
Un progressivo deterioramento dell’attività del Canale potrebbe portare certo i governi di Messico e Colombia, i due principali paesi bi-oceanici dell’America Latina, ad investire a lungo termine per modernizzare la propria infrastruttura di porti e di trasporti terrestri tra una costa e l’altra.
Già nei primi anni 2000 un progetto simile era stato pensato dai governi che formano parte del Mercosur (Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay), che intendevano collegare i porti di Buenos Aires, Montevideo e Santos con quelli di Cile e Perù, progetto poi fallito a causa delle discrepanze interne al blocco.
L’alternativa per le imbarcazioni provenienti dal sudest asiatico sarebbe altrimenti risalire l’Oceano Indiano fino al Mar Rosso, e attraverso il Canale di Suez far giungere i container al Mar Mediterraneo e da lì all’Atlantico. Ma anche in questo caso i costi e i tempi risulterebbero elevatissimi.
L’immigrazione: la crisi della Selva del Darièn
L’altra grande sfida geopolitica per il futuro presidente del Panama è la questione dell’immigrazione. Da qualche anno il paese si è trasformato in un paese di transito per i migranti che dalla Colombia cercano di raggiungere il Messico per arrivare poi negli Stati Uniti. Si tratta soprattutto di venezuelani e haitiani, che dalla Colombia attraversano a piedi 266 chilometri della pericolosissima Selva del Darién da sud verso nord. Secondo le cifre ufficiali, solo nel 2023 sono stati 520.000 i migranti che hanno scelto questa via per arrivare fino agli Usa.
Il principale candidato alle elezioni di domenica, José Raúl Mulino, ha già annunciato che impedirà questo flusso: “Se vince Trump magari gli chiedo un po’ di cemento per fare un altro muro. Chiuderemo il Darién e rimpatrieremo tutte queste persone”, ha sostenuto Mulino in campagna elettorale.
La politica migratoria è sicuramente uno dei temi che si guardano con maggior preoccupazione dagli Stati uniti in vista delle elezioni di domenica, e che però dovrà essere declinato anche in funzione dei risultati delle elezioni americane di novembre.
Tra Pechino e Washington
Vi è poi un’ulteriore questione che preoccupa Washington, ed è la relazione del proprio vicino con Pechino. Nel giugno del 2017 Panama ha tagliato i ponti con Taiwán e si è piegata alla politica di “una sola Cina” voluta dalla Repubblica Popolare.
Solo un anno più tardi si è trasformato nel primo paese latinoamericano a far parte della Belt and Road Initiative cinese. Da allora gli investimenti cinesi nel paese si sono moltiplicati a dismisura: nel 2018 le esportazioni panamensi verso la Cina erano di 46 milioni di dollari all’anno, nel 2022 la cifra è arrivata a 1,2 miliardi.
La principale spiegazione di questo salto è data dall’ingresso del gigante asiatico nel settore dell’estrazione di rame ed altri minerali a Panama, a cui si aggiungono investimenti nella Zona Libera di Colón e investimenti nel settore finanziario.
Il presidente uscente Cortizo ha aperto i negoziati con Pechino per un Trattato di Libero Scambio, che il prossimo governo dovrà riprendere nella seconda metà di quest’anno.
Panama fa parte della zona che Washington considera da sempre il proprio hinterland in termini di sicurezza, un circolo cha ha al proprio centro il territorio statunitense e include dal Canada alla Colombia e tutti i paesi che si affacciano sul mar dei Caraibi, considerato dagli Usa il “Mediterraneo Americano”. L’espansione cinese in questa zona, di cui Panama è il principale esponente ma che include certamente anche El Salvador e Venezuela, è vista non solo come l’incursione di un competitor di peso sul piano degli investimenti e l’infrastruttura ma soprattutto come un problema di sicurezza. Dietro alle aziende minerarie, finanziarie e commerciali cinesi, secondo Washington, vi è il governo della Repubblica Popolare e il suo esercito.
Il futuro di Panama è dunque un dossier molto ricco dal punto di vista geopolitico, e molti attori internazionali sono oggi attenti al risultato di domenica.
Una chiave potrebbe essere il voto dei giovani: protagonisti inaspettati delle grandissime manifestazioni del 2023 in difesa dell’ambiente e dei diritti di contadini e indigeni, oggi i minori di 40 anni rappresentano il 48% dell’elettorato. Insomma, sebbene la tendenza sia chiara, non si possono escludere grandi sorprese.
Le università contro Milei: al via l’autunno caldo di Buenos Aires
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In tutte le città dell’Argentina si sono svolte ieri, martedì 23 aprile, grandi manifestazioni in difesa del prestigioso sistema universitario nazionale, che da settimane ha dichiarato l’emergenza finanziaria a causa dei tagli imposti dal governo di Javier Milei. La strategia dell’esecutivo, applicata anche in altri settori dell’amministrazione pubblica come nel caso dei salari e le pensioni, è quella della “liquefazione”: invece di abbassare la spesa, si mantiene invariato il valore dei fondi stabiliti per gli enti pubblici nel 2023, lasciando che l’inflazione (superiore al 200% su base annua) faccia il resto.
Si stima che il budget 2024 delle 56 università statali argentine abbia subito una riduzione del 72% rispetto alla fine dell’anno accademico 2023. Un colpo di grazia dunque per uno dei sistemi universitari più rinomati dell’America Latina.
Uno degli aspetti più preoccupanti dei tagli riguarda gli ospedali universitari, che compiono funzioni sanitarie presso le comunità in cui si trovano oltre a fungere da istituti di formazione per i futuri medici. Sono sei in tutto il paese, ed il loro mantenimento dipende dal finanziamento statale attraverso il budget universitario. Nel caso dell’Università di Buenos Aires, l’Hospìtal de Clinicas, l’Istituto di Oncologia Ángel H. Roffo e l’Ospedale Odontoiatrico hanno utilizzato il 75% delle spese di mantenimento ordinario dell’Università del 2023. Per quest’anno si prevede una riduzione del 60,2% della spesa in questo settore.
A questo si aggiunge che il Fondo Monetario Internazionale stima che l’Argentina chiuderà il 2024 con un’inflazione accumulata del 149%, una situazione che obbligherebbe la maggior parte delle università a chiudere, se non si stabiliscono nuovi finanziamenti pubblici.
Le manifestazioni sono state convocate dal Consiglio Interuniversitario Nazionale, che riunisce i rettori di tutte le università del paese, dopo aver constatato i gravi problemi che soffre il sistema universitario a causa delle disposizioni del governo Milei. Le singole università hanno già dovuto prendere misure drastiche per mantenere il loro funzionamento: tagli alle borse di studio, ai progetti di ricerca e all’acquisto di strumenti; cancellazione di tutte le opere edilizie previste o in corso; in alcune facoltà è stato proibito l’uso degli ascensori e viene staccata la luce elettrica di notte per risparmiare sulle bollette. Altre prevedono di non poter accendere il riscaldamento con l’arrivo dei mesi freddi a partire da maggio.
La reazione da parte della società argentina si è fatta sentire con forza. A Buenos Aires ieri sono scese in piazza più di 500.000 persone, in un gesto di chiara sfida al piano di liberalizzazione e austerity imposto da Milei.
L’istruzione e la sanità pubbliche nel paese sono integralmente gratuite, non si pagano buoni né tasse di alcun tipo, e rappresentano storicamente un orgoglio per la società argentina. L’Università pubblica argentina dagli anni ‘30 ha permesso la formazioneno di un ceto medio intellettuale dalla fortissima influenza a livello nazionale e latinoamericano. L’accesso gratuito all’istruzione superiore è uno degli elementi che spiega perchè l’Argentina è stata storicamente uno dei paesi con la classe media più numerosa del continente americano.
A partire dagli anni ’90 però si è assistito ad un lento degrado dell’educazione pubblica, specialmente nei primi cicli d’istruzione, dovuto proprio al definanziamento statale e alla federalizzazione del sistema educativo. L’abbandono statale del settore ha prodotto un fenomeno peculiare: le classi medio-alte hanno cominciato a scegliere le istituzioni private per l’educazione dei propri figli, che hanno mantenuto un livello accademico adeguato alle loro esigenze; mentre le scuole pubbliche, oltre ad aver perso il ruolo di spazio d’incontro tra classi sociali, hanno dovuto trasformarsi in agenti destinati a rispondere ai bisogni basici dei settori più deboli della società.
Si è prodotta così una privatizzazione velata dell’educazione argentina: la scuola di qualità è destinata a chi la può pagare (eccezion fatta proprio per i collegi universitari), mentre la scuola pubblica deve fare i conti con le problematiche sociali più gravi del paese, prima ancora di affrontare i propri compiti educativi (oggi in argentina 7 bambini minori di 17 anni su 10 sono poveri, e due di essi fanno la fame).
L’Università pubblica è rimasta invece indenne da questo fenomeno. Si tratta di istituzioni estremamente rinomate, che vantano un prestigio accademico molto più grande rispetto al sistema privato ed hanno mantenuto il loro ruolo di spazio di incontro tra settori sociali tendenzialmente distanti. Per questo, la decisione del governo Milei di ridurre drasticamente il finanziamento universitario è stata vista come un colpo al cuore per la società argentina, un affronto a uno dei capisaldi della propria identità, e le proteste hanno raccolto l’adesione di migliaia di persone in tutto il paese.
Alla vigilia delle manifestazioni di martedì, il presidente Milei ha fatto l’ennesimo discorso a reti unificate per annunciare il raggiungimento della meta dell’azzeramento del deficit di bilancio per la prima volta dal 2008. “In primo luogo, voglio dire a tutti gli argentini che capisco che la situazione che stiamo vivendo è dura, ma che abbiamo già percorso più della metà del cammino. Si apre a partire da adesso l’ultima tappa di uno sforzo eroico che noi argentini stiamo facendo, e per la prima volta dopo molto tempo, questa volta lo sforzo varrà la pena”, ha esordito il presidente. “Se lo stato non spende più di quello che incassa e non ricorre all’emissione, non c’è inflazione. Non si tratta di magia. Questi sono concetti che sono già stati ampiamente dimostrati nel corso della storia dell’umanità e che in Argentina vengono respinti per una ragione molto semplice: i politici vogliono spendere molto perché sono i principali beneficiari di questa spesa. Con noi la pacchia è finita“.
Sebbene i dati macroeconomici dei primi tre mesi di governo Milei sembrerebbero essere positivi, anche gli esperti più ortodossi, in patria e all’estero, sono molto scettici sulla sostenibilità del modello imposto da dicembre a questa parte. Solo durante il primo trimestre del 2024, il potere d’acquisto dei salari è crollato del 20%, le pensioni ridotte del 37,5%, le prestazioni sociali del 32,9% e l’inflazione accumulata tra gennaio e marzo è del 51,6%.
La meta del “deficit zero” dunque è stata raggiunta grazie al sacrificio di pensionati, poveri e lavoratori, e sia gli investitori stranieri sia il Fondo Monetario Internazionale sanno che una situazione simile rappresenta una bomba ad orologeria. Le manifestazioni in difesa dell’università aprono dunque una stagione caldissima di proteste a Buenos Aires. Per il 1º maggio è prevista una grande mobilitazione nella capitale, come da anni non si faceva, per protestare contro le misure del governo, e per il 9 maggio è previsto lo sciopero generale indetto da tutte le centrali sindacali, il secondo in soli tre mesi di governo del primo presidente liberal-libertario al mondo.
Colombia: l’ex Presidente Uribe alla sbarra, ma la pace sociale è lontana
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L’ex presidente della Colombia Álvaro Uribe Vélez sarà processato per concussione e manipolazione di testimoni in un caso aperto dal 2012 intorno ai legami tra il suo governo e il paramilitarismo. La decisione della procura arriva però in un momento delicatissimo del piano di pacificazione del presidente Petro.
La procura generale della Colombia ha richiesto l’avvio di un processo nei confronti dell’ex presidente ultra conservatore Álvaro Uribe Vélez, accusato di aver manipolato le testimonianze di ex paramilitari colombiani che lo collegavano alle attività criminali di gruppi armati di estrema destra attivi nella provincia di Antioquia, dove Uribe ha lungamente ricoperto la carica di governatore. Si tratta della prima volta nella storia del paese sudamericano in cui un ex presidente viene processato.
La vicenda risale al 2012, quando il senatore Ivan Cepeda presentò un’interpellanza parlamentare in seguito alla pubblicazione dell’inchiesta intitolata “Álvaro Uribe Vélez: narcotraffico, paramilitarismo e parapolitica”. In questa inchiesta, Cepeda citava le testimonianze di 40 persone coinvolte nei crimini più gravi commessi in Colombia dagli anni ’90, che sostenevano di poter collegare l’ex presidente Uribe e suo fratello Santiago a tali fatti. In particolare, Juan Guillermo Monsalve, un ex paramilitare condannato, e figlio del maggiordomo di Uribe nella hacienda da dove gestiva tutti i suoi affari, affermava che l’ex presidente aveva contribuito alla fondazione del gruppo armato Bloque Metro delle Autodefensas Unidas de Colombia (AUC) mentre era governatore di Antioquia.
Le AUC furono un’organizzazione armata di estrema destra creata nel 1997 con l’appoggio di politici, latifondisti e imprenditori del centro-nord della Colombia con l’obiettivo di combattere l’attività delle guerriglie di sinistra attive nella zona sin dagli anni ’50. Le AUC ebbero stretti legami con settori corrotti della politica e dell’esercito, col narcotraffico, e si stima che siano responsabili della morte di circa 260mila persone, la maggioranza civili innocenti.
Nel 2014, Álvaro Uribe ha querelato Cepeda, accusandolo di aver fatto pressioni e persino di aver pagato i testimoni affinché mentissero sul suo conto. Secondo l’ex presidente, Cepeda, l’ex senatrice di sinistra -recentemente scomparsa – Piedad Córdoba, e Rodrigo Lara, ex senatore figlio di un ex ministro di giustizia assassinato da gruppi paramilitari negli anni ’80, avrebbero offerto agevolazioni penitenziarie ai capi delle organizzazioni criminali estradati dagli Usa in cambio delle testimonianze contro Uribe e i suoi alleati. Tuttavia, la Corte Suprema, unico organo competente per processare un senatore in Colombia, ha respinto l’accusa, e sei anni dopo la presentazione della denuncia contro Cepeda ha ordinato invece l’arresto di Uribe per aver cercato di corrompere i testimoni citati dal senatore al fine di modificare le loro testimonianze.
Uno degli avvocati dell’ex presidente, Diego Cadena, riconosciuto difensore di alcuni boss del narcotraffico colombiano, aveva infatti contattato Juan Guillermo Monsalve, la sua ex moglie Deyanira Gómez e un altro ex paramilitare, Carlos Enrique Vélez, per spingerli a ritirare la loro testimonianza, circostanza scoperta grazie ad una serie di intercettazioni telefoniche fatte sul telefono cellulare dell’ex presidente.
Uribe allora ha rinunciato al proprio incarico come senatore, obbligando la giustizia ad inviare il caso alla Procura Generale della Repubblica, in quel momento in mano ad un alleato della destra uribista, che ha chiesto per ben due volte la chiusura del caso per mancanza di prove. In entrambi i casi la giustizia ha rifiutato la richiesta della Procura, che poche settimane fa ha rinnovato le proprie autorità.
La nuova procuratrice è Luz Camargo, avvocato proposto dal presidente di sinistra, Gustavo Petro, e scelta dalla Corte Suprema di Giustizia, che ha presentato nuove prove che aprono le porte ad uno storico processo.
La nuova configurazione istituzionale ha permesso così di sbloccare il caso contro l’ex presidente, che rischia una condanna di otto anni di carcere, ma soprattutto l’apertura di decine di altri casi che lo legano ai crimini contro l’umanità commessi dalle forze armate colombiane durante i suoi due periodi come presidente tra il 2002 e il 2010.
Il caso che più preoccupa gli avvocati di Uribe è quello dei cosiddetti Falsi Positivi, casi di persone innocenti torturate, uccise e poi fatte passare per guerriglieri dall’esercito colombiano. A partire dal 2005, Uribe lanciò un programma di incentivi economici per i soldati che ottenessero risultati concreti nella lotta contro le guerriglie colombiane. Il tutto durante il periodo della cosiddetta politica della “Sicurezza democratica”, che affrontava il conflitto interno colombiano esclusivamente dal punto di vista militare e riceveva ingenti finanziamenti dagli Stati Uniti tramite il Plan Colombia.
L’obiettivo dell’ex presidente Uribe era che la riduzione dell’attività delle guerriglie venisse riflessa negli indici e nelle statistiche internazionali, consentendo all’esercito di agire con ampi poteri discrezionali. Ma i processi aperti a partire dagli accordi di pace stabiliti nel 2016 tra il governo di Juan Manuel Santos e la guerriglia delle Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (Farc), hanno aperto un vaso di Pandora, intorno agli avvenimenti di quegli anni. Le testimonianze intorno alla violazione dei diritti umani da parte dell’esercito colombiano sono state possibili grazie all’istituzione di un Tribunale Speciale chiamato JEP, Giurisdizione Speciale per la Pace, introdotto dall’accordo del 2016, e che si propone di giudicare le peggiori atrocità commesse durante il conflitto colombiano iniziato negli anni ’50. Ed è anche una delle iniziative più avversate dalla destra colombiana, che risponde a Uribe.
L’obiettivo del tribunale è fare chiarezza su quanto accaduto per garantire che tali crimini non si ripetano da parte delle guerriglie e dell’esercito. Per questo motivo, le pene per i reati che non sono considerati crimini contro l’umanità sono ridotte, per incentivare i colpevoli a testimoniare. La dirigenza delle Farc ha ammesso di aver reclutato bambini per decenni, oltre a aver commesso massacri e aver mantenuto connivenze con i narcotrafficanti.
Secondo le testimonianze date da ex militari e contadini nel contesto delle indagini sui Falsi Positivi, durante il governo Uribe sono stati uccisi 6.402 civili da parte delle forze armate fatti poi passare come guerriglieri. E si stima che lo stesso presidente possa finire di fronte alla Corte Penale Internazionale per le sue responsabilità in quest’ambito.
Ma Uribe rimane ancora uno degli uomini più potenti del paese. Il ritratto che ne emerge dall’incendiario reportage del settimanale Semana sul Caso Uribe ne è una prova: “Mentre i nemici politici di Uribe festeggiavano, in altri settori sono scattati allarmi per la possibilità di trovarsi di fronte alla materializzazione di un piano di persecuzione contro l’ex presidente più popolare oggi nel paese. Lo stesso che ha messo alle strette le Farc, i cui comandanti, in un paradosso della storia, sono oggi al Congresso, liberi, protetti dallo stesso Stato, senza alcuna condanna e senza aver risarcito le loro vittime, dopo otto anni dalla firma dell’accordo dell’Avana, durante il governo Santos. La parola d’ordine degli ex capi delle Farc è quella di vedere Uribe alla sbarra e condannato. L’ex presidente, per loro, è un trofeo di guerra”, scrive Semana.
L’avvio del procedimento giudiziario contro Uribe, un obiettivo da anni perseguito dalla sinistra colombiana oggi guidata dal presidente Gustavo Petro, si concretizza però in un momento in cui il primo governo progressista della storia colombiana affronta serie difficoltà. Non solo le principali riforme sociali ed economiche volute dall’esecutivo sono state bocciate dal Congresso a maggioranza conservatrice, ma anche sul piano della pacificazione del paese, la grande promessa di Petro durante la campagna elettorale del 2022, le cose non vanno come previsto.
Il piano di governo, intitolato Paz Total, prevede l’apertura di tavoli di dialogo con tutte le organizzazioni armate del paese, in cambio di un cessate il fuoco che permetta di frenare la violenza contro la popolazione civile. Tra i gruppi più rilevanti che controllano zone particolarmente estese del paese si trova l’Esercito di Liberazione Nazionale (ELN), la seconda guerriglia di sinistra più importante della storia del paese dopo le estinte FARC; le Autodefensas Gaitanistas, l’organizzazione di narcotraffico più ricca e potente del paese, con quasi 9.000 membri, che controlla buona parte del territorio confinante col Venezuela; e i gruppi dissidenti delle ex-FARC, che non hanno accettato i termini degli accordi del 2016 e hanno deciso di continuare la lotta armata.
Il dialogo di pace con l’ELN si è impantanato a inizio aprile dopo la decisione del governo di aprire negoziazioni parallele con alcuni gruppi locali della guerriglia bypassando il comando unificato centrale. Le ex FARC, dopo le prime tensioni al tavolo dei negoziati, hanno addirittura promosso il disboscamento illegale della foresta amazzonica nelle zone da loro controllate per obbligare il governo a cedere.
Ma il vero grattacapo sono le Autodefensas Gaitanistas, note anche come Clan del Golfo. Nonostante gli sforzi il governo, Petro non è riuscito a instaurare un dialogo stabile con questa organizzazione che mantiene conflitti armati con tutte le altre, e funge da capro espiatorio per evitare la pace: se il Clan del Golfo non lancia un cessate il fuoco, il resto dei gruppi armati si sente minacciato e si rifiuta di lasciare le armi.
Insomma, sebbene la giustizia sembra aver trovato la strada per cominciare a far luce sul passato oscuro del paese, il presente sembra ancora minato da sfide e ostacoli estremamente difficili per il governo Petro. E soprattutto per la popolazione civile, intrappolata in una guerra senza fine da oltre 70 anni.
Milei torna alle “relazioni carnali” con gli Usa e all’ostilità verso Pechino
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Sebbene fosse nell’aria già da tempo, il giro copernicano dato alla politica estera argentina dal presidente Javier Milei negli ultimi giorni ha sorpreso molti osservatori internazionali. Si sapeva che l’intenzione del nuovo governo “libertario” era quella di allontanarsi dalla sfera di influenza cinese per avvicinarsi a Washington, ma la visita fatta questo venerdì ai cantieri della Base Navale Integrata di Ushuaia, nella Terra del Fuoco, con la Comandante del Southern Command delle Forze Armate degli Stati Uniti, Laura Richardson, ha aperto le porte ad un’alleanza militare che va ben oltre le aspettative.
La Base Navale Integrata di Ushuaia rappresenta uno dei progetti più ambiziosi in termini militari e geopolitici per l’Argentina. Si tratta infatti di un enclave operativo situato alle porte dell’Antartide, in una zona molto sensibile a livello nazionale ed internazionale. Per l’Argentina significherebbe rafforzare la propria presenza nella zona in cui si trova la principale minaccia alla propria sicurezza nazionale, rappresentata dalla presenza militare britannica alle isole Malvinas/Falklands. Oltre ad accrescere le proprie capacità operative nell’area australe del Cono Sud, contesa ancora col Cile.
A livello globale però l’annuncio della costruzione di un polo come quello progettato ad Ushuaia rappresenta un’occasione ghiotta per le principali potenze internazionali di avvicinarsi strategicamente all’Antartide, continente molto conteso e la cui condizione geopolitica è per ora bloccata dal Trattato Antartico del 1959. In pratica, l’accordo proibisce da più di sessant’anni l’installazione di basi militari e attività che non rivestano uno scopo scientifico sul continente, vietando altresì nuove rivendicazioni di sovranità sul territorio antartico, spartito tra Argentina, Cile, Australia, Francia, Nuova Zelanda, Norvegia e Regno Unito.
La possibilità di partecipare alla costruzione di una base navale alle porte di un territorio “off limits” ma estremamente desiderato, è chiaramente allettante. Si tratta di un territorio che collega l’Oceano Atlantico, il Pacifico e l’Oceano Indiano, chiave per lo studio delle telecomunicazioni, il clima e le scienze aerospaziali. Siccome il trattato del 1959 proibisce l’estrazione delle risorse idriche e minerali, le potenze globali si stanno da alcuni anni affrettando a garantirsi una posizione strategica sul terreno in vista di una revisione di tale divieto in futuro: si stima che nel continente si trovino 500 miliardi di tonnellate di petrolio, a cui se ne aggiungono circa 135 nei fondali delle acque circostanti, 300 miliardi di tonnellate di gas naturale, oltre a ingenti riserve di oro, ferro, nichel, rame, carbone, uranio e argento.
L’Argentina è attualmente il paese con la maggior quantità di basi nel continente bianco (sei permanenti e sette temporanee), seguita dalla Russia, Regno Unito, Cile, Australia, Francia, Italia, Cina e Norvegia. Ed è proprio l’espansione cinese sul territorio australe a preoccupare Washington da qualche anno.
Pechino, infatti, ha concluso nel 2023 la costruzione della sua quinta base nel continente, a cui si aggiunge una postazione di monitoraggio satellitare, ed una pista di atterraggio aereo propria, oltre ai due rompighiaccio dell’Esercito Popolare appostati sulle coste antartiche con 500 militari a bordo.
Il timore da parte degli Usa e dei suoi alleati è che la Cina stia ampliando la propria presenza nella zona per installare una rete di spionaggio internazionale. Accuse di cui, però, non esistono prove fondate. Per l’Argentina però esiste un valore aggiunto nel proiettare una maggior presenza militare nelle acque dell’Atlantico Sud, dato dal contrasto alla pesca illegale portata avanti da migliaia di pescherecci – la maggior parte cinesi – stazionati al largo del cosiddetto miglio 201, limite ultimo delle acque territoriali argentine, e che da anni portano avanti un vero e proprio saccheggio nel Mare Argentino approfittando dell’incapacità delle autorità locali.
La Base Navale Integrata di Ushuaia è entrata nell’orbita degli interessi cinesi sin dall’avvio della sua costruzione nel marzo del 2022. Proprio in quel periodo l’azienda statale Shaanxi Coal Group aveva ottenuto l’appalto per la costruzione di un nuovo porto a Rio Grande, a pochi chilometri di distanza, con un investimento da 1,25 miliardi di dollari.
Il governo cinese ha voluto estendere le positive negoziazioni realizzate con il governo della Terra del Fuoco per far sì che un’altra azienda statale, la HydroChina Corp. si occupasse della costruzione della nuova base navale. Ma il progetto ha acceso i campanelli d’allarme dei funzionari del Pentagono, che si sono affrettati ad inviare la Generale Richardson a colloquio con l’allora vicepresidente Cristina Fernandez.
La comandante del Southern Command, il Comando combattente unificato delle forze armate degli Stati Uniti operativo nel continente americano, dal Messico in giù, è tornata a Buenos Aires nell’aprile del 2023 proprio per affrontare con le autorità locali la questione della presenza cinese in Terra del Fuoco.
Erano passate solamente alcune settimane da un polemico intervento fatto da Richardson durante un incontro dell’Atlantic Council, in cui aveva esplicitato senza giri di parole l’interesse Usa per le risorse naturali latinoamericane: dal litio, di cui Argentina, Cile e Bolivia detengono le più importanti riserve al mondo, all’acqua dolce del bacino amazzonico, il petrolio della Guayana e i metalli e terre rare della Patagonia. La sua visita fu molto polemica allora, in vista delle dichiarazioni fatte.
Il drastico cambio di governo in Argentina, con l’avvento dell’estrema destra di Milei al potere, ha sicuramente avvicinato Buenos Aires alle pretese di Washington. Dal 2003 infatti, il paese è stato governato da diverse espressioni del centrosinistra peronista (salvo la parentesi del liberal-conservatore Mauricio Macri tra il 2015 e il 2019), periodo in cui la relazione con la Cina si è nettamente intensificata.
La politica estera argentina ha cercato sempre maggior autonomia dalla potenza egemone continentale, appoggiandosi su un rinnovato regionalismo – chiave in questo senso la relazione tra l’ex presidente Cristina Kirchner e Lula da Silva – e la voracità cinese per le materie prime argentine. Ma le circostanze macroeconomiche che favorirono quel ciclo (altissimi prezzi internazionali delle materie prime, superavit fiscale e commerciale, forte sostegno da parte dei governi alleati nel continente) si sono spente a partire dal 2016, aprendo una spirale che ha portato l’economia argentina ad avere un bisogno imperioso del sostegno di Washington.
In primis sulla questione debito. Il paese ha chiesto ed ottenuto un prestito da 45 miliardi di dollari dal Fondo Monetario Internazionale nel 2018, il più grande mai elargito dall’organismo, e concesso su pressione dell’allora presidente Donald Trump per favorire la rielezione – poi fallita – del suo alleato Mauricio Macri. Proprio nei prossimi giorni, il 17 aprile, il ministro delle finanze argentino Luis Caputo dovrà sedersi a negoziare con i tecnici del Fmi il rilascio di un nuovo pacchetto di aiuti. Il governo Milei avrebbe bisogno di circa 15 miliardi di dollari per stabilizzare l’economia nel breve periodo, ma il Fondo non sembra disposto ad accettare, visti i precedenti critici del paese e la piega che sta prendendo il “piano motosega” del nuovo presidente.
È in questo contesto che Javier Milei ha invitato la comandante Richardson e l’Ambasciatore degli Stati Uniti in Argentina, Marc Stanley, a verificare l’andamento della costruzione della nuova base. Per ora non è chiaro quale sarà il ruolo delle aziende statunitensi nella progettazione del molo e gli edifici adiacenti non ancora realizzati, né si hanno certezze sulla possibile presenza di militari Usa nella base. Ma il gesto del governo è un chiaro segno di allineamento.
Da quando è giunto al potere, il nuovo governo ha ricevuto altre due visite di spicco provenienti da Washington: quella del Segretario di Stato, Anthony Blinken a febbraio, e quella del direttore della CIA, William Burns, che a fine marzo si è riunito con la ministra per la sicurezza Patricia Bullrich.
“Oggi la migliore risorsa per difendere la nostra sovranità e affrontare con successo questi problemi è proprio rafforzando la nostra alleanza strategica con gli Stati Uniti e con tutti i paesi del mondo che difendono la causa della libertà”, ha assicurato Milei, vestito in abiti militari dal pulpito montato ad Ushuaia venerdì scorso.
A riprova di questo, il governo Milei ha avviato una serie di attuazioni amministrative volte ad ostacolare il lavoro della base di osservazione spaziale operata dalla Cina nella provincia di Neuquén, nella Patagonia settentrionale, dal 2014. Proprio in occasione della visita della comandante del SouthCom, il presidente aveva annunciato l’inizio di una serie di ispezioni per assicurare che la base non avesse alcun fine militare, come d’altronde implicitamente richiesto da Stanley in un’intervista recente. Ogni aspetto della base passerà ora al vaglio degli enti competenti, dall’uso dell’energia elettrica al regime di lavoro dei suoi dipendenti.
Insomma, l’Argentina di Milei intensifica il suo allineamento strategico con gli Usa, in attesa delle elezioni di novembre, in cui il presidente Milei tifa apertamente per Donald Trump. Un revival delle “relazioni carnali”, espressione resa famosa dall’ex presidente Carlos Menem durante gli anni ’90, e che portò il paese ad un’alleanza incondizionata su tutti i fronti con gli Stati Uniti del Washington Consensus.
Intanto si aspetta qualche gesto sul piano economico da parte di Washington, mentre mette a repentaglio due delle principali relazioni strategiche costruite negli ultimi decenni, col Brasile, ma soprattutto con la Cina.
La diplomazia dell’insulto nell’Argentina di Milei
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Negli ultimi giorni Javier Milei è stato nuovamente protagonista di una grave crisi diplomatica in America Latina. Durante un’intervista al canale statunitense CNN, il presidente argentino ha sostenuto che il suo omologo colombiano, Gustavo Petro, è “un assassino terrorista e comunista”, che starebbe portando il proprio paese sul sentiero di Cuba e Venezuela. Lo spezzone è stato mandato in onda mercoledì scorso, ed ha provocato l’immediata reazione del Ministero degli Esteri della Colombia, che dopo aver richiamato in patria il proprio ambasciatore, ha espulso diversi diplomatici argentini da Bogotà.
In un comunicato pubblicato mercoledì stesso, il governo colombiano sostiene che “non è la prima volta che il signor Milei offende il presidente colombiano, intaccando le storiche relazioni di fratellanza tra Colombia e Argentina. Le espressioni del presidente argentino hanno deteriorato la fiducia della nostra nazione, oltre a offendere la dignità del presidente Petro, che è stato eletto in modo democratico”. Effettivamente già a gennaio Milei aveva pronunciato parole molto simili, portando alla prima crisi diplomatica tra i due paesi. Durante il fine settimana i due paesi hanno moderato i toni e riattivato i canali diplomatici tradizionali, ma la sfiducia reciproca è ormai palese. Durante l’intervista il presidente argentino ha anche definito il presidente messicano, Manuel Lopez Obrador, “un ignorante”, aggravando anche la crisi con la seconda economia più importante dell’America Latina.
Le aggressioni dirette si sommano a decisioni e gesti che sembrerebbero isolare sempre più il paese nella regione. Proprio in questi giorni si attende una definizione molto importante da parte di Buenos Aires intorno alla continuità dell’Unasur, organizzazione internazionale fortemente voluta dal governo brasiliano di Lula Da Silva, che già nel 2016 fu svuotata dai governi conservatori della regione e recentemente ricostituita.
Secondo fonti della diplomazia argentina, Milei sarebbe in procinto di annunciare nuovamente l’uscita del paese dall’Unasur, uno schiaffo alla diplomazia brasiliana, che nelle ultime settimane si è addirittura prodigata per facilitare l’accesso dell’Argentina ai crediti della Banca interamericana di sviluppo e la Banca di Sviluppo dell’America Latina.
Già la decisione di rifiutare l’invito a entrare nei Brics a gennaio, e gli insulti personali di Milei nei confronti di Lula, avevano incrinato le relazioni tra i due paesi. Ma non è solo contro gli avversari politici del proprio vicinato che si lancia il nuovo presidente argentino. Un gesto di scherno era stato riservato anche al presidente degli Usa, Joe Biden a febbraio: poche ore dopo aver ricevuto il Segretario di Stato Antony Blinken a Buenos Aires, Milei ha preso un aereo per andare a dare il proprio appoggio alla campagna presidenziale di Donald Trump alla Conservative Political Action Conference di Washington.
L’aggressività verbale non riguarda solo le dichiarazioni del Presidente, ma sembra essere una costante anche in altri funzionari quando si tratta di politica estera. Pochi giorni fa il portavoce del governo, Manuel Adorni, ha sostenuto durante la sua conferenza stampa giornaliera, senza celare certa arrogante ironia, che erano appena arrivati dalla Cina una serie di aiuti destinati alla lotta contro il covid-19, sbeffeggiando il presunto ritardo della consegna.
L’Ambasciata cinese ha immediatamente risposto che si trattava di ospedali di campagna, parte della cooperazione sanitaria di Pechino, e che nulla avevano a che fare col contrasto alla pandemia. Anche la Ministra degli Esteri, Diana Mondino, è spesso incorsa in gaffe che trasudano una certa aggressività diplomatica, come quando incolpò “il socialismo” della crisi di sicurezza dovuta alla guerra narcos in Ecuador. Venerdì scorso, nel mezzo della polemica sulle dichiarazioni di Milei sugli altri presidenti latinoamericani, Mondino ha partecipato su X (ex Twitter) ad una campagna per rendere virale una risposta ad un tweet contro Lopez Obrador, che si chiedeva come un popolo intelligente come quello argentino avesse votato un “fascista conservatore” come Milei.
La scelta intrapresa da Milei e il suo entourage è certamente rischiosa. Nessuno degli insulti riferiti, né dei gesti apertamente ostili di cui è stato protagonista dall’inizio del proprio mandato, ha portato vantaggio alcuno alla politica estera del proprio paese ed anzi, ha generato grandi costi per la credibilità del governo. A Buenos Aires ci si chiede se si tratti semplicemente di un tratto legato alla personalità del Presidente, o si possa parlare di una strategia segnata dall’aggressività diplomatica che va oltre la semplice messa in scena del personaggio Milei. E forse qualche costante che permette di ipotizzare una sorta di modello ci può essere.
La storia della politica estera argentina si riassume generalmente a partire dall’avvicendamento di due grandi scuole alla guida della diplomazia del paese: quella autonomista, il cui principale obiettivo è quello di stabilire vincoli alternativi a quelli dettati dalle potenze egemoni a livello globale e regionale -fondamentalmente Washington -, rafforzare il regionalismo latinoamericano e i legami con i paesi del sud globale (Brics, G77+Cina ecc…); l’altra grande scuola della politica internazionale argentina è quella del realismo periferico, contraddistinto da una visione globalista che colloca il paese subordinato alle linee generali della politica internazionale stabilite delle potenze globali, ma cercando di trarre vantaggi per il proprio interesse nazionale evitando di contraddire l’ordine mondiale.
Milei è chiaramente un globalista, nemico di qualsiasi tipo di regolazione del sistema internazionale e strenuo difensore dello status quo – più volte ha asserito che i suoi modelli nel mondo sono gli Usa e Israele -, che si è però trovato a guidare un Paese con un bisogno disperato di maggior autonomia.
Soffocata dal debito col Fondo Monetario Internazionale ed esclusa dal mercato globale del credito e investimento, l’Argentina galleggia dal 2019 grazie agli accordi stabiliti con le potenze che hanno fatto della sfida all’ordine internazionale una parte consistente della propria politica estera.
Più per pragmatismo che per convinzione, il governo peronista di Alberto Fernandez in carica fino al 10 dicembre scorso è riuscito a sostenere i rapporti commerciali coi suoi principali partner, Brasile e Cina, nonostante le avversità rappresentate dal governo Bolsonaro (apertamente anti-globalista e ostile al peronismo di Fernandez) e la pandemia.
Milei sembra ora convinto della possibilità di trascurare quei rapporti in virtù di due assiomi che guidano il suo governo: da una parte la liberazione totale dell’azione privata, per cui se le aziende vogliono fare affari con la Cina o col Brasile, che agiscano da sole, il governo non deve né intralciare né favorire quel tipo di scelte.
Dall’altra, la convinzione di essere sulla strada giusta col proprio piano motosega; in soli tre mesi ha raggiunto l’obiettivo di azzerare il deficit fiscale e ordinare i conti dello stato, nonostante abbia provocato una catastrofe sociale: l’inflazione accumulata in tre mesi è superiore al 70%, mentre salari e pensioni hanno ricevuto aumenti di appena il 22%; lo Stato ha licenziato 70.000 dipendenti pubblici, congelato gli investimenti in infrastruttura e paralizzato di fatto anche il settore privato della costruzione, con tagli di oltre 100.000 lavoratori.
La povertà è la più alta degli ultimi 20 anni, e anche il Fondo Monetario Internazionale ha avvertito il governo di Buenos Aires che lo shock economico imposto sta portando ad un costo sociale troppo alto, e che eliminare sussidi e ammortizzatori sociali potrebbe destabilizzare l’intero sistema.
Milei è convinto però che a medio termine la riorganizzazione forzata che ha imposto delle principali variabili macroeconomiche riaprirà le porte degli investimenti internazionali, specialmente europei e statunitensi, per i quali sta lavorando ad una serie di riforme che assicurino garanzie giuridiche all’arricchimento privato straniero. È la spavalderia che sorge da queste certezze quella che si esprime negli insulti e azioni intraprese nelle ultime settimane, che mettono però ancor più in difficoltà un Paese che si trova in una situazione delicatissima.
C’è poi un’altra certezza che guida l’agire internazionale del governo: che le “idee della libertà” sono destinate a trionfare nel mondo. Durante il suo polemico discorso al World Economic Forum di Davos ha spronato i leader mondiali a camminare nella sua stessa direzione, suscitando l’interesse di alcuni grandi ed eccentrici magnati – Elon Musk in primis – e certo stupore – se non direttamente ilarità – nella maggior parte dei “policy makers” presenti al summit.
Milei però sa che esiste settori della politica internazionale con cui, nonostante le evidenti divergenze ideologiche, può contare in futuro per costituire alleanze strategiche. Tra questi spicca Donald Trump, che in piena corsa verso la Casa Bianca ha più volte elogiato il governo Milei. Nella lista si trovano anche gli spagnoli di Vox, l’ex presidente brasiliano Jair Bolsonaro e la sua famiglia, il primo ministro ungherese Viktor Orban, e secondo la stampa argentina, anche la primo ministro italiana, Giorgia Meloni, che dopo aver ricevuto il presidente argentino a Palazzo Chigi gli ha esteso l’invito a partecipare al G7 di Borgo Egnazia a maggio.
