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La Nato guarda a est ma abbandona il Mediterraneo
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Alla fine è toccato al Presidente degli Stati Uniti Joe Biden spiegare la nuova strategia della Nato, uscita dal vertice di Madrid più forte, allargata a Svezia e Finlandia ma concentrata soprattutto a est. Un vertice che era stato immaginato per ridare smalto all’Alleanza con la riforma 2030, che avrebbe dovuto ridisegnare il perimetro dell’azione e delle sfide future e che è divenuta fatalmente ostaggio della crisi ucraina.
Biden: il mondo cambia, cambia anche la Nato
“L’ultima volta che la Nato ha elaborato una nuova strategia è stato 12 anni fa; – ha spiegato Biden al termine del vertice – a quel tempo, la Russia era definita un partner e la Cina non era neppure menzionata. Il mondo è cambiato parecchio da allora, e anche la Nato sta cambiando. Abbiamo invitato due nuovi membri a unirsi alla Nato, un atto storico; – ha aggiunto il Biden – Finlandia e Svezia sono due Paesi con una lunga tradizione di neutralità, che hanno scelto di unirsi alla Nato. Stiamo posizionando più navi in Spagna, più difese aeree in Italia e Germania. E sul fianco orientale, uno nuovo quartier generale permanente in Polonia, una brigata da combattimento aggiuntiva in Romania, dispiegamenti aggiuntivi a rotazione nei Paesi Baltici. Le cose cambiano per adattarci al mondo com’è oggi, e tutto questo accade sullo sfondo dell’aggressione russa contro l’Ucraina”.
Secondo Biden, mentre la Russia rappresenta una “minaccia diretta” per l’Europa, la Cina sfida “l’ordine mondiale basato sulle regole”.
Minuto Rizzo: agenda ostaggio della crisi ucraina
“La crisi ucraina – osserva l’ex Segretario Generale aggiunto della Nato, Ambasciatore Alessandro Minuto Rizzo – ha obbligato la Nato a concentrarsi sul rafforzamento del fronte orientale con la gran parte dei 300mila uomini della forza di intervento rapido quasi tutti dispiegati tra Polonia e Paesi Baltici”. Ma qualcosa resta dell’impostazione iniziale del vecchio concetto strategico, aggiunge Minuto Rizzo. “Ad esempio, si cita la Cina come nuova minaccia sistemica per la sicurezza occidentale”.
Pontecorvo: Italia sola nella missione in Iraq
Dello stesso parere Stefano Pontecorvo, già Ambasciatore italiano in Pakistan e, da ultimo, rappresentante civile della Nato a Kabul. “La Nato – osserva Pontecorvo – sta uscendo dai confini europei e si sta occupando del mondo e di minacce sistemiche come quelle della Cina. Un cambio di passo significativo per un’alleanza che finora si era concentrata sulle sfide del Mediterraneo e dei Balcani”. Non proprio un segnale incoraggiante per l’Italia che si trova sguarnita a far fronte alle minacce provenienti dalla sponda sud del Mediterraneo in termini di flussi migratori e sacche non ancora totalmente sradicate di fondamentalismo islamico. Soprattutto nel momento in cui è tutta in mano italiana la missione Nato in Iraq.
Guerini: 65 militari Usa e sistema difesa aerea
Ma cosa cambierà tutto ciò per l’Italia? Secondo il Ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, “è stato peraltro annunciato l’adattamento della presenza militare statunitense in Europa: aspetto che, per quanto riguarda l’Italia, comporterà lo schieramento – a seguito delle previste procedure di autorizzazione – di 65 unità aggiuntive di personale, nonché di una batteria per la difesa aerea a corto raggio, destinata a consentire la rotazione di analoghe batterie già schierate sul fianco est”. “Questo summit è un momento storico”, ha aggiunto il Ministro Guerini, “un momento di trasformazione. Evolversi senza perdere la propria identità, adattarsi ai tempi che cambiano: sono i segreti del successo di un’organizzazione difensiva che, in 73 anni di storia, ha saputo rinnovarsi mantenendo intatta la sua missione: difendere i propri membri dalle minacce esterne, senza costituire una minaccia per altri”.
Draghi possibile candidato al dopo Stoltenberg
È quindi un fatto che la gran mole di uomini, mezzi e risorse economiche dell’Alleanza atlantica per i prossimi anni sarà assorbita quasi per intero dal fronte orientale. Se a ciò si aggiunge il fatto che ormai da anni il Segretario Generale della Nato è espressione di Paesi del Nord (prima il danese Rasmussen e ora per un altro anno il norvegese Stoltenberg) tutto ciò concorre a rendere tutta in salita la candidatura di un nuovo Segretario del sud Europa o meglio, come si vorrebbe, dell’Italia. Non si può certo definire un segno di grande rispetto per gli altri leader dell’Alleanza la repentina partenza del premier italiano Mario Draghi a vertice non ancora concluso, richiamato in Italia da vicende tutte domestiche.
Draghi resta tuttavia uno dei candidati possibili alla successione di Stoltenberg, anche se era stato proprio Draghi un anno fa, al G7 in Cornovaglia, a escludere una candidatura italiana (in quel momento i nomi che si facevano erano quelli di Enrico Letta e Matteo Renzi). I temi della crisi ucraina e della nuova postura della Nato saranno comunque al centro, martedì prossimo, del viaggio lampo di Draghi ad Ankara per un incontro con il Presidente Recep Tayyp Erdogan. Sarà, quella, l’occasione per ribadire le scuse dopo le dichiarazioni con cui il Presidente del Consiglio definiva “dittatore” il Presidente turco. Ma anche per chiarire alcuni aspetti del negoziato con Mosca sull’Ucraina e del memorandum con la Nato che prevedrebbero la possibilità di estradizione da Svezia e Finlandia di aderenti al partito curdo Pkk. E il via libera dagli Usa all’invio in Turchia degli F16 (per gli F35 bisognerà attendere ancora).
Dal G7 un “whatever it takes” per gli aiuti all’Ucraina
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Nelle varie sessioni di lavoro tra domenica 26 e martedì 28 a Schloss Elmau, nelle montagne bavaresi, i sei leader del G7, oltre alla Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e al Presidente del Consiglio europeo Charles Michel, hanno ascoltato con attenzione il premier Mario Draghi che snocciolava tutti i rischi che sta correndo l’economia mondiale a causa della crisi tra Russia e Ucraina.
Una riflessione che non riguarda solo l’Unione europea e i timori sul riaccendersi dell’inflazione trascinata in alto dall’aumento del prezzo degli idrocarburi. Riflessione che ha trovato una sponda fondamentale nel Presidente francese Emmanuel Macron ma soprattutto nel Presidente americano Joe Biden, che già da giorni insisteva per un tetto al prezzo del greggio.
Su price cap anche la Germania cambia idea
Alla fine, anche il Cancelliere tedesco Olaf Scholz (che solo pochi giorni prima a Bruxelles al vertice Ue di Bruxelles era apparso molto cauto sull’introduzione di un tetto al prezzo del gas) è apparso molto più collaborativo, sposando le riflessioni di Draghi sul significato geopolitico della misura. Certo, ora se ne occuperanno i ministri tecnici dell’energia e, come ha riferito Macron, non sarà una decisione semplice ma il comunicato finale del G7 ha messo un punto sulla questione imprimendo una forte accelerazione alle decisioni europee. Il G7, recita il comunicato finale, “accoglie con favore la decisione dell’Unione europea di esplorare con i partner internazionali modi per contenere i prezzi crescenti dell’energia, inclusa la fattibilità di introdurre tetti temporanei ai prezzi, ove appropriato”. E poi ancora: “Mentre riduciamo gradualmente l’afflusso del petrolio russo sui nostri mercati – continuano i leader – cercheremo di sviluppare soluzioni che consentano di raggiungere il nostro obiettivo di ridurre i ricavi della Russia dagli idrocarburi, sostenendo la stabilità nei mercati globali dell’energia, minimizzando nel contempo gli impatti economici negativi, specialmente nei Paesi a basso e medio reddito”.
Cosa fare per il gas e il grano
Secondo Draghi, tuttavia, “è difficile capire che cosa farà la Russia con il gas: andiamo avanti cercando di prepararci. La strada consiste nel diversificare le fonti, nell’aumentare i livelli di stock, nell’incrementare gli investimenti nelle rinnovabili, facendo anche investimenti di lungo periodo nei Paesi in via di sviluppo”. Sull’introduzione di un tetto al prezzo del gas interviene anche il Cremlino, secondo il quale spetta a Gazprom decidere e probabilmente “vorranno rivedere i contratti in essere”. Così il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov.
Ma il G7 si preoccupa anche della sicurezza alimentare nei Paesi più poveri aggravata dal blocco delle navi ricolme di grano e fertilizzanti bloccate nei porti ucraini. “Ribadiamo – recita il comunicato del G7 – il nostro urgente appello alla Russia affinché metta fine senza condizioni al blocco dei porti ucraini sul Mar Nero e smetta di distruggere infrastrutture portuali di trasporto, terminali e silos per il grano e di appropriarsi in modo illegale di prodotti agricoli e attrezzature ucraine. Sosteniamo fortemente l’Ucraina nel riprendere le sue esportazioni agricole sui mercati mondiali – si legge ancora – nonché gli sforzi delle Nazioni Unite per sbloccare un corridoio marittimo sicuro attraverso il Mar Nero”. Secondo Draghi, “la situazione” del grano “deve essere sbloccata in tempi rapidi; occorre immagazzinare il raccolto nuovo”. “Ma – ha aggiunto il Presidente del Consiglio – il Segretario generale dell’Onu ha detto che siamo ormai vicini al momento della verità per capire se la Russia vorrà sottoscrivere un accordo che permetterà al grano di uscire dai porti”.
Ma il G7 in tempo di guerra ha soprattutto concordato aiuti economici e militari a Kiev “fino a quando saranno necessari”. Una sorta di “Whatever it takes” a favore dell’Ucraina.
Scholz: renderemo la vita difficile a Putin
L’ultimo drammatico attacco missilistico russo a Kremenchuk, città di 200mila abitanti nella regione centro-orientale di Poltava, nelle stesse ore in cui i sette grandi si riunivano nelle Alpi bavaresi, rappresenta l’ennesima provocazione russa. Il Cancelliere tedesco, Presidente di turno del G7, in conferenza stampa a Elmau è stato chiaro: “Continueremo ad aumentare i costi politici ed economici per il Presidente Putin: per questo è importante stare insieme. Anche se è un percorso lungo, dobbiamo reggere. Forniremo armi e molti altri Paesi lo stanno facendo”. Anche per Draghi “non ci sarà pace se l’Ucraina non sarà in grado di difendersi. Senza difese c’è imposizione, sottomissione e oppressione, non c’è pace. Finora il sostegno del G7 è stato sufficiente, la condizione essenziale per la difesa. Questo costituisce una sorpresa, nessuno pensava che l’Ucraina potesse difendersi con efficacia e coraggio, come sta facendo. Le ultime settimane hanno visto un costante progresso delle forze militari russe. Tutti guardiamo quello che succede sul campo, il sostegno all’Ucraina andrà avanti e continuerà in maniera unitaria e adeguata”.