Un’internazionale conservatrice con cui però Milei ha serie divergenze: l’argentino è un “anarco-capitalista” contrario a qualunque forma di protezionismo, è anti-nazionalista, un’identità politica legata alla tradizione peronista e di sinistra in Argentina, e non conta certo sul sostegno delle principali istituzioni tradizionali della società argentina – forze armate, chiesa, grandi proprietari terrieri.
Milei, come Trump negli Usa ed altri esponenti reazionari a livello globale, rappresenta la voce delle classi medio-basse impoverite, a detta loro, dalle politiche sociali ed economiche del progressismo che hanno caratterizzato i primi anni 2000 un po’ in tutto il mondo. Si mostra dunque fiducioso nel futuro del fronte diversissimo che si oppone ad esse in diversi paesi, e si scaglia contro quelli che ne rappresentano invece una certa continuità, come Petro, López Obrador e Lula a livello latinoamericano.
Il rischio però di Milei, così come in politica domestica, è quello di mettere il carro davanti ai buoi, di prefigurare un nuovo ordine globale ancor prima che esso cominci a materializzarsi ed agire in modo assolutamente incoerente e pericoloso per la stabilità del proprio paese. È questa l’interpretazione su cui gli addetti ai lavori sembrano convenire, e la grande preoccupazione si concentra ora sugli effetti a lungo termine di un comportamento simile da parte del Presidente e dei suoi funzionari.
Elezioni impantanate: boicottata la candidata dell’opposizione
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La decisione era stata presa in extremis. La candidata della destra venezuelana alle presidenziali del 28 luglio, Corina Machado, aveva annunciato venerdì la decisione di fare un passo indietro, in una conferenza stampa in cui era stata presentata la nuova candidata della Piattaforma Unitaria Democratica, la coalizione che riunisce i principali partiti dell’opposizione al governo di Nicolás Maduro.
A contendere la presidenza al chavismo sarebbe stata Corina Yoris Villasana, ottantenne, riconosciuta accademica che ha presieduto la Società Venezuelana di Filosofia e docente universitaria a tempo completo. Una figura pressoché sconosciuta al grande pubblico, ma soprattutto una figura di consenso all’interno dell’eterogenea coalizione oppositrice, che raggruppa settori ultra conservatori e piccoli partiti di ispirazione marxista-leninista nella crociata contro il chavismo, al governo dal 1998.
Il tempo stringeva, e per aggirare l’interdizione che pesa su Machado, riconfermata a inizio di quest’anno, la Piattaforma Unitaria aveva tempo fino alla sera di lunedì 25 marzo per iscrivere Yoris come candidata della coalizione oppositrice. Eppure le cose sono andate diversamente.
Secondo la denuncia pubblica presentata dalla Piattaforma, nessuna delle chiavi d’accesso fornite dal Consiglio Nazionale Elettorale (CNE) ai partiti che formano la coalizione per registrare il proprio candidato alle presidenziali nella piattaforma telematica ufficiale ha funzionato. E una volta scaduto il termine imposto dal CNE, sono state chiuse le iscrizioni.
In conferenza stampa, il presidente dell’organismo elettorale venezuelano, Elvis Amoroso, ha presentato ufficialmente questo martedì i candidati registrati alle presidenziali del 28 luglio: oltre all’attuale presidente, Nicolás Maduro, si presenteranno l’ex rettore del CNE in rappresentanza dell’opposizione, Enrique Márquez; l’ex sindaco di San Cristóbal, Daniel Ceballos; il rettore dell’Universidad Tecnológica del Centro (Unitec), Luis Eduardo Martínez; l’ambasciatore Edmundo González, che rappresenterà l’altra coalizione oppositrice, la Mesa de Unidad Democrática che in passato ha sostenuto il candidato Enrique Capriles; ed altri otto candidati di partiti indipendenti.
Spicca tra questi il governatore dello stato Zulia, Manuel Rosales, che ha iscritto la propria candidatura all’ultimo momento. In queste ore si analizza una possibile adesione della Piattaforma Unitaria Democratica alla candidatura di Rosales, ma la leader della coalizione, Corina Machado si oppone.
Yoris, esclusa dalla lista dei candidati, avrebbe dovuto sostituire proprio Corina Machado, che nell’ottobre scorso aveva sbancato alle primarie dell’opposizione con più del 90% dei voti, e su cui però pesa un’interdizione giudiziaria a ricoprire incarichi pubblici per 15 anni. Machado è stata in passato una delle principali dirigenti dell’estrema destra venezuelana. È stata tra le sostenitrici del colpo di stato che ha deposto Hugo Chávez nel 2002, e ha ricevuto poi l’indulto presidenziale nel 2007 per i reati commessi durante il golpe; dal 2012 è stata la rappresentante dell’ala più dura dell’antichavismo: ha sempre rifiutato la possibilità di partecipare alle elezioni, considerandole una farsa, ha più volte chiesto l’intervento militare Usa per rovesciare il chavismo al potere, ed ha sostenuto pubblicamente le sanzioni economiche applicate da Washington nei confronti del Venezuela.
Nel 2014 ha accettato l’incarico di Ambasciatrice presso l’Organizzazione degli Stati Americani in rappresentanza della Repubblica di Panama, un escamotage ordito dai governi conservatori della regione per far partecipare l’opposizione venezuelana ai forum regionali. Queste posizioni sono state usate come pretesto dalla giustizia venezuelana, che da anni è stata trasformata in uno strumento del potere esecutivo, per sospendere i suoi diritti politici durante 15 anni, impedendo di fatto la sua candidatura.
Sebbene Machado sembrasse decisa a sostenere la linea dura addotta in passato, e dunque portare la sua candidatura fino alle ultime conseguenze, la coalizione di opposizione ha preferito concordare l’iscrizione di una candidata alternativa e garantirsi così un posto alle presidenziali di luglio. Questo, perché le possibilità di vittoria erano davvero molto alte.
Secondo gli ultimi sondaggi disponibili, Corina Machado poteva vantare un appoggio vicino al 54% degli elettori venezuelani, che però si dichiaravano disposti a votare qualunque candidato della coalizione oppositrice “al di là dei nomi propri”. Così Yoris partiva, fino a lunedì scorso, con una base del 53% delle preferenze, contro il 15% che si assicura Nicolás Maduro.
L’esclusione di fatto della candidata della coalizione oppositrice ha già generato la reazione di protesta dei governi di Argentina, Brasile, Colombia, Costa Rica, Ecuador, Guatemala, Paraguay, Perù e Uruguay. La portavoce della Casa Bianca, Karine Jean-Pierre, ha chiesto al governo venezuelano di “rispettare le regole della democrazia”. Ma il governo Maduro da tempo gioca a mettere in tensione l’accordo raggiunto alla fine del 2023 con l’opposizione e i rappresentanti di Usa ed Unione Europea per la realizzazione di elezioni trasparenti. E le evidenti difficoltà che attraversa il chavismo nella campagna elettorale attuale aggravano ancor più la situazione.
L’attuale configurazione politica venezuelana infatti è il frutto dei cosiddetti Accordi delle Barbados, culmine di un processo internazionale che ha incluso un certo disgelo nella relazione tra Washington e Caracas, l’adozione di una politica economica di stampo neoliberista da parte del governo venezuelano e l’allentamento delle sanzioni economiche internazionali da parte di Usa e Ue nei confronti del chavismo.
Dopo l’inizio dell’invasione russa in Ucraina infatti le principali potenze globali si sono prodigate nell’assicurarsi fonti di approvvigionamento alternative di greggio nel bel mezzo del caos provocato dal boicottaggio internazionale alle esportazioni russe. La Casa Bianca ha deciso dunque di modificare la propria posizione nei confronti del Venezuela: nel 2019 gli Usa avevano addirittura sostenuto apertamente il tentativo di golpe che cercó di rovesciare con la forza Nicolás Maduro.
L’accordo raggiunto alle Barbados, con la mediazione del governo norvegese ed il forte sostegno degli Stati Uniti, ha permesso di tracciare un piano d’azione che accontentasse un po’ tutti: Usa e Ue potevano far riprendere le attività delle aziende petrolifere bloccate in Venezuela dalle sanzioni (tra cui l’italiana Eni) ottenendo però una prima promessa di adeguamento alle norme della democrazia liberale da parte di Maduro; che a sua volta si assicurava un allentamento delle costrizioni economiche che avevano gettato il paese nella crisi umanitaria più grave del Sudamerica; e l’opposizione otteneva la garanzia internazionale per la celebrazione di comizi giusti e trasparenti e di poter aspirare così a riprendere il potere per la via della legalità e abbandonare il golpismo, che dopo vent’anni di tentativi ha condotto a un vicolo cieco i propri leader.
Nelle ultime settimane però sono sempre più insistenti le voci intorno alla presunta intenzione del governo di sabotare gli accordi raggiunti: poche settimane fa infatti la procura ha ordinato l’arresto di alcuni assistenti di Corina Machado, tra cui la direttrice della sua campagna, Magalli Meda, fino ad allora principale candidata a succederle alle presidenziali di luglio. A febbraio il governo di Maduro aveva già ricevuto forti critiche a livello internazionale per la decisione di ordinare la chiusura degli uffici di Caracas dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, accusato di spionaggio.
L’esclusione di Yoris rivela l’intenzione del governo di voler distorcere quanto concordato, per assicurarsi di poter scegliere i propri rivali. La palla ora sta nel campo dell’opposizione e i propri alleati internazionali. I sondaggi sostengono che effettivamente un appoggio esplicito ad uno dei 12 candidati oppositori in lizza da parte della Piattaforma Unitaria, lo trasformerebbe automaticamente nel nuovo presidente.
Maduro però sa bene che le divergenze interne, che hanno frammentato l’azione dell’opposizione negli ultimi 25 anni, sono probabilmente più forti della possibilità di spodestare il chavismo dal potere. La figura di Machado però, estremamente divisiva in passato e divenuta leader della coalizione nel giro di pochi mesi, e la rapidità di reazione dimostrata dall’opposizione con la nomina di Yoris, potrebbero indicare che i tempi delle faide e le lotte interne alla destra venezuelana sono stati superati in nome dell’antichavismo (unico elemento che sembrerebbe unificare la coalizione della Piattaforma).
Per il governo Maduro, sebbene la manovra di ostruzione dell’azione oppositrice gli abbia permesso di mettere in difficoltà i rivali principali e alimentare le sue divisioni interne, il dilemma resta in fin dei conti lo stesso: mantenere la parola degli Accordi delle Barbados potrebbe significare la perdita del potere a breve termine, e stralciare apertamente l’accordo riaprirebbe le porte alle sanzioni economiche, che la società venezuelana non sembrerebbe ormai in condizioni di poter sopportare nuovamente.
Maduro sembra invece disposto a portare avanti, fino a quando gli sarà possibile, la strategia dell’ostruzionismo: mantenere la data delle elezioni già fissata escogitando però azioni che impediscano all’opposizione di raggiungere un risultato favorevole. Le possibilità di successo del chavismo, che per più di vent’anni ha comunque mantenuto un sostegno popolare considerevole, sembrano per la prima volta essersi ridotte al minimo. Ed il tempo per trovare un’uscita che accontenti tutti gli attori, domestici ed internazionali, coinvolti nella crisi venezuelana, si accorcia sempre più.
L’opposizione venezuelana trova la sua candidata
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Alla fine la candidata della destra venezuelana alle presidenziali del 28 luglio, Corina Machado, ha fatto un passo indietro. La decisione è stata annunciata lo scorso venerdì, in una conferenza stampa in cui è stata presentata la nuova candidata della Piattaforma Unitaria Democratica, la coalizione che riunisce i principali partiti dell’opposizione al governo di Nicolás Maduro.
A contendere la presidenza al chavismo sarà Corina Yoris Villasana, ottantenne, riconosciuta accademica che ha presieduto la Società Venezuelana di Filosofia e docente universitaria a tempo completo. Una figura pressoché sconosciuta al grande pubblico, ma soprattutto una figura di consenso all’interno dell’eterogenea coalizione oppositrice, che raggruppa settori ultra conservatori e piccoli partiti di ispirazione marxista-leninista nella crociata contro il chavismo, al governo dal 1998.
Yoris sostituisce così la candidata che nell’ottobre scorso aveva sbancato alle primarie dell’opposizione con più del 90% dei voti, Corina Machado, su cui però pesa un’interdizione giudiziaria a ricoprire incarichi pubblici per 15 anni.
Corina Machado e Corina Yoris Villasana
Machado è stata in passato una delle principali dirigenti dell’estrema destra venezuelana. È stata tra le sostenitrici del colpo di stato che ha deposto Hugo Chávez nel 2002, e ha ricevuto poi l’indulto presidenziale nel 2007 per i reati commessi durante il golpe; dal 2012 è stata la rappresentante dell’ala più dura dell’antichavismo: ha sempre rifiutato la possibilità di partecipare alle elezioni, considerandole una farsa, ha più volte chiesto l’intervento militare Usa per rovesciare il chavismo al potere, ed ha sostenuto pubblicamente le sanzioni economiche applicate da Washington nei confronti del Venezuela.
Nel 2014 ha accettato l’incarico di Ambasciatrice presso l’Organizzazione degli Stati Americani in rappresentanza della Repubblica di Panama, un escamotage ordito dai governi conservatori della regione per far partecipare l’opposizione venezuelana ai forum regionali. Queste posizioni sono state usate come pretesto dalla giustizia venezuelana, che da anni è stata trasformata in uno strumento del potere esecutivo, per sospendere i suoi diritti politici durante 15 anni, impedendo di fatto la sua candidatura. Sebbene Machado sembrasse decisa a sostenere la linea dura addotta in passato, e dunque portare la sua candidatura fino alle ultime conseguenze, la coalizione oppositrice ha preferito accordare l’iscrizione di una candidata alternativa e garantirsi così un posto alle presidenziali di luglio. Questo, perché le possibilità di vittoria sono davvero molto alte.
Secondo gli ultimi sondaggi disponibili, Corina Machado poteva vantare un appoggio vicino al 54% degli elettori venezuelani, che però si dichiaravano disposti a votare qualunque candidato della coalizione oppositrice “al di là dei nomi propri”. Così Yoris parte con una base del 53% delle preferenze, contro il 15% che si assicura Nicolás Maduro.
La strategia di Maduro
Secondo i leader dell’opposizione il governo avrebbe già iniziato a mettere i bastoni nelle ruote della nuova candidata: gli account dei partiti della Piattaforma Democratica per l’iscrizione dei propri candidati nella piattaforma telematica del Consiglio Nazionale Elettorale non funzionavano questo lunedì, a solo poche ore dalla chiusura delle iscrizioni ufficiali. Il governo Maduro da tempo gioca a mettere in tensione l’accordo raggiunto alla fine del 2023 con l’opposizione e i rappresentanti di Usa ed Unione Europea per la realizzazione di elezioni trasparenti. E le evidenti difficoltà che attraversa il chavismo nella campagna elettorale attuale aggravano ancor più la situazione.
L’attuale configurazione politica venezuelana infatti è il frutto dei cosiddetti Accordi delle Barbados, culmine di un processo internazionale che ha incluso un certo disgelo nella relazione tra Washington e Caracas, l’adozione di una politica economica di stampo neoliberista da parte del governo venezuelano e l’allentamento delle sanzioni economiche internazionali da parte di Usa e Ue nei confronti del chavismo.
Dopo l’inizio dell’invasione russa in Ucraina infatti le principali potenze globali si sono prodigate nell’assicurarsi fonti di approvvigionamento alternative di greggio nel bel mezzo del caos provocato dal boicottaggio internazionale alle esportazioni russe. La Casa Bianca ha deciso dunque di modificare la propria posizione nei confronti del Venezuela: nel 2019 gli Usa avevano addirittura sostenuto apertamente il tentativo di golpe che cercó di rovesciare con la forza Nicolás Maduro.
L’accordo delle Barbados
L’accordo raggiunto alle Barbados, con la mediazione del governo norvegese ed il forte sostegno degli Stati Uniti, ha permesso di tracciare un piano d’azione che accontentasse un po’ tutti: Usa e Ue potevano far riprendere le attività delle aziende petrolifere bloccate in Venezuela dalle sanzioni (tra cui l’italiana Eni) ottenendo però una prima promessa di adeguamento alle norme della democrazia liberale da parte di Maduro; che a sua volta si assicurava un allentamento delle costrizioni economiche che avevano gettato il paese nella crisi umanitaria più grave del Sudamerica; e l’opposizione otteneva la garanzia internazionale per la celebrazione di comizi giusti e trasparenti e poter aspirare così a riprendere il potere per la via della legalità ed abbandonare il golpismo, che dopo vent’anni di tentativi ha condotto ad un vicolo cieco i propri leader.
Nelle ultime settimane però sono sempre più insistenti le voci intorno alla presunta intenzione del governo di sabotare gli accordi raggiunti: poche settimane fa infatti la procura ha ordinato l’arresto di alcuni assistenti di Corina Machado, tra cui la direttrice della sua campagna, Magalli Meda, fino ad allora principale candidata a succederle alle presidenziali di luglio. A febbraio il governo di Maduro aveva già ricevuto forti critiche a livello internazionale per la decisione di ordinare la chiusura degli uffici di Caracas dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, accusato di spionaggio.
La nomina di Yoris pone ora il governo di fronte ad un nuovo dilemma: mantenere la parola degli Accordi delle Barbados potrebbe significare la perdita del potere a breve termine, e stralciare apertamente l’accordo riaprirebbe le porte alle sanzioni economiche, che la società venezuelana non sembrerebbe ormai in condizioni di poter sopportare nuovamente.
Maduro sembra invece disposto a portare avanti, fino a quando gli sia possibile, la strategia dell’ostruzionismo: mantenere la data delle elezioni già fissata escogitando però azioni che impediscano all’opposizione di raggiungere un risultato favorevole. Le possibilità di successo del chavismo, che per più di vent’anni ha comunque mantenuto un sostegno popolare considerevole, sembrano per la prima volta essersi ridotte al minimo. Ed il tempo per trovare un’uscita che accontenti tutti gli attori, domestici ed internazionali, coinvolti nella crisi venezuelana, si accorcia sempre più.
Haiti nel baratro, in mano alle gang
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Continua la spirale di violenza in cui è immersa Haiti da settimane, Paese oggi acefalo, e al centro di intense negoziazioni tanto a livello internazionale come a livello domestico. Il tour internazionale del primo ministro Ariel Henry, che tra la fine febbraio e inizio marzo ha visitato Guayana, Kenya e Stati Uniti in cerca di sostegno politico al proprio governo, ha rafforzato l’alleanza tra le diverse gang che gestiscono praticamente la totalità del territorio della capitale Port-au-Prince.
I clan riuniti sotto il comando di Jimmy Chérizier, detto Barbecue, hanno preso d’assalto i principali centri nevralgici del paese, partendo dalle prigioni della capitale, da dove sono stati liberati quasi 4.000 detenuti, per poi bloccare l’aeroporto internazionale e il porto, principale porta d’ingresso degli aiuti umanitari diretti agli 11 milioni di haitiani impoveriti da una crisi senza fine.
I paesi europei e gli Usa hanno immediatamente evacuato le proprie ambasciate, e l’11 marzo, durante una riunione della Comunità dei Caraibi (Caricom) indetta d’urgenza a Kingston, in Jamaica, e alla presenza del segretario di stato Usa Anthony Blinken, Henry ha annunciato le proprie dimissioni. Da allora il paese è sprofondato nell’incertezza più totale.
La Caricom ha annunciato la creazione di una commissione di Transizione, formata da rappresentanti di tutte le coalizioni politiche presenti nel paese, che secondo quanto annunciato dallo stesso Blinken dovrebbe scegliere un primo ministro ad interim che traghetterà il paese verso nuove elezioni generali.
Haiti non va al voto dal 2016, quando venne eletto tra le polemiche l’ex presidente Jovenel Moïse, assassinato nel luglio del 2021 da un commando di sicari colombiani al soldo di alcuni grandi magnati haitiani espatriati negli Usa. Da allora, sia le legislative che dovevano rinnovare il parlamento, sia le attesissime presidenziali previste per quest’anno, sono slittate a causa dell’incapacità delle istituzioni di garantire la sicurezza dei comizi, e nessuna delle cariche elettive previste dalla costituzione è oggi coperta. In molti si chiedono ora come sará possibile portare il paese alle urne nel mezzo di un clima di guerra civile e con autorità prive di legittimità domestica, create a partire dall’intervento internazionale. Di fatto, il leader della coalizione di gang haitiane ha rapidamente annunciato che non riconoscerà l’autorità di alcuna Commissione creata dalla Caricom, e ha minacciato di morte coloro che assumano tale incarico.
La Commissione per la Transizione, che secondo Blinken è orami pronta, sarà formata da rappresentanti del settore privato, associazioni civili, movimenti sociali, partiti tradizionali e rappresentanti religiosi.
Iniziati però anche i primi dissensi: Pitit Dessalines, il gruppo guidato dall’ex senatore Jean-Charles Moïse, si è rifiutato di partecipare alla nuova Commissione per crearne una parallela insieme a Guy Phillipe, personaggio oscuro della storia recente haitiana, protagonista di vari tentativi di colpo di Stato e recentemente deportato dagli Stati Uniti dove è stato condannato per riciclaggio.
Una delle prime osservazioni che molti esperti fanno intorno all’attuale situazione haitiana, è che per la prima volta si sta osservando una coordinazione tra le bande criminali che operano ad Haiti, fenomeno preoccupante quanto interessante. Infatti, sono in molti a sostenere che il potere di fuoco delle gang è di gran lunga superiore a quello delle autorità statali, ed in molte città e territori rurali ne hanno assunte le funzioni.
Le gang, che oggi controllano il 90% della rete di distribuzione di acqua potabile del paese, potrebbero addirittura trasformarsi in un fattore di stabilizzazione parziale del territorio, che permetta poi alle organizzazioni politiche una maggior capacità di negoziazione per ripristinare le istituzioni statali al collasso. Certo però cercando di assicurarsi una posizione di privilegio nel nuovo assetto politico-istituzionale del paese. Un’ipotesi inaccettabile a livello internazionale, ma che vista la profondissima relazione che lega le gang con la politica, iniziata già ai tempi della dittatura dei Duvalier negli anni ’50, non sembra poi così inverosimile.
Ciò che in ogni caso si mantiene a Port-au-Prince è un altissimo grado di violenza, che sembra inarrestabile. Mentre la Caricom definiva la strategia da portare avanti, le gang davano fuoco tra giovedì e sabato a diverse case del centro della capitale, tra cui quella del capo della polizia, Frantz Elbé.
I rapporti delle Nazioni Unite indicano che nel 2023, oltre 4.789 persone sono state uccise dalle gang, 1.698 ferite e 2.490 rapite. Nel 2023 il tasso di omicidi è schizzato a 40,9 per ogni 100.000 abitanti, più del doppio rispetto al 2022. A questo si aggiunge una situazione socio-economica allarmante. 4,3 milioni di persone soffrono di fame acuta e 1,4 milioni sono sull’orlo di fare la stessa fine a breve, secondo i dati dell’ONU. L’Unicef ha denunciato in questi giorni il sequestro da parte delle bande armate di 17 container inviati dall’organizzazione carichi di aiuti per i minori haitiani. Si calcola che nell’ultimo mese circa 170.000 bambini hanno dovuto abbandonare le loro case, e che 2 minori su 3 hanno bisogno di assistenza umanitaria.
Per ora il piano internazionale si mantiene. In parallelo alla Commissione di Transizione Usa, Canada e Francia attendono l’invio della missione internazionale di stabilizzazione concordata dall’ex primo ministro Henry con il presidente del Kenya, William Ruto, che ha recentemente confermato l’intenzione di sbarcare ad Haiti con un contingente di un migliaio di agenti di sicurezza per aiutare le forze dell’ordine locali, come già sottoscritto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu.
Intanto, e nel mezzo della campagna elettorale verso le presidenziali Usa di novembre, il governatore della Florida, Ron de Santis, ha già annunciato una serie di misure per evitare l’arrivo di nuovi migranti haitiani sul proprio territorio, a circa 800 miglia dalle coste haitiane.
Sia l’amministrazione Biden sia quella di Donald Trump hanno agito con forza contro l’immigrazione haitiana, suscitando anche forti polemiche per le deportazioni sistematiche dei cittadini haitiani al confine o dentro al proprio territorio. Una nuova crisi umanitaria nei Caraibi rappresenta ora un enorme problema per Washington, alle prese con le critiche per la gestione della crisi a Gaza e sul confine col Messico. Una debolezza che i repubblicani, e le gang haitiane, sanno di poter sfruttare a loro vantaggio.
Argentina: la città di Rosario sotto assedio narco
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Scuole chiuse, trasporti pubblici paralizzati, taxi sospesi, servizi sanitari ridotti al minimo. A Rosario, la seconda città più popolosa dell’Argentina dopo Buenos Aires, è interrotto da giovedì anche il servizio della nettezza urbana.
I movimenti femministi hanno sospeso la manifestazione di venerdì in occasione dell’8 marzo. “Non ci sono le condizioni minime per garantire la sicurezza di chi si mobilita”, hanno spiegato in conferenza stampa le organizzatrici. Proprio durante la settimana dell’8M, data particolarmente sentita nel Paese dove è sorto il Ni Una Menos, a Rosario è dilagato il terrore per le strade.
Il tutto è iniziato martedì 5 marzo, quando due sicari giovanissimi, ingaggiati dai potentissimi clan che da anni controllano di fatto la città, hanno ucciso un tassista a sangue freddo. Avevano chiesto un taxi attraverso un numero whatsapp messo a disposizione dall’azienda per i propri clienti, e una volta giunti a destinazione lo hanno freddato al volante senza rubare nulla. Il giorno dopo la stessa scena: un secondo tassista è crivellato con sedici colpi sulla sua macchina ancor prima di salutare il presunto cliente.
Il panico è dilagato a partire da giovedì, quando alla fermata della linea K dell’autobus un giovane ha finto di voler salire sulla vettura per poi scaricare una serie di colpi contro l’autista. L’autobus era pieno di passeggeri, e i sicari, che agiscono a volto scoperto, si sono dileguati nel traffico.
“Preparate le casse da morto”, è stato il messaggio lasciato sull’autobus in un pizzino scritto a mano. L’autista è morto due giorni dopo all’Ospedale Clemente Álvarez, e il sindacato dei dipendenti dei trasporti pubblici ha dichiarato immediatamente lo sciopero, che si aggiunge a quello dei tassisti, paralizzando così di fatto l’intera città durante quattro giorni.
L’ondata di omicidi rappresenta una risposta unificata da parte dei clan di Rosario contro la decisione del governatore della provincia di Santa Fe, Maximiliano Pullaro, e il suo ministro per la sicurezza, Pablo Cococcioni, di inasprire le condizioni di reclusione dei boss detenuti nelle carceri della città. Lunedì scorso il governo locale ha diffuso una serie di fotografie che ritraggono diversi membri delle gang narcos ammanettati a torso nudo e ammucchiati nei corridoi di una delle carceri di massima sicurezza della città. Proprio come nel Salvador, dove il presidente Nayib Bukele ha lanciato una polemica guerra contro le gang che mantiene il Paese in “Stato d’emergenza” da due anni. Il messaggio del governatore Pullaro era chiaro: mano dura. Nelle celle sono stati requisiti telefoni cellulari, quaderni, ed ogni elemento che potesse essere utilizzato per comandare le attività dei gruppi narcos da dentro. Si tratta proprio di uno dei fenomeni più discussi a Rosario negli ultimi anni: le carceri sono diventate un ufficio dei boss, da dove dirigono le operazioni del crimine organizzato con la connivenza delle autorità locali.
Sabato pomeriggio su un cavalcavia nei pressi del centro di Rosario è apparso uno striscione che diceva: “Pullaro e Cococcioni si sono messi contro i nostri figli e i nostri parenti… seguiranno le morti di innocenti tassisti, autisti di autobus, netturbini e commercianti”. La promessa è stata compiuta poche ore dopo.
Nella notte fra sabato e domenica un altro giovanissimo sicario ha ucciso a colpi di pistola Bruno Nicolás Bussanich, venticinquenne impiegato in una stazione di servizio del centro. Il tutto ripreso dalle telecamere a circuito chiuso, e le immagini hanno fatto il giro del Paese in pochi minuti.
Anche in questo caso è apparso un nuovo messaggio: “Questa guerra non è per il territorio. È contro Pullaro e Cococcioni. Vogliamo che si rispettino i nostri diritti”. Nel giro di poche ore la stampa locale ha diffuso il profilo di Bussanich, sostenitore del partito del presidente Javier Milei, per il quale ha fatto attivamente campagna elettorale nel 2023.
Lo stesso Milei ha lasciato un messaggio alla famiglia del giovane ucciso, e ha promesso un intervento immediato da parte del governo federale: “Finché sarò presidente, non smetteremo di dargli la caccia. Non smetteremo di requisire le prigioni. Non esiteremo quando sarà in gioco la vita di un innocente. Non permetteremo che continuino a governare Rosario. Le forze di sicurezza hanno il nostro sostegno incondizionato per fare tutto il necessario per ristabilire l’ordine”, ha sostenuto il presidente.
Il Ministro della Difesa Luis Petri ha annunciato il dispiegamento delle forze armate in città, una misura che però potrebbe essere bloccata sul nascere. Dai tempi dei continui tentativi di colpo di stato portati avanti dall’esercito argentino negli anni ’80 e ’90, la legge proibisce l’intervento delle forze armate in questioni di sicurezza interna. Proprio per questo esistono forze federali, come la Gendarmeria, legate al ministero della Difesa ma comandate da personale civile, che aumenterà la propria presenza a Rosario nelle prossime ore.
Ma la situazione rimane gravissima. Dopo la breve pausa che segue ogni avvicendamento politico post elettorale, la guerra narco che attanaglia Rosario da più di dieci anni è ripresa più violenta che mai. I clan, per la prima volta uniti in un potentissimo sodalizio contro lo Stato, hanno deciso di applicare la strategia del terrore: uccidere innocenti, a caso, per strada e a volto scoperto, per mettere in ginocchio le autorità. Non è casuale che tutto ciò avvenga a Rosario. La città possiede il secondo porto più grande dell’Argentina, situato nel cuore di una delle zone produttive più importanti dell’America Latina. Da qui partono ogni anno tonnellate di cereali, carne, soia, diretti ai mercati più importanti del mondo, ed è proprio per questo che il narcotraffico internazionale l’ha scelta come capitale del crimine organizzato in Argentina. Il porto di Rosario si affaccia sul Río Paraná, fiume che collega l’Atlantico con la Triplice Frontiera tra Paraguay, Brasile e Argentina, epicentro dei traffici illegali del Cono Sud.
I sequestri di stupefacenti nei pressi del porto sono cresciuti a dismisura. Nel 2022 è stato fermato un carico di 1.680 chili di cocaina diretti a Dubai, e si stima che invii simili partono ogni mese, oltre a carichi di minor portata verso le coste europee ed africane. Le autorità della provincia di Santa Fe, di cui Rosario è la città più importante, sono storicamente state infiltrate con facilità da organizzazioni criminali, che hanno poi trovato nei popolosi sobborghi della periferia urbana manodopera a basso costo per i loro traffici.
Nel giro di pochi anni Rosario si è trasformata nell’epicentro della violenza in Argentina. Possiede un tasso di omicidi ogni 100.000 abitanti cinque volte superiore rispetto alla media nazionale, comparabile con i paesi latinoamericani più colpiti dal fenomeno della narco violenza come Colombia o Messico. Le azioni portate avanti dallo stato si sono rivelate inefficaci o addirittura controproducenti. Secondo diversi esperti, come il deputato provinciale Carlos del Frade o il professore di criminalistica dell’Università di Santa Fe, Enrique Andrés Font, la “mano dura” voluta dal governatore Pullaro e il presidente Milei non farà altro che aggravare la situazione. “Costruire l’immagine delle bande come supercriminali non fa altro che dargli maggior visibilità e amplificare la violenza”, ha scritto Font a caldo, da Rosario, dopo l’annuncio del possibile sbarco delle forze armate in città.
Sono sempre più le voci che mettono in risalto i fattori sociali che permettono al fenomeno narco di dilagare. In un paese dove il salario in bianco, di un lavoratore con contratto a tempo indeterminato, difficilmente supera la soglia della povertà, la tentazione rappresentata dall’economia del narco è molto forte. A Rosario, come praticamente in tutta l’Argentina, l’unico modo di comprare un paio di scarpe nuove vivendo in un quartiere periferico è avere a che fare con questo tipo di organizzazioni. La legalità il più delle volte non garantisce nemmeno i mezzi basici per la sopravvivenza. E a ciò si aggiunge la connivenza delle istituzioni.
Già la settimana scorsa due autobus che trasportavano un centinaio di agenti del servizio penitenziario in trasferimento verso altre zone della provincia di Santa Fe sono stati crivellati di colpi sulla tangenziale di Rosario. Sebbene non ci siano state vittime fatali, per puro caso, l’attacco ha messo in evidenza il livello dell’infiltrazione mafiosa nella polizia provinciale: i sicari sapevano esattamente l’ora e l’itinerario degli autobus, informazione che solo può essere arrivata da dentro.
Le indagini intorno agli omicidi dei due tassisti accaduti a inizio settimana scorsa poi hanno dimostrato che entrambe le vittime sono state uccise con la stessa pistola: una 9 millimetri in dotazione alle forze di polizia della provincia di Santa Fe.
Preoccupazione internazionale per la crisi haitiana
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Haiti è sprofondata in una nuova crisi durante l’ultima settimana. Lo scorso sabato le gang che ormai controllano l’80% del territorio della capitale, Port-au-Prince, hanno preso d’assalto le due principali prigioni della città, liberando 3.696 reclusi. L’attacco è stato preceduto da sparatorie e incendi in diversi punti della capitale, e ha portato il governo a decretare lo stato d’emergenza durante 72 ore. Eppure, a poche ore dal raid contro il servizio penitenziario, un nuovo attacco è stato registrato lunedì 4 marzo contro l’aeroporto internazionale Toussaint Louverture, che è stato chiuso al traffico aereo.
A guidare le operazioni del crimine organizzato è Jimmy Chérizier, alias “Barbecue”, un ex poliziotto oggi leader del sodalizio G9 an fanmi, (G9 e famiglia), la più grande federazione criminale del Paese, che già a settembre aveva dichiarato apertamente la guerra contro il primo ministro Ariel Henry chiedendone la rimozione. In un’improvvisata conferenza stampa questo martedì ha assicurato che se il governo non si dimette si scatenerà ad Haiti una guerra civile “e un genocidio”, i cui responsabili saranno Henry assieme ai propri alleati internazionali tra cui ha citato gli Usa, il Canada e la Francia.
La situazione del paese è dunque delicatissima sotto diversi aspetti. Oltre alla drammatica crisi di sicurezza in corso ormai da diversi anni, il Paese deve fare i conti con una lunga crisi politica, giunta all’apice con l’omicidio del presidente Jovenel Moïse accaduto nel luglio del 2021. Il primo ministro Henry era stato addirittura accusato di aver partecipato al complotto per portare avanti l’assassinio del presidente, realizzato da 21 mercenari colombiani assoldati presuntamente da importanti uomini d’affari haitiani radicati negli Usa – gli unici a non essere evasi durante l’attacco al carcere dove sono detenuti lo scorso sabato -. Da allora, sono state cancellate le elezioni generali indette per la fine di quell’anno, annullata la riforma costituzionale voluta da Moïse, e sono scaduti anche i mandati degli ultimi senatori eletti nel 2019, lasciando il paese in mano del capo di governo senza la presenza di un parlamento eletto.
Da mesi ormai l’autorità legale del governo è duramente contestata, e le gang criminali haitiane si sono unite alle proteste.
La sfida lanciata dalle bande criminali alle autorità ha raggiunto nelle ultime ore livelli inediti: il primo ministro Henry infatti è attualmente bloccato a Puerto Rico senza possibilità di tornare in patria. Il premier ha abbandonato il paese lo scorso 28 febbraio per partecipare al summit della Comunità Caraibica (Caricom) tenutosi in Guayana. In quel contesto i principali leader dei 15 paesi caraibici riuniti a Georgetown hanno annunciato un accordo per la realizzazione di nuove elezioni nazionali ad Haiti entro agosto del 2025.
Una notizia accolta negativamente nel Paese, dove opposizioni e gang esigono le dimissioni immediate del governo. Ariel Henry si è poi recato a sorpresa in Kenya, dove ha firmato con il presidente William Ruto un accordo per l’invio di una missione internazionale guidata da 1.000 agenti di sicurezza kenioti per dare manforte alle forze di polizia locali allo stremo.
Il governo può contare su un totale di 9.000 agenti per una popolazione di 11,6 milioni di abitanti, e i membri delle bande armate spesso triplicano in numero quelli delle forze di sicurezza chiamate a controllarli.
L’arrivo di forze internazionali ad Haiti era già stato accordato a margine dei lavori dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a novembre del 2023, ma la Corte Suprema del Kenya, Paese incaricato dal Consiglio di Sicurezza di guidare la missione ad Haiti, ha bloccato l’avvio della spedizione. L’annuncio della ripresa del progetto, per il quale sono già stati riuniti 120 milioni di dollari da parte di diversi stati in tutto il mondo, ha scatenato la reazione del crimine organizzato. Il primo ministro Henry si è quindi recato negli Usa, dove, secondo alcune ricostruzioni, avrebbe ricevuto pressioni da parte delle autorità locali affinché anticipasse la consegna del potere, indiscrezioni smentite questa settimana dall’Ambasciatrice Usa presso le Nazioni Unite Linda Thomas-Greenfield.
Partito da New York martedì, l’aereo che trasportava il primo ministro Henry e la comitiva di governo è stato fatto atterrare all’aeroporto di San José, a Puerto Rico, Stato Libero Associato degli Usa. Le autorità della Repubblica Dominicana, unico paese che condivide una frontiera terrestre con Haiti, e dove il premier era diretto, gli hanno negato l’atterraggio.
Il piano di Henry era quello di raggiungere Port-au-Prince via terra, vista la chiusura dell’aeroporto internazionale haitiano, ma il governo dominicano – che da anni mantiene un atteggiamento ostile nei confronti di Haiti a causa della permanente crisi umanitaria in corso a ridosso dei propri confini – si è rifiutato di collaborare in tal senso.
La storia di Haiti
La drammatica situazione di povertà e instabilità strutturale che vive il paese non è certo nuova. Si potrebbe dire infatti che si tratta di una costante della storia di Haiti, prima repubblica nera del mondo, fondata da ex schiavi ribelli nel 1804, e che è passata da essere la colonia francese più ricca d’America al paese più povero dell’emisfero occidentale.
Questo processo si potrebbe spiegare, in modo piuttosto semplificato, a partire dalla successione di una serie di fenomeni nella storia haitiana che ne hanno segnato il destino. Innanzitutto il debito, contratto dai successivi governi indipendenti sorti dopo le guerre civili che hanno caratterizzato i primi anni della neonata repubblica.
Ridotto il peso dei settori rivoluzionari, il governo haitiano accettò, sotto minaccia, il pagamento di un risarcimento a favore della Francia, che aveva messo sotto assedio navale Port-au-Prince. Il debito, accordato nel 1825, è stato saldato nel 1947. L’80% delle risorse haitiane durante quel periodo sono state dedicate al pagamento del debito con Parigi.
Il secondo fattore storico che spiega la debolezza istituzionale haitiana è la permanente presenza straniera, specialmente degli Usa. Tra il 1914 e il 1935 Washington ha direttamente occupato la parte dell’isola Española corrispondente ad Haiti, presuntamente per pacificare il paese, impedendone però la consolidazione istituzionale.
Poi venne la trentennale dittatura di François Duvalier, detto Papa Doc, e suo figlio Jean Claude, alias Baby Doc, che hanno governato con pugno di ferro – e l’appoggio di Washington – dal 1956 fino al 1986. A partire dagli anni ’90 gli interventi stranieri diretti furono di natura multilaterale: la missione Uphold Democracy tra il 1994 e il 1995 per rimuovere i militari golpisti al potere dal 1991, e tra il 2004 e il 2017 la Missione di stabilizzazione delle Nazioni Unite ad Haiti (MINUSTAH), accusata di aver introdotto malattie infettive (tra cui il colera che ha provocato una strage nella popolazione locale) e di aver perpetrato serie violazioni ai diritti umani.
I disastri naturali
E poi i disastri naturali: nel 2010 Haiti fu l’epicentro di uno dei terremoti più devastanti della storia recente dell’umanità, che ha provocato la morte di circa 300.000 persone in pochi minuti. La tragedia portò moltissime organizzazioni umanitarie e cooperanti a installarsi a Port-au-Prince generando un fenomeno inedito: i programmi internazionali di aiuto superarono di gran lunga l’azione governativa, e il paese divenne noto come “la Repubblica delle ONG“, dove le organizzazioni internazionali avevano molto più peso nella gestione territoriale ed economica rispetto alle autorità locali.
Nel 2021, un altro terremoto ha devastato la periferia della capitale. Non è possibile dunque comprendere la crisi haitiana senza cercarne le radici nella storia del paese.
Le gang
La violenza delle gang si è moltiplicata a partire dalla crisi politica iniziata nel 2019, al calore delle manifestazioni scatenate dallo scandalo di corruzione esploso intorno ai fondi di Petrocaribe, il programma venezuelano mirato a far giungere carburante a basso costo nel mediterraneo caraibico. A partire dalla dura repressione ordinata dal governo dell’allora presidente Moïse contro i manifestanti, l’instabilità si è impadronita del paese.
Tra il 2019 e il 2022 gli omicidi perpetrati dalle gang sono aumentati del 90%, e i sequestri estorsivi del 1642%. Quello dei sequestri è altresì uno strumento di pressione nei confronti di politici e cooperanti internazionali, obbligati spesso a cedere o condividere fette importanti di potere con le organizzazioni criminali.
Dopo l’omicidio di Moïse il numero di rifugiati interni si è quintuplicato, e i flussi migratori verso la Repubblica Dominicana e gli Usa sono stati sistematicamente respinti, spesso con l’uso della forza. Secondo l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Volker Türk, dall’inizio di quest’anno sono già state assassinate 1.200 persone.
L’economia
L’economia haitiana inoltre è profondamente dipendente dall’estero. Le rimesse degli emigrati rappresentano il 30% del Pil, e i prestiti e gli aiuti umanitari coprono un altro terzo del prodotto interno. Il 50% degli alimenti che consuma la popolazione è importato. Nel caso del riso, base della dieta degli haitiani, le importazioni rappresentano più dell’80% del consumo.
In questo contesto, la preoccupazione per la situazione haitiana è alta. Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha già organizzato una riunione per affrontare la questione, mentre a Washington la possibilità di anticipare le elezioni sembra prendere sempre più piede. Ad Haiti intanto sono già stati avviati i primi contatti tra leader dell’opposizione per accordare un piano per il post-Henry.
Al via la campagna elettorale in Messico
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Venerdì 1º marzo è iniziata ufficialmente in Messico la campagna elettorale per le elezioni generali di giugno. È la prima volta nella storia del paese che due donne guidano le coalizioni con le maggiori possibilità di vincere le presidenziali. Claudia Sheinbaum, ex sindaca della capitale, è la candidata del Movimiento de Renovación Nacional (Morena), il partito dell’attuale presidente Lopez Obrador.
Secondo tutti i sondaggi, Sheinbaum gode di un ampio favore, con circa il 60% delle intenzioni di voto.
La sua principale rivale sarà Xóchitl Gálvez, imprenditrice di origini indigene, senatrice conservatrice e candidata del Frente Amplio por México. Si tratta di una coalizione atipica che riunisce due partiti che hanno governato il paese dal 1930 in poi: il Partido Revolucionario Institucional (PRI) e il Partido de Acción Nacional (PAN), oltre al terzo partito più importante a livello nazionale, il Partito della Rivoluzione Democratica (PRD), da cui è emerso l’attuale presidente Lopez Obrador. Gálvez si attesta attorno al 30% secondo la maggior parte dei sondaggi finora condotti, ma ci si aspetta che possa crescere nei prossimi mesi di campagna.
Al contrario, molto indietro nei sondaggi è Jorge Álvares Maynez, candidato del Movimiento Ciudadano, un centrista “anti-establishment” che ha preso il posto del governatore di Nueva León, Samuel García, che ha rinunciato alla sua candidatura nel dicembre 2023. Sono 98 milioni i messicani chiamati alle urne, di cui 48 hanno meno di 40 anni, in un Paese dove la partecipazione elettorale raramente supera il 65% degli aventi diritto
Una delle peculiarità che contraddistinguono il panorama politico messicano attuale dal resto dell’America Latina è l’assenza di una forte candidatura populista di destra. A dire il vero, l’ex attore di telenovelas e cantante pop, Eduardo Verástegui, ha cercato di entrare nel dibattito pubblico con un movimento ultracattolico alleato di Vox, Donald Trump e La Libertad Avanza di Javier Milei. Tuttavia, non solo non è riuscito a raccogliere le firme necessarie per ottenere il riconoscimento legale, ma il suo partito è stato condannato per finanziamenti illegali da parte di aziende offshore con sede a Miami ed è stato escluso dall’Istituto Nazionale Elettorale.
Un’altra importante novità di queste elezioni è che per la prima volta i messicani saranno chiamati a votare contemporaneamente per le legislature di 31 dei 32 stati che compongono la federazione e per 9 governatori (Chiapas, Guanajuato, Jalisco, Città del Messico, Morelos, Puebla, Tabasco, Veracruz, Yucatán e la capitale, Città del Messico), rendendo queste elezioni le più grandi di sempre. In totale, più di 20.000 seggi sono in gioco, oltre cinque volte di più rispetto alle ultime elezioni generali del 2018.
L’aumento delle cariche elettive aumenta anche i timori per la violenza che accompagna tradizionalmente ogni campagna elettorale in Messico. Le elezioni del 2018 furono tra le più violente di sempre, con 133 candidati uccisi prima del giorno delle votazioni. Anche quest’anno i cartelli della droga hanno già iniziato la loro macabra interferenza elettorale: dall’inizio dell’anno sono state uccise 33 persone legate al mondo della politica messicana, e proprio questa settimana nello stato di Michoacán sono stati assassinati i due candidati a sindaco del Comune di Maravatío nel giro di 12 ore.
In un continente dove la difesa dei valori democratici sembra vacillare di fronte all’ascesa di varie forme di populismo, le elezioni in Messico si delineano come un momento chiave per il futuro delle istituzioni democratiche in America Latina. Molti osservatori, soprattutto statunitensi, hanno esaminato il governo di Lopez Obrador alla luce del suo rapporto con le istituzioni del paese, sollevando spesso dubbi sulle presunte tendenze autocratiche del suo governo di centrosinistra.
Ci sono sicuramente argomenti a sostegno di questa visione, che ritrae l’attuale presidente come una sorta di populista di sinistra. Ad esempio, le recenti manifestazioni in Piazza del Zócalo il 18 febbraio, in cui circa 700.000 persone si sono riunite per respingere un possibile intervento dell’esecutivo sull’Istituto Nazionale Elettorale, incluso nel pacchetto di riforme costituzionali che il governo vorrebbe approvare prima di lasciare l’incarico.
Se è vero che Lopez Obrador ha criticato aspramente l’ente responsabile della gestione delle elezioni nel paese, è anche vero che le elezioni in Messico sono sempre state trasparenti, e il partito di Lopez Obrador, Morena, ha sempre accettato i risultati ufficiali anche quando ha perso distretti chiave.
Un altro aspetto fortemente criticato riguarda la relazione del governo con i media. Durante una delle sue conferenze stampa quotidiane della scorsa settimana, il Presidente ha persino diffuso pubblicamente il numero di cellulare di una giornalista del New York Times, Natalie Kitroeff, che aveva riportato le indagini degli Stati Uniti sui presunti legami tra il partito del Presidente e gruppi criminali. Questo gesto ha scatenato una valanga di insulti e minacce contro Kitroeff, sollevando le proteste delle associazioni dei media in tutto il continente.
Il Messico è infatti uno dei paesi più pericolosi al mondo per i giornalisti, e l’azione di Lopez Obrador potrebbe aver messo a rischio l’incolumità della corrispondente statunitense.
Eppure, e nonostante le critiche e gli strafalcioni che hanno spesso caratterizzato la gestione del presidente, il Movimento della Quarta Trasformazione (M4T), come egli stesso ha battezzato il proprio progetto politico, è uno dei più popolari della storia del Messico. E anche i risultati concreti sono più che eloquenti.
Tra il 2018 e il 2024 il salario minimo dei lavoratori messicani è aumentato del 110%; i contributi statali ai settori più poveri hanno raggiunto 14 milioni di famiglie con un aumento dei monti elargiti del 55% rispetto al governo precedente; i faraonici progetti promessi all’inizio del suo mandato sono stati portati avanti ed inaugurati: il corridoio interoceanico e il Tren Maya nel sud, oggetto di critiche da parte di associazioni indigene e ambientaliste ma sostenuti dalla popolazione locale. O il nuovo aeroporto di Città del Messico, completato in soli tre anni. Anche i principali indicatori economici mostrano un quadro positivo per il Presidente messicano: durante il suo mandato, il tasso di povertà è sceso dal 41,9% nel 2018 al 36,3% nel 2022, e la Banca Mondiale prevede una crescita del PIL messicano del 2,6% nel 2024, superiore alla media continentale.
Nonostante i risultati in termini di lotta al narcotraffico e miglioramento delle condizioni di sicurezza non siano migliorate, il 66% dei messicani giudica complessivamente in modo positivo il governo di Lopez Obrador. Che ha avuto anche la grande capacità di lasciare sempre uno spiraglio che permettesse ai votanti più conservatori di riconoscersi nel suo discorso: parla uno spagnolo “di strada”, non si identifica con le élite dell’accademia di tendenza progressista, rivendica un forte nazionalismo e un’agenda centrata sugli affari interni – di fatto è il Presidente che meno ha viaggiato all’estero nella storia recente del Messico. Ha evitato di prendere posizione intorno a questioni spinose come l’aborto o il conflitto israelo-palestinese e si è spesso opposto ai discorsi e rivendicazioni dei movimenti sociali più radicali del Messico, specialmente quello indigeno e quello femminista.
L’obiettivo principale del Presidente attuale sembra essere quello di trasformare le elezioni del 2 giugno in un plebiscito sul proprio operato, dal quale è fiducioso di uscire vincitore.
Le elezioni messicane rivestono un’importanza significativa anche per la politica degli Stati Uniti, soprattutto in tre aree cruciali. Innanzitutto, il commercio bilaterale, regolamentato dall’Accordo Stati Uniti-Messico-Canada (USMCA), che ha sostituito il NAFTA nel 2018 su iniziativa di Donald Trump.
Da diversi mesi, Washington ha avviato una disputa con il Messico riguardante la politica energetica, la quale riveste un ruolo cruciale nel progetto politico di Lopez Obrador ma entra in conflitto con gli accordi di libero scambio stabiliti con i vicini settentrionali.
Il secondo punto critico tra i due paesi riguarda l’immigrazione, che ha scatenato una forte crisi alla fine del 2023 tra le autorità messicane e i governi di vari stati meridionali degli Stati Uniti, e che ha evidenti ricadute anche sulla campagna elettorale verso le elezioni di novembre negli Usa.
Infine, c’è la questione persistente del narcotraffico: il Messico rappresenta il principale Paese di provenienza di tutte le droghe illegali consumate negli Stati Uniti. Negli ultimi anni, le autorità hanno segnalato un preoccupante aumento del traffico di fentanyl, una sostanza che sta dilagando nei sobborghi delle grandi città americane e sta generando gravi problemi sociali.
I prossimi due mesi saranno dunque cruciali per stendere un profilo del Messico che verrà, su questi ed altri temi sensibili per la società messicana e per il continente latinoamericano. Un processo che sarà seguito con grande interesse specialmente da Washington.
Antony Blinken in Brasile e Argentina: focus su Gaza e litio
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Anthony Blinken ha approfittato dell’incontro dei ministri degli Esteri dei paesi membri del G20 che si è tenuto a Rio de Janeiro questa settimana per organizzare un breve tour sudamericano e incontrare i presidenti Lula da Silva, in Brasile, e Javier Milei, in Argentina.
Diversi i dossier su cui Washington vorrebbe far chiarezza con i governi delle due principali potenze sudamericane: la posizione intorno al processo elettorale in Venezuela, recentemente messo in dubbio dal governo di Nicolás Maduro; lo sviluppo delle relazioni con Pechino, sempre più profonde nella regione; la loro visione intorno al conflitto in Ucraina. Ma a tenere banco come principale argomento di confronto durante la visita dell’emissario dell’amministrazione Biden è stato sicuramente il conflitto in Palestina.
Domenica scorsa infatti Lula da Silva ha dichiarato durante una conferenza stampa ad Addis Abeba, ospite al Summit annuale dell’Unione Africana, che “quanto sta accadendo a Gaza non è una guerra ma un genocidio”, e ha comparato l’azione delle forze militari israeliane con i delitti perpetrati dal nazismo durante l’olocausto. La reazione del governo di Benjamin Netanyahu è stata immediata: il Ministro degli Esteri Israel Katz ha convocato l’ambasciatore brasiliano e ha dichiarato “persona non grata” il presidente Lula.
Blinken si è limitato a dire che il suo governo “non condivide” le parole del presidente brasiliano, eppure fonti legate alla diplomazia statunitense in America Latina assicurano che per la Casa Bianca “è opportuno” che Lula occupi un ruolo contestatario. Non sono certo un segreto i corto circuiti scaturiti nella relazione tra Netanyahu e l’amministrazione Biden proprio a causa della guerra su Gaza, ed il fatto che un leader riconosciuto globalmente, specialmente dai governi del sud del mondo, alzi i toni contro la politica ufficiale di Netanyahu potrebbe cominciare a fungere da contrappeso alla narrativa che Israele vuole sostenere a livello globale intorno al proprio diritto indiscusso all’autodifesa. Il Brasile mantiene da tempo una posizione diversa da quella di Washington sui principali conflitti globali in corso. Nel caso israeliano, il governo Lula ha più volte criticato l’uso della forza da parte del governo di Netanyahu, ha chiesto un immediato cessate il fuoco nella regione e l’apertura di negoziazioni che permettano la creazione di uno stato palestinese.
All’inizio dell’anno ha anche sostenuto con entusiasmo l’iniziativa del Sudafrica di portare la questione di fronte alla Corte Internazionale di Giustizia. Proprio durante il suo tour africano, e dopo che Washington ha posto per la terza volta consecutiva il proprio veto alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu intorno ad un cessate il fuoco su Gaza, Lula ha commentato che nel massimo organismo per la sicurezza delle Nazioni Unite ci sono “troppi paesi belligeranti e troppo pochi paesi pacifisti”.
La situazione a Gaza, in ogni caso, è diventata uno dei temi più polemici nel rapporto dei paesi latinoamericani con gli Usa. Durante le sessioni della Corte Internazionale di Giustizia di martedì scorso, la rappresentante del Cile ha presentato un esposto in cui denuncia le “violazioni sistematiche ai diritti umani” da parte di Israele. Il presidente colombiano, Gustavo Petro, ha espresso la propria solidarietà nei confronti di Lula dopo l’apertura della crisi diplomatica con Israele e ha condiviso la sua posizione intorno alla guerra su Gaza. Dopo l’inizio delle operazioni militari nella Striscia, la Bolivia ha direttamente rotto le relazioni diplomatiche con Israele, e l’Honduras ha ritirato il proprio ambasciatore.
Argentina e Paraguay sono forse oggi i più stretti alleati di Israele e Usa in America Latina. Asunción ha espressamente votato contro la risoluzione del Consiglio di Sicurezza per l’imposizione di un cessate il fuoco su Gaza a dicembre, mentre il Presidente argentino ha scelto proprio Israele come prima missione all’estero da capo di stato.
Durante la sua visita, Milei ha stretto forti vincoli con i settori della destra israeliana che sostengono il governo Netanyahu, e ha fatto due promesse importanti per l’Argentina: l’inclusione di Hamas nella lista delle organizzazioni considerate terroristiche dal paese sudamericano e lo spostamento dell’ambasciata argentina a Gerusalemme.
I punti di contatto tra Washington e il governo di Milei oggi sono molti e molto forti. L’agenda di Blinken in Argentina dunque si è concentrata sulle possibilità di accordo sotto il punto di vista degli investimenti e del commercio. Per gli Usa, l’Argentina – così come Cile e Bolivia – risulta fondamentale in termini di approvvigionamenti di litio e minerali rari, indispensabili per la transizione energetica e le cui catene di somministro globale sono attualmente controllate in larga parte dalla Cina.
L’Argentina è il terzo paese con le maggiori riserve di litio al mondo, ed allo stesso tempo quello con la minor infrastruttura nazionale per la sua estrazione e lavorazione, tutti processi che l’industria statunitense è in grado di garantire. “Vogliamo creare una catena di approvvigionamento per minerali critici come il litio” ha sostenuto Blinken in conferenza stampa da Buenos Aires. “Le nostre aziende stanno facendo investimenti importanti, soprattutto nel nord-ovest. Abbiamo lanciato l’Associazione per i Minerali, stiamo collaborando per investimenti. Questi progetti creeranno posti di lavoro, miglioreranno la competitività e un clima più resiliente. Dipende dall’Argentina, ci aspettiamo qualche piano. Il lavoro che si sta facendo per stabilizzare l’economia è essenziale. È una decisione dell’Argentina”.
Il problema tra Washington e Buenos Aires in questo momento però è di sintonia politica. È chiara a tutti l’affinità che lega l’attuale presidente Milei con il candidato repubblicano Donald Trump, ed è proprio in attesa dell’esito delle elezioni in Usa di novembre che il governo argentino sembra voler temporeggiare per approfondire la relazione bilaterale. Proprio in queste ore Milei è atteso alla Conservative Political Action Conference di Washington DC, dove incontrerà per la prima volta l’ex presidente Trump, oltre a molti altri dirigenti dell’Alt Right a livello internazionale, tra cui lo spagnolo Santiago Abascal e il guru ultraconservatore Steve Bannon.
Buenos Aires è da alcuni giorni meta di importanti esponenti dell’establishment a livello globale, desiderosi di comprendere fino a che punto il “piano motosega” di Milei potrà essere messo in pratica. Negli ultimi giorni si sono avvicendati negli uffici dei principali ministeri argentini la CEO del Citigroup, Jana Fraser, l’amministratore di Discovery Capital Management, Robert Citrone, e nei prossimi giorni è attesa anche la visita di un entusiasta “mileista” come Elon Musk.
Poche ore prima dell’arrivo di Blinken è stato il turno della Vice Direttrice Generale del Fondo Monetario Internazionale, Gita Gopinath, giunta a verificare personalmente l’indirizzo intrapreso dal nuovo governo. L’Argentina mantiene ancora il più grande debito della storia del Fmi, 44 miliardi di dollari, e in queste ore sta negoziando la possibilità di nuovi esborsi per sostenere il piano di stabilizzazione economica di Milei.
Gli Usa in questo senso sono fondamentali: Washington apporta il 16,5% del capitale del Fondo, che gli garantisce un potenziale diritto di veto sulle decisioni dell’organismo. In un comunicato pubblicato dal Fmi alla fine della missione a Buenos Aires, Gopinath ha addirittura ricordato a Milei l’importanza della spesa pubblica dedicata all’assistenzialismo e le pensioni: “Dati i costi di stabilizzazione a breve termine, è essenziale sostenere gli sforzi per sostenere le fasce vulnerabili della popolazione e preservare il valore reale dell’assistenza sociale e delle pensioni, nonché garantire che l’onere dell’adeguamento non ricada in modo sproporzionato sulle famiglie lavoratrici. Procedere in modo pragmatico per garantire un sostegno sociale e politico è fondamentale anche per garantire la sostenibilità e l’efficacia delle riforme”. Insomma, il piano economico del governo argentino, che ha portato in due mesi ad azzerare il deficit, risulta troppo ortodosso perfino per i funzionari del Fmi.
La spy-story che unisce Teheran, Caracas e Buenos Aires
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Le autorità argentine hanno autorizzato il sequestro del Boeing 747 Dreamliner, appartenente alla compagnia statale venezuelana Emtrasur, bloccato all’aeroporto di Buenos Aires su richiesta di Washington dal 9 giugno del 2022. Dopo un anno e mezzo di indagini, la giustizia argentina non ha trovato prove di delitto alcuno, e ha ceduto alla richiesta statunitense che sin dall’inizio dello scandalo chiedeva di ricevere in custodia l’aereo.
Per Caracas si tratta di un “furto spudorato” e promette ritorsioni, proprio mentre gli Usa spingono i negoziati per la realizzazione di elezioni presidenziali libere in Venezuela per quest’anno. L’Emtrasur si trova ora nell’aeroporto della Florida, Dade-Collier, a pochi chilometri da Miami, e molto probabilmente finirà in uno dei campi desertici dove vengono stipati gli strumenti da guerra sequestrati.
La storia dell’Emtrasur YV3531 è da film. Fabbricato negli Usa nel 1986, viene venduto alla Air France nel 1992, ed opererà rotte commerciali per la linea aerea francese durante 15 anni. Nel 2007 la Francia decide di vendere il Jumbo, che viene acquistato dall’iraniana Mahan Air per trasformarlo in un aereo per il trasporto merci sulla rotta Damasco-Teheran.
È qui che entra in scena la giustizia statunitense. Infatti il passaggio da Air France a Mahan Air, non ha rispettato la norma del Dipartimento di Commercio degli Stati Uniti che obbliga a chiedere autorizzazione alle autorità americane per ogni trasferimento realizzato dell’aero fabbricato negli Usa. È il principale argomento usato, trent’anni dopo, dal giudice del distretto di Columbia, Randolph Moss, che ha ordinato il sequestro del Boeing.
Ma questo non è tutto. L’aereo figura nella lista dell’Office of Foreign Assets Control, (Ofac), l’ufficio del Tesoro degli Stati Uniti dedicato a stabilire sanzioni nei confronti di beni, aziende e capitali di persone coinvolte in casi di terrorismo, riciclaggio e delitti gravi. Mahan Air, infatti, è una compagnia sanzionata dagli Usa insieme all’altra azienda aerea per il trasporto merci iraniana, Qeshm Fars Air, accusate di usare una veste civile per dare appoggio logistico alla Guardia Rivoluzionaria Iraniana, alle Forze Quds e a Hezbollah.
Nel gennaio del 2022 il Boeing viene venduto da Mahan Air all’azienda statale venezuelana Empresa de Transporte Aéreocargo del Sur, S.A. (Emtrasur) creata due anni prima per dare maggior volume al trasporto strategico di merci da e verso il Venezuela. Ma anche Emtrasur è finita nel mirino dell’Ofac, in quanto filiale della compagnia statale Conviasa, sotto sanzioni dall’epoca dell’amministrazione Trump. Per Caracas però l’acquisto di questa aeronave in particolare è strategico: si tratta di un aereo vecchio, il cui costo operativo sarebbe costosissimo per qualunque compagnia a livello mondiale, ma non per il Venezuela, che dispone di grandi quantità di combustibile a bassissimo costo, e che a causa delle sanzioni imposte da Washington è praticamente escluso dal mercato delle moderne aeronavi cargo. L’accordo con l’Iran, secondo le autorità venezuelane, includeva anche la cessione durante un anno di un gruppo di esperti incaricati dell’addestramento dei piloti del Boeing, un modello di cui la compagnia venezuelana non era in possesso e non disponeva di tecnici e piloti idonei.
Dal suo arrivo a Caracas, fino al pomeriggio del 9 giugno in cui è stato bloccato a Buenos Aires, l’aereo ha realizzato voli di trasporto merci e training in Russia, Bierlorussia, Myanmar, Nigeria, Iran, Serbia, Bangladesh, Pakistan e Paraguay. È proprio ad Asunción che è scattato l’allarme intorno alle attività dell’aereo Emtrasur. Il volo in Paraguay del 14 maggio infatti era diretto non verso la capitale, ma a Ciudad del Este, uno dei centri di contrabbando più importanti del Cono Sud e sede delle principali attività del crimine organizzato in America Latina – oltre ad esistere seri sospetti intorno alla presenza di cellule di Hezbollah nella zona.
I ricavi per l’attività di trasporto commerciale poi, non giustificavano la spesa che significava far volare un aereo di quelle caratteristiche, e l’intelligence del Paraguay cominciò a sospettare che si trattasse di una copertura per attività di spionaggio iraniane e venezuelane in Sudamerica. Il governo di Asunción decise addirittura di licenziare il direttore dell’aeroporto di Ciudad del Este ed emettere un avviso urgente diretto ai servizi segreti dei paesi limitrofi intorno all’attività dell’aereo.
Il 4 giugno 2022 l’Emtrasur YV353 parte per una nuova missione commerciale. La filiale messicana di Volkswagen, nella città di Querétaro, contratta il Boeing per il trasporto di pezzi di ricambio acquistati dall’argentina SAS Automotriz. Per ragioni climatiche, il volo è costretto a fare scalo nella città di Córdoba, dove viene registrata la sua presenza in Argentina che fa immediatamente scattare l’allarme in base all’avvertimento arrivato dal Paraguay un mese prima.
L’aereo arriva all’aeroporto di Buenos Aires, dove scarica i pezzi di ricambio ma gli viene vietato di acquistare combustibile a causa delle sanzioni statunitensi che pesano su Emtrasur e Mahan Air. A bordo l’equipaggio è composto da 14 venezuelani e 5 iraniani. Il capitano, Gholamreza Ghasemi, uomo chiave in tutta questa storia, decide allora di avviarsi verso l’aeroporto di Montevideo per rifornirsi, ma è costretto a tornare a Buenos Aires quando le autorità uruguayane gli negano il permesso di sorvolare il territorio nazionale. Al suo ritorno in Argentina lo scandalo è ormai trapelato sui media nazionali, e diversi dirigenti dell’opposizione presentano una serie di misure cautelari per impedire all’aereo di ripartire.
Intorno a Ghasemi ci sono state tantissime versioni. Secondo le prime ricostruzioni giornalistiche, piuttosto avventate, si sarebbe trattato di una spia iraniana coinvolta in una serie di attentati contro cittadini israeliani nel mondo, e che si sarebbe addirittura rifatto la faccia in una clinica cubana per attaccare in America Latina. Le ricostruzioni posteriori, molto più attendibili, rivelano invece che si tratta di un ex generale della Guardia Rivoluzionaria Iraniana, e attualmente uno dei direttori finanziari della Qeshm Fars Air, la linea aerea accusata di fungere da supporto alle Quds, le forze speciali dei pasdaran iraniani dedite alle operazioni all’estero. Non c’è stata alcuna plastica facciale di ricostruzione di identità, ma i sospetti intorno alla possibilità di un’operazione di spionaggio internazionale, dunque, diventano sempre più forti.
Il governo argentino dell’epoca, guidato dal peronista Alberto Fernandez, decise di mantenere una posizione ambigua: ha ignorato le richieste degli Usa per l’immediato sequestro e consegna dell’aereo, a cui in realtà l’Argentina avrebbe dovuto attenersi in attuazione del Convegno Internazionale per la Repressione del Finanziamento al Terrorismo firmato nel 2005; ma allo stesso tempo lasciò che la giustizia ritirasse i passaporti di tutti i membri dell’equipaggio e che l’FBI disponesse dell’aereo all’aeroporto di Ezeiza.
Nonostante le antiche simpatie del peronismo di centrosinistra nei confronti del chavismo, la situazione argentina, con un debito da 44 miliardi di dollari con Fondo Monetario Internazionale e di oltre 200 miliardi con investitori privati, il cui futuro potrebbe dirimersi nelle corti di giustizia degli Stati Uniti, per il governo l’unica soluzione di compromesso era lasciar fare alle autorità giudiziarie.
I 19 membri dell’equipaggio sottoposti ad indagine durante tre mesi in Argentina sono stati rimandati in Venezuela tra settembre e ottobre del 2022. A Caracas sono stati ricevuti come eroi.
Gli inquirenti argentini non hanno potuto addurre alcuna prova che li incriminasse per nessun delitto commesso in base alla legislazione argentina. L’aereo, messo sotto sequestro subito dopo il suo secondo atterraggio a Buenos Aires, è stato consegnato alle autorità statunitensi, una volta cambiato il governo, ancor prima della conclusione delle udienze giudiziarie del caso che continueranno la settimana prossima.
Un caso che dimostra diversi fenomeni: l’interesse iraniano a mantenere una discreta presenza in America Latina, il bisogno del governo venezuelano di costruire un’infrastruttura alternativa per le proprie operazioni internazionali, la debolezza e lentezza dell’intelligence argentina, l’efficacia della capacità di imporsi degli Usa nel loro cosiddetto “cortile di casa”.
Il Parlamento argentino boccia il progetto libertario. Milei: “Traditori del popolo”
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Alla fine, la tanto discussa “Legge Omnibus”, la mega-riforma presentata dal presidente Javier Milei che mirava a abrogare o modificare più di 300 leggi per “rifondare” l’Argentina, è stata definitivamente respinta.
A deciderne le sorti sono stati, a sorpresa, i principali alleati del presidente Javier Milei. I blocchi parlamentari di centro e centro-destra, che la settimana scorsa avevano inizialmente approvato il testo, articolo per articolo, del progetto noto come “Legge sulle basi e punti di partenza per la libertà degli argentini”, hanno successivamente rigettato uno per uno tutti i punti cardine della riforma. Quando persino gli articoli che concedevano poteri legislativi al presidente sono stati bocciati, il partito di governo, La Libertad Avanza, ha deciso di ritirare l’intero progetto.
L’atteggiamento del partito libertario nel Congresso durante l’ultimo mese ha mostrato una natura inedita per un partito che ha la responsabilità di amministrare un paese, oscillando tra dilettantismo e arroganza. Più volte i rappresentanti del governo hanno dimostrato di non conoscere nemmeno le regole di funzionamento dell’iter legislativo. E più volte i professionisti della politica, la “casta”, come li ha definiti Milei sin dal suo debutto nell’arena politica, hanno cercato di aiutarli in nome della governabilità, per non spingere nel baratro un presidente che solo tre mesi fa ha ottenuto il 56% dei voti.
I deputati del centrodestra avevano inizialmente dato il loro consenso alla famigerata Legge Omnibus nonostante gli errori colossali (anche di ortografia) con cui era stata presentata dall’estrema destra. Ma al momento del voto dei singoli articoli, i poteri forti, denigrati e insultati dal governo per settimane, hanno deciso di porre un limite a Milei.
La reazione del presidente è sicuramente preoccupante. Da Israele, dove si trovava in visita ufficiale, in una sfilza di tweet nella notte di martedì ha praticamente bombardato qualunque ponte stabilito coi settori che erano fin qui disposti ad accompagnarlo, e di cui ha assoluto bisogno: senza i voti in parlamento la motosega non può nemmeno partire.
Il profilo ufficiale dell’ufficio presidenziale ha persino pubblicato un elenco dei “traditori” che “hanno votato contro il popolo”, evidenziando i deputati che inizialmente avevano promesso di sostenere la proposta del governo ma che poi si sono opposti agli articoli fondamentali della legge. Una “lista nera” che è oggi il centro delle polemiche in Argentina, e che sembrerebbe mostrare quale sia la strada scelta dal governo Milei a soli due mesi dall’inizio del mandato.
Un esempio eloquente dell’atteggiamento ufficiale è emerso dalla ministra “del Capitale Umano”, Sandra Pettovello, che la settimana scorsa ha sfidato i leader dei movimenti sociali che protestavano contro i tagli alle mense popolari nei quartieri più poveri: “Se qualcuno ha fame, che venga direttamente nel mio ufficio e ne parli con me. Non ricevo intermediari”. Tuttavia, il giorno successivo, di fronte a una fila di tre chilometri che si è formata alle porte del ministero, ha rifiutato di ricevere le persone che chiedevano assistenza alimentare, dichiarando ai media: “Non ho convocato nessuno”.
A poche ore dal fallimento della legge cardine del progetto libertario, la deputata di La Libertad Avanza, Rocío Belén Bonacci, ha presentato un progetto per abrogare la legge sull’aborto, depenalizzato in Argentina nel 2020. Tuttavia, dopo la rapida polemica che è esplosa sui social media e sui mezzi di comunicazione, diversi deputati del suo stesso partito, il cui nome appare in calce al progetto, hanno dichiarato di non essere nemmeno a conoscenza della presentazione effettuata dalla Bonacci.
Il progetto, che impone un regime ancor più restrittivo sull’interruzione della gravidanza rispetto alla legge vigente dal 1921 fino alla legalizzazione dell’aborto quattro anni fa, arriva in un momento cruciale. Recentemente, il presidente Milei ha cercato di rafforzare i legami con le chiese evangeliche e cattolica. L’atto di tentare l’abrogazione del diritto all’aborto è interpretato come un gesto utile in vista dell’incontro di Milei con Papa Francesco il prossimo 12 febbraio.
La relazione con il Papa argentino è tesa: dopo averlo definito “il rappresentante del demonio sulla terra”, Milei ha cercato di calmare i toni, nonostante le critiche della chiesa argentina al piano economico del governo. La prossima settimana dovrebbe essere ufficializzata la nomina del nuovo ambasciatore argentino presso la Santa Sede, un lefebvrista ultraconservatore attualmente cappellano in uno dei quartieri benestanti di Buenos Aires. Durante il suo viaggio a Roma sono previsti anche incontri ufficiali con il Primo Ministro Meloni e col Presidente della Repubblica Mattarella.
Anche le chiese pentecostali hanno ricevuto attenzione dal governo nei giorni scorsi: il Ministero del Capitale Umano ha recentemente erogato 170 milioni di pesos a favore di una delle chiese evangeliche impegnate nell’assistenza sociale nella periferia della capitale. L’abrogazione dell’aborto potrebbe quindi contribuire a consolidare un nucleo di sostegno ultraconservatore al progetto di governo. In tal senso va letto anche l’annuncio fatto da Israele di voler portare l’ambasciata argentina da Tel Aviv a Gerusalemme nei prossimi mesi.
Ma la recente bocciatura del mega-progetto di Milei ha messo in luce l’incapacità preoccupante del partito al governo nel gestire un dibattito parlamentare efficace. Con soli 40 deputati su 256, il partito può contare solo sull’appoggio incondizionato di altri 40 legislatori. In queste condizioni, l’unica possibilità di far passare una legge è attraverso le negoziazioni. Tuttavia, in Argentina, questo implica stabilire interlocutori affidabili non solo in Parlamento, ma anche tra i 23 governatori delle province, ai quali molti deputati e senatori rispondono direttamente.
Il dibattito su una delle leggi fondamentali per il progetto libertario è proceduto senza negoziati solidi, senza dialogo, e nel bel mezzo di una repressione selvaggia scatenata dall’esecutivo contro i manifestanti nei pressi del Parlamento e contro i media che seguivano le proteste. A soli 60 giorni dalla sua nomina Milei sembra essersi giocato a colpi di insulti qualsiasi sostegno da parte del potere legislativo, vitale per qualunque modifica dell’assetto economico e istituzionale argentino. Lo spostamento dell’ambasciata argentina a Gerusalemme, ad esempio, dovrá essere approvato da entrambe le camere.
Attualmente, la sopravvivenza del governo di Milei dipende dunque dalla riformulazione e moderazione profonda delle proprie proposte. Un conflitto aperto con l’opposizione e gli ex alleati potrebbe esporlo persino a un impeachment e alla revoca del mandato. Tuttavia, questa situazione non conviene a nessuno in un momento così critico per l’economia e la società argentine, nemmeno all’opposizione peronista, sconquassata dopo la cocente sconfitta alle elezioni del 19 novembre.
Alcuni analisti cominciano a riflettere anche sulla possibilità di una deriva autoritaria, con una possibile sospensione dell’attività parlamentare da parte del presidente per governare tramite decreti. Tuttavia, questa opzione sembra remota, poiché l’Argentina dipende dal sostegno di organismi finanziari internazionali che non tollererebbero una rottura dell’ordine democratico. Inoltre, a differenza di altri scenari latinoamericani, il governo non può contare su un sostegno esplicito da parte delle forze armate, e la mobilitazione popolare degli ultimi giorni suggerisce che qualsiasi tentativo di golpe incontrerebbe una resistenza difficile da contenere.
Nonostante ciò, Milei sembra intenzionato a giocarsi un’ultima carta: un plebiscito. Il portavoce del governo ha già annunciato che l’esecutivo sta valutando questa possibilità per riesumare il progetto affondato in Parlamento. Tuttavia, il plebiscito è uno strumento poco utilizzato nell’ordinamento argentino, e se la consultazione è indetta dal presidente, il risultato non è vincolante. Inoltre, molti degli aspetti inclusi nella riforma già bocciata in parlamento – riforma del codice penale, riforma tributaria, mantenimento dei trattati internazionali – non potrebbero essere sottoposti a plebiscito secondo la costituzione. Sarebbe quindi una mossa politica, finalizzata a rafforzare l’idea di un’élite arroccata in Parlamento e contraria alla volontà popolare rappresentata dal presidente.
Ma anche questa via richiederebbe un grado di arguzia e brillantezza che l’estrema destra argentina finora non ha dimostrato. Il sostegno a Milei e alle sue iniziative è in picchiata da qualche settimana. Esporsi ad un plebiscito che molto probabilmente perderebbe, potrebbe solo esacerbare la crisi argentina, mentre le condizioni economiche continuano a peggiorare. L’inflazione stimata per gennaio è del 20%, di poco inferiore a quella di dicembre ma tra le più alte registrate negli ultimi 30 anni. Il peso argentino, svalutato del 50% una settimana dopo l’insediamento del governo Milei, perde valore di fronte al dollaro giorno dopo giorno. La deregolamentazione dell’economia decretata il 20 dicembre ha avuto effetti devastanti sul mercato, con prezzi alle stelle e una fortissima diminuzione del consumo.
Nelle prossime settimane, con la fine dell’estate australe, si prevede la riapertura delle negoziazioni salariali e l’inizio di una stagione di fortissimi conflitti nelle piazze, iniziando dalla “marea verde” del femminismo argentino a difesa del diritto all’aborto. Per ora, il governo non può contare sul parlamento per affrontare le sfide che lo attendono, e Milei appare sempre più isolato.
Finita la “luna di miele” tra Milei e gli Argentini?
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La tradizionale ‘luna di miele’ sperimentata dai presidenti argentini nei primi tre mesi di mandato sembra giungere al termine in anticipo per il governo di Javier Milei. Le stravolgenti decisioni economiche adottate nel corso dei primi 50 giorni di governo hanno eroso il consenso precedentemente consolidato dopo il ballottaggio del 19 novembre in cui l’economista autoproclamato “anarco-capitalista” si è imposto col 55% dei voti contro il candidato peronista, Sergio Massa.
Nel mese di dicembre, l’Argentina ha assistito all’aumento mensile dell’inflazione più significativo degli ultimi 30 anni, con una crescita superiore al 25% mensile. La variazione dei prezzi dei prodotti di prima necessità, come carne, latte e riso, è diventata una costante giornaliera sugli scaffali dei supermercati. A gennaio, l’aumento dei prezzi è giunto anche ai carburanti, con un incremento del 27% all’inizio dell’anno e un ulteriore 16% entro la fine del mese. È atteso a breve anche un aggiornamento delle rette scolastiche e universitarie, a pochi giorni dall’inizio del nuovo anno accademico.
Nel frattempo, il governo sta compiendo sforzi per impedire l’incremento dei salari, parallelamente alla liberalizzazione del mercato. Tali politiche hanno condotto al collasso dei livelli di consumo, con una diminuzione del 15% nei prodotti di prima necessità nel primo mese dell’anno e oltre il 50% nei beni di consumo duraturi. Insomma, il costo del ‘piano motosega’ implementato dal governo Milei per il risanamento dei conti argentini sta gravando sulle classi medio-basse e non sulla ‘casta’ come promesso.
Questo è sicuramente il principale motivo che spiega il calo di consensi nei confronti del governo registrato nei sondaggi per la prima volta dall’inizio dell’esperimento libertario. Attualmente, il 54,4% degli argentini ritiene che il governo stia seguendo una direzione errata, mentre il 52% “disapprova completamente” l’operato del nuovo presidente. Solo un mese fa, l’esecutivo vantava un tasso di gradimento superiore al 56%.