Dal G7 al G20: Occidente più unito contro Putin
Chiuso il G7, Draghi si trasferisce a Madrid per partecipare al vertice della Nato che avrà come tema centrale sempre la crisi ucraina. “Dal vertice Nato – dice – ci aspettiamo la riaffermazione di unità e di fermezza già espresso dal G7 e poi, probabilmente, un ampliamento della Nato alla Svezia e alla Finlandia. Gli effetti di questa guerra sono imprevedibili, ora ci troviamo un’Unione europea più unita, una Nato più unita e più grande. Tutti i Paesi limitrofi alla Russia cercano protezione e riarmamento. Le cose non stanno andando come avrebbe voluto il Presidente Putin”.
Ci si interroga ora sul futuro di una soluzione diplomatica come suggerito dall’ex segretario di Stato Usa Henry Kissinger, secondo il quale meglio una Russia europea che una Russia asiatica alleata della Cina. E ci si interroga, quindi, sulla possibilità che Putin possa partecipare al prossimo vertice del G20 di Bali. Draghi ha riferito che la presidenza indonesiana avrebbe escluso una partecipazione in presenza del Presidente russo. Pronta la replica del portavoce del Cremlino: “Il Presidente russo Vladimir Putin ha ricevuto l’invito per il vertice del G20 e vi parteciperà, non è il Presidente del Consiglio italiano Mario Draghi a decidere sulla partecipazione di Putin al vertice”.
Consiglio europeo: Ucraina più vicina, ma restano divisioni sul gas
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BRUXELLES – Nella notte tra giovedì e venerdì a Bruxelles ce l’ha messa davvero tutta il premier Mario Draghi (spalleggiato dal Presidente francese Emmanuel Macron e dal Presidente del Consiglio Ue Charles Michel) per convincere gli altri partner che un Consiglio straordinario a luglio sul cosiddetto “price cap” per il gas si rendeva assolutamente indispensabile.
Disco rosso da Germania e Olanda
In un primo tempo il Cancelliere tedesco Olaf Scholz non si era opposto in linea di principio ma alla fine avrebbe manifestato tutti i suoi timori per una possibile reazione russa su nuove riduzioni delle forniture di gas. “Ma vi rendete conto – avrebbe detto Draghi – che stiamo pagando gli stessi soldi per avere da Mosca metà del gas di qualche mese fa? Solo l’Italia, è passata dal 40% di forniture al 25%”. “Lo sappiamo bene – è stata la risposta di Scholz – ma c’è il rischio che la Russia blocchi pure l’altra metà del gas”.
Preoccupazioni analoghe anche da parte del premier olandese Mark Rutte, anche se nei corridoi di Justus Lipsius circolava tra i diplomatici la voce secondo la quale Rutte era più che altro preoccupato di dover rinunciare alle proprie ferie nel caso di un vertice straordinario. Essendo luglio, per i Paesi del Nord Europa il mese tradizionale per le ferie estive, un po’ come da noi agosto. Sta di fatto che la Commissione, per non ripetere le conclusioni del vertice di maggio ma tenendo presenti le resistenze di alcuni Paesi, si è impegnata a predisporre entro settembre una proposta complessiva su tutti i problemi dell’energia, dal gas alle rinnovabili, sulla quale i 27 si pronunceranno nel vertice di ottobre.
Se situazione si aggrava vertice straordinario inevitabile
Ma non è un po’ troppo tardi? È stato chiesto a Draghi in conferenza stampa. “Certo – ha risposto il Presidente del Consiglio – potrebbe essere tardi. Soprattutto se avvengono altre cose sul fronte dell’energia. Ma su questo il Consiglio europeo è stato aperto: se la situazione dovesse aggravarsi è chiaro che ci sarà un Consiglio straordinario. È stato detto esplicitamente, non è che stiamo lì a far passare due mesi e mezzo senza fare niente”. Il price cap, secondo Draghi, “è la cosa che chiunque suggerisce di fare in questa situazione. Nei confronti della Russia l’Ue ha un potere di mercato che deve esercitare attraverso il price cap. Non lo fa perché c’è paura da parte di qualcuno che la Russia tagli le forniture di gas ancora di più. Ma quello è già successo.”
Anche al G7 si parla di price cap (ma per il greggio)
Di sicuro Draghi punterà a tenere caldo il tema da domenica al vertice G7 di Schloss Elmau in Germania, facendo leva sulla posizione americana espressa dal segretario al Tesoro Usa Janet Yellen a favore di un price cap per il prezzo del greggio.
Insomma, l’Europa che, secondo Draghi, con la crisi ucraina ha compiuto un vero “salto identitario” nella sua dimensione esterna divenendo sempre più attrattiva per Paesi come Ucraina, Moldova e Georgia, rischia tuttavia di fare i conti con la mancanza di unità su temi centrali rimasti da tempo irrisolti (politica comune in campo energetico come in quello fiscale).
Le preoccupazioni di Draghi sul rischio inflazione
Draghi è preoccupato anche per gli effetti che il prezzo del gas potrebbe avere sulla ripresa dell’inflazione. “Ci stiamo preparando proprio in funzione di questo inverno; – osserva Draghi – le misure che si stanno pensando in Italia assicurano nel caso vi sia emergenza durante l’inverno. Tutti gli studi che ho visto finora danno un quadro nel quale, grazie proprio alla ricerca di altri fornitori, dal punto di visto dei volumi noi siamo in una posizione buona”. “Noi – ha aggiunto Draghi – siamo stati molto rapidi nei primissimi giorni dell’inizio della guerra: abbiamo assicurato una rete di fornitori all’Italia e siamo relativamente ottimisti che tutto ciò possa compensare pienamente le importazioni di gas russo entro un anno, un anno e mezzo. Comunque, i risultati si vedono anche ora e sono migliori di quello che ci si aspettava”.
La crisi delle armi a Kiev
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La guerra in Ucraina sta cambiando l’Europa. E, in molti casi, non in peggio. La conferma all’Eliseo di Emmanuel Macron che, come Presidente di turno dell’Unione europea, ha svolto un ruolo attivo nelle ultime settimane per aprire un dialogo con Mosca è un primo segnale positivo che lascia bene sperare per il futuro della costruzione europea che veda finalmente concretizzarsi una politica estera e di difesa comune.
Rafforzato dal risultato delle urne Macron punterà ora tutte le sue carte per far approvare in maggio la cosiddetta “bussola strategica” che prevede un primo embrione di esercito europeo sia pure non in concorrenza con la Nato. Mario Draghi, dal suo buen retiro umbro che lo ha ospitato durante l’isolamento da Covid-19, ha accolto con soddisfazione la conferma di Macron. La sua rielezione rafforza infatti la strategia europea del Presidente del Consiglio italiano per la riforma del Patto di stabilità e il Pnrr così come le azioni di politica interna necessarie a favorire funa soluzione diplomatica per la crisi ucraina.
Dopo una prima fase di passi incerti e un po’ tentennanti due mesi fa coronati dalla “gaffe” (assai poco gradita a Washington) dell’annuncio di un viaggio a Mosca a crisi ormai conclamata, nelle ultime settimane Draghi ha ripreso in pieno il dominio del dossier ucraino. Non ci sono conferme ufficiali ma Palazzo Chigi sta lavorando a un viaggio a Kiev per un incontro con il Presidente Zelenski prima dell’annunciato viaggio a Washington, così come hanno già fatto altri leader europei.
Petro Poroshenko, Presidente dell’Ucraina dal 2014 al 2019 ha detto di attendere Draghi “a braccia aperte”. “Lo conosco bene – ha aggiunto Poroshenko – ci siamo incontrati quando ero Presidente, un grande leader europeo che non ha avuto dubbi nel sostenere la nostra causa sin dall’inizio dell’invasione russa”.
Il 29 marzo, nel colloquio telefonico con Putin, Draghi ha avuta netta la sensazione che la soluzione diplomatica è al momento una chimera. Il premier italiano ha ribadito al Presidente russo “la disponibilità del Governo a contribuire al processo di pace, in presenza di chiari segni di de-escalation da parte della Russia”. Putin si sarebbe detto d’accordo sull’ipotesi che l’Italia, i membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu, Germania, Canada, Turchia, svolgano una funzione di garanti sia sul rispetto della neutralità da parte dell’Ucraina, sia per quanto riguarda la rinuncia al nucleare di Kiev e a eventuali sinergie con la Nato. In più, le stesse fonti fanno sapere che il Presidente russo si è detto “soddisfatto” per come procedono i negoziati di Istanbul e per la decisione dell’Ucraina di restare neutrale sul modello Austria. A un certo punto del colloquio la chiamata si è interrotta ed è stato Putin a ritelefonare. Assieme hanno concordato “sull’opportunità di mantenersi in contatto”. Ciò significa che Putin e Draghi torneranno a sentirsi, dopo che in febbraio l’esplosione della guerra aveva fatto saltare la trasferta del premier italiano a Mosca.
La prossima missione di Draghi in Ucraina servirà anche per chiarire la notizia non confermata sulla morte di 11 foreign fighters italiani in Ucraina nel corso di operazioni di combattimento contro i russi. Diverse fonti di intelligence hanno smentito la notizia: “non c’è la conferma né della presenza in loco né della morte dei connazionali – hanno fatto sapere fonti di intelligence – tuttavia la notizia fatta pervenire a palazzo Chigi dal ministero della Difesa russo è in corso di accertamento”.
Ma la visita di Draghi a Kiev coinciderà molto probabilmente con l’approvazione del terzo decreto per l’invio di armi a Kiev. Il 26 aprile, nella base americana di Ramstein in Germania, si è tenuto un maxi vertice tra 40 Ministri della Difesa, venti di Paesi della Nato e altri venti che stanno fornendo armi alla resistenza ucraina. L’Italia, oltre a predisporre un pacchetto di aiuti economici da 200 milioni a favore di Kiev (oltre ai 110 già stanziati), sta preparando l’invio di artiglieria e cingolati pesanti. Sistemi di difesa come i Sidam 25 antiaereo montati su cingolati M113 e anche mezzi molto più moderni come una settantina di obici PzH2000 di fabbricazione tedesca con gittata massima di 40 Km.
Nonostante le resistenze di alcuni settori dei Cinque stelle e di una parte della sinistra, Draghi sa di avere disco verde nell’invio di altre armi alla resistenza ucraina. Dietro queste forniture ci sono le prove in corso per chi salirà sul vagone di testa della difesa europea che avrà molto probabilmente una guida francese. “La Bussola – ha detto Draghi in Parlamento – è stata adattata alla luce della guerra in Ucraina, che rappresenta la più grave crisi in ambito di difesa nella storia dell’Unione europea e prevede l’istituzione di una forza di schieramento rapido europea fino a 5mila soldati e 200 esperti in missioni di politica di difesa e sicurezza comune. A queste iniziative si aggiungono investimenti nell’intelligence e nella cybersicurezza, lo sviluppo di una strategia spaziale europea per la sicurezza e la difesa e il rafforzamento del ruolo europeo”.