Questo cambiamento drastico è stato alimentato fondamentalmente dal dibattito intorno ai due principali provvedimenti governativi: il Decreto d’Urgenza del 20 dicembre e la “Legge sulle basi e punti di partenza per la libertà degli argentini”, con cui Milei ha proposto di rifondare le basi istituzionali del paese. Entrambe le proposte, attualmente in fase di esame parlamentare, mirano all’abrogazione di centinaia di leggi vigenti da decenni e all’introduzione di riforme profonde nel sistema istituzionale argentino, molte delle quali sono state respinte sin dall’inizio. La Corte Costituzionale ha infatti sospeso diversi articoli del Decreto d’Urgenza, tra cui la riforma del lavoro e la derogazione della legge sulla proprietà della terra, oltre a respingere il capitolo che avrebbe permesso l’ingresso di capitali internazionali nelle società sportive.
Un altro fronte su cui Milei ha dovuto fare un passo indietro è quello parlamentare. La sua “Legge sulle basi e punti di partenza per la libertà degli argentini”, comunemente nota come Legge Omnibus e considerata dall’esecutivo fondamentale per attuare il proprio programma, è giunta in parlamento con numerose modifiche, frutto di caotiche negoziazioni con le diverse espressioni della destra. Gli articoli sono stati ridotti da 524 a 385, e il governo è stato costretto a rinunciare al pacchetto fiscale e alla riforma elettorale inizialmente previsti.
Se approvata, la legge conferirà comunque al presidente facoltà legislative speciali per un anno, e consentirà la privatizzazione delle principali aziende statali argentine, due prerogative fondamentali per l’esecutivo. Una battaglia a parte poi è quella aperta dal presidente con la maggioranza dei governatori delle 23 province argentine, sul piede di guerra per i tagli alle partite fiscali che l’amministrazione federale cede agli enti locali.
In un mese e mezzo di governo Milei ha già dovuto chiedere le dimissioni del ministro dell’infrastruttura, Guillermo Ferraro, proprio per abbassare i toni dello scontro coi governatori che hanno un forte peso dentro al parlamento.
Anche le piazze hanno manifestato il loro dissenso nei confronti del progetto di Milei. La scorsa settimana, circa 1,5 milioni di persone hanno preso parte a proteste nelle principali città del paese contro il decreto e la Legge Omnibus, nel contesto del primo sciopero generale indetto dalla Confederazione Generale del Lavoro (CGT) il 24 gennaio scorso.
Anche il Fondo Monetario Internazionale (FMI) nutre una certa cautela riguardo al successo delle politiche di Milei. Dopo aver approvato il rilascio di un nuovo pacchetto di aiuti da 4,7 miliardi di dollari per il pagamento del debito contratto nel 2018, il FMI ha rivisto al ribasso le prospettive di crescita dell’Argentina. È prevista una contrazione del 2,8% del PIL nel 2024, con la ripresa attesa per quest’anno slittata al 2025.
Il sostegno di Washington nei confronti dell’ultraliberista Milei invece non sembra scemare. L’Ambasciatore Usa a Buenos Aires, Marc Stanley, ha recentemente sostenuto che la relazione tra i due paesi non è mai stata così forte: “è il miglior momento in 202 anni di relazioni bilaterali”.
Il piano internazionale è forse quello in cui si esprime in modo più esplicito il progetto libertario
argentino. Dopo il celebre discorso di Davos, elogiato vivamente da Elon Musk e Donald Trump, e dopo aver raffreddato la relazione con Pechino, Milei ha addirittura definito “un comunista assassino” il presidente della Colombia Gustavo Petro, aprendo l’ennesima crisi diplomatica con un paese della regione e mettendo in evidenza la propria posizione ideologica.
Ma le critiche ricevute all’estero non sembrano scalfire l’esecutivo argentino, concentrato invece in queste ore a comporre un blocco di appoggio tra parlamento, giustizia e governatori. Un compito non semplice, e da cui dipende buona parte del futuro dell’esperimento Milei in Argentina.
America Latina: il pericoloso declino della democrazia
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Le recenti tendenze registrate in diversi paesi latinoamericani hanno riaperto il dibattito intorno alla tenuta democratica delle istituzioni della regione.
In Perù, tutti i presidenti eletti dal 2016 sono stati deposti, e l’attuale presidente Dina Boluarte vanta il sostegno più basso della regione. L’elezione di Javier Milei in Argentina, e la sua promessa di “dare fuoco” alla banca centrale e “schiacciare tutti i collettivisti di merda” ha acceso l’allarme in un paese la cui classe politica è da anni in preda ad una crisi di fiducia fenomenale. In Ecuador, dopo le dimissioni del presidente Guillermo Lasso nel 2023 e l’elezione di Daniel Noboa nell’ottobre scorso, le istituzioni subiscono il gravissimo attacco da parte della criminalità organizzata che lo stato affronta con la sospensione di buona parte delle libertà individuali. In Guatemala, gli esponenti del sistema politico sconfitto alle elezioni del 2023 hanno provato in ogni modo ad evitare l’insediamento del presidente eletto Bernardo Arévalo, scatenando anche reazioni internazionali in difesa della democrazia guatemalteca. Nel Salvador, il presidente Nayib Bukele è riuscito ad ottenere una moratoria dalla corte costituzionale, da lui nominata, per scavalcare la costituzione e presentarsi alle elezioni del 4 febbraio, in un paese in “stato d’eccezione” dal marzo del 2022. L’inasprimento della repressione in Nicaragua e l’incertezza sulle elezioni presidenziali previste per quest’anno in Venezuela gettano un’ulteriore ombra sul ripristino dello status di democrazie liberali in quei paesi.
L’ultimo Democracy Index elaborato da The Economist mostrava già una tendenza preoccupante: nella regione, solo Uruguay, Costa Rica e Cile sono considerate democrazie a pieno titolo, mentre Panama, Argentina, Brasile, Colombia e Repubblica Dominicana appaiono come democrazie incomplete. Sono 8 i regimi considerati ibridi (Perù, Paraguay, Ecuador, Messico, Honduras, El Salvador, Bolivia e Guatemala) e 4 i regimi autoritari (Haiti, Cuba, Nicaragua, Venezuela). Quindi, secondo The Economist – le cui tendenze e parzialità di stampo ideologico sono comunque rilevanti quando si tratta di America Latina – il 60% dei paesi latinoamericani non può essere considerato democratico.
Il fenomeno risulta ancor più sostanziale quando ci si sposta sul versante dell’opinione pubblica e della percezione che in America Latina si ha della democrazia e i suoi benefici. Secondo l’ultimo report del Latinobarometro, solo il 48% dei latinoamericani si dice sostenitore di un sistema democratico in assoluto, una caduta del 15% rispetto al 2010. I sostenitori di un “modello autoritario” per risolvere i pressanti problemi dei paesi latinoamericani si collocano intorno al 17% della popolazione, una percentuale tendenzialmente invariata negli ultimi 20 anni. Mentre crescono in modo allarmante coloro per i quali “è indifferente” il mantenimento di un sistema democratico, il 28%.
Il dato, già di per sé preoccupante, risulta ancor più sorprendente quando si analizzano i risultati scaglionati per età: nella fascia tra i 15 e i 25 anni il sostegno alla democrazia “in qualunque caso” scende al 43% e cresce l’appoggio a soluzioni autoritarie “in alcuni casi” fino al 20,1%. Più del 30% dei giovani latinoameriani tra 15 e 40 anni dichiarano di non avere preferenza alcuna tra un sistema democratico e uno autoritario.
Gli esperti del Latinobarometro hanno individuato quattro caratteristiche comuni alla maggior parte dei regimi democratici latinoamericani che ne compromettono l’efficacia, e che spiegherebbero dunque questi risultati. In primo luogo i personalismi, e dunque la trasgressione o forzatura delle norme da parte di presidenti e governatori per poter estendere i propri periodi al potere, come successo nel caso di Rafael Correa in Ecuador, Evo Morales in Bolivia, Orlando Hernandez in Honduras o più recentemente Nayib Bukele nel Salvador. I casi di corruzione, endemici nel continente, sono un altro fattore che intacca la fiducia dei cittadini nei confronti della democrazia: dal 1990 ad oggi sono 22 i presidenti latinoamericani condannati per casi di corruzione. Nello stesso periodo si sono verificati 22 casi di presidenze interrotte, considerate un altro motivo dello sgretolamento della fiducia nei confronti della democrazia nel continente.
A differenza dei sistemi parlamentari europei, dove le crisi di governo sono contemplate e istituzionalizzate nel sistema democratico, per i presidenzialismi latinoamericani la caduta del governo significa un evento traumatico, con ricadute dirette ed immediate nella vita quotidiana dei cittadini, specialmente in ambito economico.
Colpi di stato, impeachment, dimissioni impreviste, sono considerate rotture del contratto democratico stabilito con l’elezione popolare, che se ripetute nel tempo, compromettono la fiducia popolare alla democrazia.
Infine, secondo il Latinobarometro il fenomeno sempre più diffuso della presenza di presidenti ad interim, non votati direttamente dai propri rappresentati, funge da ulteriore elemento di distacco nei confronti delle istituzioni. Solo per citare alcuni esempi si ricorda il caso di Federico Franco in Paraguay (2012), Michel Temer in Brasile (2016) o l’attuale presidente del Perù, Dina Buluarte. Tutti casi di vicepresidenti che, una volta giunti al potere, hanno attuato una politica diametralmente opposta a quella voluta dai presidenti eletti e poi deposti dal parlamento.
Tutto questo dà ossigeno a fenomeni che intaccano ulteriormente la fiducia nelle istituzioni democratiche. Il Centro Studi Internazionali dell’Università Cattolica del Cile (CEIUC) ha recentemente pubblicato il suo 4º report sui pericoli per la politica continentale, in cui individua anche un serio problema nell’avanzata del populismo autoritario nel continente. “Una profonda crisi di rappresentanza sta intaccando la fiducia nei partiti politici tradizionali e spostando le aspettative verso nuovi leader con scarsa struttura ed esperienza di gestione che impediscono loro di avere solide basi per la governance”, sostengono gli esperti del CEIUC.
“Le proteste in America Latina hanno avuto un denominatore comune: sfiducia nella classe politica, alti livelli di malessere economico e democrazie che non sono in grado di elaborare i problemi politici e sociali” aggiunge il rapporto.
Assistance (IDEA) con sede a Stoccolma sottolinea che durante il 2023 in alcuni paesi come Cile, Ecuador, El Salvador, Honduras, Messico e il Perù, i leader hanno fatto ricorso alla crescente militarizzazione e agli stati di emergenza come un modo per affrontare i crimini violenti, intaccando così anche i diritti democratici della popolazione. Nel 2022 un totale di 10 paesi della regione hanno sperimentato un notevole declino dei fattori della libertà di espressione, della libertà di stampa o della libertà di associazione e assemblea.
Svolta in Guatemala: il nuovo governo contro il “pacto de corruptos”
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Dodici ore è durata la cerimonia di insediamento del socialdemocratico Bernando Arévalo come nuovo presidente del Guatemala domenica scorsa. E non perché il nuovo capo di stato si sia dilungato in discorsi interminabili – come in passato ci hanno abituato altri leader latinoamericani come Fidel Castro o Hugo Chávez -, ma per i sotterfugi messi in atto dalla maggioranza parlamentare uscente per impedirgli di iniziare il mandato.
In migliaia si sono riversati nella piazza della Costituzione questa domenica, luogo simbolo dell’ascesa di Arévalo, dove nel 2015 si è formato il suo Movimiento Semilla al calore delle manifestazioni anticorruzione che hanno obbligato alle dimissioni l’allora presidente Otto Perez Molina.
La mobilitazione sociale a favore del nuovo presidente è stata una costante sin dalla notte del 25 giugno, quando il candidato del centrosinistra è riuscito a forzare contro tutti i pronostici un secondo turno contro l’ex first lady Sandra Torres. Arévalo, che durante tutto l’anno precedente si era mantenuto intorno al 5% nei sondaggi in vista delle presidenziali, si è trasformato così nel candidato anti-establishment al ballottaggio del 20 agosto, e l’intero sistema istituzionale ha fatto di tutto per impedire la sua vittoria.
La magistratura, che aveva approvato la sua candidatura proprio perché si trovava nei gradini più bassi dei sondaggi pre-elettorali, ha contestato la legalità dello status giuridico del suo partito poche ore dopo la conferma del secondo posto alle generali di giugno. La procuratrice generale, Consuelo Porras, considerata dal Dipartimento di Stato Usa il tassello chiave del sistema corrotto del Guatemala, ha lanciato una vera e propria crociata per impedire prima la presentazione di Arévalo al secondo turno, e poi il suo insediamento.
Dopo la schiacciante vittoria contro Torres, la procura ha perquisito il Tribunale Supremo Elettorale, sciolto il Movimiento Semilla, i cui deputati hanno dovuto giurare questa domenica come “indipendenti”, ha sequestrato tutta la documentazione che provava la vittoria di Arévalo alle elezioni e ha accusato il presidente eletto di brogli. A metà dicembre la procura ha addirittura tentato di togliere l’immunità giudiziaria di cui gode il presidente eletto a causa del suo sostegno all’occupazione della Universidad de San Carlos de Guatemala da parte di un gruppo di studenti vicini al Movimento Semilla.
Porras, recentemente designata “personaggio corrotto del 2023” dallo Organized Crime and Corruption Reporting Project, è ad oggi la principale esponente di quel che in Guatemala si conosce come “el pacto de corruptos”, e che mantiene nelle proprie mani da anni i principali poteri dello stato.
Dopo il terremoto suscitato dalle dimissioni di Perez Molina, l’élite tradizionale ha ricomposto il proprio potere, e nel 2016 ha sancito l’espulsione della Commissione delle Nazioni Unite contro l’Impunità in Guatemala, che dal 2007 aveva mostrato buoni risultati nel perseguire la trama corrotta della politica locale. Da allora, decine di magistrati, giornalisti ed attivisti guatemaltechi sono stati arrestati o costretti all’esilio.
L’elezione di Arévalo rappresenta dunque una svolta epocale, mossa soprattutto dal voto di protesta espresso nelle urne nel 2023, e supportato dalle grandi manifestazioni di massa a difesa del risultato elettorale nei mesi successivi. Anche il sostegno internazionale in difesa della democrazia in Guatemala è risultato determinante. La stessa domenica, in mezzo alle dilazioni messe in atto dal parlamento uscente per evitare l’insediamento del nuovo governo, il segretario dell’Organizzazione degli Stati Americani (OEA), Luis Almagro, e l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, sono dovuti intervenire pubblicamente a difesa del presidente eletto, chiedendo al parlamento di deporre l’atteggiamento golpista assunto durante la giornata.
Un sostegno sicuramente decisivo è stato quello della Casa Bianca. A dicembre Washington ha sospeso i visti di circa 300 guatemaltechi tra cui 100 deputati, accusati di ostacolare il passaggio di consegne dal presidente uscente Alejandro Giammatei ad Arévalo, e di minare lo stato di diritto. Le sanzioni applicate dagli Usa hanno avuto il loro effetto: i legislatori eletti hanno abbandonato l’ostracismo dei loro predecessori ed hanno addirittura approvato l’elezione del trentunenne progressista Samuel Perez, strettissimo collaboratore di Arévalo, come presidente della camera.
Per Biden risulta fondamentale poter contare su un’amministrazione amica in Guatemala, principale economia centroamericana sul cui territorio passano tutti i flussi migratori latinoamericani diretti in Messico e da lì in Texas. Gli stati Uniti hanno già annunciato un programma da 200 milioni di dollari nella regione per rafforzare le istituzioni locali e hanno promesso ad Arévalo la loro stretta collaborazione.
Non si può però pensare che il nuovo presidente del Guatemala sia un fedelissimo della Casa Bianca. Figlio dell’ex presidente Juan José Arévalo, il primo ad essere democraticamente eletto nel 1945, il nuovo capo di stato del Guatemala è nato in realtà in Uruguay, dove suo padre si è recato in esilio dopo il colpo di stato voluto dalla CIA nel 1954 per deporre il suo successore, Jacobo Árbenz.
Il sostegno da parte di Usa, UE, OEA, storicamente restie a dare il loro beneplacito agli esperimenti progressisti e di sinistra in America Latina, risponde soprattutto alla necessità di rifondare le istituzioni guatemalteche in mano da anni a settori corrotti della destra liberal-conservatrice, e divenute ormai un interlocutore inaffidabile in una delle zone più calde del continente.
Arévalo inoltre dista dall’essere un leader populista: formatosi in Israele, Paesi Bassi e Svizzera, si è costruito una solida reputazione come accademico, diplomatico e cooperante nei processi di pace centroamericani. Il suo è un programma moderato, ben accolto a livello internazionale e che ha ricevuto l’approvazione da parte delle principali organizzazioni di imprenditori del Guatemala e dell’America Centrale.
Nel suo discorso di insediamento il nuovo capo di governo ha sottolineato anche il bisogno della partecipazione dei quattro popoli originari principali del Guatemala, Maya, Xinka, Garífuna e Ladino, che compongono la maggioranza della popolazione in termini statistici, ma sono stati storicamente lasciati fuori dalle decisioni intorno ai processi politici ed economici più significativi del paese.
Proprio le comunità indigene sono state la punta di lancia del movimento che si è lanciato nelle strade e nelle piazze del Guatemala in difesa del risultato delle elezioni del 20 agosto, e buona parte dei loro rappresentanti hanno seguito il discorso di Arévalo dalla piazza davanti al Ministero Pubblico, dove portavano avanti un sit-in di protesta da 105 giorni.
Ma nonostante l’ampio spettro del suo sostegno politico, le sfide che attendono Arévalo sono molto impegnative. Otre ad essere pervaso dalla corruzione e dal crimine organizzato, il Guatemala è anche un paese con gravissime difficoltà socio-economiche, dove il 55,2% della popolazione vive sotto la soglia della povertà ed il 70% dei lavoratori si trovano nella precarietà. L’1% più ricco possiede quanto la metà dei 18,4 milioni di guatemaltechi e le rimesse dei migranti che risiedono negli Usa rappresentano il 19,8% del Pil nazionale.
Il programma di rifondazione delle istituzioni dello stato che ha suscitato grandi speranze in tutta la regione, dovrà dunque garantire anche un miglioramento concreto nelle condizioni di vita dei cittadini, se vuole sostenere, nel medio termine, la primavera iniziata a metà dell’anno scorso con la schiacciante vittoria elettorale.
Ecuador: esplode la guerra narco
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Questo martedì 9 gennaio le gang narco dell’Ecuador hanno deciso di mostrare al paese e al mondo tutta la loro forza. La giornata è iniziata con una serie di esplosioni a Esmeraldas, Cuenca, Loja, la capitale Quito e Guayaquil, principale distretto finanziario. Distrutti ponti, incendiate volanti della polizia e postazioni di controllo delle forze dell’ordine in tutto il paese. Nel primo pomeriggio bande armate hanno fatto irruzione nell’università di Guayaquil con l’obiettivo di prendere ostaggi. Nel frattempo, un altro commando prendeva il controllo degli studi televisivi di TC Canal 10, sequestrando in diretta tutti i lavoratori dell’emittente e provocando il panico a livello nazionale ed internazionale.
La crisi era stata innescata già domenica sera, dopo la conferma da parte del comandante Generale della Polizia ecuadoriana della fuga di Adolfo Macías Villamar, alias “Fito”, boss del gruppo narco conosciuto come Los Choneros e condannato a 34 anni di carcere.
Villamar e il suo gruppo erano venuti a sapere di un imminente trasferimento dei principali capi delle gang ecuadoriane dal carcere di Guayaquil, da dove continuano a dirigere indisturbati le azioni delle proprie organizzazioni, al penitenziario di massima sicurezza di La Roca. È lo stesso motivo per il quale anche Fabricio Colón Pico, leader dell’altra grande banda criminale attiva nel paese, Los Lobos, è scappato da un carcere al sud di Quito questo stesso martedì assieme a 38 membri del clan. La fuga di “Fito”, ennesimo smacco all’ormai smunto e profondamente corrotto sistema carcerario ecuadoriano, ha scatenato una raffica di operazioni della polizia penitenziaria, che a loro volta hanno provocato una serie di rivolte nelle prigioni di tutto il paese. Un centinaio di agenti sono stati presi in ostaggio durante la notte di domenica.
La risposta del presidente Daniel Noboa è stata la dichiarazione dello stato d’emergenza in tutto il paese: applicato un coprifuoco dalle 23 alle 5 di mattina su tutto il territorio nazionale per 60 giorni, sospese le garanzie costituzionali di inviolabilità di domicilio e della corrispondenza nel caso dei detenuti; stabilite zone speciali di urgenza nei perimetri delle carceri di tutto il paese per permettere alle forze armate di assumerne il controllo.
Non sono certo misure eccezionali in Ecuador. Il presidente uscente, Guillermo Lasso, in soli 30 mesi di mandato presidenziale ha dichiarato lo stato d’emergenza 20 volte. Questa volta però il presidente Noboa, il più giovane della storia dell’Ecuador e al potere da soli tre mesi, ha incluso le 22 bande narcos attive sul territorio nazionale nella lista delle organizzazioni terroriste, permettendo così l’azione diretta delle Forze Armate nella loro repressione.
È dovuto proprio a questo il terrore scatenato martedì. Il governo Noboa, che aveva fatto della sicurezza uno dei suoi punti forti nella campagna elettorale, ha decretato martedì sera lo Stato di Conflitto Armato Interno, indicando i gruppi narcos non solo come organizzazioni terroriste, ma come “attori non statali belligeranti”. Una dichiarazione di guerra.
La situazione straordinaria ha suscitato tale commozione che anche il frammentato e litigioso arco politico ecuadoriano ha messo da parte le annose controversie che paralizzano le istituzioni ecuadoriane per stringersi intorno al presidente, le forze armate e la polizia. Nel pomeriggio il leader dell’opposizione ed ex presidente in esilio a Bruxelles, Rafael Correa, ha inviato un messaggio chiamando all’unità nazionale e ad offrire sostegno incondizionato al governo nella lotta contro i narcos. In tarda serata, tutti i gruppi parlamentari hanno emesso un comunicato in tal senso, assicurando altresì la emanazione di amnistie nei confronti dei membri delle forze armate e forze dell’ordine coinvolti “nell’eliminazione” delle gang e i loro membri.
La situazione in Ecuador suscita forte preoccupazione internazionale da diversi anni. Incastonato tra i due principali produttori di cocaina a livello mondiale, Colombia e Perù, il paese è passato nell’ultimo decennio da essere un territorio di transito di parte del traffico di stupefacenti, al principale hub di distribuzione della cocaina sudamericana verso gli Usa e l’Europa. Questo processo, che ha portato le organizzazioni criminali ecuadoriane a controllare una fetta di potere sempre più grande nelle istituzioni locali, è stato possibile grazie ad una serie di caratteristiche che hanno reso l’Ecuador un paese chiave nelle rotte della coca.
A inizio degli anni 2000, e dopo il collasso del sistema bancario ecuadoriano, il governo decise di abbandonare la propria moneta nazionale per assumere il dollaro come moneta corrente. La “dollarizzazione” dell’economia ecuadoriana però ha reso il paese anche più attraente per i traffici illegali, perché rende più semplice il riciclaggio di denaro in una valuta internazionale. A questo si aggiungono i cambiamenti nel mondo del narcotraffico colombiano suscitati prima dalla guerra totale scatenata alla fine degli anni ’90 contro le guerriglie, che ha obbligato parte del crimine organizzato colombiano a spostarsi direttamente sul territorio ecuadoriano; e poi dall’accordo di pace tra il governo e le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia, che ha modificato radicalmente l’assetto interno del controllo territoriale dei gruppi armati nel paese vicino.
Il vuoto di potere creato dalla smobilitazione delle Farc è stato colmato dai cartelli messicani, la mafia albanese e altri gruppi internazionali che hanno stretto collaborazione con le gang attive nell’Ecuador. Un paese che inoltre soffre da anni di una grande debolezza istituzionale, che si evince nell’ampia rete di corruzione presente a livello nazionale. Le organizzazioni criminali hanno puntato a piegare ai propri interessi i settori su cui hanno bisogno di maggior controllo: il sistema carcerario, i porti e le frontiere. La debolezza statale nella lotta alla corruzione è talmente grande che le gang hanno potuto diversificare le proprie attività anche ad altri campi. Nella provincia settentrionale di Imbabura, ad esempio, Los Lobos gestiscono da anni una fiorente miniera d’oro con la connivenza delle autorità locali e dipartimentali.
La rapida crescita del ruolo dell’Ecuador nel narcotraffico internazionale si è potuta rilevare espressamente nell’aumento vertiginoso della quantità di cocaina sequestrata al largo delle sue coste negli ultimi anni: dalle 63 tonnellate confiscate nel 2015 si è passati al record di 210 tonnellate del 2021. L’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine ha segnalato che l’Ecuador ha raggiunto il terzo posto a livello globale per quantità di cocaina sequestrata, dopo Usa e Colombia.
Un business vastissimo, che ha provocato la crescita delle organizzazioni legate al traffico di droga con conseguenze prevedibili: il sovraffollamento carcerario e la guerra tra gang rivali per il controllo degli affari più succulenti. Le carceri ecuadoriane sono ormai fuori controllo da diversi anni. Dal 2020 ad oggi sono quasi 500 i morti dovuti a rivolte o attacchi mirati dentro alle prigioni in Ecuador. Nel settembre 2021 il penitenziario Regionale di Guayaquil ha subito un attacco con missili sparati da droni telecomandati a distanza. Pochi giorni prima, uno scontro tra gang rivali nel penitenziario El Litoral aveva provocato il peggior massacro nella storia del paese, con 123 morti.
La violenza, inedita in un paese come l’Ecuador, ha preso il sopravvento anche nelle strade delle principali città, soprattutto nella zona costiera. L’indice di omicidi ogni 100.000 abitanti è passato da 6 nel 2018 a 43 nel 2023, catapultando il paese nel top 3 dei paesi più violenti dell’America Latina e uno dei più violenti del mondo. In alcuni quartieri di Guayaquil, la città più popolosa del paese, e nel dipartimento di Los Rios, l’indice supera i 100 omicidi per ogni 100.000 abitanti. Una violenza che non risparmia nessuno: proprio durante la campagna elettorale che si è conclusa con la vittoria di Noboa ad ottobre, sono stati uccisi otto candidati, tra cui l’aspirante alla presidenza Fernando Villavicencio, che nei sondaggi precedenti al voto vantava un appoggio superiore a quello dell’attuale presidente.
La risposta del governo di Noboa alla crisi in corso non rappresenta novità alcuna, e molti esperti a livello continentale avvertono che la militarizzazione e la “guerra contro il narco” sono irrimediabilmente destinate ad aggravare la situazione. I casi di Colombia e Messico sono gli esempi più chiari in questo senso. Ma è la mancanza di un piano alternativo al dispiegamento e uso della forza quel che più preoccupa.
Lo stesso Noboa ha abbandonato le proposte legate all’assistenza sociale e all’allargamento del welfare per contrastare il crimine organizzato subito dopo l’uccisione di Villavicencio, per abbracciare invece la risposta militarista. Il suo mandato però è breve, solo 16 mesi, in quanto la sua presidenza conclude in realtà quella del dimissionario Lasso. Difficile dunque pensare che il paese possa imboccare una strada solida per uscire dalla situazione attuale in così poco tempo, e meno ancora con le ricette di sempre.
Nuova crisi migratoria mette alla prova le elezioni in Messico e Stati Uniti
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È partita il 24 dicembre scorso da Tapachula, città dello stato messicano del Chiapas al confine col Guatemala, una nuova carovana di migranti latinoamericani verso la frontiera sud degli Stati Uniti. Sono circa 10.000, provenienti da dodici stati diversi del continente con l’intenzione di attraversare i 1.600 chilometri che li separano dal Texas a piedi.
“L’Esodo della Povertà”, come è stata battezzata questa nuova carovana, è solo l’ultimo esempio di un fenomeno che quest’anno ha battuto tutti i record. Era dal 2001 che non si vedevano flussi così massicci di migranti a ridosso della frontiera sud degli Usa. Solo in territorio messicano, il numero di persone detenute dalle autorità è salito del 71% quest’anno rispetto al 2022, trasformando così il paese nel terzo stato al mondo per quantità di richiedenti asilo secondo dati dell’Acnur.
Il governo di Andrés Manuel López Obrador ha pubblicato a inizio dicembre una serie di stime secondo le quali circa 2,2 milioni di persone hanno cercato di attraversare la frontiera tra gennaio e novembre 2023. Tra novembre e dicembre poi, i passaggi illegali hanno toccato un nuovo picco storico, e le autorità del Texas hanno ordinato la chiusura di due passi ferroviari provocando anche le accese proteste delle camere di commercio di entrambi i paesi.
Il governatore Greg Abbott ha firmato altresì la settimana scorsa una delle leggi anti-migratorie più dure della storia del paese, che permette alle forze dell’ordine di arrestare le persone “sospettate” di essere entrate illegalmente nel paese. Lopez Obrador ha criticato duramente la misura, che ha giudicato inumana, e ha invitato i messicani residenti negli Usa a non votare né per Abbot né per il governatore della Florida, Ron DeSantis, i candidati più conservatori alle primarie repubblicane di quest’anno che disputeranno la candidatura presidenziale contro Donald Trump.
Proprio la questione immigrazione tiene banco oggi nel dibattito politico a Washington in vista delle elezioni di novembre. Il Partito Repubblicano mantiene bloccato nel Congresso il progetto per l’invio di un nuovo pacchetto di aiuti per l’Ucraina, per obbligare la Casa Bianca a prendere misure urgenti per frenare i flussi provenienti dal Messico. Dal canto suo il presidente Joe Biden sa che senza una politica solida in quest’ambito, le sue già scarse aspirazioni per la rielezione alle presidenziali di novembre sono ancora più deboli.
Sono ormai diversi i think tank che chiedono lo stabilimento di una strategia a lungo termine su questo dossier. Per ora, il 68% degli statunitensi sostiene che l’immigrazione, sebbene comporti problematiche sociali, sia in ogni caso positiva per il paese. Ma la campagna repubblicana sta obbligando l’amministrazione Biden a mostrarsi più rigida nei confronti dei Latinos che oltrepassano il confine illegalmente.
Anche Lopez Obrador si vede obbligato ad agire in questo senso in vista delle presidenziali messicane di giugno. Sebbene il suo partito Movimiento de Regeneración Nacional (Morena) sia ampiamente favorito, e non sia lo stesso Lopez Obrador il candidato, la questione migranti e soprattutto l’azione dei gruppi narcos nelle rotte verso gli Usa mettono in luce uno dei tanti punti deboli della gestione del centrosinistra. È così che si può comprendere l’urgenza con cui è stato indetto l’incontro bilaterale di mercoledì a Città del Messico, a cui hanno partecipato lo stesso Lopez Obrador, il segretario di stato Anthony Blinken, il Segretario per la Sicurezza interna Usa Alejandro Mayorkas e la consulente per la sicurezza nazionale della Casa Bianca Liz Sherwood-Randall.
Sebbene non siano state ancora annunciate misure concrete, le dichiarazioni di entrambe le parti esprimono soddisfazione. Biden rafforzerà la frontiera con altri 1.300 agenti, mentre il Messico prenderà provvedimenti per frenare il flusso proveniente dal Guatemala, come nel caso dell’Esodo della Povertà. Già la settimana scorsa i due governi avevano mantenuto un dialogo telefonico intorno alla questione migranti. López Obrador si era impegnato a rafforzare i controlli nella frontiera sud col Guatemala e a collaborare con le autorità statunitensi al nord per contenere la possibile emergenza umanitaria dovuta all’aumento dei flussi e dei respingimenti.
La questione però è tutt’altro che risolta, e gli effetti sulla geopolitica regionale sono sempre più evidenti. Il Census Bureau degli Stati Uniti ha pubblicato un rapporto in cui sostiene che la popolazione statunitense è aumentata di 1,6 milioni di persone durante il 2023. Ma l’incremento demografico è spiegato fondamentalmente dal fenomeno migratorio: due terzi dei nuovi abitanti del paese sono migranti, anche se il numero è sicuramente superiore visto che il report non tiene conto dei residenti irregolari o non documentati ufficialmente.
Anche dal punto di vista economico si tratta di un fenomeno molto rilevante per il Centro e Nord America. Le rimesse degli emigrati dagli Usa verso i 24 paesi latinoamericani hanno raggiunto quest’anno i 158 miliardi di dollari, un 9% in più rispetto allo scorso anno. Per alcuni paesi centroamericani come Guatemala, Honduras o El Salvador, il denaro inviato dai migranti negli Usa rappresenta più del 20% del loro Pil.
Intanto il fenomeno socio-culturale della migrazione cambia rapidamente, mentre le autorità di entrambi i paesi agiscono sempre più lentamente. Un recente articolo del New York Times analizza una nuova tendenza sorta nella comunità migrante latinoamericana a partire dalla diffusione dell’uso dei social tra chi intraprende il viaggio verso il territorio Usa. Sono sempre più popolari i consigli e gli esempi di traversate pubblicati da veri e propri influencer che hanno reso sempre meno necessaria l’intermediazione di traghettatori e gruppi criminali dedicati al trasporto di migranti. La pubblicazione di materiali di questo tipo potrebbe spiegare in piccola parte l’aumento dei flussi nell’era post-pandemia.
Insomma, la prossimità elettorale e la forza con cui i conservatori negli Usa esercitano pressione per contrastare le migrazioni latinoamericane hanno riacceso l’emergenza in un ambito in continua espansione. Sebbene presente nell’agenda geopolitica della regione da decenni, gli ultimi avvenimenti confermano che non esiste ancora un consenso intorno a come affrontare i problemi legati al flusso migratorio, che risultano sempre più incalzanti.
La “nuova Argentina” a colpi di decreto
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Il presidente argentino Javier Milei ha firmato mercoledì sera il maxi-decreto che pone le basi istituzionali del progetto politico libertario. Si tratta di una vera e propria demolizione dell’assetto economico e giuridico costruito nel paese sudamericano durante gli ultimi 40 anni.
Milei ha fatto ricorso a un Decreto d’Urgenza, uno strumento costituzionale pensato per affrontare situazioni di calamità ed emergenza. Il governo, sostiene il preambolo del decreto pubblicato giovedì 21 sulla gazzetta ufficiale, ritiene che la situazione socio-economica in cui versa il paese sia catastrofica, a tal punto da dichiarare lo “stato d’emergenza pubblica” in materia economica, finanziaria, fiscale, amministrativa, previsionale, tariffaria, sanitaria e sociale fino al 31 dicembre 2025.
Il Presidente si arroga così la facoltà di abrogare ed emendare circa 300 leggi in vigore, misura che apre in soli dieci giorni di governo un aspro fronte giudiziario, vista la cascata di ricorsi promessi da tutto l’arco politico contro il decreto. Ma oltre alla forma, a colpire particolarmente è il contenuto del diktat imposto mercoledì notte.
L’ambito più colpito è quello dei diritti del lavoro. Abrogate le norme sul licenziamento senza giusta causa, ridotti i contributi padronali e le liquidazioni, riformata la legge sui contratti collettivi, limitati il diritto di assemblea e il diritto di sciopero. Vengono dichiarati settori essenziali non solo sanità e trasporti, ma anche istruzione, gastronomia, alberghieri, industria siderurgica, produzione alimentare, servizi finanziari, attività mineraria e molti altri, che dovranno garantire un servizio compreso tra il 50% e il 75% della capacità produttiva in caso di sciopero.
I lavoratori di aziende composte da cinque o meno persone non saranno più considerati dipendenti ma collaboratori, perdendo di fatto tutti i diritti connessi alla legge sul lavoro. A questo si aggiungono le abrogazioni delle leggi di promozione industriale e commerciale, che garantivano incentivi statali alle imprese dei settori più deboli della produzione industriale argentina, o legate alle economie regionali (zucchero, yerba mate, olive ecc…).
Il decreto impone a tutte le società dello stato di costituirsi come società per azioni, per la loro successiva messa in vendita. Un capitolo speciale è dedicato alla linea aerea nazionale, Aerolíneas Argentinas, che non verrà più considerata “azienda di utilità pubblica” e il cui pacchetto azionario verrà ceduto ai propri impiegati, una possibilità che il sindacato dei lavoratori del trasporto aereo aveva già rifiutato più volte.
Abrogata anche la legge sugli affitti, che saranno fissati a partire dalla “libera negoziazione” tra inquilini e proprietari, e tutte le norme che stabilivano limiti ai prezzi dei beni di prima necessità. Il decreto concede anche uno dei principali desideri dell’ex presidente Mauricio Macri, la costituzione delle cosiddette “Società Sportive”, e quindi lo sbarco dei capitali privati stranieri nei club calcistici di serie A.
Abrogata la legge di approvvigionamento, “in modo che lo Stato non violi mai più il diritto di proprietà degli individui”, ha spiegato Milei.
La reazione nelle strade non si è fatta attendere. Proprio come nella notte del 20 dicembre del 2001, quando le strade di Buenos Aires si sono riempite di migliaia di persone che battevano le loro pentole in segno di protesta contro le misure ultra-liberiste del governo di Fernando de la Rúa, così ventidue anni dopo sono stati in migliaia a far sentire il loro disappunto una volta concluso il messaggio del Presidente.
Il cacerolazo, – da cacerola, pentola – si è fatto sentire in tutto il paese fino a notte fonda, e nella piazza del Congresso della Repubblica è partita una manifestazione spontanea molto nutrita. Le principali centrali sindacali del paese, già sul piede di guerra dopo la presentazione, settimana scorsa, del protocollo che criminalizza chi intralcia il traffico durante una manifestazione, hanno già avvertito che prenderanno misure serie contro il maxi-decreto. Per il 22 dicembre è già previsto uno sciopero degli impiegati pubblici.
La discussione si sposterà ora in Parlamento, dove il governo conta solo su uno sparuto numero di legislatori. Il decreto dovrà essere esaminato dalla Commissione Bicamerale dedita a convalidare le dichiarazioni di stato d’emergenza, che in dieci giorni dovrà girare il proprio parere alla Camera. I deputati avranno poi altri 10 giorni per approvare o rifiutare in toto le 300 riforme incluse nel documento.
Nel caso dei decreti d’urgenza basta l’approvazione di una delle due Camere per l’applicazione definitiva, ma basta anche che nessuna Camera lo tratti nei 10 giorni previsti dalla legge per dargli corso permanente. Milei conta dunque su tre settimane chiave, nel pieno delle vacanze estive, per trovare una soluzione sul fronte parlamentare.
Remota la possibilità di un voto favorevole di maggioranza. Il decreto dovrebbe ricevere il sostegno di tutti i partiti da centro verso destra per essere approvato, e alcuni dirigenti si sono già espressi in senso contrario. Difficile anche il sostegno da parte del peronismo, considerato “l’origine di tutti i mali del paese” da Milei e i suoi.
Più probabile invece una strategia basata sull’ostruzionismo: sebbene non siano disposti ad accompagnare direttamente “Le basi per la ricostruzione economica argentina”, com’è stato intitolato il decreto, molti deputati potrebbero non presentarsi in aula per evitare che si arrivi al numero minimo previsto per il trattamento delle leggi, e lasciare che sia la Corte Suprema ad esprimersi sulla legalità del contenuto.
La strategia include anche la presentazione di una cascata di riforme da discutere nei prossimi giorni in entrambe le Camere, un’agenda difficilissima da seguire per l’opinione pubblica, a da cui Milei spera di trarre vantaggio anche solo per far passare buona parte delle sue proposte legislative.
Argentina: al via il “piano motosega” di Javier Milei
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Non c’é alternativa. Così ha giustificato il neoministro dell’economia, Luis Caputo, le drastiche misure di austerity decise quarantotto ore dopo l’insediamento del presidente Javier Milei in Argentina.
Caputo è apparso in un videomessaggio diffuso martedì sera cercando di spiegare il più pedagogicamente possibile uno dei piani economici più conservatori mai attuati nella storia recente del paese.