L’ex Presidente della Commissione Ue Romano Prodi non si stanca di ripetere che sulla difesa europea occorrerà arrivare a un meccanismo di cooperazione rafforzata. La pensa allo stesso modo il segretario del Pd Enrico Letta. “Ritengo – ha detto di recente Letta – che non ci possa essere una scelta vera, un passo avanti sulla difesa comune, se non c’è un impegno, un passo chiaro dei cinque grandi Paesi europei. Francia, Germania, Italia, Spagna e Polonia che dicono ‘decidiamo di andare in questa direzione, con questi tempi’. Se non c’è questo, non credo ci possa essere una difesa comune. Poi ci saranno gli altri passaggi burocratici, ma il mio auspicio è che questo passo ci sia e che l’Italia ne sia promotrice, considerando il ruolo importante che svolgono Spagna e Polonia”.
Eppure le armi all’Ucraina dividono la politica italiana. A cominciare dalle “esternazioni” del Presidente della Commissione Esteri del Senato, il grillino Vito Petrocelli, che si è impossessato di un simbolo delle truppe russe, ossia la Z scritta col gesso sui mezzi blindati e sui camion militari che hanno invaso l’Ucraina. A Mosca è comparsa sulla fiancata delle auto, sui cartelloni pubblicitari e sulle bandiere sventolate dai seguaci di Vladimir Putin. Alla vigilia del 25 aprile il filorusso Petrocelli ha infilato la Z in una frase di augurio inviata pubblicamente via Twitter: “Buona festa della LiberaZione”. A stretto giro, la presa di posizione di Giuseppe Conte, leader del Movimento: “Vito Petrocelli è fuori dal Movimento 5 Stelle. Stiamo completando la procedura di espulsione. Il suo ultimo tweet è semplicemente vergognoso. Il 25 aprile è una ricorrenza seria. Certe provocazioni sono inqualificabili”. Tra le repliche al post di Petrocelli c’è chi ha risposto: “Buona festa di Liberazione denazificata”, riportando quella “Z” alla sua versione minuscola. E dal Pd arriva la reazione: “Basta con queste continue provocazioni – afferma il capogruppo Dem in Commissione, Alessandro Alfieri – è ora che intervenga la Presidente del Senato, Elisabetta Casellati”.
Una posizione, quella di Petrocelli già nota da tempo, quando il 31 marzo ha votato no alla fiducia sul decreto Ucraina. Posizione, rivendicata più volte dal senatore, che ha aperto un fronte, su cui ancora si continua a dibattere, in merito alla sua espulsione dai 5S.
Ma Petrocelli non è isolato. Anche alcuni settori della sinistra guardano con preoccupazione l’invio di armi. Come l’ex Presidente della Camera, deputata del Pd Laura Boldrini: “Trovo molto preoccupante – ha fatto sapere la Boldrini – che l’Unione europea stia rispondendo a questa crisi inviando armi. L’Unione europea è il più grande progetto di pace della storia: Paesi che per millenni si sono fatti la guerra da oltre settant’anni vivono in pace. Le controversie non si risolvono più con le armi, ma con i trattati e le convenzioni”. Durante l’esame del decreto legge sull’invio di aiuti militari in Ucraina la Boldrini si è astenuta per quanto riguarda le armi a Kiev, in dissenso con quanto fatto invece dal resto dei deputati Dem. Secondo l’ex Presidente della Camera, mandare armi in Ucraina in questo momento va “nella direzione opposta alla distensione” e “la corsa agli armamenti è un tornare indietro di decenni”. “Zelensky – aggiunge la Boldrini – chiede quello che lui ritiene essere utile al suo Paese. È una richiesta legittima, ma non sarà attraverso questa strada che si risolverà la guerra. La guerra si risolverà solo per via negoziale”.
Ma guerra vuol dire anche crisi economica e non solo in Russia a causa delle sanzioni. Nelle sue previsioni il Fondo monetario segnala che “per alcune delle più grandi economie europee come Francia, Germania, Regno Unito e Italia è prevista una crescita trimestrale molto debole o negativa alla metà del 2022”. Il Fmi ha previsto per l’Italia un Pil a +2,3% quest’anno, +1,7% il prossimo e +1,3% nel 2024. Il responsabile del Dipartimento Ue del Fmi, Alfred Kammer, ha precisato: economie come “Francia, Germania, Italia e Regno Unito sono previste crescere a malapena o anche contrarsi per due trimestri consecutivi quest’anno”.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
SuperMario alla prova della guerra
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Ora che la guerra di Putin portata fino alle porte di Kiev chiede un’Europa con leader uniti, stabili e affidabili, per Mario Draghi la partita si fa davvero complicata. Un conto è infatti vincere la guerra alla pandemia, mandare a casa Arcuri e nominare il generale Figliuolo come plenipotenziario della campagna vaccinale. Altro è mediare con gli altri capi di Stato e di Governo europei mantenendo la barra dritta sugli interessi nazionali, che poi significa sostanzialmente mettere in sicurezza i nostri contratti energetici con Mosca o trovare fonti di approvvigionamento alternative quali Algeria e Azerbaijan.
È pur vero che nell’ora più buia dell’attacco all’Ucraina, la mattina del 24 febbraio, Mario Draghi, anche grazie al tutoraggio del Presidente Mattarella, è uscito con dichiarazioni risolute che hanno fatto quasi dimenticare l’assordante silenzio dei giorni precedenti e i vari inciampi su una visita annunciata ma non ancora confermata a Mosca per mediare con Putin, annuncio che avrebbe irritato notevolmente l’amministrazione Usa, non avendo finora Draghi, in un anno al Governo, compiuto alcun viaggio a Washington.
Ma a ben guardare, già prima della crisi ucraina, qualcosa si era fatalmente rotto nell’incantesimo del banchiere centrale che dopo aver salvato l’Euro avrebbe salvato l’Italia piegata dalla pandemia e dalla crisi rimettendola in carreggiata per affrontare le sfide del futuro. Difficile stabilire esattamente quando la magia si è spenta, quando i poteri di SuperMario non hanno più colto nel segno. Nelle cancellerie e nell’opinione pubblica Draghi è tornato ad essere – come già fu Mario Monti nel 2011 – quel tecnico competente e apprezzato che è sempre stato. Nulla di più.
Vero spartiacque tra il SuperMario della prima ora e Draghi 2, la conferenza stampa del 22 dicembre, in una location insolita fuori dai palazzi del potere, che doveva segnare una discontinuità con i suoi predecessori. Ai giornalisti che gli chiedevano se intendesse o meno partecipare alla corsa per il Quirinale, il premier rispose con una battuta che lasciò trasparire tutta la disponibilità per l’alto incarico. Liquidò il lavoro del Governo come già quasi completato e si definì “un nonno al servizio delle istituzioni”. Fu la conferma che al Colle l’ex governatore della Bce ci puntava davvero.
In quell’occasione Draghi mostrò tutta la sua incapacità nell’intercettare i veri “animal spirit” della politica italiana (cosa che invece sa destreggiare con abilità il Presidente della Repubblica). Ma fece di peggio: nel primo giorno di consultazioni convocò il leader della Lega Matteo Salvini (che nelle settimane precedenti aveva quasi ridicolizzato nei duelli sul Green Pass e i vaccini) e gli altri segretari di maggioranza per sondare la loro disponibilità a votarlo.
Quelle vicende segnarono la fine di SuperMario. Il passaggio tra il prima e il dopo del suo mandato di unità nazionale. Un prima, fatto di decisionismo e mediazione tattica, con lo sguardo fisso al Colle e la prospettiva di guidare il Paese per sette anni. Un dopo, da decifrare tra partiti ingovernabili guidati da comitati elettorali e capibastone ma da lasciar cuocere nel loro brodo. E obiettivi non semplici da raggiungere, una scadenza certa nel 2023, campagna elettorale permettendo. Mantenere saldamente i risultati della crescita del Pil e difendere il Pnrr dai ritardi della burocrazia italiana e dalle diffidenze di Bruxelles. Insomma uno scenario molto diverso rispetto a quando Draghi disse sì a Mattarella per quella che sembrava una missione impossibile: unire forze politiche diverse tra loro per utilizzare gli oltre 200 miliardi assegnati all’Italia dal Next Generation EU, il più grande piano di aiuti economici che l’Europa abbia mai concesso.
La cosiddetta “accountability” ossia quel principio di responsabilità di cui sono tradizionalmente forniti i banchieri centrali, che nella prima fase del Governo poteva apparire un elemento necessario per agevolare il funzionamento della macchina statale, alla fine del 2021 e ancora di più nella vicenda del Quirinale e subito dopo ha mostrato tutti i suoi limiti. Il compromesso con i partiti e con le diverse anime presenti in ciascun partito è oggi un passaggio obbligato che Draghi vive come una costrizione che rallenta l’azione del Governo e ne limita l’efficacia.
Un esempio tra i tanti: Draghi ha abbandonato il vertice Ue-Unione africana del 17 febbraio a Bruxelles, alla prima sessione plenaria, scusandosi con Macron, per rientrare a Roma e consultarsi con Mattarella sul percorso da intraprendere per non entrare in rotta di collisione con quei partiti che in Consiglio dei Ministri gli approvano i provvedimenti e in Parlamento li stravolgono. Mattarella lo ha rassicurato e consigliato di andare avanti con l’unico obiettivo di difendere il Pnrr, ridurre le bollette e salvaguardare il Pil.
Anche in politica estera, a cominciare dalla crisi ucraina e dal dibattito sulle sanzioni, si è avuto un Draghi defilato pronto a delegare quasi tutta la visibilità internazionale al Ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Significativo al riguardo l’editoriale del Wall Street Journal, secondo il quale l’atteggiamento di Draghi che ha chiesto di escludere dalle sanzioni il settore energetico sarebbe “una resa preventiva ed è esattamente il motivo per cui Putin immagina che il prezzo di un’invasione sarebbe inferiore a quanto annunciato”. Draghi, si legge nell’editoriale, “non vuole che la sua eredità come Primo Ministro di unità nazionale sia offuscata da una crisi energetica ma consentire l’imperialismo di Mosca sarebbe una macchia ancora più grande”. Insomma anche i giornali stranieri che lo avevano osannato nella prima fase stanno cominciando a guardare Draghi con un occhio meno benevolo.
Le energie del capo del Governo si concentrano ora tutte sulla guerra mentre la pandemia viene delegata a Speranza. Dalla fine di marzo 2022, poi, niente più Green Pass e obblighi vaccinali. Una sorta di “liberi tutti”. Eppure Draghi aveva fatto veramente Draghi nelle seconde e terze ondate del Covid l’anno passato. Aveva smantellato ciò che c’era prima. A Bruxelles aveva chiesto alle case farmaceutiche vaccini per tutti. Il Super Green Pass ha consentito di raggiungere livelli record di vaccinazioni. Erano anche i mesi in cui il premier calcava con forza la scena internazionale, con il Global Health Summit e un G20 di successo organizzato a Roma in pieno Covid. C’è chi dice che le monetine che i leader del mondo lanciarono nella fontana di Trevi serrano il segnale che individuava in Draghi il vero successore della Merkel in Europa e nel mondo.
Ma poi arrivò la politica e i partiti con quelle logiche inspiegabili per un “civil servant” educato alla chiarezza dei rapporti in stile anglosassone. È ancora presto per trarre vaticini affidabili dai comportamenti del premier italiano. Bisognerà vedere tra qualche mese se i due anni al Governo valgono più degli otto a Francoforte. Se tutti i partiti della maggioranza possono essere paragonati a Jens Weidmann, il governatore della Bundesbank. Serve infatti un tempo sufficiente per capire se l’agenda di Draghi 2-Mattarella saprà imporsi sui partiti così come a suo tempo si impose sul banchiere centrale tedesco.