Fissato a 800 pesos il valore del dollaro, valuta di riferimento per l’intera economia argentina, più del doppio rispetto alla settimana scorsa. Una misura che ha fatto immediatamente schizzare i prezzi: molti negozi a Buenos Aires hanno direttamente deciso di non aprire mercoledì perché era impossibile determinare i nuovi listini. Lo stesso presidente lo aveva preannunciato durante il suo discorso di insediamento di domenica: per dicembre e gennaio sono previsti tassi d’inflazione superiori al 20% mensile.
“Dobbiamo combattere il deficit fiscale”, ha sostenuto Caputo. Secondo la visione del nuovo governo, il rosso è dovuto alle spese folli volute dai governi degli ultimi anni, finanziati con il debito e la stampa di moneta, che spiegherebbero l’attuale 150% di inflazione con cui l’Argentina chiude il 2023.
E allora al via il piano “motosega”, largamente anticipato dal leader dell’estrema destra argentina durante la campagna elettorale. I primi tagli interessano soprattutto i sussidi con cui lo stato ha sostenuto i consumi nel settore trasporti ed energia per molti anni, la struttura dello stato e la spesa per la pubblicità ufficiale.
Ridotti a 9 i ministeri, tagliate 50 segretari e 42 sottosegretari, annullati tutti i contratti di lavoro statali stipulati nel corso degli ultimi 12 mesi, e verranno sospesi tutti gli appalti in tutto il paese che non abbiano ancora iniziato i cantieri.
Ma le misure per la riduzione del costo dello stato, o della “casta” nella retorica di Milei, rappresentano un risparmio infimo rispetto ai piani del governo: lo 0,00142% del Pil. Il nuovo esecutivo prevede invece un risparmio del 5% del prodotto per il 2024.
Contrariamente a quanto sostenuto in campagna elettorale, la mannaia “libertaria” si concentrerà sulle spese che incidono direttamente sui consumatori. Trasporti più cari e bollette alle stelle a partire dal primo gennaio, ma anche tagli alle pensioni, ripristino delle imposte sui redditi medi -eliminati in piena campagna elettorale dal governo uscente -, congelamento dei salari pubblici e liberalizzazione dei prezzi. L’obiettivo è risparmiare circa 6 miliardi di dollari per raggiungere l’agognato deficit zero. A qualunque costo.
“Non c’è alternativa allo shock”, ha sostenuto Milei domenica scorsa. “Naturalmente ciò avrà un impatto negativo sull’attività economica, sull’impiego, i salari, la quantità di poveri e indigenti. Ci sarà stagflazione, é vero. Ma non é molto diverso da quel che è successo negli ultimi 12 anni”.
Un piano durissimo, che provocherà senza dubbio una reazione altrettanto dura da parte dei movimenti sociali e sindacati, già sul piede di guerra dopo soli quattro giorni di governo. Ma il presidente ha già avvertito: non verranno tollerati blocchi stradali e picchetti, tipici delle proteste argentine.
La situazione argentina è, in ogni caso, allarmante. Secondo dati forniti dal ministero dell’Economia, il debito pubblico ha toccato il record di 419 miliardi di dollari ad ottobre 2023, di cui 150 miliardi sono con l’estero. Poco meno di un terzo di quel debito deriva dal prestito chiesto nel 2018 dall’ex presidente Macri, oggi principale alleato di Milei in Parlamento, al Fondo Monetario Internazionale, con tutti i condizionamenti che ciò comporta.
Una cosa però è certa: il nuovo governo argentino è disposto ad attuare un piano ancor più ambizioso in termini di risparmio e tagli al welfare di quelli che tradizionalmente il Fondo impone ai suoi debitori. L’organismo multilaterale di credito è stato indulgente fino ad ora con Buenos Aires, mentre durava la campagna elettorale. Oggi il deficit è stimato intorno 4,9%, ben oltre l’1,9% accordato per ottenere i pacchetti di aiuto rinegoziati dopo la scadenza del prestito del 2018.
“Non ci sono soldi”, è il nuovo slogan dell’eterogenea compagine di governo raccolta intorno al leader anarco-capitalista. L’Argentina è ormai da due anni tagliata fuori dai finanziamenti internazionali, e ha cercato le soluzioni più fantasiose per poter trovare fondi per compiere i propri impegni col Fmi.
Il piano internazionale è stato chiave in questo senso: ad agosto il Qatar ha girato 580 milioni di dollari in Diritti Speciali di Prelievo per aiutare Buenos Aires a cancellare parte degli interessi del prestito col Fondo. Proprio dal Golfo Persico, si presume, potrebbero giungere nuovi aiuti per l’economia argentina. L’ex presidente Macri potrebbe essere fondamentale in questo senso.
Ma il principale alleato internazionale dell’Argentina in questo ambito è, ancora una volta, la Cina. Pechino ha liberato ad agosto circa 3 miliardi di dollari dello Swap di monete che mantiene da diversi anni con Buenos Aires per il pagamento delle ultime tranche del 2023 degli interessi del debito, e il governo prevede di avvalersi nuovamente degli Yuan per assicurarsi i 923 milioni di dollari che scadono il 31 dicembre.
Il principale intralcio, però, sembrava proprio Milei. Per anni lo stravagante economista argentino ha sbraitato contro la Cina, dichiarando apertamente che non avrebbe intavolato alcuna relazione con la Repubblica Popolare in caso di fosse stato eletto. Meno di 24 ore dopo il suo insediamento, una delegazione del governo cinese si è presentata alla Casa Rosada per capire se quelle dichiarazioni dovevano essere prese sul serio. A far conoscere la posizione ufficiale di Buenos Aires sulla relazione con la Cina sono stati gli stessi diplomatici cinesi: sostegno alla dottrina di una sola Cina e mantenimento delle relazioni commerciali.
Mercoledì scorso, lo stesso Milei ha inviato una lettera a Xi Jinping per assicurarsi la continuità dell’appoggio economico nei confronti del suo governo.
L’altro dossier su cui il governo Milei ha dovuto fare dietrofront è quello del Brasile. Dopo gli insulti lanciati contro Lula in campagna elettorale e l’invito ufficiale consegnato a Bolsonaro per la partecipazione all’insediamento di domenica, il ministero degli Esteri è corso ai ripari per evitare la rottura con il principale partner commerciale dell’Argentina.
La Ministra degli Esteri Diana Mondino ha effettuato un viaggio lampo a Brasilia la settimana scorsa per convincere – senza successo – Lula a partecipare alla cerimonia di avvio del governo Milei. E’ stato anche confermato l’ambasciatore nominato dal governo uscente di centrosinistra, Daniel Scioli, con cui il governo brasiliano mantiene una buona relazione da diversi anni. Ma il rapporto rimane comunque teso.
Venezuela: Maduro cavalca l’annessione dell’Esequibo
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Dopo la vittoria del Si al referendum consultivo indetto in Venezuela sulla sovranità sull’Esequibo, regione contesa con la vicina Guyana, il governo di Nicolás Maduro ha già decretato la creazione di una serie di istituzioni per la virtuale gestione del territorio e delle sue ricche risorse.
In una cerimonia roboante, Maduro ha determinato la creazione dello Stato dell’Esequibo, ventiquattresimo stato della Repubblica Bolivariana del Venezuela, e la modifica della mappa ufficiale venezuelana per includere il territorio amazzonico, di cui ha nominato il Maggiore Generale Alexis Rodríguez Cabello come “autorità unica”.
La compagnia petrolifera statale PDVSA potrà, per decreto, iniziare l’esplorazione e l’estrazione di idrocarburi nella regione, e i circa 125.000 abitanti dell’Esequibo, cittadini a tutti gli effetti della Guyana, otterranno a breve i documenti venezuelani.
Le misure sarebbero legittimate dal risultato del referendum di domenica 3 dicembre, dove il 50,5% degli aventi diritto, circa 10 milioni di venezuelani, hanno approvato a larga maggioranza i cinque quesiti proposti dall’esecutivo per “risolvere” la secolare controversia sulla regione sudorientale pretesa dal Venezuela sin dalla sua creazione.
La rivendicazione della sovranità sulla Guyana Esequiba è una vertenza particolarmente sentita in Venezuela. La sua trasversalità politica si è dimostrata anche in occasione del referendum di domenica, che ha ricevuto il beneplacito anche della Conferenza Episcopale Venezuelana, e l’opposizione, seppur consideri l’appuntamento elettorale una farsa tesa a legittimare il governo di Maduro, si è espressa in più di un’occasione a favore della causa dell’Esequibo.
La contesa infatti risale ai tempi dell’indipendenza stessa del paese, ed è parte integrale della sua identità nazionale. La Spagna aveva incluso i quasi 160 mila chilometri quadrati dell’Esequibo nel Capitanato Generale del Venezuela ai tempi della colonia, come un cuscinetto di separazione dai domini olandesi – che costituiscono oggi il Suriname e appunto la Guyana -. Il primo governo indipendente sancì la sua integrazione al territorio venezuelano nella costituzione del 1810. Ma col passaggio a mani britanniche delle colonie olandesi nella zona nordorientale del Sudamerica a partire dal 1814, l’Esequibo venne integrato alla Guyana Britannica, dando origine alle proteste da parte di Caracas.
Nel 1899, con il patrocinio degli Stati Uniti, venne firmato a Parigi un accordo che riconosceva la sovranità britannica sul territorio conteso, ma Caracas non ha mai riconosciuto la legittimità dell’accordo: i rappresentanti venezuelani infatti furono designati da Washington in modo da favorire gli interessi di Londra.
Con l’indipendenza della Guyana nel 1966 si aprì un nuovo capitolo nella disputa: i due governi firmarono a Ginevra un’intesa per aprire un negoziato sulla sovranità dell’Esequibo. Che però non risolse il problema di fondo, e nel 1982 il Venezuela abbandonò le trattative.
La Guyana, che vuole riconosciuti i limiti dell’Accordo di Parigi del 1899, ha di fatto esercitato la propria sovranità sul territorio conteso, concedendo anche contratti per l’esplorazione di idrocarburi nell’entroterra e nella piattaforma marina adiacente.
Nel 2015 la compagnia statunitense Exxon Mobil ha confermato la presenza di ingenti giacimenti di petrolio e gas. Il Blocco Stabroek, sul fondale Atlantico della costa dell’Esequibo, è la seconda maggior area inesplorata al mondo in cui il Servizio Geologico degli Stati Uniti ha confermato la presenza di greggio.
I cinque quesiti sottoposti ai votanti venezuelani domenica scorsa avevano l’obiettivo di confermare la posizione venezuelana sulla questione: rifiuto dell’accordo di Parigi del 1899, la ripresa della vertenza iniziata con gli accordi di Ginevra del 1966, il rifiuto dell’intervento della Corte internazionale di giustizia e la richiesta di interrompere l’estrazione di gas e petrolio da parte della Guyana finchè la controversia non sia risolta.
Tutte rivendicazioni che molto difficilmente potrebbero essere rifiutate dai venezuelani. Per questo, a livello locale ed internazionale, l’indizione del referendum era stata vista come un tentativo del governo di strumentalizzare a proprio favore una questione profondamente sentita dall’elettorato. Che ha comunque partecipato in modo molto più massiccio rispetto alle attese.
Il referendum è stato indetto in un momento molto particolare dell’attualità venezuelana. Immerso in una crisi da cui sembra non riuscire ad uscire, il governo Maduro ha recentemente concordato con l’opposizione e con il governo degli Stati Uniti la celebrazione di elezioni presidenziali, previste per il prossimo 21 marzo.
L’accordo tripartito accontenta tutti. Washington ottiene una scusa per giustificare il cambiamento di rotta sulla questione venezuelana e riaprire così i rubinetti del greggio venezuelano. Maduro si assicura un allentamento delle sanzioni degli Usa per dare un respiro all’economia nazionale. E l’opposizione ottiene le garanzie che attendeva per presentarsi unificata ad un’elezione che, sulla carta, ha molte possibilità di vincere.
Il referendum di domenica 3 dicembre però rappresenta anche una mossa del governo per recuperare consenso in vista delle presidenziali, e aprire un fronte in cui mettere in difficoltà la destra: opporsi all’annessione – seppur solo retorica – dell’Esequibo equivarrebbe a obiettare una causa nazionale.
La possibilità di un’incursione venezuelana nel territorio conteso a partire dal risultato del referendum, sebbene per ora remota, preoccupa l’America Latina. Il Brasile, che confina con entrambi i paesi, ha rafforzato la propria presenza militare nella regione. Il governo della Guyana ha messo in allerta massima le proprie forze armate e ha chiesto il sostegno del South Command della Marina degli Stati Uniti, con cui dal 2019 realizza pattugliamenti congiunti nelle coste atlantiche.
Dal Dipartimento di Stato sono giunte ulteriori critiche alla realizzazione del referendum di domenica, e vista la presenza di interessi di importanti aziende statunitensi, si attende un maggior coinvolgimento Usa nella vicenda se dovesse subire un’escalation.
Argentina: Mauricio Macri vuole riprendersi il Boca Juniors
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L’ex presidente dell’Argentina, Mauricio Macri (2015-2023), ha ricevuto martedì scorso una cascata di eccellenti notizie per la sua carriera politica. Il presidente eletto lo scorso 19 novembre, Javier Milei, ha confermato la nomina di Luis Caputo, suo stretto collaboratore quando era al governo, come futuro ministro dell’economia, e si attende la conferma dello sbarco di altri dirigenti legati a Macri nell’esecutivo che si insedierà il prossimo 10 dicembre.
Parallelamente, la magistratura argentina ha seguito la tradizione di premiare i leader vincenti delle elezioni e penalizzare i perdenti una volta terminata la campagna elettorale. Così Macri, divenuto ormai regista dietro le quinte del prossimo governo dell’estrema destra argentina, è stato assolto nel processo che lo indagava per aver spiato i famigliari delle vittime dell’incidente dell’Ara San Juan, il sottomarino esploso nel novembre del 2018 con 44 marinai a bordo.
Nel frattempo, un Tribunale Federale ha riaperto un caso di corruzione nei confronti della vicepresidente Cristina Fernandez de Kirchner, principale avversaria dell’ex presidente Macri, iniziato dieci anni fa.
Ma la notizia più attesa per il leader conservatore è giunta dalla Magistratura della Città di Buenos Aires, che ha sospeso la realizzazione delle elezioni previste per questa domenica per la presidenza del Boca Juniors, in cui è iscritto come candidato a vicepresidente. La lista macrista, guidata dall’ex ministro Andrés Ibarra, ha per ora pochissime chance di battere quella comandata dall’ex calciatore e gloria del Boca, Juan Román Riquelme, attualmente alla guida del club. La sospensione delle elezioni, causata da presunte irregolarità nella compilazione dei registri degli elettori, offre però all’opposizione la possibilità di ampliare il proprio sostegno elettorale e di mettere sotto pressione l’attuale leadership, sfruttando anche dinamiche extra-calcistiche.
Macri infatti è stato catapultato nella politica nazionale e internazionale proprio grazie al Boca. Eletto nel 1995, ha presieduto il club per dodici anni, durante i quali la squadra ha vinto tutto: quattro Coppe Libertadores, due Coppe Intercontinentali e undici campionati. Furono gli anni in cui il Boca si trasformò in un vero proprio brand, famoso a livello globale, con più di 100 prodotti – dai palloni da calcio a piatti e posate – rilasciati sotto il marchio Boca Juniors nel mercato locale e internazionale.
Nel 2007, abbandonata la scrivania del club, Macri è diventato capo del governo della Città Autonoma di Buenos Aires, dove il suo partito ancora governa tutt’oggi, con notevole influenza sulla Magistratura locale. La dirigenza attuale del Boca suggerisce che i problemi legali recenti per i membri della commissione direttiva sono dovuti al potere esercitato da Macri e dai suoi alleati sulle istituzioni di Buenos Aires. La “Bombonera”, lo storico stadio del Boca, è stata chiusa più volte dalla giustizia con l’accusa di aver superato la capacità massima di spettatori durante le partite del Boca e della nazionale di calcio. Il fratello di Juan Román Riquelme è stato coinvolto in un caso di frode e le sedi del club sono state perquisite più volte.
Il possibile ritorno di Macri nell’arena del calcio argentino ha scatenato reazioni anche da parte delle altre associazioni sportive del paese. Macri infatti è un forte sostenitore di un progetto per cambiare il modo in cui i club sono strutturati. Attualmente sono associazioni senza scopo di lucro controllate dai soci, ma Macri vorrebbe adottare il modello delle società sportive gestite da azionisti permettendo l’approdo di capitali internazionali nel calcio locale. Alcuni dirigenti della Federcalcio Argentina (AFA) legati a Macri hanno presentato questa proposta a inizio novembre, ma più di 100 associazioni calcistiche hanno fatto campagna per difendere il modello esistente, che è stato poi mantenuto all’unanimità nel consiglio della AFA.
Logica di mercato, connessione con le istituzioni locali e col mondo delle finanze sono alcune delle caratteristiche del modello che Macri, erede di una delle famiglie più ricche del paese, vorrebbe mettere in atto nel calcio argentino.
Ma la vera motivazione del suo ritorno nel mondo calcistico potrebbe essere in realtà di natura geopolitica. E la spiegazione potrebbe trovarsi nelle alleanze tessute di recente dall’ex presidente nel Golfo Persico. Proprio in questi giorni ha rivelato di aver mantenuto stretti contatti con l’Emiro del Qatar, Tamim bin Hamad Al Thani, affinché intercedesse per la liberazione dei 21 argentini sequestrati lo scorso 7 ottobre da Hamas in territorio israeliano. Una relazione risalente ai tempi della sua presidenza della Repubblica ma rafforzata a partire dal ruolo di Macri come presidente della Fondazione FIFA, incarico che detiene dal gennaio del 2020 e che gli ha permesso di seguire dal vivo l’organizzazione del mondiale di calcio del 2022.
La relazione con la famiglia Al Thani ha agevolato anche la firma di un contratto tra il Boca Juniors e Qatar Airways per la sponsorizzazione principale sulle maglie della squadra. Tuttavia, nel 2022 questo accordo non è stato rinnovato per un motivo insolito: secondo Macri, l’Emiro avrebbe richiesto l’inclusione di un giocatore qatariota nella rosa del Boca, richiesta che la dirigenza guidata da Riquelme non ha accolto.
C’è già chi sta collegando i vari aspetti del progetto di Macri per il calcio: la sua proposta di società sportive potrebbe infatti favorire l’ingresso dei capitali di Qatar, Emirati Arabi e Arabia Saudita nel calcio sudamericano, seguendo quanto già avvenuto in altre parti del mondo. C’è anche un precedente.
Nel 2021, al termine di un viaggio per i paesi del Golfo Persico dell’allora presidente brasiliano Jair Bolsonaro, il senatore ed ex calciatore Romario presentò un progetto molto simile a quello voluto da Macri in Argentina. Secondo quest’interpretazione l’intenzione di Macri sarebbe quella di permettere alle potenze del Golfo di approdare con forza nel paese per sostituire in termini di finanziamento l’espansione cinese in Argentina, anche e soprattutto al di là dello sport. Progetto che potrebbe avere anche il beneplacito di Usa e Unione Europea, chiaramente preoccupate per la presenza sempre più pressante di Pechino in America Latina.
Macri, che in questi giorni ha visitato anche Sheik Mohamed bin Zayed Al Nahyan, presidente degli Emirati Arabi Uniti, nella campagna elettorale per la presidenza del Boca assicura di poter garantire il finanziamento per la costruzione del nuovo stadio, la contrattazione della nuova rosa e di un nuovo allenatore subito dopo la chiusura delle urne. Un’elezione che però, secondo molti osservatori, va molto al di là del futuro calcistico di una delle squadre più popolari dell’Argentina.
L’incognita Milei e il futuro dell’Argentina “libertaria”
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L’eccentrico economista argentino Javier Milei ha sbancato al ballottaggio di domenica scorsa e sarà “il primo presidente libertario della storia”, come gli piace definirsi. A pochi giorni dall’insediamento, previsto per il 10 dicembre, il suo programma di governo è ancora poco chiaro. Nonostante abbia confermato le intenzioni espresse durante la campagna elettorale, anche su alcuni degli aspetti più controversi del decalogo libertario, il presidente eletto sembrerebbe intenzionato a temporeggiare invece sulle misure shock che lo hanno catapultato alla fama internazionale. Annunciata sin da subito l’intenzione di privatizzare la compagnia petrolifera statale e i canali di radio e televisione pubblici, ma l’adozione del dollaro come moneta di corso legale, la chiusura – il rogo, aveva detto qualche mese fa – della Banca Centrale e le privatizzazioni di scuole ed ospedali si vedranno più avanti negli anni. A partire dal prossimo mese, comunque, il bilancio dello stato dovrà chiudere in pari, anche a costo di tagliare la tredicesima dei dipendenti pubblici prevista proprio per la seconda metà di dicembre, ha sostenuto Milei.
Fedele alla massima “anarco-capitalista” secondo cui lo stato deve essere ridotto ai suoi minimi termini, verranno eliminati 12 dicasteri su 20, tra cui quelli della sanità, istruzione, lavoro, ambiente, donne e cultura. I suoi più stretti collaboratori premono intanto per la realizzazione di un referendum abrogativo sulla legge sull’aborto, legalizzato nel 2020. Insomma, una svolta a 180º gradi, anche se forse meno brusca di quanto previsto, che colloca l’Argentina su una strada mai intrapresa finora nella regione.
A garantire una certa moderazione dell’indirizzo politico di Milei, sarebbe l’ex presidente conservatore Mauricio Macri (2015-2019), alleatosi alla coalizione libertaria dopo la rovinosa sconfitta della sua candidata Patricia Bullrich alle generali di ottobre. Macri e i suoi potrebbero fornire al nuovo governo sostegno parlamentare (Milei conta solo su 38 deputati su 257, e 7 senatori su 72) e l’appoggio territoriale dei governatori di centrodestra, ma l’agenda che condividono è comunque destinata ad alimentare la conflittualità sociale. Sindacati e movimenti sono già sul piede di guerra.
A livello internazionale, l’avvento di un governo di questo stampo ha generato reazioni controverse. Non sono pochi gli osservatori che hanno lanciato l’allarme intorno alla tenuta democratica del paese di fronte allo sbarco di Milei e i propri alleati al potere. Durante la campagna elettorale, le critiche alle ricette presentate dal presidente eletto sono arrivate anche dai centri del potere economico mondiale: diversi membri del Fondo Monetario Internazionale, con cui l’Argentina mantiene un debito da 45 miliardi di dollari, hanno lanciato diverse avvertenze intorno al piano di dollarizzazione dell’economia di Milei. Anche la Banca Mondiale ha parlato di “distorsioni e problemi” creati dal piano economico proposto dalla destra argentina. L’Economist ha addirittura sostenuto che “le sue politiche sono mal pensate. Lungi dal costruire consenso, dovrebbe lottare per governare. E se frustrato, alcuni argentini si preoccupano, potrebbe anche diventare autoritario”.
Subito dopo l’elezione di domenica il governo cinese ha lanciato un’avvertenza anche in merito alle minacce di Milei di “tagliare le relazioni coi paesi comunisti”. La portavoce del Ministero degli Esteri Mao Ning, dopo essersi congratulata col nuovo presidente argentino, ha assicurato che “sarebbe un grande errore” un allontanamento tra Buenos Aires e Pechino. La Cina è oggi il secondo partner commerciale dell’Argentina. Ed è grazie agli Swap di moneta che il governo di Xi Jinping ha concesso al suo omologo argentino Alberto Fernandez negli ultimi anni, che il paese ha potuto compiere il calendario di scadenze del debito con FMI. Un raffreddamento della relazione potrebbe avere ricadute molto pesanti sulla stabilità argentina. Scartato inoltre, seppur non ancora in modo ufficiale, l’invito esteso dai cinque membri del BRICS a integrare il gruppo a partire dal 1º gennaio.
Anche in America Latina la situazione del nuovo governo è piuttosto incerta. La relazione col Brasile, storico partner diplomatico e commerciale del paese, si è incrinata ancor prima dell’assunzione del nuovo presidente. L’ex presidente Jair Bolsonaro è stato invitato alla cerimonia di assunzione di Milei ancor prima di Lula da Silva, che prima del ballottaggio si è apertamente espresso a favore del candidato peronista Sergio Massa, e ha già annunciato che il 10 dicembre non sarà a Buenos Aires.
Uno smacco non da poco, a cui si aggiunge un altro cortocircuito tra i due giganti del Cono Sud: da sempre il primo paese di destinazione del presidente eletto in Argentina è il Brasile, e viceversa, e Milei sarà probabilmente il secondo a rompere questa tradizionale dimostrazione di fraternità dopo Jair Bolsonaro.
Gli alleati strategici del governo libertario saranno gli Usa e Israele, ed è proprio in quei paesi che vuole recarsi per primi il presidente eletto. Se Tel Aviv ha già invitato Milei a discutere la sua proposta di trasferimento dell’Ambasciata argentina a Gerusalemme, Washington ha mostrato maggior cautela. Biden non andrà a Buenos Aires per l’insediamento del nuovo governo, e le critiche che in passato Milei ha riservato all’establishment del Partito Democratico risuonano ancora nella relazione con la Casa Bianca, che avrebbe preferito chiaramente la vittoria di un assiduo ospite dell’ambasciata Usa in Argentina come Sergio Massa.
Anche col Messico di Lopez Obrador, che ha definito Milei apertamente “fascista” in diverse occasioni, la relazione sembra destinata ad essere difficile. Il presidente messicano ha definito “un autogol” l’elezione del leader dell’estrema destra in Argentina.
Simili anche le parole di Gustavo Petro, il presidente della Colombia: “Ha vinto l’estrema destra in Argentina; è la decisione della sua società. Triste per l’America Latina”, ha pubblicato, una volta conosciuti i risultati di domenica.
Il probabile isolamento internazionale di Milei, assieme all’influenza che può esercitare l’ex presidente Macri sul suo governo, potrebbero spingere il nuovo presidente argentino a moderare le sue iniziative durante i primi mesi al potere, specialmente sul piano delle relazioni diplomatiche. L’opposizione sociale alle misure drastiche che, in ogni caso, sembra deciso a prendere sin dall’inizio a livello locale, sarà comunque forte, conferendo ulteriore instabilità ad un panorama già fragile nel paese. L’inserimento internazionale risulterebbe dunque chiave in questo senso, ma a poche settimane dall’insediamento, esistono pochi indizi sull’indirizzo del nuovo governo.
Brasile/Israele: è polemica sulla presenza di Hezbollah in Brasile
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“Israele sta assassinando persone innocenti senza alcun criterio”. È questa la durissima frase che ha lanciato il presidente del Brasile, Luiz Inacio Lula da Silva martedì scorso e che ha ulteriormente incrinato le relazioni col primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. “Dopo l’atto di terrorismo provocato da Hamas, le conseguenze, la soluzione di Israele, è stata tanto grave quanto quella di Hamas”, ha aggiunto Lula, presidente del paese che ricopre attualmente la presidenza del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Il comunicato del governo brasiliano all’indomani dell’attacco terrorista di Hamas lo scorso 7 ottobre, conteneva già alcune avvertenze intorno alla prevedibile risposta di Israele. “Nulla giustifica l’uso della violenza, in particolare contro i civili, il governo brasiliano esorta tutte le parti a mostrare la massima moderazione per evitare che la situazione si aggravi”, sosteneva allora il Ministero degli Esteri brasiliano. Lo stesso Lula aveva convocato una riunione d’emergenza del Consiglio di Sicurezza in cui la proposta brasiliana per l’apertura di un corridoio umanitario e l’imposizione di un cessate al fuoco nella regione, fu bocciata dal veto degli Usa. Da allora, la parte di mediatore super partes che il Brasile ha voluto assumere, in linea con le aspirazioni da global player del Sud globale che ha sfoggiato Lula dal suo ritorno alla presidenza un anno fa, si è fatta sempre più sbiadita.
Il 17 ottobre Lula ha cercato di aprire un dialogo col presidente iraniano Ebrahim Raisi, sicuramente approfittando della vicinanza di Teheran ai gruppi estremisti attivi nella regione, per permettere il rimpatrio di una trentina di palestinesi con cittadinanza brasiliana bloccati a sud della Striscia di Gaza. Il rimpatrio è finalmente avvenuto per azione delle autorità israeliane, ma la connessione aperta tra Lula e Raisi ha alimentato le furie di Tel Aviv nei confronti del governo brasiliano. E anche della comunità ebraica nel paese sudamericano, che teme che il conflitto si estenda anche su quelle latitudini.
Uno dei fatti che ha ravvivato le tensioni tra Brasilia e Tel Aviv, infatti, è stato l’arresto di due persone a San Paolo nei primi giorni di novembre, accusate di far parte di una cellula di appoggio del gruppo terrorista libanese Hezbollah. Secondo la polizia brasiliana gli arresti, a cui si aggiungono una dozzina di mandati di cattura spiccati dalla giustizia brasiliana, sono stati eseguiti per prevenire atti di terrorismo contro la comunità ebraica in 11 località brasiliane, tra cui Minas Gerais, San Paolo e Brasilia. I servizi di intelligenza israeliani si sono immediatamente congratulati con le autorità brasiliane attraverso un comunicato poco usuale, in cui hanno anche rivelato una presunta partecipazione del Mossad nelle operazioni in terra sudamericana. Ma il Ministro della Giustizia brasiliano, Flavio Dino, ha risposto furioso al comunicato del Mossad, sostenendo che le operazioni che hanno condotto agli arresti in Brasile sono cominciate molto prima dell’attacco di Hamas contro Israele, e che “nessun paese straniero comanda la polizia brasiliana”.
La presenza di cellule terroriste in Brasile è ormai un affare spinoso per il gigante sudamericano. Già nel 2011 diverse fonti dell’intelligence brasiliana e statunitense parlavano di almeno 20 cellule di Hezbollah, Al Qaeda e la Jihad Islamica presenti in Brasile, e l’inefficacia delle autorità locali nell’isolare e arrestare i sospetti di terrorismo ha creato imbarazzi anche nei confronti dei propri vicini argentini.
Infatti, almeno tre dei quattro cittadini libanesi ricercati da Interpol su richiesta della giustizia argentina per i loro legami con Hezbollah e con l’attentato all’Associazione Mutuale Israelita Argentina nel 1994, vivono attualmente in Brasile.
Buenos Aires, che a differenza di Brasilia ha incluso Hezbollah nella propria lista delle organizzazioni terroriste nel 2019, mantiene tesi rapporti anche con l’Iran, da quando la giustizia argentina ha segnalato diversi ex membri del governo di Teheran come i mandanti dell’attentato che uccise 84 persone nella capitale argentina trent’anni fa.
Più di recente, l’11 ottobre scorso, la Comandante dello United States Southern Command (SOUTHCOM), il comando delle forze armate statunitensi responsabile dell’area del Centro e Sud America, Laura Richardson, aveva avvertito intorno alla presenza di cellule di Hezbollah in Brasile, che con l’aiuto delle autorità iraniane, con cui Brasilia mantiene eccellenti relazioni, avrebbero radicato piccoli centri considerati da Washington un pericolo per l’intero emisfero.
Ad aprile di quest’anno la Polizia Federale Brasiliana e Interpol hanno condotto una vasta operazione in cui è stato arrestato un cittadino iraniano nei pressi della triplice frontiera tra Brasile, Paraguay e Argentina – dove attualmente vivono circa 30.000 migranti libanesi -, accusato di facilitare l’ingresso di diversi suoi concittadini con passaporti falsi in Sudamerica.
Insomma, la crisi nella Striscia di Gaza ha esposto certi cortocircuiti presenti nella regione da decenni, mettendo anche in evidenza la posizione del Brasile, e altri governi della sinistra latinoamericana, intorno al conflitto.
Bolivia e Belice hanno rotto relazioni con Israele, e Colombia, Cile e Honduras hanno chiamato a consultazioni i propri ambasciatori a Tel Aviv. Ma la stoccata israelo-statunitense contro il Brasile, unica vera e propria potenza capace di muoversi su molte dimensioni a livello globale con una politica propria – dal G20 ai Brics, e dal G77+Cina al WEF -, punta evidentemente a mettere in dubbio la capacità del governo Lula di erigersi a rappresentante del Sud globale, uno dei principali punti di forza della politica estera del nuovo governo brasiliano.
Argentina: il Fondo Monetario Internazionale indaga sul maxi prestito del 2018
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La spinosa questione del debito argentino è tornata in questi giorni a far discutere a Buenos Aires, in mezzo alla fervente campagna elettorale in vista del ballottaggio del 19 novembre tra l’attuale ministro dell’economia, Sergio Massa, e il candidato dell’estrema destra Javier Milei.
Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) ha recentemente annunciato che a fine novembre una missione dell’Ufficio Indipendente di Valutazione (Independent Evaluation Office, IEO), un organo di controllo interno del FMI, autonomo dal suo consiglio direttivo, giungerà in Argentina per esaminare le condizioni in cui è stato concesso un massiccio pacchetto di aiuti superiore a 57 miliardi di dollari nel 2018.
Questo è il più grande prestito mai concesso dal FMI nella sua storia ed è stato al centro di numerose controversie. In maggio, la Commissione di Controllo del Debito Pubblico del Revisore Generale della Nazione ha pubblicato un rapporto in cui sostiene che, oltre a non essere state rispettate le condizioni di legge per l’accettazione del prestito, il 66% dei fondi ottenuti è stato utilizzato per finanziare investimenti privati attraverso una massiccia fuga di capitali. La Banca Centrale argentina ha documentato un aumento dei capitali inviati all’estero dall’Argentina tra il 2018 e il 2019, proprio nel periodo in cui il FMI autorizzava il rilascio delle tranche di aiuti previste nell’Accordo Stand-By. Una accusa respinta sia dal governo conservatore guidato dall’ex presidente Mauricio Macri (2015-2019) sia dal FMI.
Tuttavia, già nel dicembre 2021, la Valutazione Ex-Post condotta dal FMI aveva evidenziato alcune autocritiche riguardo al programma approvato nel 2018: le prospettive di successo erano scarse sin dall’inizio, la coalizione di governo non era sufficientemente coesa per attuare le riforme strutturali previste, e le autorità argentine si rifiutavano di implementare maggiori controlli sui capitali per limitare la fuga di valuta straniera già in corso. Questi fattori, secondo gli esperti del FMI, hanno contribuito al fallimento del programma, e ora saranno rivalutati dall’IEO.
La missione si concentrerà sulle condizioni richieste dallo statuto del FMI per l’erogazione di un accordo “straordinario” come quello concesso all’Argentina, che include la presenza di un deficit non sostenibile attraverso metodi tradizionali, la capacità di ripagare il debito a medio termine, la possibilità di rientrare immediatamente nei mercati internazionali del credito e una comprovata capacità tecnica, politica ed istituzionale per il successo del programma.
I detrattori del governo Macri, e a quanto pare anche i tecnici del Fmi, credono che tali condizioni non erano presenti nell’Argentina del 2018. Secondo questa visione il Board del fondo avrebbe perseguito obiettivi schiettamente politici nel finanziare il governo argentino, uno dei principali alleati dell’allora presidente Donald Trump nella regione, durante il ritorno al potere di governi di stampo progressista.
Mauricio Claver-Carone, principale collaboratore di Trump in America Latina ed ex presidente della Banca Interamericana Per Lo Sviluppo, lo disse esplicitamente nel 2020: il prestito servì per assicurarsi la continuità nel potere dell’alleato a Buenos Aires, ma Macri e i suoi sperperarono l’opportunità perdendo le elezioni nel 2019.
Colombia: il Presidente Petro punta su “petrolio zero”
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Quando Gustavo Petro, il primo presidente di sinistra della storia della Colombia, ha assunto il potere nell’agosto 2022, la maggior parte degli analisti in America Latina si chiedevano quanto del suo ambizioso programma sarebbe stato in grado di portare avanti. La amplissima coalizione che lo ha supportato ha adottato lo slogan “Colombia potenza della vita”, che propone misure radicali per i principali problemi che affliggono il Paese da sempre: la guerra interna, il narcotraffico, il paramilitarismo, la povertà. In alcuni di questi aspetti il governo sta avanzando, alcune riforme presentate in Parlamento hanno riscosso consenso, e processi di negoziazione sono avviati con i gruppi guerriglieri, primo su tutti l’Esercito di Liberazione Nazionale con cui l’esecutivo sta lavorando a un accordo di pace tra Caracas e L’Avana.
Ma lo zelo del governo Petro per combattere il cambiamento climatico si è sicuramente accaparrato i riflettori a livello internazionale. Un po’ perché lo stesso Presidente ha scelto i summit globali per dare slancio alla propria politica ambientale, quali i pulpiti dell’Onu o del World Economic Forum di Davos. E un po’ per la radicalità della proposta: lasciare le ingenti riserve di petrolio, carbone e gas della Colombia sottoterra per evitare “l’estinzione dell’umanità”. E l’idea va ben oltre gli slogan. Nell’ottobre 2022, la Ministra delle miniere Irene Valdez ha annunciato che il Paese non avrebbe più firmato contratti di esplorazione ed estrazione di nuovi giacimenti di petrolio sul proprio territorio. Una vera e propria bomba per un paese che nel 2021 ha esportato greggio per 12 miliardi di dollari, è il 18° esportatore al mondo di petrolio e in cui la filiera degli idrocarburi rappresenta il 40% dell’export totale. La statale Ecopetrol, principale azienda petrolifera del Paese, garantisce oggi il 9% degli ingressi fiscali al governo colombiano. La svolta annunciata ha dunque importanti ricadute sulla stabilità economica del Paese.
Colombia, potenza della vita
A confermare la direzione ufficiale in materia energetica ci ha pensato lo stesso Petro: il cammino è la decarbonizzazione totale dell’economia, l’abbandono dei combustibili fossili e l’implementazione di una matrice energetica più pulita. Il Senato ha già approvato la proposta di legge presentata dall’esecutivo per vietare la pratica del fracking, ed è stato rilanciato il Fondo per lo sfruttamento delle Energie Non Convenzionali e la Gestione Efficiente dell’Energia creato nel 2014 dal governo di Juan Manuel Santos.
La polemica è però molto accesa. Secondo gli ultimi studi del Ministero delle miniere, tenendo in conto i 117 contratti di estrazione attivi attualmente, la Colombia possiede riserve di petrolio sufficienti a mantenere l’attuale livello di produzione per altri 7 anni e mezzo, e di gas per 7 anni e 4 mesi circa. Fonti ufficiali assicurano che questo periodo potrebbe estendersi di diversi mesi se si applicano tecniche per lo svuotamento totale dei pozzi in uso, e se si approfitta al meglio dei giacimenti di gas già esplorati ma non attivi che la Colombia possiede nel Mar dei Caraibi. Eppure, anche le previsioni più ottimistiche mettono in dubbio che il Paese riesca a modificare completamente la propria matrice energetica prima dell’esaurimento delle riserve di gas e petrolio attualmente in uso.
Secondo uno studio dell’Università Jorge Tadeo Lozano, esistono le premesse per sostituire il 100% dell’energia elettrica prodotta in Colombia con fonti rinnovabili entro il 2030, anche se questo richiederebbe un programma molto più energico di quello finora applicato. E secondo gli studi più pessimisti, la transizione a fonti di energia alternative potrebbe richiedere più di 30 anni in Colombia.
Alcuni passi in avanti sono già stati fatti. Il 70% dell’energia elettrica attualmente in uso in Colombia proviene già da centrali idroelettriche e Bogotà è oggi la città in cui circola la maggior quantità di autobus elettrici dell’America Latina. La Banca Interamericana di Sviluppo (BID) ha aperto recentemente diverse linee di credito per finanziare la transizione energetica colombiana. Quella più avanzata prevede lo stabilimento di un centro di produzione di idrogeno verde nei pressi di Cartagena. Il BID stima che per il 2027 l’elettricità proveniente da fonti non convenzionali passerà dall’attuale 2% al 17%. Un dato che pone il Paese all’avanguardia in America Latina, ma che dista dal garantire un futuro a petrolio zero come quello prospettato dal governo. Infatti solo lo 0,05% del totale del parco auto della Colombia funziona a energia elettrica. L’abbandono del petrolio e del gas comporterebbe inoltre un aumento di circa il doppio del consumo elettrico attuale e l’obbligo di sostituire il principale prodotto di esportazione del Paese, che oltre a cambiare la matrice energetica dovrebbe anche modificare radicalmente la propria strategia di inserzione nel mercato globale. Una vera e propria sfida per il governo Petro. Che ancora non ha presentato il programma ufficiale per la transizione energetica a livello nazionale.
La sfida di Petro
Il processo di elaborazione del piano nazionale infatti coinvolge il mondo delle imprese, le istituzioni e la società civile, in un progetto estremamente democratico, inclusivo e innovativo ma allo stesso tempo lento. La presentazione del risultato delle consultazioni è slittata da maggio di quest’anno a febbraio 2024.
Lo scenario catastrofico che l’opposizione sbandiera da mesi è l’esaurimento delle fonti di energia necessarie per far funzionare il Paese e l’obbligo di importare gas e petrolio a prezzi esorbitanti. Uno scenario che non sembra essere totalmente escluso dall’esecutivo Petro, che ancor prima di assumere il suo mandato ha iniziato a ricostruire la dilaniata relazione col Venezuela, paese chiave non solo in termini di interscambi commerciali ma anche per l’approvvigionamento energetico in caso di necessità.
Il piano colombiano ha anche importanti risvolti dal punto di vista geopolitico. A Davos e nei diversi tour internazionali intrapresi, Petro ha presentato la proposta debt for climate action, la riduzione delle spese del debito da parte dei paesi industrializzati in cambio dell’azione effettiva per ridurre l’impatto dell’attività umana sul clima da parte dei paesi debitori. Da diversi mesi però i Paesi della regione stanno intraprendendo il cammino opposto a quello colombiano: Ecuador, Brasile, Guyana, Surinam, Argentina, Messico e perfino il Venezuela con le sue difficoltà, stanno cercando di aumentare la propria produzione di greggio e gas visto l’aumento della domanda a livello globale. Tutti Paesi retti da governi con profili ideologici molto dissimili, ma che secondo i detrattori del governo colombiano potrebbero approfittare della decisione di Petro per colmare il calo nell’offerta sudamericana coi propri prodotti, rendendo di fatto nullo lo sforzo colombiano per diminuire l’impatto ambientale.
Nel caso del Brasile poi, quella energetica è una materia che provoca cortocircuiti tra i governi di Petro e Lula nonostante la sintonia ideologica. Per il Brasile, infatti, una delle priorità per la crescita della regione sta nell’integrazione delle aziende idrocarburifere, per potenziare la produzione a grande scala, garantire indipendenza energetica all’intero sub-continente e approfittare della congiuntura della guerra in Ucraina per negoziare in blocco l’esportazione di gas e petrolio verso altre parti del globo. Una proposta che non viene affossata dalla Colombia di Petro, ma che perde sicuramente slancio internazionale. Quella che invece non può decollare senza il sostegno di Lula è la proposta colombiana per una grande coalizione latinoamericana contro i combustibili fossili, presentata a Buenos Aires poco dopo l’elezione di Petro e ribadita in diversi forum regionali.
Messo alle strette da questioni tecniche, di politica interna, economiche e geopolitiche, il governo Petro ha più volte ammesso che la possibilità di ripristinare i contratti di esplorazione petrolifera è ancora aperta. Ma la “via colombiana all’economia verde” ad attirare l’attenzione internazionale, e non è detto che Petro non decida di dare una svolta radicale al proprio progetto e portarlo effettivamente a compimento. Sarebbe, se non altro, un grande esperimento.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di Luglio/Settembre di eastwest
America Latina: sempre più cinese
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Dai latifondi a monocoltura di soia alle miniere per l’estrazione di litio e rame, passando per una base militare in Patagonia o un porto affacciato sull’Antartide, la Cina ha incrementato la propria presenza in America Latina in modo sorprendente. Pechino è attualmente il secondo partner commerciale della regione, con un volume di scambi che supera i 450 miliardi di dollari all’anno. Diversi studi mostrano che il suo ruolo è destinato a crescere, diventando il primo partner della regione nel 2035 con 700 miliardi di dollari di interscambi, e controllando di fatto un quarto del commercio regionale e le ambite materie prime dell’America Latina.
La presenza della Cina: dall’energia alla soia…
Il processo è in atto da tempo. Tra il 2000 e il 2020 Pechino ha moltiplicato 26 volte il volume di investimenti diretti nella regione, la maggior parte concentrati nei paesi produttori di gas, petrolio, energia elettrica e soia. Il Venezuela conserva la maggior parte degli investimenti cinesi, con 60 miliardi di dollari concentrati nel settore petrolifero e virtualmente bloccati a causa delle sanzioni imposte al governo di Nicolás Maduro. Segue il Brasile, con 31 miliardi di dollari frutto di accordi presi soprattutto nel periodo precedente la presidenza di Bolsonaro (2019-2023). In Ecuador, paese con cui Pechino ha recentemente siglato un accordo di libero scambio, i capitali cinesi ammontano a circa 18,2 miliardi di dollari, viene poi l’Argentina con 17 miliardi. Nel caso argentino spiccano i 36 accordi di finanziamento stipulati con l’Industrial and Commercial Bank of China, e la China Development Bank per il sostegno al governo nel settore trasporti, energia e agricoltura.
A questo bisogna aggiungere i più di 200 progetti in infrastruttura ed energia in cui le aziende cinesi appaiono come appaltatrici e non come fonti dell’investimento. Si tratta di iniziative attive in 20 paesi del continente per un valore approssimato di 98 miliardi di dollari, e la grande maggioranza concentrate nel settore minerario e dell’infrastruttura per il trasporto. Molti di questi progetti hanno causato seri conflitti in America Latina e nei Caraibi. Il Comitato per i diritti economici, sociali e culturali dell’Onu ha emesso a marzo di quest’anno una serie di raccomandazioni dirette al governo cinese circa le violazioni dei diritti umani delle popolazioni latinoamericane legate ai progetti minerari ed energetici commesse da aziende cinesi nel continente. Una coalizione di organizzazioni per la difesa dei diritti indigeni ha documentato 14 casi di violazioni dei diritti delle comunità locali, a cui Pechino ha risposto con un breve documento che indica che prenderà provvedimenti a riguardo.
Secondo un recente rapporto della Commissione Economica per l’America Latina dell’Onu però, i tratti dell’investimento cinese nella regione potrebbero cambiare decisamente nei prossimi anni. Il 14º piano quinquennale per gli investimenti del periodo 2021-2025 infatti prevede un’espansione nel settore automobilistico (44% degli investimenti totali), energie rinnovabili (17%) e servizi finanziari (11%), approfondendo comunque la dipendenza latinoamericana dai capitali del gigante asiatico.
…alla politica estera
A forza di accordi e investimenti, Pechino è anche riuscita a ottenere drastici cambiamenti nella politica estera di diversi paesi centroamericani, tradizionalmente ostili alla “politica di una sola Cina”. Dal 2007 a oggi, i governi di Costa Rica, Panama, Repubblica Dominicana, El Salvador, Nicaragua e Honduras hanno rotto le relazioni con Taiwan per stabilire rapporti con la Repubblica Popolare. L’isolamento di Taipei, riconosciuta oggi solo da 13 paesi al mondo di cui 7 in America Latina, è una delle strategie geopolitiche più rilevanti per il governo cinese, e apre al contempo le porte per lo sbarco delle proprie aziende in luoghi strategici come l’istmo centroamericano. E impone anche dibattiti nei paesi che non vi si piegano: la recente campagna elettorale in Paraguay per le elezioni generali del 30 aprile è stata segnata dalla discussione intorno alla possibilità di rompere i legami con Taiwan, retaggio dell’antisocialismo furioso imposto dalla dittatura di Alfredo Stroessner (1954-1989). Un viraggio che potrebbe avere ripercussioni anche sui partner del Mercosur (Argentina, Brasile e Uruguay): le relazioni Taipei-Asunción infatti impediscono al principale blocco commerciale dell’America Latina di poter stabilire accordi con Pechino. Che a sua volta ha già lanciato una politica di pressione sui paesi del Cono Sud col lancio della fase preliminare di un accordo di libero scambio col governo uruguaiano, decisione che secondo i governi di Brasilia e Buenos Aires potrebbe “distruggere” il Mercosur.
Le reazioni degli Usa
Ma se l’approdo cinese nel continente può generare attriti tra i paesi latinoamericani, ancora più fragorose sono le reazioni dell’egemone tradizionale nella regione, gli Usa. Dopo aver apertamente declassato i rapporti con l’America Latina a un “problema di sicurezza nazionale” durante i governi di George W. Bush, la Casa Bianca si è ritrovata a fronteggiare serie difficoltà per riaffermare il proprio primato nel continente. Le crisi sociali provocate dal Washington Consensus avevano portato al governo movimenti di sinistra ostili alle politiche storicamente volute dagli Usa, e in molti casi la massima geopolitica applicata in America Latina fu semplice: puntare sulla potenza geograficamente più lontana per alleviare il peso della presenza di quella più vicina. Dal 2010 le aziende cinesi investivano annualmente l’equivalente del totale dei 20 anni precedenti. Nonostante una certa distensione raggiunta negli ultimi anni di governo di Obama, la presidenza Trump non ha fatto che acuire le distanze tra i governi latinoamericani e gli interessi Usa, e l’insistenza dell’amministrazione Biden nel ridurre i rapporti con la regione alla questione migrazione e al compimento degli standard democratici Made in Usa aumenta oggi le possibilità cinesi di un inserimento sempre più profondo nell’emisfero. 21 dei 33 paesi della regione hanno siglato il loro ingresso nella Belt and Road Initiative, Huawei è presente nella maggior parte dei bandi lanciati per la creazione della tecnologia 5G e i piani proposti da Washington per contrastare l’avanzata cinese riscuotono sempre meno successo.
Sembrerebbe però che la risposta a stelle e strisce bisogna cercarla nello spazio di influenza cinese, e non in America Latina. L’intenzione di Usa e Cina di ampliare la propria influenza nel “giardino di casa” dell’avversario geopolitico si è particolarmente espressa durante l’emergenza Covid. Il Dipartimento di Stato infatti ha distribuito nel continente americano 73 milioni di dosi di vaccini, contro i 134 milioni donati ai paesi del sudest asiatico e i 230 milioni inviati in Asia Centrale e Meridionale. Molto più complesso invece quantificare l’ingente e rapidissimo invio di materiale sanitario da parte di Pechino in America Latina, che ha però superato decisamente quello degli Usa: mentre Washington dibatteva ancora sulla politica da adottare per affrontare il virus, il governo di Xi Jinping distribuiva migliaia di respiratori, test e mascherine, oltre ai prestiti a basso costo concessi a Brasile, Venezuela e Messico.
E l’Europa resta a guardare
Anche l’Alto appresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell’Ue, Josep Borrell, ha preso nota delle serie difficoltà che rappresenta l’aumento della presenza cinese in un’area tradizionalmente legata all’Occidente. E ha affidato alla presidenza spagnola del consiglio dell’Unione, prevista nel secondo semestre 2023, la creazione di una strategia volta a ripristinare l’influenza europea nella regione in esplicita concorrenza con la Repubblica Popolare. Ma Washington e Bruxelles dovranno dimostrare di voler riaffermare la propria presenza con azioni e concessioni concrete. Nelle condizioni attuali, una revisione della presenza cinese non conviene a nessun governo latinoamericano, e la scommessa già fatta da Trump per favorire il ritorno dei partiti liberal-conservatori al potere non sembra aver sortito effetto nell’ultimo quinquennio.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di aprile/giugno di eastwest
Lula riparte dall’Amazzonia
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Luiz Inácio Lula da Silva, tornato alla presidenza del Brasile dopo 11 anni intensissimi, che lo hanno visto passare dal carcere di Curutuba ai bagni di folla della sua San Paolo alle elezioni di ottobre, sa che il pilastro della nuova politica estera del paese si trova in Amazzonia. Un territorio che copre 2/3 del Sudamerica, con la rete fluviale più estesa del mondo, che rappresenta il 15% dell’acqua dolce non congelata disponibile sul pianeta, il 35% dei boschi primari, e la metà della flora e fauna globali. Un ecosistema complesso e delicato, in cui vivono circa 390 popoli indigeni, la cui cultura e lingua rappresentano un patrimonio intangibile per tutta l’umanità, e che oggi è al centro dell’attenzione mondiale.
La riduzione della superficie della foresta pluviale per dare spazio a coltivazioni e pascoli, e i traffici illegali connessi alla distruzione della flora e della fauna, sono fonte di preoccupazione internazionale, oltre che segno di debolezza istituzionale del Paese, e Lula lo sa. Un’azione decisa in quest’ambito segnerebbe un cambio di pagina radicale rispetto al suo predecessore, Jair Bolsonaro (2019-2023), che ha portato il Brasile all’isolamento internazionale proprio per le scelte prese in questo campo. Nei 4 anni del suo governo sono andati distrutti 45.783 kmq di selva tropicale, equivalenti a paesi come Estonia o Danimarca, un incremento del 60% rispetto ai 4 anni precedenti.
L’ex presidente ha abbracciato la posizione della destra brasiliana e dei produttori legati all’agrobusiness, secondo cui le leggi di protezione ambientale sono uno scoglio allo sviluppo economico, e qualunque critica internazionale alla gestione delle risorse brasiliane un’intromissione nelle decisioni sovrane del Paese. In effetti, parte del disboscamento è legata a piani di sviluppo territoriale del governo, come la pavimentazione delle strade e autostrade che collegano la città di Manaos, agglomerato da 2,2 mln di abitanti nel cuore dell’Amazzonia, alle principali città brasiliane. Il governo Bolsonaro ha eroso le capacità operative degli organismi statali creati per affrontare il fenomeno della deforestazione, salvaguardare la flora e la fauna, e garantire i diritti di cittadinanza delle popolazioni indigene. I rapporti ufficiali parlano di incendi intenzionali, deforestazione in parchi nazionali, estrazione mineraria abusiva in aree protette.
Le conseguenze sull’ambiente sono gravi, non solo per il Brasile, eliminando una delle poche difese naturali che la Terra ha contro il cambiamento climatico. La distruzione dei biomi amazzonici spiega il 55% delle emissioni totali di CO2 registrate nel 2021, le più alte da 20 anni. Secondo i modelli di predizione più accettati finora, il punto di non ritorno, poi il polmone verde del pianeta non sarà più riparabile, è la perdita del 25% del totale della superficie amazzonica originale. Oggi siamo al 18%, altra ragione per la quale la protezione della foresta pluviale è entrata a far parte delle agende multilaterali. Gli effetti immediati della deforestazione sono più visibili in Brasile, specialmente nel sud-est, dove le temperature della stagione secca negli ultimi 4 decenni sono aumentate in media di 2,5 gradi. Ed è quel che si prevede possa succedere su scala globale.
Il governo del Partito dei Lavoratori (PT) di Lula si è presentato come ultima speranza per dare il via a un percorso di cooperazione internazionale per mitigare i danni al sistema amazzonico. Il Green New Deal alla brasiliana prevede l’estensione delle zone protette, il rafforzamento delle agenzie di controllo e la creazione di nuove istituzioni dedicate all’Amazzonia, come il Ministero per gli Affari Indigeni, sovvenzioni all’agricoltura famigliare e sostenibile, incentivi alle aziende per applicare nuovi standard di produzione. Lula può già vantare ottimi risultati nella lotta al disboscamento. Si calcola che nei suoi 8 anni di governo la distruzione della foresta pluviale si sia ridotta del 70%. Eppure, i governi del PT non sono rimasti sordi di fronte agli interessi dell’agrobusiness. Tra il 2002 e il 2010 gli introiti del settore agricolo sono raddoppiati, e i prestiti per la produzione di carne bovina si sono moltiplicati, favorendo la lenta espansione delle praterie da pascolo a discapito delle aree naturali. Ma se Bolsonaro aveva addirittura posto diversi imprenditori agricoli a capo delle istituzioni che dovevano salvaguardare l’Amazzonia, Lula dovrà mostrare una svolta in quest’ambito, e raggiungere rapidamente gli obiettivi che si è prefissato.
Obiettivi per i quali il Brasile ha bisogno di ingenti fondi, che in mezzo alle ristrettezze economiche e la recessione sono difficili da trovare. É su questo aspetto che la nuova squadra presidenziale si è particolarmente prodigata dopo il trionfo di Lula a ottobre. In primo luogo, ottenendo dalla Corte Suprema la riapertura del Fondo Amazzonico, creato proprio durante il primo governo Lula, nel 2008, per ricevere donazioni internazionali che assicurassero le risorse di base per l’azione ambientale nella regione. La chiusura del Fondo e il congelamento del mezzo miliardo di dollari che vi rimaneva è stata una delle prime azioni di governo di Jair Bolsonaro nel 2019. Germania e Norvegia (paese che ha stanziato il 94% del denaro depositato nel Fondo Amazzonico) hanno già annunciato la loro intenzione di ripristinare l’invio di contributi. Durante il summit della Cop27 in Egitto, l’ex ministra per l’Ambiente e principale riferimento della politica ambientale del governo Lula, Marina Silva, ha esteso l’invito anche ai governi di Francia, Svizzera, Canada, Usa e Uk. Quello di Sharm el-Sheik è stato infatti il primo importante appuntamento nella costruzione della politica estera del Brasile. Lula si è presentato come un nuovo leader nella lotta contro il cambio climatico, disposto ad assumere il protagonismo della discussione globale sulla cooperazione ambientale. Frutto di questa scelta è l’impegno a ospitare la Conferenza delle Parti sul Clima dell’Onu in Amazzonia nel 2025.
Un’agenda che è vista di buon occhio da parte delle principali potenze globali e che potrebbe avvicinare l’amministrazione Lula ai leader della politica e dell’economia anche su altri dossier. Washington appare disposta a cogliere l’opportunità, già a novembre l’amministrazione Biden stava studiando la possibilità di applicare il Magnitsky Act sulle sanzioni a individui contro i responsabili della distruzione della regione Amazzonica in Sudamerica. Se per la sinistra tradizionale latinoamericana (e per Bolsonaro) una simile possibilità era vista un’intollerabile intromissione Usa negli affari domestici, oggi il governo Lula la prende come un’opportunità di collaborazione internazionale per ripristinare il ruolo del Brasile nel mondo. “Siamo più isolati di Cuba, che vive un embargo durissimo da 60 anni” ha ripetuto in campagna elettorale l’attuale Presidente, che durante i suoi governi ha portato il Brasile a un ruolo di primo piano nel G20, nei Brics, e su scala regionale con la creazione dell’Unione Sudamericana delle Nazioni (Unasur) e la Comunità degli Stati Latinoamericani e dei Caraibi (Celac), a cui il Brasile ha smesso di partecipare attivamente dal 2019.
Proprio l’aspetto sudamericano è uno dei più rilevanti nella questione amazzonica. Il bacino forestale comprende anche paesi come il Venezuela, con cui Brasilia ha già riallacciato relazioni diplomatiche, Colombia, Ecuador, Perù, Bolivia, Suriname e Guiana. La cooperazione internazionale tra questi paesi è scarsa e spesso legata a impegni bilaterali, e il Brasile, da leader globale sulla questione climatica, si appresta a raccogliere anche la sfida continentale.
Si noti inoltre che il Brasile confina con la Francia proprio nella zona amazzonica: la Guayana Francese è uno dei Dipartimenti d’Oltremare controllati dal governo di Parigi, con cui Lula ha stabilito buone relazioni fin dalla campagna elettorale. Macron lo ha ricevuto infatti con gli onori di un presidente ancor prima di essere eletto. L’entourage di Lula porta avanti poi un dialogo stretto coi governi di Indonesia e Repubblica Democratica del Congo, gli altri due paesi con la maggior superficie di foresta tropicale al mondo. Un dossier, quello della “cooperazione sud-sud”, che è stato uno dei capisaldi della politica estera brasiliana durante i governi del PT. Certo, i risultati non arriveranno subito. In parte perché il sistema statale dedicato alla conservazione dell’Amazzonia è duramente provato dalle misure adottate negli ultimi anni. Sostituire i funzionari senza ricorrere ai diktat dell’amministrazione precedente non sarà facile. E poi perché i primi dati concreti sullo stato della foresta pluviale si conosceranno a luglio, e includeranno anche gli ultimi sei mesi dell’amministrazione Bolsonaro, che sconfitto alle urne, ha lasciato carta bianca ai suoi sottoposti per ampliare il più possibile la cosiddetta “frontiera agricola” prima dell’avvicendamento presidenziale.
La questione Amazzonia resta comunque la direttrice della proiezione geopolitica del Brasile di Lula nei prossimi mesi. Un elemento attraverso il quale ripristinare il posto del gigante sudamericano nelle istituzioni della governance globale, e poterne anche influenzare le decisioni.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/marzo di eastwest
Brasile, il ritorno di Lula
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Questo articolo è stato pubblicato sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
Lo spettro del golpe cala nuovamente sul Brasile in vista delle elezioni del prossimo 2 ottobre, e a sbandierarlo è lo stesso Governo in carica. Dopo le critiche ricevute all’estero e in patria per la gestione della pandemia di Covid-19, che ha provocato più di 682mila morti in Brasile, il Presidente Jair Bolsonaro ha inizialmente impostato la sua strategia di campagna per la rielezione sulla denuncia di possibili brogli. Già nel 2021 la Corte Suprema ha aperto un’indagine contro l’ex capitano dell’esercito brasiliano per la diffusione di notizie false intorno al sistema elettorale.
A luglio la presidenza ha addirittura riunito una cinquantina di diplomatici stranieri per illustrare le presunte debolezze del meccanismo elettronico con cui il Paese vota dal 1996. Un incontro che ha acceso campanelli d’allarme non solo a Brasilia: il Presidente statunitense Joe Biden ha subito istruito il suo segretario per la Difesa, Lloyd Austin, affinché rivolgesse un chiaro discorso a favore della democrazia ai generali dell’esercito brasiliano durante la XV Conferenza dei Ministri della Difesa delle Americhe svoltasi proprio in Brasile. Una strigliata insomma, che si aggiunge agli appelli lanciati in patria anche da settori che in passato hanno permesso l’arrivo al potere dell’estrema destra. All’inizio di agosto, ad esempio, ha fatto scalpore una lettera aperta in difesa della democrazia e tra le firme vi sono anche quelle dei CEO di circa 4.000 aziende che producono un terzo del Pil del Brasile, oltre ai rappresentanti di potentissime corporazioni industriali come la Federazione dell’Impresa dello Stato di San Paolo (Fiesp) o la Camera Americana di Commercio (Amcham). Un gesto che ha segnato una chiara frattura tra il presidente e un settore molto influente dell’establisment, proprio mentre Bolsonaro affronta una campagna elettorale in salita: secondo tutti i sondaggi pubblicati sinora, l’ex Presidente Luiz Inacio Lula da Silva ha un vantaggio del 10% circa su Bolsonaro, che avrebbe inoltre poche possibilità di vittoria in vista di un quasi certo secondo turno.
I risultati ottenuti nel comparto dell’economia durante i quattro anni di Governo Bolsonaro non aiutano certo la campagna dell’attuale Presidente. Il Pil brasiliano si è contratto fino allo 0,8% di crescita annua stimata per quest’anno dal Fondo monetario internazionale, un vero e proprio record negativo per il gigante sudamericano. Durante i governi di Fernando Henrique Cardoso (1995-2003) e lo stesso Lula da Silva (2003-2011), la crescita si è mantenuta in media tra il 3% e il 5,5%, ora il Brasile occupa il posto 180 su 193 paesi del World Economic Outlook del Fmi con risultati ben al di sotto della media latinoamericana (2,5%). Anche nella lotta alla disoccupazione il Governo Bolsonaro ha mostrato serie difficoltà. La riforma del lavoro voluta dall’ex Presidente Michel Temer, e che Bolsonaro difende nel suo programma elettorale, non ha ridotto il tasso di disoccupati nel paese che, invece, si attesta al 13,4% di media negli ultimi quattro anni. Ma il dato più preoccupante è sicuramente quello degli investimenti. Il Brasile è stato infatti storicamente la piattaforma d’ingresso per i capitali internazionali che aumentavano poi la propria presenza nel resto della regione. Ma nell’ultimo decennio questo fenomeno ha subito una battuta d’arresto. Gli investimenti internazionali sono piombati al 16,3% del Pil durante la gestione Bolsonaro, ben al di sotto della media mondiale durante lo stesso periodo (26,8%) e anche di quella regionale (19,3%).
Buona parte di questi risultati sono frutto delle decisioni prese dal Ministero dell’Economia negli ultimi anni, come l’innalzamento dei tassi d’interesse, le restrizioni all’accesso al credito e le liberalizzazioni attuate nel mercato del lavoro. Tutte misure che Lula promette di contrastare con un forte intervento statale nei principali comparti della produzione e il potenziamento del welfare. Il programma della “Coalizione Brasile della Speranza”, che sostiene l’ex Presidente e leader della sinistra brasiliana, non è altro che un aggiornamento di quello sostenuto durante i tre governi del Partito dei Lavoratori (PT) tra il 2003 e il 2016, a cui però ha scelto di dare un taglio più moderato per assicurarsi i voti del centro. Il PT ha infatti siglato un accordo con Geraldo Alckmin, ex governatore conservatore di San Paolo che sarà candidato a vicepresidente di Lula. L’unione, assolutamente innaturale e impensabile fino a qualche mese fa, punta a destare nei votanti di centro una maggior adesione al fronte anti-Bolsonaro di cui Lula è ormai l’insegna, a rassicurare i grandi settori industriali riluttanti a una possibile svolta a sinistra del paese, e a ridurre l’effetto dell’antilulismo, che tra il 2014 e il 2018 ha alimentato la crescita dell’estrema destra brasiliana. La moderazione di Lula poi, non è certo una novità. Già nel 2003, quando vinse la sua prima elezione presidenziale, il leader sindacale barbuto aveva lasciato spazio allo statista, che preannunciava grandi cambiamenti sociali senza intaccare la struttura economica brasiliana. E così fu. Con una politica di conciliazione tra capitale e lavoro, riforme sociali, rafforzamento del welfare e apertura al mercato internazionale il PT si assicurò un secondo mandato per Lula e la vittoria di Dilma Rousseff nel 2010.
A sancire la fine del progetto della sinistra fu l’ondata di scandali di corruzione rivelati a partire dal 2014, che investirono tutte le forze politiche brasiliane e favorirono la crescita di Bolsonaro, autodefinitosi un outsider nonostante avesse quasi trent’anni di esperienza come deputato, e fosse sostenuto dalle potentissime chiese pentecostali, le forze armate e gli imprenditori legati all’agrobusiness. Oggi quel fronte sembra essersi sgretolato. Un recente sondaggio di Folha de São Paulo rivela che tra gli evangelisti la corsa tra Lula e l’attuale Presidente è quasi pari. E sebbene l’esercito, che dal 2018 occupa posti rilevanti nell’amministrazione Bolsonaro, si mantenga fedele al leader dell’estrema destra, i comandi hanno preso le distanze dalle critiche al sistema elettorale del presidente e difficilmente si imbarcherebbero in una nuova avventura golpista. I militari sono stati spesso posti a capo della gestione degli enti e istituti specializzati che rispondono al Governo federale, indebolendone l’azione nei comparti più ostili all’esecutivo di Bolsonaro, come la politica indigena, il contrasto agli incendi e la deforestazione nell’Amazzonia o le miniere abusive. Una prassi che ha però gettato un certo discredito sulle forze armate di fronte all’opinione pubblica.
A livello internazionale l’attenzione sulle elezioni brasiliane si mantiene alta. Bolsonaro si è dimostrato un vero e proprio ostacolo per gli interessi degli Usa nella regione, specialmente nell’ambito della gestione dell’Amazzonia e la cooperazione durante la pandemia. Anche i Paesi europei, e in special modo la Francia, che condivide 730 chilometri di frontiera col Brasile nella Guyana Francese, attendono con interesse i risultati del 2 ottobre, in vista soprattutto di una rinegoziazione dei termini del Trattato di Libero Scambio tra Ue e il Mercosur. Ma è in America Latina dove le attese sono più vivide. Un nuovo Governo Lula potrebbe favorire la coordinazione tra le diverse sinistre latinoamericane giunte al potere negli ultimi mesi, e che non sembrano avere alcuna piattaforma comune. Il PT ha già saputo far coincidere il Venezuela di Chavez col Cile di Bachelet su certe tematiche comuni a livello sudamericano, ha favorito la nascita dell’Unasur e la svolta a sinistra nella segreteria dell’Organizzazione degli Stati Americani. Una nuova stagione progressista nel regionalismo latinoamericano potrebbe dare maggior impulso ai governi di sinistra della regione che affrontano seri problemi di stabilità interna. E un Brasile governato da Lula potrebbe essere il primo passo in quella direzione.
Venezuela, l’ombra di Putin tra Biden e Maduro
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Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
L’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina ha creato condizioni inattese nella periferia del sistema internazionale. Nella maggior parte dei Paesi latinoamericani si è aperto il dibattito intorno alla creazione di nuove imposte per tassare i ricavi straordinari ottenuti dai comparti della produzione alimentare ed energetica grazie all’impennata dei prezzi di cereali e idrocarburi. Il Venezuela in particolare mira ad approfittare della congiuntura per migliorare la propria posizione internazionale di fronte alle potenze occidentali. E in parte ci sta riuscendo.
A inizio marzo una delegazione di alti funzionari Usa guidata da Juan González, Consigliere per l’America Latina della Casa Bianca, ha incontrato a Caracas i rappresentanti del Governo di Nicolás Maduro per discutere un allentamento delle sanzioni che pesano sull’export del petrolio venezuelano dal 2019. I contenuti di quella riunione non sono stati rivelati, ma alcune mosse fatte in seguito permettono di interpretarne l’indirizzo: il governo venezuelano ha rilasciato, pochi giorni dopo l’incontro, due dei cinque direttori statunitensi della Citgo Petroleum Corporation arrestati nel 2017 per frode ai danni della statale Petróleos de Venezuela (Pdvsa). In California, intanto, la multinazionale petrolifera Chevron Corp ha creato un gruppo di esperti per negoziare col Tesoro a Washington la riattivazione delle proprie attività nelle quattro joint venture che condivide con la Pdvsa. Prima delle sanzioni imposte dalla Casa Bianca, il tandem venezuelano-statunitense produceva circa 200.000 barili di petrolio al giorno, oggi ridotti a poco più della metà. Le conversazioni includerebbero anche la cessione a Chevron del controllo di diversi settori della produzione da parte delle autorità di Caracas, oltre alle autorizzazioni oil-for-debit per aziende internazionali che mantengono debiti con gli Usa dovuti alla sospensione delle proprie attività in Venezuela, tra cui la spagnola Repsol e l’italiana Eni SpA.
Un disgelo nei rapporti con gli Stati Uniti è possibile?
A prima vista, l’equazione sembra semplice: dopo aver sospeso le importazioni di greggio dalla Russia a causa della guerra, l’amministrazione Biden sarebbe disposta a mettere in soffitta le accuse di violazione ai diritti umani contro Caracas pur di sostituire il petrolio russo con quello venezuelano. Eppure la questione è molto più complessa. In parte perché le importazioni di petrolio dalla Russia rappresentano una minima parte del fabbisogno statunitense, che ben potrebbe essere rimpiazzato per altre vie. E poi perché il Venezuela tarderebbe anni a raggiungere una produzione sufficiente a sopperire le necessità del mercato Usa. Secondo le più rosee previsioni, una cancellazione delle sanzioni sul petrolio permetterebbe al Venezuela di produrre circa 1,5 milioni di barili al giorno a fine 2023, appena sufficienti a ridurre l’impatto della carenza energetica sul prezzo della benzina nei distributori degli Usa. Il tracollo dell’industria petrolifera venezuelana è infatti gigante. Nel 2016 il Venezuela produceva circa 2,3 milioni di barili di petrolio al giorno. Nel marzo del 2022 la media era di 755.000. Il Paese con le più grandi riserve al mondo di greggio ha dovuto importare petrolio dall’Iran nel 2019 per far fronte alla crisi. Senza la collaborazione tecnica delle imprese straniere dunque, l’oro nero venezuelano resterà sottoterra.
Le ragioni di un possibile disgelo nelle relazioni tra Washington e Caracas bisogna dunque cercarle nelle proiezioni dell’emisfero a medio e lungo termine. E in questo ambito, il Governo di Maduro sta cercando di mostrare un volto più tollerabile per la Casa Bianca. A partire dal 2019 si assiste a una dollarizzazione de facto dell’economia locale: il 70% delle transazioni commerciali avvengono in valuta statunitense col beneplacito delle autorità locali. L’inflazione annua è piombata così dal 2.295.981% del 2017 al 250% previsto per il 2022. Il Governo ha progressivamente liberalizzato l’importazione in alcuni comparti dell’economia, ha stipulato nuovi contratti con attori privati e incentivato la nascita di una nuova élite economica, meno legata all’opposizione conservatrice tradizionale.
Anche sul piano politico il chavismo ha fatto concessioni tese a migliorare il proprio posizionamento internazionale: ha avviato un tavolo di negoziazioni con l’opposizione in Messico con la mediazione del Governo norvegese; ha richiesto l’invio di una Missione di Osservazione Elettorale dell’Unione europea durante le elezioni legislative del 2021, le prime con la partecipazione della maggioranza dell’opposizione in anni; e ha recentemente riaperto l’ufficio della Corte penale internazionale a Caracas, tribunale che ha tra le mani diverse denunce per violazione dei diritti umani contro le autorità venezuelane. Rappresentanti venezuelani hanno incontrato a marzo anche l’Alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e si sono mostrati disposti al dialogo per la revisione delle sanzioni che Bruxelles ha imposto dal 2019.
E poi, il contesto regionale è certamente cambiato. Il Gruppo di Lima, che dal 2017 riuniva i Governi conservatori del continente in chiave anti-venezuelana si è praticamente sciolto, e i falchi che chiedevano la cacciata di Maduro come condizione per ristabilire le relazioni col Venezuela oggi sono sempre meno. A metà aprile un messaggio importante è arrivato da Buenos Aires: il Presidente argentino Alberto Fernandez, che detiene la presidenza temporale della Comunità di Stati Latinoamericani e dei Caraibi (Celac), ha lanciato assieme al Presidente ecuadoriano Guillermo Lasso l’appello per integrare nuovamente Caracas a pieno nella diplomazia latinoamericana.
Nuove possibilità per il Venezuela
In questo contesto, l’invasione russa in Ucraina apre nuove possibilità per il Venezuela. Difficile ancora parlare di un vero e proprio disgelo con la Casa Bianca. Gli ostacoli per un accordo sono molti. Washington pretende la celebrazione di elezioni trasparenti nel breve termine per allentare le sanzioni mentre Caracas vuole la sospensione immediata delle restrizioni imposte alla propria economia. E poi c’è il fattore russo. Dallo stabilimento dell’Alleanza Strategica siglata dall’ex Presidente Hugo Chavez e Vladimir Putin nel 2005, il Cremlino si è trasformato in uno dei principali sostenitori del Governo venezuelano. Fino al 2010 è stato il principale rifornitore di materiale militare di Caracas, superato poi dalla Cina. In Venezuela è attivo il sistema antiaereo S-300, che oltre all’uso di munizioni di fabbricazione russa prevede la presenza di personale militare russo in territorio venezuelano per il mantenimento e addestramento degli addetti locali. Fare pressione sul principale alleato del Cremlino nell’emisfero – disposto comunque a lasciarsi tentare – potrebbe portare qualche risultato a favore di Washington nel futuro.
Sta di fatto che la Casa Bianca sembrerebbe aver compreso che la linea dura nei confronti di Maduro non porta da nessuna parte, ed evidentemente vorrebbe evitare il protrarsi della tensione a lungo termine nel “giardino di casa”, come nel caso cubano. La differenza tra la gestione Trump e quella di Biden è che oggi è ormai chiaro a chiunque che qualsiasi cambiamento in Venezuela deve includere il chavismo come un attore politico di peso. L’intransigenza di Juan Guaidó, riconosciuto in passato come legittimo presidente sia da Trump sia da Biden, e delle comunità di espatriati in Florida non hanno più lo stesso effetto sugli interessi della Casa Bianca, per il semplice fatto che questi si sono dimostrati inconcludenti ed inaffidabili. Le pressioni per la sospensione delle sanzioni sul comparto petrolifero venezuelano oggi giungono anche dai settori impresari del Paese sudamericano, dalle multinazionali del settore, e la sospensione ha ormai il beneplacito di dirigenti politici democratici e repubblicani.
Per il Venezuela il principale obiettivo è rompere l’isolamento a cui è condannato da quasi 5 anni. Mantenere, anche solo dal punto di vista della retorica, il proprio allineamento a favore della Russia non sembra bastare per frenare il lento cammino verso la normalizzazione delle relazioni con il resto del sistema internazionale. Processo ormai visto come una necessità anche fuori dal Venezuela.
Il Cile di Boric nel nuovo scenario latinoamericano
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Nel 2011, in uno dei momenti più algidi delle proteste degli universitari cileni contro il modello privato di educazione superiore, il Presidente Sebastián Piñera, allora al suo primo mandato, si rifiutò di ricevere i leader del movimento studentesco. Dieci anni più tardi Piñera è costretto ad accogliere al Palacio de la Moneda uno di quei dirigenti rigettati perché considerati violenti e sovversivi, come Presidente eletto. Gabriel Boric sarà, a partire dall’11 marzo, il Presidente più giovane della storia del Cile, e anche quello più votato, dopo aver battuto per più di 11 punti il candidato dell’estrema destra José Antonio Kast al ballottaggio di domenica. Il Boric del 2021 è il rappresentante di un movimento a cui lo stesso Piñera, in un’ennesima dimostrazione della miopia dell’élite conservatrice cilena, aveva apertamente “dichiarato la guerra” verso la fine del 2019, quando le piazze di Santiago straripavano di giovani che chiedevano la fine del modello sociale ed economico impiantato dalla dittatura di Augusto Pinochet, e sostenuto dai Governi democratici eletti a partire dal 1990.
Il programma del nuovo Presidente è infatti diametralmente opposto ai cardini del sistema attuale cileno: aumento delle imposte fino all’8% del Pil, riforma del sistema pensionistico oggi totalmente privatizzato, legalizzazione dell’aborto, maggior partecipazione di donne e popoli indigeni nelle istituzioni di Governo, aumento del salario minimo, riduzione della giornata di lavoro e gratuità dei sistemi di salute e sanità. Un programma ambizioso, tenendo in conto che Apruebo Dignidad, la coalizione di Partito comunista e Frente Amplio che sostiene Boric, avrà solo 37 deputati su 155, e che in un congresso fortemente polarizzato il Governo faticherà molto per approvare riforme radicali. In parte questo problema ha segnato la campagna di Boric al secondo turno. L’ex leader delle manifestazioni studentesche ha moderato di molto il proprio discorso, cercando di captare il voto di centro e promettendo un Governo di compromessi con tutti i settori della politica.
Un nuovo Cile?
Il Cile è uno dei Paesi coi migliori indicatori di uguaglianza economica dell’America Latina, in cui però le fasce medie non possono accedere a servizi basici come salute, educazione, o addirittura l’acqua, senza indebitarsi vita natural durante. È questa la pesantissima eredità lasciata dagli alunni cileni di Milton Friedman, approdati alle più alte cariche dello Stato cileno grazie al sanguinoso golpe portato avanti da Pinochet nel 1973, primo fra tutti José Piñera, fratello dell’attuale presidente e ministro dell’economia durante la dittatura. I “Chicago Boys” del guru di Capitalismo e Libertà hanno impostato un sistema profondamente liberista, blindato dalla Costituzione del 1980, che gira intorno all’idea di sussidiarietà dello Stato: la gestione della vita economica delle persone deve essere integralmente consegnata in mano ai privati e i poteri pubblici intervengono solo se questi non possono garantire le prestazioni pattuite.
La vittoria di Gabriel Boric, che aveva solo quattro anni quando Pinochet abbandonò il potere, rappresenta l’ennesimo colpo a questo modello spesso osannato dalle élite latinoamericane e occidentali, ma che la maggior parte dei cileni considera evidentemente esaurito. La retorica della realizzazione personale a partire dallo sforzo individuale si scontra in Cile con una realtà di privilegi ormai insostenibili. Secondo il Peterson Institute for International Economics, il 67% dei multimilionari in Cile deve la propria ricchezza all’eredità famigliare, il 17% alle proprie connessioni col mondo della politica e solo il 16% ha generato la propria fortuna a partire da investimenti produttivi o finanziari. Ed è questo il Cile che la generazione del nuovo Presidente conosce.