“Io la vedo in maniera relativamente chiara; – ha detto Draghi recentemente – il dovere del Governo è proseguire e affrontare sfide importanti per gli italiani che sono quella immediata del caro energia, quella meno immediata ma preoccupante che è l’inflazione che sta aggredendo il potere acquisto dei lavoratori ed erodendo, anche se per ora non si vede, la competitività delle imprese. C’è poi l’uscita dalla pandemia e il Pnrr, che sta andando molto bene”.
Draghi ha escluso crisi e rimpasti fino alle elezioni. E a chi lo vorrebbe in campo anche dopo il termine della legislatura nel 2023, il premier respinge l’ipotesi di diventare federatore di un centro politico. “Ho visto che tanti politici mi candidano a tanti posti in giro per il mondo, mostrando grande sollecitudine, ma vorrei rassicurarli che, se decidessi di lavorare, un lavoro lo trovo da solo”. E, dette con quel mezzo sorriso che somiglia a un ghigno, sono parole che hanno quasi il suono di una velata minaccia.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
Nato, un ruolo per l’Italia
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La notizia è recente e contribuisce a sgombrare il campo da un’ipotesi che continuava a circolare da tempo, e ossia che l’attuale Segretario Generale dell’Alleanza atlantica, il norvegese Jens Stoltenberg si sarebbe potuto candidare per un terzo mandato alla guida dell’organizzazione. Ma Stoltenberg, su pressione di Oslo, sarà probabilmente il nuovo governatore della Banca centrale norvegese. Dalla partita della nomina del nuovo Segretario Generale esce un nome “pesante” ma questo non significa affatto che la strada che dovrà portare all’indicazione del nome del nuovo Segretario al vertice dei capi di Stato e di Governo di Madrid del 29 e 30 giugno prossimo sia tutta in discesa.
Non c’è una procedura formale per arrivare a definire il nome del nuovo capo dell’Alleanza e non ci sono scadenze particolari da rispettare. Si tratta di un processo di consultazione politica informale che non prevede candidature ufficiali. Anzi, quando c’è stato qualcuno che si è presentato come “candidato ufficiale”, come nel passato l’ex Ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini o, più recentemente, il premier olandese, Mark Rutte, si è trovato quasi subito la strada sbarrata. Anche per questo motivo c’è una grande prudenza da parte dei Governi degli Stati membri a presentare nomi che verrebbero inesorabilmente bruciati.
Diverso è, invece, il discorso che riguarda l’alternanza tra Paesi, anche alla luce del nuovo concetto strategico della Nato e delle nuove sfide che attendono l’Alleanza, dal fronte Sud nel Mediterraneo allargato al quadrante orientale fino alla Cina. Ebbene dal 2008 alla guida della Nato si sono avvicendati due segretari generali (prima il danese Rasmussen e poi Stoltenberg per 8 anni). Si tratta di due ex primi Ministri ma di Paesi tutto sommato di piccole dimensioni con circa 4 milioni di abitanti. Due segretari che hanno privilegiato fatalmente i rapporti tra Paesi baltici o del Nord Europa con la Russia trascurando un poco il fronte Sud affidato a un comando di Napoli abbandonato un poco al suo destino.
Verso una candidatura italiana?
Logica vorrebbe quindi che il nuovo Segretario appartenesse a un Paese del Sud Europa. La Francia, peraltro impegnata nei prossimi mesi nelle elezioni presidenziali, non ha mai manifestato particolari ambizioni per quella poltrona mentre la Spagna non ha candidati e ha già (con Josef Borrell) il posto di Alto Rappresentante per la politica estera e di difesa europea.
L’Italia avrebbe quindi tutte le carte in regola per concorrere a una poltrona che non ricopre da 50 anni (con Manlio Brosio). In realtà, nel 2004 il segretario alla Difesa Usa Donald Rumsfeld aveva sostenuto una candidatura italiana dopo l’inglese Robertson. C’era anche il nome, quello di un ex Ministro degli Esteri e della Difesa come Antonio Martino che però rinunciò (provocando le ire di Silvio Berlusconi) con la motivazione che il carico di lavoro per quella poltrona era da lui considerato eccessivo. L’Italia, dopo la fine della missione in Afghanistan, è il maggiore contributore di forze alle missioni Nato e dalla primavera prossima assumerà anche il comando della missione in Iraq. Nel nostro Paese sono presenti molte basi Nato e i droni di Sigonella stanno cominciando a svolgere al meglio il loro compito.
Una candidatura italiana otterrebbe tutto il sostegno da parte della Francia se non altro per sbarrare la strada all’ipotesi di un segretario inglese (era circolato il nome della ex premier Theresa May) soprattutto dopo la vicenda del contratto dei sommergibili all’Australia bloccato da Aukus di cui il Regno Unito fa parte. L’Italia è tra l’altro un Paese Ue che, al netto delle sanzioni, intrattiene rapporti stretti con la Russia non solo di carattere economico.
I possibili nomi
Ma se si snocciolano i possibili nomi dei candidati italiani le cose sono meno chiare. Per restare tra gli ex premier era circolato il nome di Matteo Renzi il cui profilo di vero outsider mal si attaglia però a un ruolo istituzionale che detiene lo stesso rango che spetta ai Capi di Stato. Enrico Letta avrebbe invece tutte le carte in regola per entrare in partita, se solo lo volesse e non fosse così concentrato sulle responsabilità di partito. Tra gli altri nomi, quello della ex ministra degli Esteri e Alta Rappresentante della politica estera e di difesa europea Federica Mogherini si è un po’ perso nelle nebbie di Bruges, mentre invece il presidente della Commissione Esteri della Camera Piero Fassino avrebbe delle chances se solo il sistema politico italiano lo appoggiasse con convinzione.
Un nome tenuto finora riservato, ma che potrebbe uscire allo scoperto solo in prossimità del vertice di Madrid, è quello dell’attuale commissario Ue agli Affari economici ed ex premier italiano Paolo Gentiloni. La corsa per il Quirinale, che vede lo stesso Gentiloni come possibile candidato, consiglia il silenzio assoluto. Poco senso hanno poi le obiezioni di chi teme che l’uscita di Gentiloni dalla Commissione rappresenterebbe un vulnus alle capacità dell’Italia di essere rappresentata al meglio a Bruxelles su dossier molto delicati come quelli economici. Il nuovo segretario generale della Nato entrerebbe in funzione solo nell’ottobre del 2022 quando alla Commissione von der Leyen mancheranno alla fine del mandato solo due anni mentre la carica di guida dell’Alleanza ha una prospettiva di 4 anni o, nel caso di una conferma, di otto.
Prende infine consistenza l’ipotesi che il Governo italiano in prossimità di Madrid si candidi come Paese alla guida della Nato magari offrendo il suo contributo con il nome di un alto funzionario che ha svolto un ruolo chiave nelle ultime concitate ore del ritiro della missione Nato dall’Afghanistan. Si tratta dell’ambasciatore Stefano Pontecorvo, già rappresentante civile della Nato a Kabul e regista dei ponti aerei per il rientro di civili e militari da quel Paese. Il suo nome rafforzerebbe il ruolo del segretariato Nato a servizio dei capi di Stato e di Governo in discontinuità con Stoltenberg che aveva molto politicizzato il ruolo di Segretario Generale. Candidare intanto il Paese (anche con il nome di un alto funzionario) avrebbe il vantaggio di bloccare le fughe in avanti degli Stati Uniti che potrebbero essere tentati, nell’impasse, di favorire qualche oscuro candidato dell’Estonia, della Lituania o della stessa Polonia. Ipotesi che verrebbe letta dalla Russia come provocatoria chiusura a ogni possibilità di dialogo futuro con l’Alleanza.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
Italia e Germania verso un nuovo trattato bilaterale
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Lo schema che si vorrebbe seguire è lo stesso utilizzato per il Trattato del Quirinale con la Francia, firmato a Roma poche settimane fa. Ma, al di là degli aspetti formali, è un fatto che tra Italia e Germania c’è la ferma volontà di creare le condizioni per relazioni bilaterali più strutturate. Ne parleranno lunedì a Palazzo Chigi il Presidente del Consiglio Mario Draghi e il nuovo Cancelliere tedesco Olaf Scholz, che ha inserito la tappa italiana nella seconda ondata dei suoi viaggi all’estero dopo Parigi e Bruxelles.
Nel settembre scorso era stata la Cancelliera Angela Merkel a proporre al Governo italiano un programma di azione che comprendesse tutto il ventaglio dei settori oggetto della cooperazione bilaterale. In realtà, i tedeschi sono da sempre abbastanza reticenti a firmare trattati bilaterali con altri Paesi. Lo hanno fatto solo quando si è trattato di scelte inevitabili come appunto il Trattato dell’Eliseo per la riconciliazione con la Francia dopo la guerra e l’ultimo Trattato di Aquisgrana.
Anche senza chiamarlo Trattato, fanno rilevare fonti diplomatiche italiane, si potrebbe lavorare a un piano di azione che contenga anche un programma di lavoro e in allegato il dettaglio sui metodi di lavoro scelti di volta in volta. In realtà, è lo stesso percorso previsto con la Francia per il Trattato del Quirinale, che contiene il perimetro dei temi e il metodo di lavoro e rinvia al programma allegato le iniziative concrete da realizzare.
Dentro questo schema i temi della pandemia, della ripresa economica, dell’energia, della green economy e dell’immigrazione avranno un posto prioritario. Draghi e Scholz discuteranno lunedì anche tempi e modi per una riforma al Patto di stabilità. All’ultimo Eurosummit di Bruxelles se ne è cominciato a discutere su iniziativa congiunta di Italia e Francia. Ma c’è da attendersi analoga disponibilità anche da parte del nuovo Governo tedesco. Una riforma che per Draghi è ineludibile. “Le regole del Patto di stabilità – ha detto il premier in Parlamento – si sono rivelate inefficaci e pro-cicliche, cioè dannose. Ho cominciato a dirlo negli ultimi 3 anni della mia permanenza alla Bce e ne sono sempre più convinto”.
Anche sull’immigrazione c’è da aspettarsi un atteggiamento tedesco più vicino alle posizioni italiane per effetto del condizionamento dei Verdi sulla coalizione del nuovo esecutivo tedesco. E i Verdi faranno sentire la loro presenza anche nel sistema di classificazione per gli investimenti “verdi”. “Già da tempo – ha detto Scholz a Bruxelles – la Germania ha preso la decisione che l’energia nucleare non prenderà parte alla transizione energetica”. Ma non si opporrà alle scelte francesi a favore del nucleare. La Commissione Ue mercoledì prossimo dovrà decidere se inserire nella “tassonomia” nucleare e gas, con il forte sostegno francese (per il nucleare) e italiano (per il gas, considerato fonte energetica di transizione). Quanto al gasdotto Nord Stream 2, Scholz ha tenuto a ricordare che la Germania si sente molto responsabile che “l’Ucraina resti un Paese di transito del gas”. Anche se il Nord Stream 2 è un progetto privato, ha ricordato Scholz, e a decidere alla fine sarà l’autorità regolatoria tedesca.