Un Governo di sinistra e una chiara egemonia delle diverse espressioni della sinistra cilena anche nella Convenzione Costituente, insediatasi a luglio, potrebbero essere la garanzia di una svolta storica per il Paese. La sinergia tra Governo e costituenti, sorti entrambi dai movimenti che hanno animato le proteste del 2019, sarà uno dei punti forza del nuovo esecutivo, il quale però dovrà fare i conti con pressioni domestiche ed esterne considerevoli affinché le riforme non modifichino l’assetto macroeconomico del Paese.
Svolta a sinistra in America Latina?
Il Cile è il principale produttore di rame del mondo. È il secondo alleato di Washington in America Latina dopo la Colombia. Vanta una proiezione naturale verso il commercio con l’Asia sul Pacifico e verso i territori antartici. È il Paese col maggior numero di trattati di libero scambio della regione e il primo sudamericano a entrare nell’Osce. Negli ultimi quarant’anni il Cile – così come il Messico a partire dagli anni ’80 – si è chiaramente differenziato dal resto dei Paesi latinoamericani che hanno cercato nell’integrazione regionale uno strumento per il proprio inserimento economico e politico nel sistema internazionale. Il Cile ha privilegiato gli accorti bilaterali con le principali potenze del mondo occidentale e il rendiconto garantito dai patti commerciali al di sopra dei legami di solidarietà coi propri vicini. Eppure, anche i capisaldi della politica estera cilena sembrerebbero esser messi in discussione dopo il risultato di domenica.
Il senatore Juan Ignacio Latorre, principale consulente in politica estera del nuovo Presidente, ha chiarito le principali linee guida della visione internazionale del nuovo Governo: nessun allineamento con l’asse bolivariano (Venezuela e Nicaragua in primis, da cui Boric ha già preso le distanze in campagna elettorale), equidistanza e autonomia nella relazione con Usa e Cina (divenuto il principale partner commerciale di Santiago) e ricerca di spazi di consenso e integrazione coi soci latinoamericani, specialmente coi Governi progressisti.
Il primo viaggio all’estero di Boric, secondo quanto trapelato finora, sarà Buenos Aires, con cui le tensioni per la sovranità del mare antartico sono scalate negli ultimi mesi, e parte del repertorio della campagna della destra di Kast. Il primo grande gesto verso la regione del nuovo Governo poi, oltre all’affermazione dell’asse con Buenos Aires, potrebbe essere la ratifica del Trattato di Escazú, primo accordo vincolante sull’ambiente in America Latina, proposto dal Cile di Bachelet e rifiutato in toto dal Governo Piñera. Dunque, un allontanamento dal cammino intrapreso finora, ma non una chiara rottura.
Verso il progressismo latinoamericano?
Quello di Boric è l’ennesimo trionfo della sinistra latinoamericana negli ultimi due anni, dopo quelli di López Obrador in Messico, Fernández in Argentina, Arce in Bolivia, Castillo in Perù e Xiomara Castro in Honduras. E c’è già chi lancia previsioni rosee per il progressismo latinoamericano viste le chiare possibilità di vittoria di Gustavo Petro in Colombia e Lula da Silva in Brasile nel 2022. Le condizioni attuali però sono molto diverse da quelle della “marea rosa” del decennio 2005-2015 in cui la stragrande maggioranza del continente era governata da movimenti appartenenti al Foro de São Paulo.
Le iniziative più innovatrici di quell’epoca (l’Unasur, la Banca del Sur o Petrocaribe) sono fallite miseramente appena è cambiato il vento a favore dei prezzi internazionali delle materie prime. I vizi del regionalismo latinoamericano, come l’estremo presidenzialismo, la subordinazione delle relazioni diplomatiche alle simpatie politiche dei Presidenti, o la sovrapposizione di organismi diversi con i medesimi compiti, rallentano ancora oggi i tiepidi processi di integrazione. L’estrazione politica dei movimenti al Governo oggi nei diversi Paesi latinoamericani, poi, è molto diversa e spesso slegata dall’andamento delle problematiche regionali. Molti dei Presidenti di sinistra sono duramente contestati in patria (da Fernández a Castillo, per non parlare del Nicaragua di Ortega) e hanno dimostrato scarsissima capacità di attrazione a livello latinoamericano.
Sebbene dunque sia molto presto per parlare di una nuova ondata progressista latinoamericana, l’arrivo di Boric al potere modifica chiaramente l’assetto del continente a favore di Governi che propongono politiche fiscali espansive, l’ampliamento del welfare, una nuova agenda verde e il sostegno alle rivendicazioni dei movimenti femministi.
Brasile, norme Ue contro il disboscamento “miopi e protezioniste”
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La decisione della Commissione europea di porre un freno all’importazione di prodotti provenienti da zone sospette di disboscamento ha provocato durissime reazioni in Brasile. Si tratta di un chiaro rafforzamento della politica ambientale dell’Unione, in linea col Green Deal europeo lanciato da Junker nel 2019 e le prerogative presenti nella Next Generation EU, ma che tende anche a cercare di riparare un danno di cui Bruxelles deve certo occuparsi: secondo il WWF, l’Ue è responsabile del 16% della deforestazione mondiale legata al commercio internazionale. Se approvato come previsto, il nuovo regolamento imporrebbe agli importatori europei di presentare una certificazione di “disboscamento zero” all’ingresso di materie prime generalmente associate al degrado forestale nel mondo. I prodotti sono proprio quelli più sensibili per il paniere commerciale brasiliano: soia, manzo, olio di palma, legno, cacao e caffè.
In un’intervista rilasciata al Financial Times, il Ministro degli Esteri brasiliano Carlos Alberto Franco França ha definito “miopi” e “protezioniste” le misure in discussione nel seno dell’Ue. “Quello che non possiamo accettare è che si usi l’ambiente per applicare forme di protezionismo commerciale. É un male per i consumatori e per i flussi commerciali. Penso che ci sia una certa miopia da parte dell’Ue”, ha sostenuto. Il coro di proteste levatosi a Brasilia è unanime. La misura è “inaccettabile e inammissibile”, secondo il Ministro dell’Ambiente, Joaquim Leite, nominato quest’anno per sostituire Ricardo Salles, indagato per contrabbando illegale di legno proveniente dall’Amazzonia.
“Protezionismo climatico” è invece la definizione usata dalla Ministra dell’Agricoltura, Tereza Cristina, soprannominata anni fa “la musa del veleno” per la sua crociata a favore dell’uso dei pesticidi industriali nel Paese. La reazione più dura però è stata quella dell’Associazione Brasiliana dei Produttori di Soia (Aprosoja), che in un comunicato ufficiale ha definito la misura dell’Ue come un affronto alla sovranità nazionale: “L’Europa non è più la padrona del mondo e il Brasile non è più una colonia”, avverte la potentissima confederazione agricola.
Una questione geopolitica
Per il Brasile in effetti un divieto simile potrebbe significare un duro colpo all’economia, già duramente provata dagli effetti della pandemia al commercio internazionale. O’Globo stima che le perdite potrebbero addirittura arrivare alla metà dei 47 miliardi di dollari annui derivati dalle esportazioni di materie prime dal Paese, se sommate alle ulteriori limitazioni introdotte a causa delle misure sanitarie durante gli ultimi mesi. L’Ue è il secondo partner commerciale del Paese dopo la Cina con più di 24 milioni di euro annui in esportazione di materie prime. L’apparente risolutezza con cui l’Ue ha deciso di subordinare la propria politica economica all’approvazione di riforme all’impianto dell’agrobusiness brasiliano è un duro colpo per il Governo Bolsonaro e approfondisce il distacco del gigante sudamericano dall’Europa, già evidente durante la crisi degli incendi nella foresta amazzonica del 2019.
In quel frangente fu il Presidente francese Emmanuel Macron a erigersi a portavoce dell’indignazione internazionale per la distruzione del cosiddetto “polmone verde del mondo”. Un ruolo dovuto non solo al fatto di considerarsi il portavoce dell’Accordo di Parigi, ma anche all’interesse diretto rappresentato dai 730 chilometri di frontiera che la Francia condivide col Brasile proprio nella zona amazzonica della Guayana Francese. E non a caso il principale rivale di Bolsonaro alle elezioni del prossimo ottobre, l’ex Presidente Luiz Inácio Lula da Silva, ha scelto proprio Parigi (e proprio Macron) per dare uno slancio internazionale alla propria campagna per il ritorno al Palácio do Planalto.
La Francia, insieme ad Austria e Irlanda, guida anche la cordata di Paesi europei che nel 2019 hanno imposto un veto all’implementazione dell’accordo di libero scambio tra Ue e Mercosur, negoziato per più di vent’anni e presentato come un trionfo diplomatico da parte dell’amministrazione Bolsonaro. La controparte europea teme proprio che l’azzeramento dei dazi all’ingresso delle merci sudamericane fungano da incentivo per il disboscamento e la distruzione ambientale, specialmente in Brasile. Il ritorno alle alleanze internazionali tradizionali, promesso dall’attuale Governo dopo l’avvento delle relazioni Sud-Sud promosse dagli esecutivi Lula e Rousseff (di cui il Brics è esempio principale), aveva retto fin lì grazie anche al sostegno dell’allora Presidente Trump. Ma per il Brasile la musica è decisamente cambiata: sia l’Ue sia gli Usa di Biden hanno posto in cima alle priorità della relazione bilaterale la questione amazzonica, su cui Bolsonaro però sembra non voler cedere.
Vicini al punto di non ritorno
Bolsonaro ha esordito nell’ambito della discussione sulle problematiche ambientali globali col ritiro del proprio Paese come sede della Cop25 nel 2018. Negazionista del cambiamento climatico, il Presidente brasiliano ha di fatto svuotato i meccanismi di controllo istituzionale volti a ridurre l’impatto dell’attività agricola sulla foresta pluviale e le popolazioni indigene che vi abitano. Sotto il suo Governo sono stati registrati i tassi più alti di disboscamento della storia recente del Brasile: 729.000 chilometri quadrati solo nel 2020, e per il 2021 si stima un aumento vicino al 20% rispetto a quella cifra.
Un disastro che però non porta solo la firma dell’attuale Presidente: nel 1985 solo il 6% della foresta amazzonica era stata sostituita dall’agricoltura, mentre nel 2020 si tratta ormai del 14,5%. Secondo la maggior parte dei ricercatori internazionali, a partire dal 20% di distruzione dell’estensione originale si supererebbe la soglia di irreversibilità del danno prodotto al complesso ecosistema amazzonico. Negli ultimi 35 anni sono stati rasi al suolo 74,5 milioni di ettari, e l’industria mineraria è cresciuta del 656%.
Un lento processo solo accelerato sotto l’attuale Governo. Proprio questa settimana è stato approvato un decreto che autorizza l’estrazione di oro in una vasta zona vergine a ridosso delle frontiere con Venezuela e Colombia, dove vivono 23 popolazioni indigene considerate “protette”. In un recente incontro a Dubai con potenziali investitori internazionali, Bolsonaro ha addirittura assicurato che l’Amazzonia è un “paradiso terrestre” che si trova oggi esattamente nelle stesse condizioni in cui l’hanno scoperta i conquistatori portoghesi nel 1500.
Con queste premesse, non sorprende che le iniziative per la protezione ambientale in Brasile siano piuttosto deludenti. Secondo un’editoriale di Folha de San Paulo pubblicato in occasione del summit della Cop26 di Glasgow, il Brasile non ha compiuto nessun progresso dai compromessi assunti dall’allora presidente Dilma Rousseff alla Cop del 2015. Di fatto, il “nuovo corso” della politica ambientale annunciato a Glasgow dal Ministro Leite non contiene altro che una ripresa degli impegni presi dal Brasile ai tempi della firma degli Accordi sul Clima di Parigi, alcuni giudicati poco credibili dallo stesso Bolsonaro (come quello di azzerare la deforestazione illegale entro il 2030) che hanno come principale obiettivo quello di alleviare la pressione internazionale su Brasilia. Proprio mentre Leite annunciava al mondo le misure adottate dall’esecutivo, l’Istituto nazionale di ricerche spaziali del Brasile (Inpe), incaricato del monitoraggio dell’estensione dell’Amazzonia, annunciava un nuovo record negativo: 13.235 chilometri quadrati di selva rasi al suolo tra agosto del 2020 e luglio del 2021.
Il Cile al bivio tra neo-pinochetismo e la svolta a sinistra
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Il Cile dovrà scegliere il prossimo Presidente per il periodo 2022-2026 tra il rappresentante dell’estrema destra, José Antonio Kast, politico che in più di un’occasione ha rivendicato la dittatura militare di Augusto Pinochet, e Gabriel Boric, giovanissimo rappresentante della sinistra sorta dal movimento studentesco di inizio dei 2000 di cui è stato a lungo leader. Per la prima volta dal ritorno della democrazia nel 1990, le due coalizioni tradizionali di centrodestra, con a capo il Presidente attuale, Sebastián Piñera, e quella di centrosinistra guidata dalla Commissaria per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, Michelle Bachelet, non saranno presenti al secondo turno delle presidenziali.
Una svolta che ormai stupisce poco in realtà. Il risultato di domenica infatti solo può comprendersi se analizzato alla luce di quanto successo nell’ottobre del 2019, quando migliaia di studenti dei licei di Santiago (nell’enorme maggioranza studentesse, fatto tutt’altro che secondario) lanciarono un appello sui social a scavalcare i tornelli della metropolitana dopo la decisione del Governo di autorizzare l’ennesimo aumento dei biglietti. “Non sono trenta pesos, sono trent’anni”, divenne il leit motiv delle immense manifestazioni scatenate da quel gesto, e che hanno messo in scacco l’intera architettura istituzionale e politica costruita nel Paese dopo la caduta del regime di Pinochet. Il risultato di domenica dunque, segna ormai la fine di quel progetto, ma apre grandi interrogativi sul futuro.
La disfatta del “modello” cileno
Il Cile è stato durante anni il Paese modello del neoliberalismo latinoamericano. Primo Paese sudamericano a essere ammesso all’Osce, ha vantato durante più di vent’anni una crescita costante (circa il 7% del Pil annuo fino al 2011) e si è differenziato chiaramente dal resto dei Paesi della regione: mentre l’America latina cercava nel regionalismo e l’integrazione uno strumento per migliorare le proprie condizioni di inserimento nell’economia internazionale, il Cile ha teso sempre all’apertura nei confronti dei mercati internazionali e ai rapporti bilaterali con le grandi potenze, specialmente gli Usa. Proprio in questi giorni a Santiago si è conclusa la trattativa per l’ammodernamento del partenariato Cile-Ue, in controtendenza con il resto dei Paesi del Cono Sud, impantanati nell’accordo Ue-Mercosur da anni. Di fatto il Cile è il Paese col maggior numero di trattati di libero scambio del continente.
I pilastri dello sviluppo economico sono stati posti proprio durante il Governo di Pinochet. Uno di essi è rappresentato chiaramente dalle Afp, acronimo di Amministratrici di Fondi Pensione, gestite da privati che sfruttano il modello di capitalizzazione individuale per assicurarsi fondi d’investimento. Un sistema che ha cementato la fortuna di alcuni pochi speculatori e la condanna della maggioranza dei pensionati, che ricevono in media poco più di 300 euro al mese e sono obbligati in molti casi a lavorare in nero anche ben oltre i 65 anni per garantirsi la sopravvivenza.
Negli anni la logica delle Afp è stata applicata a buona parte degli aspetti della vita: l’accesso alla salute, all’educazione, all’alloggio o altri servizi è condizionato dalla capacità di contribuzione economica degli individui, che per garantirsi una vita dignitosa ricorrono ai prestiti. Secondo la Banca centrale del Chile, nel 2020 il 75% del reddito familiare nel Paese era interamente dedicato a pagare debiti. L’altro grande pilastro del modello cileno è contenuto nella Costituzione emanata nel 1980 sotto il regime di Pinochet, che sancisce il principio di sussidiarietà: lo Stato solo dovrà intervenire in quei comparti in cui il settore privato non possa prestare i servizi essenziali alla popolazione.
L’eliminazione delle Afp e del lucro sui servizi fondamentali sono il cavallo di battaglia del candidato della sinistra, il 35enne Gabriel Boric, che sebbene abbia moderato in buona parte il proprio discorso dai tempi in cui era Presidente della Fech, la Federazione universitaria cilena, raccoglie attorno a sé i principali movimenti che hanno animato le proteste contro il modello economico nazionale negli ultimi vent’anni. Riforma tributaria in senso progressivo, con patrimoniale inclusa, la creazione di un fondo universale di garanzia sanitaria, e l’allargamento dei diritti sociali per le minoranze etniche, la popolazione LGBTI e dei diritti delle donne sono alcuni dei punti forti del programma con cui cercherà di arrivare alla Moneda.
Per farlo però, sa di dover sedurre i votanti più moderati, quel 12% che ha scelto la candidata del centrosinistra Yasne Provoste, ma anche parte di coloro che hanno optato per opzioni più conservatrici. La netta virata verso il centro da parte di Boric, già collaudata negli ultimi mesi, ha però alimentato un certo disincanto nei movimenti di piazza, espresso anche attraverso l’astensione di domenica (superiore al 50% degli aventi diritto), e che permette di presumere che la conflittualità sociale che tiene banco ormai da due anni nel Paese potrebbe non smorzarsi nemmeno con l’arrivo della sinistra al potere.
Il riemergere dell’ethos restauratore
Nel 2019 il Governo Piñera si è detto incapace di poter garantire la sicurezza per la realizzazione dei summit della Cop25 e dell’Asia-Pacific Economic Cooperation (Apec) nel 2019, un colpo duro anche per l’immagine internazionale del Paese, a causa delle manifestazioni e la repressione scatenata dalle forze dell’ordine. Sul piano domestico, per molti fu un’ammissione di incapacità. L’inizio di un processo di riforma della Costituzione del 1980, poi, è stato un colpo duro anche per buona parte della coalizione di Governo, che trent’anni fa partecipò attivamente alla redazione di quel testo costituzionale. Le concessioni fatte dopo la sconfitta alle elezioni della Convenzione costituente hanno infine calato il sipario sulle aspirazioni del settore che fa capo a Piñera di continuare nel potere, disfatta confermata col quarto posto raggiunto dal candidato del Governo, Sebastián Sichel, domenica scorsa.
È Antonio Kast il principale esponente della reazione più conservatrice all’ondata di protesta. Il fulcro del pensiero dell’estrema destra cilena sta nel voler porre limiti all’allargamento dei diritti garantiti dalla democrazia liberale a quelle minoranze escluse dalla vita politica cilena degli ultimi trent’anni. Indigeni, movimenti studenteschi e di sinistra, gruppi LGBTI, posti al margine de facto dal sistema istituzionale e giuridico, sono espressamente considerati un pericolo per la stabilità del Paese. Kast emerge, in termini di Alvaro Ramis, come rappresentante di quel pinochetismo sociologico che si può considerare trasversale alla società cilena – e precedente anche al golpe del 1973, come descritto da Isabel Allende ne “La casa degli spiriti”-, basato sui valori dell’individualismo, la meritocrazia, il rispetto per le tradizioni e le gerarchie, la concezione del diritto nella sua accezione più punitiva, e che appella alla destra come ultimo scoglio per la difesa di quella cosmo visione considerata al di sopra di qualunque discussione politica o elettorale. Ed è proprio contro quell’etica imposta a colpi di desaparecidos e persecuzioni che si è scagliata buona parte della società cilena negli ultimi anni.
Il fatto che Kast abbia ormai ottenuto lo scettro del restauratore, strappato alla destra moderata dell’attuale Governo, è confermato ad esempio dai voti ottenuti nelle due regioni militarizzate del sud dove impervia il conflitto per le terre col popolo Mapuche. Kast, che ha spesso legato le azioni delle organizzazioni indigene col “narcoterrorismo”, ha raccolto più del 42% dei voti nell’Araucania (il doppio rispetto a Boric) e il 32% nel Bio Bio. Poche settimane prima del voto ha addirittura azzardato l’idea di costruire una fossa lungo il confine per evitare l’ingresso di migranti, specialmente venezuelani, boliviani e peruviani.
Al di là di chi vinca il ballottaggio del 19 dicembre, il prossimo Presidente dovrà fare i conti con un Parlamento fortemente atomizzato, dove le coalizioni tradizionali mantengono a stento la prima e la seconda minoranza, ma sono obbligate a scendere a compromessi coi rappresentanti che siederanno ai due estremi dell’emiciclo sia al Senato sia alla Camera. Inoltre, continuano i lavori della Convenzione Costituente, dominata dalle diverse espressioni della sinistra cilena. Nel 2022 l’assemblea dovrà presentare il testo della nuova Costituzione, che sarà sottoposto a referendum per la sua approvazione. La vittoria di Kast potrebbe dare ai difensori della costituzione di Pinochet un’arma potentissima per far deragliare l’intero processo cominciato l’anno scorso, e dare un’impronta molto più conservatrice al “nuovo” modello cileno, sorto dalle ribellioni popolari di due anni fa.
Nicaragua, un’incognita per la politica latinoamericana
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Il Presidente del Nicaragua, Daniel Ortega, e sua moglie e vice, Rosana Murillo, hanno confermato il loro incarico alla guida del Paese per altri 5 anni, in un’elezione fortemente contestata a livello domestico e internazionale. Secondo i dati del Consiglio supremo elettorale i coniugi Ortega hanno ottenuto più del 75% dei voti, e l’affluenza si è spinta oltre il 65% nonostante l’appello dell’opposizione a boicottare le urne. I candidati con maggiori possibilità di fare concorrenza al Governo sono stati sistematicamente incarcerati: Cristiana Chamorro, figlia dell’ex Presidente Violeta Chamorro (1990-1997), Félix Maradiaga, Arturo Cruz, Medardo Mairena, Miguel Mora, Noel Vidaurre e Juan Sebastián Chamorro sono stati arrestati a giugno con l’accusa di favorire l’ingerenza straniera, in base alla polemica “Legge sulla difesa dei diritti del popolo all’indipendenza, alla sovranità e all’autodeterminazione per la pace”, approvata nel dicembre 2020 dall’Assemblea nazionale, dove Ortega mantiene la maggioranza assoluta anche dopo il voto di domenica.
Tra gli incarcerati degli ultimi mesi, spiccano figure storiche del partito di Governo, il Fronte Sandinista per la Liberazione Nazionale (Fsln), guerriglia sorta negli anni ’60 dall’incontro di diverse esperienze della sinistra nicaraguense e che nel 1979 rovesciò la cruenta dittatura di Anastasio Somoza, ultimo rampollo del regime familiare iniziato con suo padre nel 1937. Dora María Téllez, conosciuta come “Comandante 2” ai tempi della rivoluzione sandinista è finita anch’essa a “El Nuevo Chipote”, il penitenziario dove si trovano sotto regime speciale 32 dei 34 dirigenti politici detenuti negli ultimi quattro mesi. Nella lista dei “cospiratori” anche Víctor Hugo Tinoco, viceministro degli esteri del Fsln tra il ’79 e il ’90, e lo scrittore Sergio Ramirez, vice Presidente dello stesso Ortega tra il 1985 e il 1990, ed esiliatosi in Spagna per scampare alle recenti purghe.
Il modello del Nicaragua di Ortega
Buona parte di quel che sta accadendo in Nicaragua si spiega proprio a partire dalla decisione di Ortega di piegare l’allora movimento rivoluzionario a un nuovo corso politico. A partire dal suo ritorno alla presidenza nel 2007, la simbiosi tra partito e Stato si è fatta sempre più evidente, sfociando spesso nelle forme clientelari che la stessa sinistra nicaraguense ha combattuto per decenni. Espulse le dissidenze, riunite poi nel Movimento per la Rifondazione del Sandinismo a cui è stato addirittura impedito di presentare candidature in diverse elezioni, Ortega ha suggellato il patto tripartito che spiega la sua permanenza al potere fino ad oggi: con le grandi imprese nicaraguensi riunite nel Consiglio superiore delle imprese private (Cosep) e con le Chiese cattolica ed evangelica. Nel 2008 il Governo sbaragliò anche l’ultimo cavillo che permetteva la pratica dell’aborto in Nicaragua, siglando anche la fine dell’idillio tra femminismo e sandinismo; lo stesso Ortega è accusato di aver abusato per anni della figlia primogenita di Murillo, Zoilamérica, oggi esiliata in Costa Rica e simbolo dell’opposizione dei gruppi LGBTQI al Governo nicaraguense.
Erano i tempi di Petrocaribe, con cui il Venezuela di Hugo Chávez garantiva petrodollari al Centroamerica e Caraibi in cambio di servizi e materie prime, e Managua approfittò il vento a favore per rafforzare l’inattesa crescita economica. Ad approfittarne furono i potenti di sempre, come il Gruppo Pellas, proprietà di uno degli uomini più ricchi del continente, la finanziaria Promérica, l’holding Lafise o il Mercon Coffee Group, stabilirono un modello basato sul consenso tra partito ed establishment intorno alla politica economica che garantì a Ortega un decennio di stabilità. La riforma bancaria favorì gli affari delle famiglie più importanti del Paese, che hanno usufruito anche di ampi sgravi fiscali. Tra il 2000 e il 2017 la crescita si è mantenuta a una media del 3,9% annuo, permettendo al Governo di giovare anche di un alto grado di consenso popolare.
Il tramonto di questo connubio tra chiesa, partito e industria, le tre entità più importanti del Paese, è giunto nella più ampia crisi delle strutture economiche e finanziarie costruite da Caracas attorno alla cooperazione basata sul petrolio venezuelano. Nell’aprile del 2018 Ortega impose una serie di misure di austerity su richiesta del Fondo monetario internazionale, che provocarono una reazione popolare inattesa. Dopo cinque giorni di saccheggi e scontri, il Governo ritirò la riforma del sistema pensionistico al centro della contestazione, ma i tumulti non si arrestarono. Furono tre mesi di violenze e repressione, conclusi con più di 300 morti – la commissione parlamentare creata ad hoc ne ammise 269 -, centinaia di detenuti e circa 100.000 emigrati. Le chiese e i rappresentanti dell’industria ritirarono il loro appoggio al Governo e chiesero di anticipare le elezioni. Fu il punto di non ritorno.
Un problema internazionale
Il Nicaragua è un territorio strategico per qualunque potenza che voglia esercitare la propria influenza sull’America centrale. Paese bioceanico ma ricco di acqua dolce, è stato recentemente al centro di un tentativo di Pechino di costruire un canale alternativo a quello di Panama, naufragato dopo la crisi del 2018 e il rafforzamento dei rapporti tra Managua e il suo tradizionale alleato di Taiwan. Durante più di dieci anni la stabilità del Nicaragua sandinista ha ricevuto il beneplacito più o meno esplicito di Washington, che dal 1986 deve 17 miliardi di dollari al Nicaragua in riparazioni imposte dalla Corte dell’Aja per attività terroristiche e il finanziamento illegale dei Contras degli anni Settanta proprio contro il Fsln. Oggi tra i due Paesi è vigente un accordo di libero scambio e gli Stati Uniti possono anche dirsi compiaciuti del flusso relativamente basso di migranti nicaraguensi che arrivano alla propria frontiera sud: un terzo rispetto ai salvadoregni e la metà dei guatemaltechi. Nonostante ciò, le rimesse dei migranti rappresentano un 15,3% del Pil del Paese.
Gli stretti rapporti del Governo di Ortega con Cuba, Venezuela e Russia – che nell’aprile 2017 ha inaugurato una base militare nella Laguna di Nejapa poco lontano dalla capitale – e la repressione scatenata contro le manifestazioni del 2018 hanno portato Washington ad approvare il Nicaraguan Investment Conditionality Act o Nica Act, con cui condiziona la cooperazione finanziaria alla realizzazione di elezioni libere e trasparenti. L’amministrazione Trump ha inasprito la stretta su Ortega imponendo sanzioni dirette a funzionari del suo Governo, ampliate quest’anno da Joe Biden. Anche l’Ue ha imposto sanzioni contro 14 membri del Fsln, recentemente estese fino a ottobre del 2022.
In questo contesto, la celebrazione delle elezioni di domenica, definite “una farsa” dalla Casa Bianca e “un fake” dall’ l’alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza e vicepresidente della Commissione europea, Josep Borrell, non fa altro che isolare ancor di più il Nicaragua. Anche il fronte latinoamericano sembra titubante nel sostenere Ortega in questo frangente. L’asse progressista formato da Argentina e Messico, che si è astenuto nelle votazioni delle risoluzioni dell’Organizzazione degli Stati Americani contro il Governo di Managua adducendo di voler restare ligi al principio di non ingerenza negli affari domestici, questa volta ha reagito molto timidamente. Buenos Aires ha pubblicato un messaggio via Twitter condannando le detenzioni degli oppositori mentre il Governo di Lopez Obrador non si è nemmeno espresso. Anche il Perù di Pedro Castillo, l’ultimo leader della sinistra latinoamericana giunto al potere a giugno ha preso le distanze da Ortega.
Resta chiaro dunque che questa tornata elettorale non fa altro che acuire l’isolamento del Nicaragua, che si allinea definitivamente con l’asse Caracas-La Avana-Mosca (e Taipei, attore di prim’ordine nella politica nicaraguense). Ennesimo grattacapo in America latina per la superpotenza a stelle e strisce, già impegnata con le difficili situazioni di El Salvador e Honduras. Ma anche un nuovo spartiacque da imporre per stabilire alleanze e ostilità nell’emisfero occidentale.
Brasile, Bolsonaro accusato di crimini contro l’umanità
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Il Senato brasiliano ha confermato l’accusa di “crimini contro l’umanità” formulate da una commissione d’inchiesta contro il Presidente Bolsonaro per la gestione della pandemia, che in Brasile ha lasciato 605.000 morti. Il leader dell’estrema destra sudamericana, intanto, cerca di gestire il tracollo economico e la campagna per la rielezione nel 2022
Il Governo del Presidente brasiliano Jair Mesias Bolsonaro ha deliberatamente diffuso informazioni false sul Covid-19, ha intralciato le campagne sanitarie, impedito l’accesso ai vaccini e promosso terapie alternative che hanno messo a rischio la salute dei brasiliani. Queste sono solo alcune delle conclusioni shock a cui è giunta la Commissione parlamentare d’inchiesta (Cpi) creata ad aprile al Senato e che ieri ha votato l’invio del plico alla magistratura.
Le accuse includono reati come prevaricazione, “ciarlataneria”, diffusione di epidemia, violazione delle misure sanitarie preventive, impiego irregolare di fondi pubblici, corruzione, peculato, concussione, istigazione a delinquere e falsificazione di documenti privati. Ventitré capi d’accusa per ottantuno uomini di potere e due aziende prestatrici di servizi allo Stato. Per alcuni, le condanne potrebbero superare i 50 anni di reclusione. L’accusa più pesante ricade su Bolsonaro: crimini contro l’umanità, “nelle modalità di sterminio, persecuzione e altri atti disumani”, secondo il testo presentato lo scorso 23 ottobre. Circa la metà delle 605.000 morti che ha causato il Covid in Brasile sono dunque da attribuire al Presidente, secondo la maggioranza del Senato. Quest’ultimo ha chiesto anche la sospensione degli account YouTube, Twitter, Facebook e Instagram del Presidente a tempo indeterminato, dopo che Bolsonaro avrebbe associato i vaccini contro il Covid alla diffusione dell’Aids durante uno streaming sui social.
Un Presidente “blindato”
Tra gli accusati anche il Ministro della Salute, Marcelo Queiroga, e l’uomo forte dell’esercito brasiliano dentro al Governo, Walter Braga Netto, oltre ad altri due Ministri in carica. I due figli parlamentari del Presidente, Eduardo e Flavio Bolsonaro sono anch’essi nella lista che nelle prossime ore passerà in mano al procuratore generale del Brasile, Augusto Aras, con l’accusa di incitazione a delinquere avanzata anche contro altri otto legislatori. Furono proprio loro i primi a lanciarsi contro le misure sanitarie imposte negli stati dove sono stati eletti, San Paolo e Rio de Janeiro.
Di certo però non si tratta della prima accusa grave che riceve il Presidente brasiliano. Solamente nel 2021 sono state presentate due azioni legali presso la Corte internazionale dell’Aja: una interposta dall’Articolazione dei Popoli Indigeni del Brasile, per genocidio contro le comunità originarie; e l’altra, presentata dalla Ong austriaca AllRi per delitti contro l’umanità ed ecocidio, dovuti alla negligenza del suo Governo nel fermare la distruzione della foresta amazzonica. Nel cassetto della presidenza della Camera a Brasilia riposano pure 105 richieste di impeachment contro il Presidente presentate dall’opposizione e sistematicamente archiviate dalle autorità di entrambe le camere, strategicamente scelte tra gli alleati di Bolsonaro. Anche il procuratore Aras è stato indulgente nei confronti del presidente durante gli ultimi 3 anni, evitandogli seri guai con la giustizia, e si presume che anche in questa occasione le conseguenze giudiziarie per il Governo saranno molto leggere nel breve termine.
Il blindaggio che gli assicurano la maggioranza del congresso e le alleanze tessute nella magistratura, fa sì che sia molto difficile pensare a un epilogo del Governo prima di fine mandato, previsto per gennaio del 2023, nonostante la gravità delle prove. Ma la Corte Suprema ha tra le mani due procedimenti giudiziari che potrebbero risultare in un impiccio. Il Presidente, dunque, ha voluto mostrare alla magistratura il suo potere, prima facendo sfilare i carri armati di fronte alla sede della Corte, poi presentandosi accompagnato da decine di migliaia di sostenitori nella spianata delle istituzioni di Brasilia che minacciavano di irrompere in tribunale e in parlamento con la forza.
Un gigante che traballa
Poche ore prima della pubblicazione del rapporto della Cpi, l’ennesimo terremoto politico si è abbattuto sul Ministero dell’Economia, guidato dall’ultra liberista Paulo Guedes. Cinque assessori di alto livello hanno consegnato le dimissioni dopo che Bolsonaro ha ordinato di sforare il limite imposto alla spesa pubblica dalla riforma costituzionale del 2016, per elargire sovvenzioni da 400 Reali (circa 60 euro) a 17 milioni di famiglie, proprio quando si comincia a entrare in clima di campagna elettorale. L’abbandono della ricetta ortodossa che Guedes, uno dei cosiddetti Chicago Boys dell’economia latinoamericana, ha difeso a spada tratta negli ultimi tre anni di Governo, ha provocato una caduta immediata del 7,3% della borsa di San Paolo.
L’instabilità del gigante brasiliano, seconda potenza economica dell’America Latina dopo il Messico, è una delle principali preoccupazioni per l’economia della regione. Il principale gruppo d’investimento finanziario del Paese, Itaù, ha rivisto al ribasso le previsioni economiche per l’anno in corso che chiuderà con una contrazione del 0,5% del Pil. Il Brasile è inoltre l’economia del G20 col minor tasso di crescita previsto dal Fondo monetario internazionale per il 2022 (1,5%).
Con una disoccupazione record del 14% e l’inflazione in crescita, ormai vicina al 10% annuo spinta soprattutto dall’aumento dei combustibili (+73% negli ultimi 12 mesi) Bolsonaro ha recentemente riportato a galla la proposta di privatizzare la compagnia energetica più grande dell’America Latina, Petrobras. Il potentissimo settore industriale di San Paolo, fondamentale per permettere all’attuale Presidente di vincere le elezioni del 2018, è sempre più restio ad accompagnare le crociate del Governo, come quella che ha messo in crisi il Mercosur negli ultimi mesi, o il negazionismo sfoggiato durante la crisi sanitaria nel Paese.
Per Bolsonaro la colpa del pessimo momento degli attivi brasiliani nei mercati mondiali è della Cpi, che con le sue accuse contro il Governo “lede l’immagine del Paese nel mondo”. Eppure è proprio il suo Governo a essere sempre più isolato internazionalmente. Da alleato strategico della Casa Bianca ai tempi di Trump, al punto di abbandonare la Comunità degli Stati Latinoamericani e dei Caraibi (Celac), a bersaglio mondiale delle critiche per la gestione dell’Amazzonia, della pandemia e del conflitto indigeno. Quando presentò la sua candidatura a Presidente nel 2017 però, nessuno lo prese sul serio. E oggi nessuno osa darlo per spacciato.
Honduras: tra “narco-Stato” e alleato strategico degli Usa
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Lo Stato centroamericano si appresta ad andare alle urne in mezzo a una fenomenale crisi sociale e una dirigenza politica formalmente accusata di collusione col narcotraffico. Eppure Tegucigalpa è chiave per il disegno geopolitico di Washington nel “Mediterraneo americano”.
Venerdì notte nella tangenziale che cinge il distretto di Choluteca, nel sud dell’Honduras, è stato crivellato il candidato a sindaco del municipio di Santa Ana de Yusguare, Nery Fernando Reyes, del partito Libertà e rifondazione (Libre). Secondo l’Osservatorio della Violenza dell’Università Nazionale Autonoma dell’Honduras (Unah), si tratta del ventitreesimo dirigente politico assassinato nel Paese nel 2021, un saldo che cresce in prossimità delle elezioni generali del 28 novembre.
L’Honduras è un Paese in crisi.
La povertà ha raggiunto il 70% del totale della popolazione durante l’ultimo anno. In buona parte questo aumento spropositato è dovuto agli effetti della pandemia e le catastrofi naturali, come gli uragani Eta e Iota che hanno colpito duramente la Valle del Sula, zona che produce due terzi del Pil nazionale. Ma la mancanza di investimenti e di iniziative per la promozione dello sviluppo sono endemiche da anni. Secondo l’Onu, 1,3 milioni di honduregni hanno bisogno attualmente di assistenza umanitaria, e altri 800.000 hanno lasciato il proprio paese per emigrare verso il Messico e gli Usa. Si tratta del quinto Paese al mondo con il più alto tasso di omicidi, e uno degli hub più importanti del continente per il narcotraffico e l’attività del crimine organizzato.
Un “narco-Stato”
L’Honduras è l’epicentro del traffico di cocaina in Centroamerica. Secondo il dipartimento di Stato Usa, attraverso il Paese sono passate 120 tonnellate di coca nel 2019. È il principale punto di atterraggio per il rifornimento dei voli che dal Sudamerica riforniscono i cartelli che fanno affari negli Stati Uniti, un business che compete in quanto a introiti con la produzione di maglioni e camicie, principale prodotto di esportazione del Paese.
Proprio il ruolo del narcotraffico nel futuro del Paese è oggi al centro del dibattito in vista delle elezioni di novembre. L’intera struttura istituzionale honduregna è oggi sotto accusa di collaborare con i cartelli locali e internazionali. In special modo il tradizionalissimo Partido Nacional, oggi al Governo con Juan Orlando Hernández, Presidente dal 2014, è sospettato di mantenere forti legami con la malavita locale. Ritornato al potere dopo il golpe militare del 2009 contro Manuel Zelaya, accusato di voler condurre il Paese a una alleanza con il Venezuela di Hugo Chávez, i leader del Partido Nacional sono successivamente apparsi nei dossier della Drug Enforcement Administration a partire dalle dichiarazioni dei principali capi dei cartelli centroamericani. Fabio Lobo, figlio dell’ex Presidente Porfirio Lobo (2010-2014) è stato condannato a 24 anni per narcotraffico a New York. Juan Antonio “Tony” Hernández, fratello dell’attuale Presidente, è stato condannato all’ergastolo nel 2021 per lo stesso delitto, e la procura di New York ha aperto ufficialmente un’indagine anche contro l’attuale Presidente. Gli inquirenti sostengono che Lobo ed Hernandez hanno utilizzato gli strumenti e le forze a disposizione dello Stato honduregno per garantire la sicurezza dei traffici di stupefacenti verso gli Stati Uniti, aprendo anche un ampio ventaglio di ipotesi intorno alla complicità delle forze armate e altri funzionari dell’Honduras, che i procuratori dell’accusa definiscono nella loro deposizione addirittura un “narco-Stato”.
Un socio scomodo
Nonostante la pioggia di accuse contro il Presidente honduregno provenienti proprio dalla magistratura statunitense, Washington ha fatto di Tegucigalpa uno dei suoi più ferrei alleati nella lotta al narcotraffico nella regione. L’Honduras è il Paese col maggior numero di militari statunitensi dispiegati in America Latina, dopo Cuba e Porto Rico, e uno dei principali destinatari della cooperazione in Centro America, che ammonta a circa 4 miliardi di dollari tra fondi stanziati e promessi dall’amministrazione Biden. Durante il Governo Trump, però, i Paesi del Triangolo Nord (Honduras, El Salvador e Nicaragua) hanno sofferto un taglio netto degli aiuti elargiti da Washington a modo di rappresaglia per l’aumento dei flussi migratori provenienti da quei Paesi a partire dal 2018. L’ex Presidente Usa ha anche tolto all’Honduras il beneficio dello status di Protezione Temporale (Tps), che dopo la tragedia provocata dall’uragano Mitch nel 1998 garantisce agli honduregni un accesso più rapido ai permessi di soggiorno temporanei negli Stati Uniti. Per l’Honduras la sospensione del Tps, ancora al centro di un lungo caso giudiziario, significherebbe un duro colpo anche dal punto di vista economico: le rimesse dei migranti rappresentano circa il 23,5% del Pil honduregno.
Col nuovo Governo insediatosi alla Casa Bianca la distensione però non è stata quella che Hernandez si attendeva. Il dipartimento di Stato ha pubblicato quest’anno i nomi di diversi funzionari honduregni accusati di corruzione, sei a maggio, nella Lista Torres, e altri 21 a luglio nella Lista Engels che include anche l’ex Presidente Lobos. In questo contesto, le elezioni in Honduras apriranno probabilmente un nuovo capitolo dell’impegno geopolitico statunitense nella regione. I sondaggi favoriscono ancora una volta il Partido Nacional, che presenta l’attuale sindaco di Tegucigalpa, Nasry Asfura, soprannominato “Papi agli ordini”, e accusato di riciclaggio e appropriazione indebita di circa un milione di dollari.
La principale candidata dell’opposizione, Xiomara Castro, ha recentemente assicurato che in caso di vittoria romperà la storica relazione che unisce il Paese a Taiwan per avvicinarsi invece a Pechino, ormai rivale di spicco per l’egemonia Usa in tutta l’America Latina. Washington non ha ancora fatto trapelare quale sia l’opzione più consona ai suoi piani. Di certo quel che spera dall’Honduras è il rafforzamento delle proprie istituzioni per contenere l’emigrazione, maggior cooperazione nella riduzione del narcotraffico e un impegno a garantire un contrappeso all’indirizzo apertamente ostile assunto dagli altri due Governi del Triangolo Nord Centro Americano: El Salvador di Nayib Bukele, e il Nicaragua di Daniel Ortega.
Mercenari e golpisti tra Usa e Caraibi: il caso Moïse
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A poche ore dal ritrovamento del cadavere del Presidente haitiano Jovenel Moïse nella sua residenza di Porto Principe, sembrava a tutti naturale che i sospetti ricadessero sulle più di 150 gang attive nel Paese, legate a doppio filo a partiti, sindacati, polizia e aziende locali. Da mesi Moïse affrontava contestazioni molto serie, aveva denunciato tentativi di colpi di Stato e avvertito sulla possibilità di un attentato. La conferma dell’arresto di 18 mercenari colombiani accusati dell’omicidio però ha sorpreso tutto il continente. Gli attori coinvolti sono apparsi improvvisamente sotto i riflettori: mercenari, informatori, golpisti, lobbisti, che devono la loro fortuna e potere proprio all’anonimato in cui si muovono insospettati.
Le indagini
Il primo grattacapo per gli inquirenti si è aperto con l’identificazione dei 26 mercenari colombiani incaricati dell’attacco alla casa presidenziale, tutti legati alle forze armate colombiane, e sei di essi in attività. Vero è che l’industria dei mercenari colombiani è conosciuta ormai da tempo. Col 3,2% del Pil annuo speso per la difesa (il tasso più alto dell’America Latina) e l’iniezione permanente di fondi e mezzi da parte di Washington nell’ormai vana “guerra contro i narcos”, la Colombia è diventata un vero e proprio provider internazionale di combattenti.
Secondo il Ministero della Difesa di Bogotá, sono circa 10.000 gli uomini che ogni anno concludono la loro carriera militare intorno ai 45 anni senza poi adeguarsi alla vita civile. Alcune stime, probabilmente conservatrici, parlano di circa 6.000 ex agenti delle forze armate colombiane che lavorano per aziende di sicurezza o veri e propri eserciti privati in tutto il mondo. La maggior parte è stanziata tra Iraq, Emirati Arabi, Arabia Saudita e Yemen, dove ricevono stipendi da 5.000 dollari mensili, a fronte dei 400 dollari di pensione che riceve un ufficiale in pensione dopo vent’anni di servizio in patria. Si tratta inoltre di agenti d’élite. Dopo sessant’anni di guerra interna contro guerriglie e narcotraffico, la Colombia è diventata laboratorio di tecniche militari di tutto il mondo, e il know-how acquisito si esporta oggi per vie legali, a partire dai numerosi accordi di cooperazione con gli Usa o Israele, o attraverso canali più opachi, come quelli usati dagli esecutori di Moïse.
Secondo le ricostruzioni finora realizzate, durante le prime settimane del 2021, uno sconosciuto ufficiale di reclutamento si è messo in contatto con i 26 mercenari colombiani, offrendogli 2.700 dollari mensili per un’operazione di sicurezza in Centroamerica. La presenza di questo fiorente business è l’altro aspetto che è balzato sulle prime pagine dei giornali latinoamericani dopo l’uccisione del Presidente haitiano. Il messaggio proveniva dalla Counter Terrorist Unit Federal Academy, o CTU Security, un’impresa con sede a Doral Beach, Miami. Il titolare dell’azienda è Antonio Intriago, un venezuelano già noto alle autorità. Nel 2019 ha aiutato a finanziare il concertone di Cucuta, un’iniziativa del Presidente colombiano Iván Duque e l’autoproclamato Presidente ad interim del Venezuela, Juan Guaidó, per far pervenire aiuti umanitari su territorio venezuelano. Il principale socio di Intriago alla CTU Security è Gabriel Pérez, alias Arcángel Pretel, ex ufficiale della polizia colombiana e informatore della Drug Enforcement Administration (Dea) negli Usa.
Miami è ormai la capitale dei cosiddetti “Governi in attesa” dell’America Latina. Esiliati cubani, migranti da Venezuela, Nicaragua e Haiti pianificano e finanziano da qui manifestazioni dell’opposizione, insurrezioni popolari e veri e propri colpi di Stato nei loro Paesi d’origine, e possono spesso contare su connessioni con settori della politica e dell’imprenditoria locale. Come nel caso di Christian Emmanuel Sanon, medico e pastore evangelista haitiano e residente in Florida accusato di aver pagato la CTU Security per assoldare i mercenari che hanno ucciso Moïse. Oggi Sanon è sotto custodia cautelare in un carcere di Porto Principe.
Perché Moïse non era amato
Di certo Jovenel Moïse non era un Presidente acclamato in patria. Sulla sua figura pesavano accuse di corruzione e di complicità con alcune delle bande criminali che controllano un terzo del territorio haitiano. Nel 2017 era stato eletto con solo 600.000 voti in un’elezione suppletiva, dopo che le presidenziali del 2016 vennero annullate per brogli.
Proprio per questo, il suo Governo era duramente contestato: Moïse sosteneva che il suo mandato di 5 anni si concludesse nel 2022, mentre per l’opposizione e buona parte della magistratura il periodo presidenziale assunto da Moïse era cominciato dopo le elezioni del 2016, e da febbraio di quest’anno lo consideravano decaduto. Una cordata di giudici arrivò addirittura a proclamare un Presidente ad interim all’inizio dell’anno, e la purga scatenata da Moïse contro i “magistrati golpisti” provocò indignazione internazionale. Tra i giudici radiati vi era anche Windelle Coq Thelot, attualmente latitante, segnalata dagli stessi mercenari colombiani arrestati dopo l’attentato come il Piano B, colei che doveva assumere la presidenza nel caso in cui Sanon non riuscisse a farlo.
L’omicidio di Jovenel Moïse
La notte del 7 luglio dunque, un ex funzionario del Ministero della Giustizia haitiano, Joseph Badio, accompagnò i mercenari colombiani fino alla residenza del Presidente a Pétion-Ville, nella periferia occidentale della capitale. Una volta perpetrato l’attentato il commando avrebbe dovuto spostarsi fino alla casa di Governo, dove il Primo Ministro ad interim, Claude Joseph, che secondo gli attentatori era a conoscenza del piano, avrebbe garantito la loro protezione e li avrebbe addirittura assunti come guardie presidenziali. Nel tragitto però sono stati intercettati dalla polizia haitiana che ha aperto il fuoco, e si sono rifugiati in un edificio abbandonato. Da lì hanno cercato di contattare Sanon, Badio e Intriago, che li hanno abbandonati alla loro sorte. Tre membri del commando hanno perso la vita nella sparatoria di quasi 30 ore seguita a quella fuga. Cinque sono tutt’ora latitanti. Gli altri 18 si sono rifugiati nella sede dell’ambasciata di Taiwan, che però ha subito autorizzato l’ingresso delle forze di sicurezza haitiane. È questa la ricostruzione che emerge dalle dichiarazioni di quattro dei mercenari arrestati e rese note a metà agosto dalla stampa colombiana.
L’omicidio di Moïse, cinematografico dal punto di vista del resoconto dei fatti – su cui persistono in ogni caso seri interrogativi – , pone in primo piano al contempo alcuni dei dibattiti urgenti dell’assetto geopolitico dell’emisfero: la gestione della potenza militare colombiana, concentrata nella guerra interna ma incapace di evitarne le diramazioni internazionali; la tolleranza da parte di Washington nei confronti delle attività di aziende coinvolte nel business internazionale di mercenari in America Latina e nel mondo; e le implicazioni regionali della debolezza sistemica delle istituzioni haitiane.
La situazione di Haiti, il Paese più povero del continente americano e uno dei più disuguali del mondo, compare in cima alle preoccupazioni geopolitiche internazionali nei peggiori momenti di crisi. Nel 1994, l’allora senatore Joe Biden lo aveva riassunto così: “Se Haiti affondasse tranquillamente nei Caraibi o si alzasse di 300 piedi, non cambierebbe molto il nostro interesse”. A 800 miglia marittime dalle coste della Florida però, una Haiti fuori controllo è stata origine di migrazioni di massa, narcotraffico e commercio di armi nei Caraibi. E ora è anche il fulcro di un caso che mette a nudo problematiche più scottanti nel “cortile sul retro” degli Stati Uniti.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
Argentina, nuovo round sul maxi debito col Fondo monetario internazionale
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Per l’Argentina il debito estero è da decenni una spada di Damocle che pesa sul proprio futuro. Dal ritorno alla democrazia negli anni ’80, la politica estera di Buenos Aires è subordinata agli oneri del proprio indebitamento. Il default del 2002 assieme alla crisi sociale a esso connessa ha lasciato un segno indelebile nella società argentina. Nonostante ciò, il Governo di Mauricio Macri (2015-2019) è di nuovo caduto nella trappola. Dopo aver ottenuto circa 187 miliardi di dollari dai fondi di investimento privati, nel 2018 ha chiesto un ulteriore finanziamento per 57 miliardi di dollari al Fondo monetario internazionale, pari al 12,5% del Pil del Paese, concesso anche grazie all’influenza esercitata dall’amministrazione Trump sul board dell’organismo, che volle dare così il suo contributo al mantenimento di un Governo alleato in chiave anti-bolivariana nel Cono Sud.
Le cose però non sono andate come previsto. Il capitale concesso dal Fmi è evaporato nell’inutile sforzo della Banca centrale argentina di mantenere sotto controllo il mercato di valuta straniera: il Peso argentino ha perso il 500% del proprio valore rispetto al dollaro tra il 2015 e il 2019, e col Paese praticamente in default il centrodestra di Macri ha perso rovinosamente le elezioni contro il peronista Alberto Fernández. Le erogazioni da parte del Fmi sono state dunque sospese e Buenos Aires ha cominciato a negoziare le scadenze dei 44 miliardi di dollari elargiti in poco più di un anno, il prestito più grande della storia dell’organismo multilaterale.
La geopolitica del debito
Il Consiglio esecutivo del Fondo monetario internazionale è composto da 24 direttori esecutivi che rappresentano raggruppamenti di Stati la cui capacità di decisione è direttamente proporzionale al capitale investito. La strategia del nuovo Governo argentino è stata quella di raccogliere sostegni tra i Paesi di peso medio nell’organismo: Spagna, Portogallo, Italia, Germania, che il Presidente ha visitato per primi dal suo arrivo alla Casa Rosada e che sommati rappresentano circa il 12% dei voti nel Consiglio del Fmi. L’Argentina però non intende solo dilatare le scadenze e negoziare gli interessi del proprio debito. Il Ministro dell’Economia, Martín Guzmán, allievo di spicco del premio Nobel Joseph Stiglitz, propone riforme che riguardano lo statuto stesso dell’organismo: la sovrattassa del 2% che il Fmi esige ai Paesi che mantengono un debito superiore al capitale versato – particolarmente avversata dal Governo portoghese dopo la sua esperienza con la Troika – e il limite di 10 anni per il rimborso del capitale elargito.
L’indirizzo che Fernández e Guzmán vogliono dare ai negoziati sul debito si esprime nel leit motiv ripetuto durante la campagna elettorale del 2019: sostenibilità. E in questo senso si è espresso settimana scorsa il Presidente nel suo discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite: “Le risorse approvate dal Fmi all’Argentina per questo debito insostenibile sono state di 57 miliardi di dollari, l’equivalente di tutti gli esborsi dell’organismo nell’anno della pandemia a 85 Paesi del mondo”, ha sostenuto Fernández. “Non esiste nessuna razionalità tecnica o logica, né sensibilità politica che possa giustificare una simile aberrazione”. Da Buenos Aires ha annunciato che al prossimo G20 di Roma l’Argentina proporrà la creazione di un “accordo multilaterale inclusivo orientato ad affrontare le questioni legate alla ristrutturazione dei debiti sovrani”.
Il fronte interno
Mentre Guzmán si prepara per quella che dovrebbe essere la chiusura del negoziato col Fmi in vista dell’assemblea annuale di metà ottobre, a Buenos Aires il clima politico attorno al Governo si fa sempre più rovente. Lo scorso 12 settembre infatti la coalizione peronista ha subito una disfatta inattesa alle elezioni primarie, fermandosi a 10 punti di distanza dal centrodestra di Macri a livello nazionale. La battuta d’arresto ha aperto una frattura tra il Presidente Fernández e la vicepresidente, Cristina Kirchner, leader dell’ala più radicale del Governo. Questo settore vorrebbe subordinare i pagamenti del debito al Fmi all’allargamento del welfare e la riduzione degli indici di povertà e disoccupazione nel Paese. La Kirchner ha forzato il Presidente a un rimpasto di Governo in cui però non è stata modificata l’area economica.
Il pagamento della prima quota di 1,87 miliardi di dollari al Fmi settimana scorsa sembrerebbe confermare la continuità del piano di Guzmán. Entro la fine dell’anno l’Argentina dovrà sborsare altri 400 milioni di dollari per coprire gli interessi fin qui maturati, e altri 1,3 miliardi della seconda tranche dello stock di capitale. Tutti fondi provenienti dai 4,3 miliardi di dollari assegnati dallo stesso Fmi coi Diritti Speciali di Prelievo distribuiti internazionalmente per alleviare gli effetti economici della pandemia, e che il settore che risponde alla vicepresidente avrebbe voluto usare per finanziare nuovi servizi socioassistenziali.
In ogni caso, il tandem Guzmán-Fernández sembra ottimista per il futuro: nella finanziaria presentata la settimana scorsa, è già preventivato un risparmio di 19 miliardi sugli interessi del debito grazie a un accordo che il Governo non ha ancora raggiunto, e dal quale dipende anche l’interesse che dovrà pagare ad altri creditori, tra cui i Governi europei riuniti nel Club di Parigi.
Il futuro dell’Argentina è dunque, ancora una volta, legato al debito. Tra fondi d’investimento privati, Fmi e Club di Parigi il rosso ammonta a 325 miliardi di dollari e, avendo un accesso molto limitato ai mercati finanziari, l’unica speranza è scendere a patti. Il mondo delle finanze globali però vede con forte preoccupazione gli scricchiolii della compagine di Governo attuale.
L’accordo Uruguay-Cina espone le tensioni nel Mercosur
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Il Presidente dell’Uruguay, Luis Lacalle Pou, ha deciso di passare dalle minacce all’azione.
La settimana scorsa ha rivelato che il suo Paese ha avviato i primi contatti tecnici con la Repubblica popolare cinese per valutare l’impatto di un accordo di libero scambio. La notizia ha subito generato reazioni tra i soci del Mercato Comune del Sud (Mercosur), l’unione doganale che Montevideo (la capitale dell’Uruguay) condivide con Argentina, Brasile e Paraguay, un mercato da 260 milioni di persone e con un Pil da 2.2 trilioni di euro. Dal 2001 i quattro Paesi hanno rinunciato allo stabilimento di accordi commerciali in forma individuale, per proteggere la politica comune sui dazi.
La decisione, che doveva essere un incentivo alla proiezione internazionale del Cono Sud, si è trasformata negli ultimi anni nel fulcro delle controversie del blocco. Nel caso dell’Uruguay la spiegazione è abbastanza semplice: negli ultimi dieci anni la Cina ha spodestato il Brasile come principale acquirente dei prodotti agricoli uruguaiani, una relazione commerciale da 2,2 miliardi di dollari l’anno a cui però Pechino applica dazi all’entrata del 12,6%. Per Lacalle Pou, l’eliminazione di quelle tariffe doganali è oggi un obiettivo primordiale per potenziare le proprie esportazioni. Il panorama commerciale è cambiato profondamente anche per il resto dei soci. Oggi la Cina assorbe il 26% delle esportazioni dei Paesi del Mercosur (contro il 20% dell’Ue e il 13% degli Usa) ed è il primo partner commerciale del Brasile e, indirettamente, del Paraguay.
Proprio la complessa relazione sino-paraguaiana è uno dei motori del contrasto dentro al Mercosur. Asunción infatti non ha alcuna intenzione di abbandonare la politica adottata dal dittatore Alfredo Stroessner nel 1957, che in chiave ferocemente anticomunista allacciò stretti rapporti diplomatici con Taiwan. Un accordo Cina-Mercosur è dunque impossibile mentre i Governi del Partido Colorado, erede politico di Stroessner, mantengono il riconoscimento nei confronti di Taipei. La soia, il mais e la carne bovina paraguaiani però giungono fino alla Repubblica popolare attraverso il Brasile.
La deroga della risoluzione sugli accordi commerciali extra Mercosur è una richiesta permanente da parte dell’Uruguay, anche quando al Governo si trovava la sinistra del Frente Amplio. La Repubblica orientale è stata la prima in Sudamerica ad aderire alla Belt and Road Initiative, è membro dell’Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB) e da qualche giorno è entrata a far parte della Banca dei Brics. Oggi il Governo conservatore di Lacalle Pou può contare anche su un alleato di peso dentro al Mercosur, il Presidente brasiliano Jair Bolsonaro. I cortocircuiti con Buenos Aires sono dunque all’ordine del giorno dall’insediamento dell’esecutivo di Alberto Fernandez, dal profilo progressista, che difende una posizione ormai tradizionale dell’Argentina e contraria a qualsiasi riforma della politica doganale del blocco. L’Argentina sarebbe probabilmente il Paese più colpito da un’apertura indiscriminata agli accordi bilaterali: è una delle economie con maggior quantità di sussidi alla produzione e al consumo e ha minori capacità di negoziazione rispetto al gigante brasiliano e alle piccole economie fortemente primarie di Uruguay e Paraguay.
Il Mercosur
Il Mercosur nacque nel 1991 dal bisogno di estinguere la minaccia di un’escalation tra Argentina e Brasile a partire dai rispettivi programmi di sviluppo dell’energia nucleare. I Paesi del Cono Sud avevano da poco voltato la pagina delle dittature militari e i Presidenti di quelle fragili democrazie videro nel Mercosur uno strumento per potenziare l’inserimento internazionale della regione nel nuovo contesto globale segnato dalla fine della Guerra fredda e l’imposizione del Washington Consensus a livello macroeconomico. Il Mercosur ha permesso la creazione di processi produttivi a grande scala, specialmente nell’industria automotrice, principale motore economico del blocco concentrato tra Argentina e Brasile, e nel settore agro-alimentare.
Ma la luna di miele dei primi anni ’90 si è scontrata presto con gli interessi nazionali dei singoli membri. Il desiderio di proteggere la produzione locale nei più svariati comparti ha reso impossibile l’applicazione di dazi comuni all’importazione di migliaia di prodotti, creando quel che gli esperti definiscono come un’unione doganale “imperfetta”. Nel Mercosur, inoltre, tutto viene discusso a livello presidenziale, e le decisioni devono essere prese all’unanimità nei summit semestrali del blocco, che spesso sovvertono gli sforzi fatti dagli organismi tecnici. Di conseguenza il funzionamento del blocco è sempre dipeso esclusivamente della sintonia ideologica esistente tra i Governi membri, cosa che tra l’altro in questo momento scarseggia, come dimostra lo stallo nelle trattative sull’accordo di libero scambio con l’Ue.
Anche se alcuni giornali sudamericani parlano già di “Uru-Exit”, ancora non è chiaro se si tratti di una strategia di Montevideo per obbligare i propri soci a concordare una riforma della struttura del Mercosur, come fece nel 2006 quando l’allora Presidente Tabaré Vázquez minacciò di firmare un accordo di libero scambio con gli Stati Uniti. Di certo, però, l’inizio delle trattative con Pechino rappresenta una svolta per il funzionamento dell’unione regionale, che torna ora al vertice delle preoccupazioni dei Paesi membri.
Brasile, Bolsonaro provoca e le tensioni aumentano
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Il Presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, sembra deciso a riportare il Paese verso il clima in cui si muove con maggior naturalità in vista delle elezioni del 2022: la tensione. Sorto come leader nel pieno di una delle più terribili crisi economiche e politiche della storia brasiliana, l’ex capitano dell’esercito ha recentemente aperto diversi fronti in cui far valere il proprio carisma e il tono provocatorio che lo ha portato alla presidenza della principale potenza del Sudamerica.
Il confronto più caldo in questi giorni è quello che mantiene con la magistratura. Il Tribunale supremo federale (equivalente a una Corte Suprema) ha ordinato a fine luglio l’apertura di una indagine contro il Presidente per la diffusione di fake news sul sistema elettorale brasiliano. Bolsonaro si è scagliato con forza contro il sistema di voto elettronico in vigore dal 1996 – e attraverso il quale lui stesso è stato eletto nel 2018 – che sarebbe “fonte di inevitabili brogli”. Durante la campagna lanciata per il ritorno alle schede elettorali cartacee, Bolsonaro ha diffuso messaggi che secondo il Tsf potrebbero attentare contro la democrazia brasiliana. I sostenitori del Presidente però denunciano che l’indagine è l’ennesimo tassello di una persecuzione ordita dalla giustizia ai danni dell’estrema destra brasiliana. L’ultimo caso contestato è quello dell’ex deputato Roberto Jefferson, arrestato per aver diffuso un video in cui, armi in mano, incitava l’esercito a occupare la sede della Corte Suprema e dell’ambasciata cinese a Brasilia. Jefferson si aggiunge al deputato Daniel Silveira, ex agente di polizia in carcere da febbraio per apologia del terrorismo di Stato.
Il ruolo delle forze armate
Il ruolo delle forze armate in questo contesto politico è anch’esso al centro della polemica. Diversi ufficiali ed ex militari si sono espressi apertamente a favore del Governo di Bolsonaro nei suoi molteplici scontri aperti con le istituzioni dello Stato. Il mese scorso, mentre il congresso discuteva il progetto di legge inviato dal Presidente per l’eliminazione del voto elettronico, un corteo di carri armati ha sfilato di fronte alla spianata dove si trovano Parlamento e magistratura a Brasilia, con Bolsonaro in testa. Una scena che non si vedeva dal 1984, quando il Paese viveva gli ultimi mesi della dittatura militare.
Approfittando del fatto che i riflettori dei media si sono scostati dalla scandalosa campagna sanitaria nazionale contro il Covid-19, il Presidente ha indetto per il prossimo 7 settembre, giorno dell’indipendenza in Brasile, una grande manifestazione nazionale a São Paulo “in difesa della libertà” e del Governo. A nulla sono valsi gli appelli interposti dal governatore João Doria alla giustizia per impedire assembramenti nel suo Stato, durante i quali si temono anche seri disordini. “Per rovesciare l’egemonia della sinistra nel Paese è necessario un carro armato e non un carretto dei gelati”, ha scritto sui social il colonnello Aleksander Lacerda, comandante di sette battaglioni dello Stato di São Paulo e uno dei tanti militari che hanno aderito all’appello lanciato dal Presidente a manifestare il 7 settembre. Il tentativo evidente è di riportare lo scontro a un terreno più consono per il leader della destra brasiliana, quello delle adunate e dei pulpiti da dove ha saputo raccogliere il sostegno dei settori militari, le principali chiese pentecostali e i grandi imprenditori legati all’agrobusiness.
Verso le elezioni del 2022
Quello del 2021 però non è lo stesso Bolsonaro del 2018. Il “Messia” ha già dovuto rinunciare ad alcune delle promesse centrali della campagna che lo hanno portato al Governo. Il suo Ministro dell’Economia, Paulo Guedes, un neoliberista ortodosso, non ha potuto completare nemmeno la metà delle privatizzazioni previste tre anni fa, e si è anche arreso di fronte alla richiesta di maggiori incentivi statali e sussidi al consumo per alleviare la crisi dovuta alla pandemia che ha provocato 580.000 morti. Il mese scorso, lo stesso Bolsonaro ha aperto le porte del Governo all’odiato Centrão, la costellazione di piccoli partiti locali che da decenni barattano il loro appoggio coi Governi di turno a cambio di misure e investimenti da sfoggiare nei dipartimenti in cui si presentano a elezioni. Ciro Nogueira, dirigente simbolo di questo settore osteggiato dal bolsonarismo solo qualche mese fa, è stato posto a capo del gabinetto del Presidente. Rimangiandosi gli insulti verso il Centrão, Bolsonaro si garantisce però l’appoggio del 60% del Parlamento e blinda la sua presidenza di fronte alla pioggia di richieste di impeachment.
Il prossimo traguardo ora è rappresentato dalle elezioni presidenziali dell’ottobre del 2022 e Bolsonaro ha evidentemente lanciato la sua campagna. Si troverà di fronte l’ex Presidente di sinistra Luiz Inácio Lula da Silva, in cima a tutti i sondaggi anche grazie al sostegno dei settori moderati terrorizzati dalla piega presa dal bolsonarismo. Lo spettro del colpo di mano da parte del Governo però aleggia. “Se non saranno pulite e democratiche, non ci saranno elezioni”, ha minacciato poche settimane fa Bolsonaro durante uno dei suoi comizi.
Haiti: nuovo terremoto, nuova sfida per la cooperazione internazionale
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Sono 1.941 le vittime accertate finora dalla Protezione civile haitiana dopo il terremoto di 7.2 gradi della scala Richter che si è abbattuto nel centro-sud del Paese lo scorso 14 agosto. 9.900 i feriti, 60.000 case completamente distrutte e 76.000 edifici danneggiati è il saldo provvisorio, destinato probabilmente a salire, mentre in questi giorni si abbatte sulle coste haitiane anche l’uragano Greta.
Haiti, il Paese più povero del continente e tra i più disuguali del mondo, è dilaniato al contempo dalle catastrofi naturali e dagli effetti di una profonda crisi politica. Lo scorso 7 luglio è stato assassinato il Presidente Jovenel Moïse da un commando di 26 mercenari. Movente e dinamica del crimine sono ancora un mistero. La sera prima del terremoto, il giudice incaricato del caso, Mathieu Chanlatte, ha presentato le proprie dimissioni per ragioni di sicurezza.
La situazione attuale ricorda da vicino quella vissuta nel gennaio del 2010, quando un terremoto di magnitudo 7 gradi distrusse la capitale, Porto Principe, causando la morte di quasi 300.000 persone in meno di un minuto. Da quella tragedia il Paese non si è più sollevato, e undici anni più tardi vi sono ancora decine di migliaia di sfollati stipati nelle tendopoli ai margini della città. Come allora, Governi, Ong e cooperanti si sono già messi in moto per far arrivare aiuti. Il Presidente degli Stati Uniti ha nominato l’attuale amministratrice dell’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale (Usaid) Samantha Power per coordinare l’invio di donazioni e squadre di soccorso. Anche i Governi di Messico, Cuba e Repubblica Dominicana hanno fatto arrivare cibo e materiale sanitario, e l’Unione europea ha già stanziato 3 milioni di euro in aiuti. “Tutto dovrà entrare dalla stessa porta”, ha però ammonito il Primo Ministro haitiano Ariel Henry, remore degli scandali seguiti all’assistenza umanitaria piombata senza alcun controllo sulla penisola undici anni fa. “Per la ricostruzione, tutto deve essere supervisionato a livello dello Stato centrale e coordinato dalle direzioni regionali”, ha avvertito.
Nel 2010 Haiti ha ricevuto quasi 3 miliardi di dollari in donazioni provenienti da Governi stranieri, e altri 9 spesi direttamente sul campo dalle più di 10.000 Ong arrivate in risposta alla tragedia. Secondo diversi rapporti internazionali però, solo lo 0,6% di quei fondi sono finiti alle istituzioni locali. L’immenso afflusso di denaro della cooperazione internazionale è servito principalmente a finanziare le attività delle stesse organizzazioni straniere stanziate subito dopo il terremoto, che hanno agito addirittura a insaputa dei poteri pubblici haitiani. I criteri per la distribuzione dei progetti non hanno tenuto conto delle esigenze della società civile, né della complessa realtà politica locale, e pochi mesi sono emersi gravi problemi.
La “repubblica delle Ong” ha delegittimato ancor più le già deboli istituzioni statali haitiane, ha portato avanti progetti senza alcun tipo di coordinamento, ha permesso ad attori senza scrupoli di siglare sodalizi internazionali con le oltre 150 gang che si contendono oggi il territorio haitiano. I dollari, piovuti in massa sul territorio con l’arrivo dei cooperanti, hanno sostituito di fatto la moneta locale, facendo schizzare l’inflazione e la svalutazione.
Anche il sistema delle Nazioni Unite ha commesso gravissimi errori ad Haiti. La Missione di stabilizzazione delle Nazioni Unite ad Haiti (Minustah) è stata smantellata nel 2017 dopo esser stata accusata di aver causato un focolaio di colera – che ha provocato circa 30.000 morti – e aver introdotto un sistema di sfruttamento e prostituzione minorile in cambio di cibo e qualche dollaro. La Missione per il sostegno alla giustizia (Minjusth) lanciata in sostituzione della Minustah, è stata ritirata nel 2019, evidentemente incapace di mantenere l’ordine pubblico durante le devastazioni portate avanti durante le proteste per lo scandalo Petrocaribe.
A undici anni dall’esperimento di cooperazione internazionale più importante e controverso degli ultimi tempi, Haiti non decolla. Il 75% della spesa pubblica dipende ancora dalle donazioni internazionali, il 22% del Pil dalle rimesse dei migranti haitiani (sempre più numerosi) nel resto del mondo, la povertà supera il 50% della popolazione e il crimine organizzato controlla ormai un terzo del territorio nazionale.
L’ennesima catastrofe umanitaria apre dunque una nuova sfida per le istituzioni haitiane e la cooperazione internazionale, e apre una nuova tappa per il futuro del Paese.
Perù: la difficile svolta a sinistra di un alleato storico degli Usa
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Da una casetta di fango sulle Ande centrali al Palacio Pizarro, sede della presidenza del Perú. Sin dal suo primo discorso alla cerimonia di insediamento Pedro Castillo ha voluto dare un’aura epica al proprio arrivo al potere. “È la prima volta che il nostro paese sarà governato da un contadino”, ha sottolineato Castillo.
Un risultato assolutamente inatteso, giunto a coronamento di una fenomenale crisi politica che attraversa il Perù da decenni: tutti i presidenti che ha avuto il paese dal 1986 ad oggi sono stati processati per casi di corruzione o violazione dei diritti umani. Negli ultimi cinque anni si sono succeduti quattro presidenti diversi, e l’ostruzionismo parlamentare ha impedito l’applicazione delle riforme di ciascuno dei loro governi.
Chi è Pedro Castillo
Un panorama da sogno per un outsider dal piglio popolare, un maestro rurale lanciato alla fama dopo il lunghissimo sciopero del mondo della scuola contro i tagli del 2017 in cui il nuovo presidente ha tenuto testa a ministri, segretari e alla stampa.
Castillo è arrivato al potere dopo essersi guadagnato un appoggio elettorale massiccio nelle regioni andine ed amazzoniche, ribaltando l’assioma che negli ultimi trent’anni ha garantito ai candidati sostenuti dalle regioni ricche di Lima e della costa nord del paese di mantenerne ben saldo il controllo politico. Ora si propone di rovesciare anche il modello economico voluto da quelle élite.
Dai tempi della dittatura di Alberto Fujimori (1990-2000), il Perù è stato tra gli alunni più efficienti del neoliberismo latinoamericano, mantenendo una crescita costante nonostante l’altissimo grado di disuguaglianze tra le diverse regioni del paese. Simbolo di quel modello è l’attuale costituzione peruviana, emanata dallo stesso Fujimori nel 1993 e che nessun governo ha avuto il coraggio di modificare. Buona parte del successo di Perù Libre è dovuto proprio alla promessa di riformare l’impianto istituzionale ed economico lasciato dal fujimorismo.
Impatto geopolitico
L’arrivo al governo di Castillo potrebbe rappresentare anche un importante cambiamento negli equilibri politici latinoamericani. Lima ha assunto sin dagli anni Novanta una chiara posizione nello scacchiere regionale. Sostenitrice dei Trattati di Libero Scambio con le principali potenze tradizionali, si è smarcata nei primi anni 2000 dal giro progressista della politica latinoamericana promuovendo l’Alleanza del Pacifico con gli altri governi di destra rimasti nella regione (Cile, Colombia e Messico). Il governo peruviano ha incoraggiato l’isolamento del Venezuela di Nicolás Maduro, e ha ospitato la prima riunione del gruppo internazionale creato con quello scopo, il Gruppo di Lima. Ha accompagnato Trump nelle poche crociate che ha lanciato nella politica latinoamericana, come la rielezione di Luis Almagro alla guida dell’Organizzazione degli Stati Americani o quella di Clever-Carone alla presidenza della Banca Interamericana di Sviluppo. Ora però l’allineamento peruviano potrebbe virare.
Le prime iniziative del nuovo presidente
Castillo ha designato al ministero degli Esteri l’ex guerrigliero e scrittore Héctor Béjar, che nel suo primo discorso ai diplomatici peruviani ha esposto le nuove linee guida della posizione internazionale del Perù. Ha denunciato l’embargo contro Cuba e le sanzioni contro Caracas, ha preventivato un avvicinamento al Gruppo di Contatto sul Venezuela -in cui partecipano l’Ue ed altri paesi sudamericani e che promuove un maggior dialogo col governo di Maduro-, e ha annunciato un maggior protagonismo del Perú negli organismi internazionali alternativi a quelli dominati da Washington, come la Comunità di Stati Latinoamericani e dei Caraibi (Celac).
Una svolta complessa, e non da poco sotto il profilo geopolitico. Il Perù è il paese latinoamericano col maggior grado di connessione marittima con l’Asia dopo il Messico. Il porto del Callao è il secondo più grande sulla costa del Pacifico in America Latina, e la Repubblica Popolare ha scelto Chancay, a 75 chilometri da Lima, per costruire il primo porto interamente cinese in America del Sud. L’allineamento del governo di Castillo coi soci della sinistra latinoamericana (Messico, Argentina e Bolivia) è già in corso, ma il suo peso dipenderà dalla capacità di domare il complesso panorama politico domestico senza cadere nella volatilità che ha contraddistinto i governi peruviani degli ultimi anni.
Haiti, la sfida geopolitica dei Caraibi
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A due settimane dall’omicidio del Presidente haitiano, Jovenel Moïse, la situazione ad Haiti sembra diventare sempre più complessa. Questo lunedì il Primo Ministro Claude Joseph, che aveva preso il controllo dell’esecutivo e dichiarato lo stato d’assedio, ha lasciato l’incarico. Fino alla settimana scorsa Joseph pretendeva di gestire la crisi fino alle elezioni previste per settembre. Il suo posto sarà occupato da Ariel Henry, che Moïse aveva nominato premier poche ore prima di essere ucciso, ma non era riuscito a prestare giuramento. Un colpo di mano diretto chiaramente dall’estero: era stato il Core Group Haiti – guidato dagli ambasciatori degli Stati Uniti e dell’Unione europea, dall’Organizzazione degli Stati Americani e dalla rappresentante speciale delle Nazioni Unite – a esortare Henry ad assumere il controllo del Governo venerdì scorso.
Il nuovo esecutivo “di larghe intese” avrà come unico obiettivo la celebrazione di nuove elezioni generali entro i prossimi quattro mesi. Una missione tutt’altro che semplice: dal 2018 infatti lo stesso Moïse governava a colpi di decreto. Solo 10 senatori su 30 sono in carica, mentre la Camera è vacante dal termine della legislatura e non ci sono mai state le condizioni di sicurezza per rinnovarne il mandato. Poi, ci sono le gang. Le organizzazioni criminali detengono di fatto il controllo di buona parte del territorio haitiano, specialmente nei collegi elettorali più importanti in termini di votanti. Il G9, un sodalizio di bande di Porto Principe fondato nel 2020 dall’ex poliziotto Jimmy Chérizier, ha di recente preso le distanze dal Parti Haïtien Tèt Kale, il partito di Governo che si era impegnato a sostenere, e ha lanciato l’appello a una “rivoluzione” contro lo Stato.
Insomma, le elezioni generali così anelate dalla comunità internazionale per stabilizzare il Paese sembrano un traguardo tutt’altro che raggiungibile. Per le principali potenze sul campo sono però indispensabili: la valenza geopolitica di Haiti infatti è inversamente proporzionale alla stabilità raggiunta dal Paese più povero del continente. I colpi di Stato (8 tra il 1986 e il 2020), disastri naturali (l’uragano Mitch nel 1998, il terremoto del 2010), le guerre civili (102 nel XX secolo) o le crisi istituzionali come quella in corso incrementano i fenomeni che gli Usa e alleati cercano di contrastare nella regione: migrazioni di massa, crescita delle gang, del commercio di armi e del narcotraffico. Si calcola che circa il 10% del traffico di cocaina proveniente da Colombia e Venezuela, e diretta negli States, passi attraverso i porti haitiani prima di raggiungere la Florida, a 800 miglia marittime.
Haiti è un Paese che dipende in tutto e per tutto dall’estero: la cooperazione internazionale garantisce più della metà della spesa pubblica del Paese, le rimesse dei migranti haitiani rappresentano il 29,27% del Pil e i servizi basici della popolazione sono garantiti dalle missioni delle organizzazioni internazionali. O dalle strutture della Repubblica Dominicana, Paese vicino che dopo l’omicidio del Presidente Moïse si è dichiarato in stato d’allerta e ha mosso truppe alla frontiera.
Intanto le indagini si concentrano attorno al commando di mercenari che avrebbero fatto irruzione nella casa del Presidente la notte tra il 6 e il 7 luglio. Ventisei di loro sono ex ufficiali delle forze armate colombiane, e circa la metà di essi addestrati negli Stati Uniti[7]. Altri due sono haitiano-statunitensi, ex narcotrafficanti divenuti informatori della Drug Enforcement Administration, l’ufficio incaricato della lotta al narcotraffico internazionale del Governo degli Stati Uniti.