Draghi e Scholz faranno anche il punto sul coordinamento delle misure anti Covid. In questa nuova fase sono stati gli ospedali italiani ad aiutare i pazienti tedeschi (come nella prima ondata furono gli ospedali tedeschi ad ospitare pazienti italiani). La Germania sta anche valutando una stretta sugli arrivi dalla Gran Bretagna sull’esempio dell’Italia. La Baviera, uno dei Lander più colpiti dal rimbalzo dei contagi, ha chiesto al Governo federale di prendere una decisione rapida per classificare la Gran Bretagna come area di variante a rischio a causa della rapida diffusione di Omicron. E quindi richiedere l’obbligo di un test Prc per gli arrivi dal Regno Unito.
Draghi incontrerà il neo Cancelliere Olaf Scholz
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Parigi e Bruxelles sono state le prime tappe obbligate dei viaggi all’estero del neo Cancelliere tedesco Olaf Scholz subito dopo il suo insediamento. Il successore di Angela Merkel vedrà anche il Presidente del Consiglio Mario Draghi a testimonianza dell’importanza che Berlino annette al nostro Paese nella costruzione del futuro dell’Europa. Già giovedì prossimo i due si incontreranno per un primo contatto a margine del Consiglio europeo a Bruxelles. Ma si sta lavorando a un colloquio più strutturato durante un viaggio di Scholz a Roma prima di Natale.
L’agenda dell’incontro Draghi-Scholz è quasi tutta dettata dall’attualità dei dossier europei. Dalla riforma del Patto di stabilità alla lotta alla pandemia e al Pnrr, dal pacchetto climatico Fit for 55 al patto per l’immigrazione; dalle relazioni transatlantiche alle vicende della Bielorussia, della Russia e dell’Ucraina.
Rispetto alla Merkel, Draghi troverà dunque un’interlocuzione molto diversa con Scholz. È il frutto delle nuove dinamiche esistenti nella coalizione che vede Verdi e Liberali condizionare molto di più rispetto al passato il partito (Spd) del Cancelliere.
I dossier in agenda
Sulla lotta alla pandemia, Scholz chiederà probabilmente chiarimenti a Draghi sulle buone pratiche messe in atto con successo in Italia negli ultimi mesi. Non è tuttavia un mistero che sui vaccini i Verdi siano spaccati al loro interno e non da oggi. Ma la decisione del Bundestag di venerdì per la vaccinazione obbligatoria agli operatori sanitari entro la metà di marzo apre nuove prospettive sugli obblighi vaccinali anche in Germania. Il Parlamento tedesco ha inoltre chiesto ai 16 stati federali di imporre restrizioni che variano dalla chiusura di bar e ristoranti al divieto di grandi eventi a causa degli alti tassi di infezione in Germania.
Altra questione al centro del confronto Draghi-Scholz la riforma del Patto di stabilità. Se ne è parlato già venerdì 10 dicembre nell’incontro tra Scholz e il Presidente francese Emmanuel Macron. “Crescita e solidità delle finanze” non sono incompatibili, ha detto il Cancelliere tedesco. Una visione analoga a quella di Draghi secondo il quale se prima della pandemia la riforma del Patto era già necessaria ora è diventata un’esigenza inevitabile.
Un primo contatto con il nuovo esecutivo tedesco sarà quello che avrà il Ministro degli Esteri Luigi Di Maio nella giornata di oggi, sabato 11 dicembre, a Liverpol per il G7 Esteri a presidenza inglese. È infatti previsto in questa occasione il primo faccia a faccia tra Di Maio e la nuova responsabile della diplomazia tedesca, Annalena Baerbock. In un’audizione in Parlamento, Di Maio ha tenuto a chiarire che il Trattato del Quirinale non può essere certo interpretato come teso a escludere qualcuno. Lo sviluppo del rapporto con la Francia, ha chiarito il Ministro, “non toglie nulla ai rapporti con altri partner europei”. L’Italia è da tempo “impegnata a rafforzare la cooperazione anche con altri importanti Paesi europei, come la Germania”.
Il rapporto tra Italia e Francia, rinsaldato con l’ultimo Trattato del Quirinale, non potrà mai soppiantare la relazione del tutto particolare tra Parigi e Berlino. Ma Germania e Italia restano comunque centrali nella costruzione di un’Unione non solo economica ma politica e di sicurezza comune. “Occorrerebbe davvero – spiega il germanista Angelo Bolaffi già direttore dell’Istituto di cultura a Berlino – chiudere il cerchio e, dopo il Trattato del Quirinale con i francesi, lavorare per chiudere un Trattato del Campidoglio tra Italia e Germania da celebrare nel luogo simbolo che vide nel ’57 la firma dei Trattati istitutivi della Comunità europea su spinta proprio di De Gasperi e Adenauer”.
Quanto al rapporto privilegiato tra Parigi e Berlino dopo il Trattato di Aquisgrana, che ha ridato nuova linfa al vagone di testa franco- tedesco, l’incontro di venerdì tra Macron e Scholz ha gettato le basi per il lavoro dei prossimi mesi che vedranno la Francia impegnata sia per il semestre di presidenza europea sia per le elezioni presidenziali. Il colloquio di ieri con il Cancelliere, ha spiegato Macron, “mostra chiaramente la solida convergenza delle nostre vedute. Abbiamo espresso il desiderio condiviso di lavorare insieme. Abbiamo parlato di Bielorussia, Ucraina e sottolineato l’importanza della cooperazione per supportare i partner a est”. Sul tavolo, ha specificato il Presidente francese, anche la cooperazione all’interno dell’Ue su temi quali migrazione, transizione verde e digitale, clima e investimenti.
E da parte sua, Scholz, dopo un incontro avuto anche con la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, ha detto di “vedere con grande preoccupazione le truppe russe che si ammassano alla frontiera con l’Ucraina. La Germania, l’Unione europea e molti altri reagirebbero certamente se ci fosse una violazione del confine ucraino da parte della Russia. Ma è chiaro che il nostro compito è prevenirla. Dobbiamo lavorare insieme in Europa e concordiamo sul fatto che i confini in Europa non devono essere violati”.
Draghi e Papa Francesco sui migranti: non una minaccia, ma una risorsa
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Il Papa a Nicosia, Cipro. Mario Draghi dal palco dei Med Dialogues 2021 a Roma. Ma i concetti espressi sui flussi dei migranti sono quasi identici.
I migranti non sono turisti e, dice il Papa, il filo spinato contro chi fugge da violenze e guerre è una vergogna dell’Occidente. E Draghi afferma: “Occorre proteggere i più deboli con cordoni umanitari dai Paesi più vulnerabili, rafforzare i flussi legali, che sono una risorsa e non una minaccia per la nostra società”. Ma per gestire la migrazione, aggiunge il Presidente del Consiglio, serve “un coinvolgimento maggiore di tutti i Paesi europei, abbandonando visioni nazionali o egoistiche”.
I movimenti dei migranti, dice Draghi, “molto spesso hanno origine lontano dal mare, da soli non possiamo controllarli: da inizio di quest’anno sono sei volte tanti, rispetto al 2019. Serve un maggior coinvolgimento di tutti i Paesi europei, anche nel Mediterraneo. L’Italia continua a promuovere un avanzamento europeo verso una gestione collettiva, in un equilibrio fra responsabilità e solidarietà”. Ma la Ministra degli Esteri libica Najla El Mangoush invita a “non puntare il dito contro la Libia” per la gestione dei flussi e il rispetto dei diritti. “Il problema è complesso e siamo stanchi di soluzioni superficiali”, dice la Ministra, secondo la quale se per i morti nel Canale della Manica due dei Paesi più stabili come Regno Unito e Francia non riescono a controllare l’immigrazione illegale, “come potete aspettarvi che noi riusciamo a controllarla?”.
Il Papa incontra i migranti a Cipro
E Papa Francesco da Nicosia, incontrando i migranti, dice: “Chi viene a chiedere libertà, pane, aiuto, fratellanza, gioia, chi sta fuggendo dall’odio, trova davanti un ‘odio’ che si chiama filo spinato”. Risponde a chi in Occidente si scandalizza per i campi di sterminio nazisti e comunisti, ignorando quelli che confinano chi vuole fuggire dalla fame e dalla guerra, per approdare in Europa: “Guardando voi – dice il Papa – penso a tanti migranti che sono dovuti tornare indietro, respinti, finiti nei lager, veri lager, dove le donne sono vendute, gli uomini torturati, schiavizzati. Noi ci lamentiamo dei lager del secolo scorso, ma fratelli e sorelle, sta succedendo oggi, nelle coste vicine. Ho guardato alcune testimonianze filmate di questo. Posti di tortura, di vendita di gente”. Sente sulle spalle tutta la responsabilità di “aiutare ad aprire gli occhi” e smettere di “tacere”.
Il messaggio è chiaro ed è diretto ai leader politici che strumentalizzano il dramma, ma anche ai cittadini che si lasciano influenzare: i migranti non sono “turisti” insiste. “Danno tutto quello che hanno per salire su un barcone di notte, senza sapere se arriveranno. È la storia di una società sviluppata che chiamiamo ‘Occidente’. Che il Signore ci svegli la coscienza”, implora.
Il peccato peggiore di chi vive in un Paese agiato, mette in guardia Papa Francesco, è che ci si abitua ai naufragi nel Mediterraneo, come ai morti di freddo al confine tra Polonia e Bielorussia: “Questo abituarsi è una malattia molto grave e non c’è antibiotico, dobbiamo andare contro questo vizio dell’abituarsi alle tragedie”.
E per sua iniziativa, il Vaticano ricollocherà subito per motivi umanitari 50 migranti da Cipro in Italia. Le operazioni di trasferimento, ospitalità e integrazione saranno interamente a carico della Santa Sede. Un primo gruppo di 12 persone partirà già prima di Natale, gli altri seguiranno tra gennaio e febbraio. Vengono da Siria, Congo, Camerun e Iraq e tra loro ci sono anche famiglie con bambini. L’operazione sarà resa possibile grazie a un accordo tra la segreteria di Stato, le autorità italiane e cipriote, la collaborazione con la Sezione per i Migranti e Rifugiati della Santa Sede e con la Comunità di Sant’Egidio.
Verso le elezioni in Libia
E pure strettamente legata al tema migranti è la stabilità dei Paesi di transito e di origine. Draghi ribadisce quanto già detto il 12 novembre alla Conferenza di Parigi sulla Libia sulla necessità che “solo un processo a guida libica potrà portare a una soluzione piena e duratura della crisi nel Paese”. E sulle prossime elezioni in Libia del 24 dicembre, Draghi rinnova l’appello a tutti gli attori politici “perché le elezioni siano libere, eque, credibili e inclusive”. E per il Ministro degli Esteri Luigi Di Maio, anche lui intervenuto ai Med Dialogues, “il dopo elezioni lo si costruisce adesso, con elezioni libere, trasparenti e inclusive. L’inclusività sarà il fattore di successo di queste elezioni e dobbiamo fare in modo, attraverso un’azione diplomatica continua della comunità internazionale, che ci possano essere elezioni il più inclusive possibile”.
Nel frattempo la Corte di Sabha ha accettato il ricorso del figlio di Gheddafi Saif al Islam permettendogli di partecipare alle elezioni presidenziali. Il figlio di Muammar Gheddafi era stato in un primo tempo escluso dalla corsa. Accettata anche la candidatura del Presidente ad interim Abdul Hamid Mohammed Dbeibeh che a Ginevra in sede Onu sembrava esclusa. L’idea che si sta facendo sempre più strada è un ballottaggio tra Saif e Dbeibah.
Trattato del Quirinale: Macron punta sull’Italia
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Le Frecce tricolori e la Pattuglia acrobatica francese hanno disegnato venerdì mattina sul cielo di Roma i colori delle bandiere italiana e francese. Senza errori né incertezze, come quelle che videro gli aerei militari francesi nel 2018 alla festa del 14 luglio a Parigi sbagliare il loro tricolore. Con la stessa chirurgica precisione, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, poco prima, nel salone d’onore del Quirinale dopo la firma del Trattato di cooperazione rafforzata italo-francese, stringeva la mano a Macron e insieme a Draghi come quelle di due giovani un po’ litigiosi che vanno riportati alla ragione dal grande saggio.
La gestazione del Trattato non è stata breve né semplice. È andata avanti a singhiozzo con inciampi critici come durante il sostegno dei grillini ai gilet gialli francesi o le accuse di Salvini a Macron sui migranti. Ma Mattarella, anche nei momenti più bui, ha salvato il rapporto con Parigi e Macron glielo riconosce.
Un accordo storico che avvicina di più Roma e Parigi nella definizione di Mario Draghi ma arriva in un momento di vera svolta nella costruzione europea: dopo la Brexit, alla fine dell’era Merkel e alla vigilia delle elezioni in Francia come per la corsa al Quirinale. C’era bisogno che due grandi Paesi chiudessero subito quel triangolo motore dell’Europa che tra Roma-Parigi-Berlino è destinato a guidare le forme dell’Ue e le sfide che la attendono, si chiamino cambiamenti climatici, green economy, lotta alla pandemia, immigrazione, autonomia strategica nella difesa.
Tra Francia e Germania, oltre all’accordo di riconciliazione post bellico del ’63 firmato da De Gaulle e Adenauer, c’è stato il più recente Trattato di Aquisgrana del 2019. Il patto “per una cooperazione bilaterale rafforzata” tra Roma e Parigi sancisce ora un asse in grado di guidare l’Europa nella nuova era di lotta al Covid e verso una Unione più forte e integrata.
Vengono gettate le basi per un’alleanza tra pari, dove non c’è un pesce grande che mangia il pesce piccolo, nessun intento predatorio sui “gioielli” dell’economia italiana ma due Paesi integrati e sempre più complementari. Due Paesi, dice Draghi, che “condividono molto più di confini” che hanno in comune la visione di padri politici come Jean Monnet e Robert Schuman, Altiero Spinelli e Alcide De Gasperi. Per la cultura, Stendhal e Umberto Eco, nel cinema, Mastroianni, Belmondo a Claudia Cardinale. “La nostra storia, la nostra arte, le nostre economie e le nostre società si intrecciano da tempo immemore”.
Un’alleanza che prevede nuovi meccanismi di consultazioni periodiche, un vertice bilaterale annuale e la partecipazione reciproca di un membro di Governo di uno dei due Paesi, almeno una volta per trimestre e in alternanza, al Consiglio dei Ministri dell’altro Paese. Un’integrazione al Trattato voluta espressamente dallo stesso Draghi sull’esempio di quanto deciso con l’articolo 24 del Trattato di Aquisgrana con i tedeschi. Draghi parla di accordo storico, di una “collaborazione rafforzata che renderà Italia e Francia da oggi ancora più vicine”. C’è da riscrivere le regole del Patto di stabilità, rivedere quelle regole pro-cicliche che già non funzionavano prima della pandemia e che ora è “inevitabile” riformare. Su questo Italia e Francia marceranno unite senza preoccuparsi troppo delle gelosie tedesche.
Ma gli obiettivi di Italia e Francia coincidono anche in altri settori con quelli di tutta la Ue: cambiamento climatico, transizione ecologica e digitale, difesa europea, complementare alla Nato e non sostitutiva. Draghi ribadisce il sostegno al prossimo semestre di presidenza francese dell’Ue che si caratterizzerà per la conclusione della Conferenza sul futuro dell’Unione (probabilmente il 9 maggio, festa dell’Europa) e l’autonomia strategica in tema di difesa comune che sarà oggetto di un vertice europeo in giugno prima del summit Nato di Madrid.
Tra i nuovi istituti del Trattato, la cooperazione tra forze di polizia per la lotta al terrorismo, un comitato di cooperazione transfrontaliera, un Servizio civile volontario congiunto e la promozione della mobilità degli studenti. A questo proposito Draghi ha ricordato Valeria Solesin, l’italiana uccisa insieme a tanti cittadini francesi e di altre nazionalità nei “vili attentati di Parigi” del 2015. Tra le cooperazioni rafforzate anche la lotta contro le migrazioni illegali. Macron e Draghi condividono la stessa visione. “In ambito migratorio – osserva il Presidente del Consiglio – riconosciamo la necessità di una politica di gestione dei flussi e d’asilo condivisa a livello europeo, basata sui principi di responsabilità e solidarietà”. Nel settore delle grandi opere proseguirà il coordinamento sulla Torino-Lione “con l’obiettivo di raggiungere la piena operatività del tunnel e delle sue tratte di accesso e nella gestione del tunnel del Fréjus e del Monte Bianco”.
L’asse Roma-Parigi-Berlino: dal trattato dell’Eliseo a quello del Quirinale
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L’ipotesi, almeno sulla carta, non sembra di facile attuabilità ma avrebbe sicuramente il merito di rilanciare il dibattito sulla costruzione dell’Unione europea in un momento delicato, dopo l’uscita di scena della Cancelliera tedesca Angela Merkel e in vista delle elezioni francesi dell’anno prossimo.
Creare un collegamento tra il vecchio Trattato dell’Eliseo firmato nel ‘63 dal Presidente francese De Gaulle e dal Cancelliere tedesco Adenauer e il nuovo Trattato del Quirinale che verrà firmato a Roma giovedì prossimo, 25 novembre, dal Presidente francese Emmanuel Macron e dal Presidente del Consiglio Mario Draghi.
L’ipotesi viene avanzata alla vigilia della visita di Macron a Roma da Piervirgilio Dastoli, Presidente del Movimento europeo e già collaboratore storico di un “padre” dell’Europa come Altiero Spinelli.
Dastoli ricorda che l’idea di un Trattato del Quirinale fu lanciata all’inizio del 2018 dal Governo Gentiloni in un incontro presieduto dai Ministri delle Politiche europee Gozi e Loiseau. La redazione del progetto fu affidata a un gruppo di sei “saggi” fra cui gli italiani Franco Bassanini, Marco Piantini e Paola Severino. Tra i temi prioritari la ricerca, la cultura, l’industria e la difesa, sottolineando la necessità di agire con metodi di azione, come le cooperazioni rafforzate o strutturate, nel caso in cui le decisioni all’unanimità avessero ostacolato il processo decisionale. Dopo le elezioni del 2018 e la formazione del Governo Conte I con la Lega e il Movimento 5 Stelle, i negoziati furono però congelati e non furono ripresi con il Conte II durante la pandemia. Sono stati riavviati solo con il Governo Draghi e proprio in questi giorni si stanno limando gli ultimi dettagli prima della firma ufficiale il 25 novembre.
Nel frattempo, osserva sempre Dastoli, molte cose sono avvenute in Europa e tra l’Italia e la Francia, fra cui l’avvio della Conferenza sul futuro dell’Europa con la disponibilità francese e italiana a prendere in considerazione l’ipotesi di un superamento del Trattato di Lisbona firmato 14 anni fa, in un tempo in cui le condizioni del mondo e dell’Europa erano radicalmente diverse da quelle attuali. In questa prospettiva si pone ancor di più la questione del “che fare” nel caso in cui alcuni Governi non fossero disponibili a negoziare e ad accettare una revisione del Trattato di Lisbona e dunque quale progetto, quale metodo e quale agenda immaginare per superare l’ostacolo della Convenzione sulla base dell’articolo 48 che impone la convocazione di una Conferenza diplomatica, l’accordo unanime dei Governi nazionali e l’unanimità delle ratifiche nazionali.
“Ora – sottolinea Dastoli – è stata avanzata la proposta di una iniziativa franco-italiana-tedesca che raccolga le priorità dei due Trattati dopo la formazione del nuovo Governo tedesco e in vista delle conclusioni della Conferenza sul futuro dell’Europa e la riapertura del cantiere della “riforma dell’Unione europea”. Temi che secondo Dastoli non dovrebbero essere elusi dal Trattato del Quirinale anche in vista delle conclusioni della Conferenza sul futuro dell’Europa che potrebbero aver luogo nel maggio 2022 dopo le elezioni presidenziali francesi (10 e 24 aprile 2022).
In altre parole un Trattato del Quirinale non solo per rendere strutturale la cooperazione tra Roma e Parigi in tutti i settori (dalla difesa all’economia, dallo spazio alla cultura) ma per rimettere in moto quel cantiere della costruzione europea che sembra da troppo tempo abbandonato. Per di più, in alcuni settori come quelli dell’immigrazione e della difesa, il Trattato del Quirinale potrebbe fare scuola e indicare degli strumenti di cooperazione rafforzata da utilizzare a livello europeo. Sull’immigrazione dovrebbe essere firmato un protocollo aggiuntivo sulla collaborazione tra le polizie di frontiera italiana e francese con la creazione di un centro di smistamento a Ventimiglia per superare tutte le incomprensioni del passato sui cosiddetti “dublinanti”.
Ma è nel settore della difesa che il Trattato del Quirinale potrebbe aprire inediti scenari per quanto riguarda la cosiddetta autonomia strategica rispetto a Nato e Usa e la creazione di un esercito europeo. Sarà infatti proprio la Francia, durante il semestre di presidenza Ue l’anno prossimo, a dover approvare definitivamente lo Strategic Compass e convocare un Consiglio europeo ad hoc sulla sicurezza prima del vertice Nato di Madrid di giugno.
Scadenze che rimetteranno in gioco anche gli accordi nell’industria europea della difesa. L’Italia si troverà a dover sviluppare insieme ad altri partner Ue il nuovo carro pesante denominato MBT, possibilmente con la Germania. Il settore è in grande movimento. Fincantieri ha espresso interesse per un progetto di ampia cooperazione con TKMS, (ThyssenKrupp Marine Systems) nella componente sottomarina e per navi di superficie. Inoltre, Italia e Germania, oltre alla cooperazione con i sommergibili, vedrebbero una nuova alleanza sui mari, dopo il fallimento con STX e le deboli premesse con Naval Group. Leonardo ha appena acquisito una quota importante di Hensoldt, dopo avallo del Governo tedesco, permettendo all’azienda di stato di salire su nuove piattaforme come FCAS, di partecipare a importanti programmi tedeschi ed europei e soprattutto di traguardare l’obiettivo di accrescere la sua influenza nell’elettronica europea. A questo si aggiunge l’idea della tedesca Rheinmetall di sviluppare la flotta cingolata italiana su una piattaforma comune a sostituzione dei vecchi Dardo. Un asse commerciale, quello Roma-Berlino, che vede già un interscambio di 130 miliardi di euro e si potrebbe rafforzare ulteriormente sui tre comparti: terrestre, navale ed elettronico.
Sotto questo profilo la questione Otomelara+WASS è un tassello di un puzzle molto più ampio. Leonardo-Finmeccanica ha messo in vendita le aziende di armamenti terrestri e navali per fare cassa mettendo sul mercato l’ex Oto Melara di La Spezia e la Wass di Livorno. Si tratta di produzioni che vanno dai veicoli blindati ai cannoni navali, dai siluri ai sonar. Ci sono interessi dall’Italia, dalla Francia e dalla Germania. Il Ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, ha detto che il Governo segue la questione affinché “il presidio italiano non venga meno”.
Ci sono due gruppi usciti allo scoperto indicando una disponibilità all’acquisto: la Fincantieri, che si sta espandendo nella difesa e ha messo gli occhi su diverse attività di Leonardo. Ma l’Ad di Leonardo, Alessandro Profumo, è riuscito a catalizzare anche l’attenzione del gruppo franco-tedesco Knds, nato nel 2015 dall’unione della francese Nexter e della tedesca Krauss Maffei Wegmann. È guidato da un manager tedesco, Frank Haun, ma il peso maggiore è dei francesi. Fin qui le scelte aziendali. Ma poi alla fine saranno solo le scelte politiche a dettare la linea in un settore strategico per il rafforzamento dell’Europa politica e della difesa.
Vittime e carnefici
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Sono passati cinque anni e mezzo e la vicenda Regeni resta ancora un macigno nelle relazioni tra Roma e Il Cairo. Ma torniamo con la memoria a quella sera del 3 febbraio del 2016. Siamo al Cairo, numero 15 di via Abdel Rahman Fahmy, Garden City, riva est del Nilo. È lì che si trova la residenza dell’ambasciatore italiano in Egitto. Sono in corso i preparativi per il ricevimento che l’ambasciatore Maurizio Massari offrirà, di lì a poco, in onore della Ministra dello Sviluppo economico, Federica Guidi, a conclusione di una sua missione con imprenditori al seguito. In quel momento nessuno lo sa ma quella sarà l’ultima missione di sistema italiana in terra d’Egitto così come non vi saranno, per i successivi cinque anni e mezzo, visite ufficiali di autorità egiziane in Italia.
È stato lo stesso ambasciatore Massari, attualmente rappresentante italiano alle Nazioni Unite a New York, a ricordare anche recentemente quello che avvenne allora. “La sera di quel giorno, poco prima delle 20 – ha ricostruito Massari – durante lo svolgimento di un ricevimento in residenza in onore del ministro Guidi e della delegazione di imprenditori, la Ministra degli Affari europei del Ministero degli Esteri mi informò ufficiosamente del ritrovamento, poche ore prima in una zona della periferia del Cairo, di un corpo di un giovane corrispondente a quello di Regeni”. La Guidi aveva portato il caso direttamente all’attenzione del Presidente al-Sisi che le aveva garantito il suo interessamento. Dopo le prime frammentarie informazioni, al cellulare di Massari giunse la notizia da una fonte non istituzionale che era stato ritrovato il corpo di Giulio Regeni. Massari, a quel punto, suggerì al Ministro Guidi, che non era ancora giunto in residenza, di “chiedere immediatamente alle autorità egiziane una conferma ufficiale della morte di Giulio Regeni e spiegazioni sulle circostanze del suo decesso”. Massari, non riuscendo da parte sua a ottenere conferme e spiegazioni, suggerì alla Guidi di annullare il ricevimento e interrompere la visita.
Da quel momento in poi la storia è conosciuta in tutti i dettagli: dalle immagini terribili del corpo martoriato del giovane ricercatore nelle quali la madre aveva visto “tutta la brutalità del mondo”, alle 260 pagine di autopsia che da sole rappresentano una condanna senza appello contro ogni forma di tortura e violenza fino ai silenzi inspiegabili della professoressa e tutor dell’Università di Cambridge del giovane friulano, Maha Abdelrahman, che in qualche modo aveva contribuito a spingere il giovane nella fossa dei leoni senza spiegargli tutti i rischi cui stava andando incontro.
Una cosa fu subito chiara: non si poteva trattare di un incidente o di una vicenda privata. I Governi italiani che si sono succeduti nel corso degli anni hanno pubblicamente sostenuto la strada della verità giudiziaria dando un sigillo istituzionale al dolore della famiglia e alla battaglia delle organizzazioni per i diritti umani, prima fra tutti Amnesty International.
Per un anno e mezzo, fino al settembre del 2017, l’ambasciata italiana in Egitto è stata retta solo da un capomissione e non più dall’ambasciatore Massari, richiamato a Roma per segnare la rottura delle relazioni diplomatiche. Un gesto che però, mese dopo mese, si stava sempre più ritorcendo contro gli interessi delle imprese e dei cittadini italiani così come contro gli interessi di molti egiziani che lavoravano e lavorano ancora per aziende italiane a cominciare da quelle del settore energetico (gruppo Eni e Snam). Nel settembre del 2017, non senza una coda di proteste, venne inviato al Cairo il nuovo ambasciatore, Giampaolo Cantini, che fino a poche settimane fa ha retto la sede diplomatica con grande equilibrio seguendo due direttive di fondo: da un lato, non lasciare nulla di intentato per arrivare al pieno accertamento delle responsabilità sulla morte di Regeni e, dall’altro, mantenere aperto il dialogo politico e soprattutto economico con le autorità di un Paese sempre più strategico per la stabilità del Mediterraneo.
Le vicende giudiziarie si sono trascinate in mezzo a mille difficoltà ma si deve proprio al lavoro di Cantini se qualche crepa nel muro di omertà egiziano si è aperta, consentendo di ottenere il fascicolo giudiziario egiziano, come ha riconosciuto lo stesso procuratore capo di Roma Pignatone. Fino alle ultime decisioni (che non sono più nelle mani del Governo) con il Tribunale, che ha respinto la ricostruzione della Procura decidendo per l’impossibilità di celebrare un processo senza la possibilità di notificare gli atti ai quattro appartenenti alle forze di sicurezza egiziane indicati come i responsabili materiali della morte del giovane.
La battaglia per i diritti umani
Un quadro, quello dei diritti umani negati in Egitto, che si è andato arricchendo di nuovi episodi compresa l’incarcerazione del giovane dissidente e studente a Bologna Patrick Zaki, per il quale è in corso una battaglia per il riconoscimento della cittadinanza italiana che lo salverebbe dal carcere egiziano.
Una situazione che la famiglia Regeni e le organizzazioni per i diritti umani non vogliono far cadere nel dimenticatoio. A pochi giorni dalla decisione della Terza Corte d’Assise, che ha annullato il provvedimento di rinvio a giudizio, i genitori del ricercatore italiano sono intervenuti in un’audizione al Parlamento europeo dedicata al caso dell’italiano ucciso. “Chiediamo vicinanza e aiuto con fatti concreti, perché si faccia verità e giustizia per nostro figlio e ciò significherebbe anche aiutare il popolo egiziano”, ha detto Paola Regeni collegandosi da remoto all’Eurocamera. In Egitto “c’è una situazione molto preoccupante per i diritti umani”, hanno detto i genitori di Regeni che hanno presentato un esposto contro il Governo italiano, per la violazione alla legge 185/90, che vieta la vendita di armi ai Paesi che violano i diritti umani.
Il caso si riferisce alla vendita di due fregate Fincantieri all’Egitto (inizialmente previste per la nostra Marina militare) nel quadro di un ammodernamento complessivo della difesa egiziana. Se gli eurodeputati della sottocommissione per i diritti umani hanno affrontato l’allarmante situazione dei diritti umani e della continua repressione della società civile in Egitto, un funzionario del servizio diplomatico europeo responsabile dei Paesi nordafricani, Pelayo Castro, ha dato atto anche all’Egitto di “sviluppi nuovi e importanti” sul piano del rispetto dei diritti e ha giudicato positivo che lo stato di emergenza, in vigore dal 2017, non verrà rinnovato.
Egitto, un partner strategico
Parole che dimostrano come per l’Europa ma ancora di più per l’Italia, azzerare le relazioni con l’Egitto di al-Sisi sarebbe un grave errore. L’Egitto si sta mostrando un grande provider di sicurezza regionale con un rilevante ruolo geopolitico riconosciuto recentemente oltre che dalla Ue anche dal Presidente americano Joe Biden, per il ruolo sempre presente di mediatore tra Hamas e Israele e per la funzione di stabilità esercitata in Libia non più a fianco di un Haftar, ormai ridotto ai minimi termini ma sempre più dialogante con le autorità di Tripoli. Un Paese che può contare su relazioni strettissime con la Francia, con la Germania e anche con Israele.
Nonostante il blackout delle relazioni per un anno e mezzo e poi la pandemia, l’Italia resta per l’Egitto un partner strategico e insostituibile. L’Eni gioca una partita decisiva nell’esplorazione e ricerca. Il grande giacimento di Zohr da 800 miliardi di metri cubi di gas è in grado di soddisfare il fabbisogno nazionale ma il Paese si propone di diventare un grande hub regionale per il gas liquefatto proveniente dal giacimento israeliano Leviathan (600 miliardi di metri cubi di capacità). Il gruppo Snam lavora a progetti nelle rinnovabili e nella transizione energetica così come Saipem e Sts partecipano a gare per trasporti ed economia digitale senza contare tutti i progetti infrastrutturali che l’Egitto sta incoraggiando.
Insomma, occorre decidere come andare avanti: incalzare il Governo del Cairo sulla verità per Regeni ma lasciando aperta la porta del dialogo per le questioni di sicurezza globale e per sviluppare le relazioni commerciali. È un sentiero molto stretto ma è l’unico oggi praticabile. Toccherà ora al nuovo ambasciatore italiano al Cairo, Michele Quaroni, seguire questi dossier. È un diplomatico brillante con tutte le qualità per riuscirci e in più con l’esperienza maturata negli ultimi anni sul piano multilaterale come numero due nella nostra ambasciata presso l’Unione europea.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di novembre/dicembre di eastwest.
Libia: ma la Francia scommette ancora su Haftar?
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PARIGI – Sono passati dieci anni dall’intervento della Nato promosso dalla Francia di Sarkozy contro Gheddafi. E ora la Francia di Macron, dopo avere a lungo flirtato con la Cirenaica di Haftar contro il Governo riconosciuto dalla comunità internazionale di Tripoli (salvato dalle forze militari turche) prima a guida Serraj e ora Dbeibah, si offre come mediatore di un difficile, forse impossibile, processo di pacificazione nel Paese che dovrebbe portare in sole cinque settimane a un voto “simultaneo” presidenziale e politico per il 24 dicembre.
Una scommessa quasi impossibile ma Macron sembra crederci, anche se c’è molto di non detto fuori dalla sala della Conferenza internazionale sulla Libia. Non si dice, ad esempio, che alla Francia non dispiacerebbe affatto (come all’Egitto) l’idea del Presidente del Parlamento di Tobruk Aquila Saleh di un voto disgiunto il 24 dicembre solo per le presidenziali e poi in febbraio quello politico insieme al secondo turno delle presidenziali. L’Italia, invece, è per una simultaneità ma dopo avere avviato un processo inclusivo di tutte le forze politiche rappresentative. Insomma, Macron non lo dice ma l’idea che a candidarsi possa essere alla fine anche Haftar non sembra dispiacergli poi troppo. Un modo per riportare a galla e sostenere ancora il leader sconfitto della Cirenaica.
L’Italia vuole creare le condizioni perché siano i libici a decidere e non più altri Paesi per mire geopolitiche le più diverse. È in quest’ottica che il nostro Paese si è speso per la presenza alla conferenza di Parigi anche dei rappresentanti di Tripoli. Presenza inizialmente non prevista. In occasione delle riunioni preparatorie della Conferenza, la delegazione libica ha fatto presente che la co-presidenza di Tripoli al pari di Francia, Italia, Germania e Onu avrebbe costituito una precondizione per la partecipazione all’esercizio. La richiesta libica (sulla quale francesi e tedeschi erano inizialmente esitanti) è stata poi accolta da tutti i co-Presidenti che hanno auspicato modalità di partecipazione pienamente rappresentative, dunque comprensive di tutte le istanze dell’autorità esecutiva transitoria unificata (Consiglio Presidenziale e Governo di Unità Nazionale). La Conferenza ha visto così la partecipazione sia del Primo Ministro Dbeibah che quella del Presidente del Consiglio presidenziale al-Menfi.
Non si può certo dire che tra Italia e Francia tutti i problemi siano superati. La Francia punta alle elezioni anche in un quadro divisivo come elemento per avviare un processo di stabilità. L’Italia, più realisticamente, chiede un lavoro inclusivo come premessa per dare spazio e voce a tutte le forze politiche che si candidano a guidare il Paese. Eppure Macron, con a fianco Mario Draghi e Angela Merkel, ha enfatizzato l’azione europea “perfettamente allineata” e “coordinata” sulla Libia. Le prossime cinque settimane, ha detto il Presidente francese, saranno “determinanti” per attuare ciò che è stato concordato a Parigi in materia di elezioni e di ritiro delle forze straniere e dei mercenari.
Più in sintonia con la linea italiana è la Merkel, secondo la quale occorre “procedere alla riconciliazione delle varie forze libiche”. In vista delle elezioni, ha detto la Cancelliera, “alcune cose sono già state fatte, altre devono essere fatte e spero che i preparativi siano fatti in modo che i risultati delle elezioni siano accettati”. In ogni caso, per la Merkel condizione della “buona tenuta di queste elezioni è la stabilità e la sicurezza e dunque è importante che il ritiro dei mercenari stranieri non resti sulla carta”.
Draghi ha dato atto del “riaccostamento” tra le posizioni di Italia e Francia sulla Libia anche perché, ha aggiunto, “se non si va d’accordo non si aiuta la Libia”. In ogni caso, per Draghi è importante che le elezioni si svolgano il 24 dicembre in modo simultaneo, presidenziali e parlamentari (non in due tempi come vorrebbe il Presidente della Camera dei Rappresentanti di Tobruk, sostenuto da Francia ed Egitto). Ma per fare questo, dice Draghi, occorre una legge elettorale. “È quindi mio auspicio – ha aggiunto il Presidente del Consiglio – che questa legge vanga fatta con l’accordo di tutti, che lavoreranno insieme non nelle prossime settimane, ma nei prossimi giorni, perché è urgente per poter votare il 24 dicembre”.
Draghi ha ricordato come l’Italia abbia “sempre sostenuto con forza la necessità di un ruolo importante dell’Ue” nell’area, e ha richiamato l’impegno della comunità internazionale e di tutti gli attori libici per il successo della transizione istituzionale attraverso lo svolgimento delle elezioni presidenziali e parlamentari dal 24 dicembre 2021. L’ottimismo di Draghi si basa sulla presenza dei due co-Presidenti libici della Conferenza, al-Menfi e Dbeibah. Questo significa che loro “hanno fatto proprio il percorso verso la stabilità, lo hanno discusso, concordato con tutti noi”. La presenza di al-Menfi e Dbeibah “è la dimostrazione che sono pronti a lavorare insieme verso appuntamenti molto complicati – osserva sempre Draghi – ma per i quali abbiamo fiducia che si risolveranno nel miglior modo per la Libia”.
Un altro pilastro della stabilità della Libia per Draghi riguarda la sicurezza, che è possibile, come si evince dal fatto che non c’è più guerra da un anno e mezzo. Il Piano d’Azione elaborato dalla Commissione militare congiunta è per Draghi un importante passo avanti e “il ritiro di alcuni mercenari stranieri prima delle elezioni aiuterebbe a rafforzare la fiducia fra le parti”. Occorre poi, per Draghi, accelerare le riforme economiche, approvando un bilancio nazionale unico e consolidando la banca centrale, per finanziare la ripresa delle attività del popolo libico. Ma uno dei quattro pilastri indicati dal premier italiano per la stabilità del Paese riguarda i diritti umani, “una questione che va affrontata lavorando tutti insieme”.
Cop26, per Greta solo un fallimento
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Dalla Nuvola di Fuksas per la riunione G20 al Centro Congressi di Glasgow per la Cop26, le ultime settimane hanno messo il clima al primo posto dell’agenda internazionale. Merito di un movimento giovanile sempre più strutturato, come si è visto a Milano con l’iniziativa Youth4Climate che il Ministro per la Transizione energetica Cingolani vuole ora rendere permanente.
Ma Greta Thunberg, salita sul palco di Glasgow a fine lavori, non sembra dello stesso avviso. Per lei si è trattato solo di una “festa dell’ambientalismo di facciata, due settimane di celebrazione del ‘business as usual’ e del bla bla”. “Le persone più colpite nelle aree più colpite – ha detto – non vengono ascoltate e le voci delle generazioni future annegano nelle promesse vuote. I fatti non mentono. E sappiamo che gli imperatori sono nudi – ha proseguito l’ambientalista svedese – la questione che dobbiamo porci è: per cosa combattiamo? Stiamo combattendo per salvare noi stessi e l’intero pianeta? Oppure perché tutto continui come prima? I nostri leader dicono che possiamo avere entrambe, ma la dura realtà è che non è possibile”. I leader mondiali “sono vergognosi”, continuano “a espandere l’infrastruttura dei combustibili fossili, aprono nuove miniere di carbone, impianti a carbone, erogano nuove licenze petrolifere e rifiutano ancora di fare il minimo, ovvero dare i fondi promessi per le perdite e i danni nei Paesi più vulnerabili e meno responsabili di quanto avviene”.
Finanza climatica
Ma sulla finanza climatica le poche idee che marciano sembrano essere quelle suggerite dal premier italiano Mario Draghi che a Roma – e soprattutto a Glasgow – non si è detto particolarmente preoccupato per la mancanza di 20 miliardi di dollari per la transizione energetica dei Pasi più poveri del sud del mondo. Si tratta di mobilitare risorse per decine di trilioni di dollari, cifre mai immaginate prima. A Glasgow Draghi ha proposto di creare una task force per elaborare proposte concrete per facilitare gli investimenti privati nella lotta ai cambiamenti climatici. “Se si riesce davvero a portare i capitali privati nella lotta ai cambiamenti climatici – ha detto Draghi – ci si accorge che non ci sono vincoli finanziari”.
Insomma una sorta di “whatever it takes” del clima con un ruolo “catalitico” o “sinergico” del Fondo monetario e della Banca mondiale (che secondo Draghi fa ancora troppo poco). Per il premier, quello che le istituzioni finanziarie private possono fare va dalla costruzione di infrastrutture alle tecnologie per ridurre le emissioni degli allevamenti, alla produzione di nuovi alimenti per abbattere il CO2. Tema quest’ultimo affrontato nel recente Food System Summit di Roma che ha escluso la possibilità di una dieta universale e ha salvato alcuni sistemi di nutrizione come la dieta mediterranea.
E comunque l’impronta di Draghi tra G20 e Glasgow si fa sentire anche per la necessità di investire in tecnologie innovative perché, dice il Presidente del Consiglio, “nel lungo periodo le energie rinnovabili possono avere dei limiti”. Tema questo che si intreccia con l’alto costo dell’energia affrontato soprattutto in ambito europeo e con una rilettura del nucleare.
Nucleare
All’ultimo Consiglio europeo, ha fatto sapere Draghi, si è parlato anche di nucleare. Alcuni Paesi chiedono di inserirlo tra le fonti di energia non inquinanti e la Commissione Ue procederà a una proposta a dicembre. Ma le posizioni sono molto divisive in Consiglio. E poi, aggiunge Draghi, “vedremo quale nucleare e in ogni caso ci vuole moltissimo tempo”.
Ma a favore del nucleare “pulito” di ultima generazione si è già espressa la Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, che al termine del vertice ha detto: “Abbiamo bisogno di più rinnovabili. Sono più economici, privi di carbonio e prodotti in patria. Abbiamo anche bisogno di una fonte stabile, il nucleare e, durante la transizione, del gas. Questo è il motivo per cui presenteremo la nostra proposta di tassonomia”.
Anche il Ministro delle Attività produttive Giorgetti pensa che sia arrivato il momento di cominciare a discutere di nucleare pulito. Un tema che si dovrà porre “se si vuole puntare l’obiettivo dell’autosufficienza dal punto di vista energetico”.
È comunque un fatto che dieci Stati membri guidati dalla Francia (Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Finlandia, Ungheria, Polonia, Slovacchia e Slovenia) abbiano firmato una lettera aperta chiedendo a Bruxelles di riconoscere l’energia nucleare prima fonte di generazione elettrica nella Ue con il 26,4% del totale (seguita dal gas al 20.6% e dall’eolico con il 12.5%) come “energia pulita”, senza emissioni di carbonio, accessibile e non dipendente dalle oscillazioni del prezzo del combustibile, regolabile e non soggetta a intermittenza naturale.
G20 Roma, qualcosa si muove
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Come in quel film di Moretti per cui spesso ci si fa notare più se si è assenti che presenti, anche per il G20 di Mario Draghi sembra sia andata proprio così. Mentre il Presidente del Consiglio – e fino a dicembre Presidente del G20 -, dalla nuvola di Fucsas all’Eur chiamava a raccolta le principali economie del mondo per gettare le basi di un nuovo modello economico basato sul multilateralismo, il Presidente russo Vladimir Putin e quello cinese Xi Jinping si davano da fare, sia pure collegati in videoconferenza, per rovinare la festa al padrone di casa.
Di motivi per essere soddisfatto ne aveva abbastanza, non solo per aver messo una prima pietra sull’accordo per il cambiamento climatico e sulla lotta alla pandemia, ma anche per avere ricucito i rapporti tra Roma e Ankara con il Presidente turco Erdogan, che ha anche stretto a Roma la mano alla Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen dopo l’incidente del sofagate.
Sia Putin che Xi chiedono ai Paesi occidentali il mutuo riconoscimento dei vaccini e dei Green Pass. Comincia Putin dicendo ai rappresentanti dei Paesi occidentali: “L’accesso ai vaccini non è consentito a tutti i Paesi che ne hanno bisogno e questo è causato dalla concorrenza sleale, dal protezionismo e dal rifiuto da parte di alcuni di voi di riconoscere reciprocamente i vaccini”. Accusa che ritorna nelle parole di Xi Jinping che punta l’indice contro la politicizzazione del tracciamento dell’origine del Covid, un atteggiamento che va contro lo spirito di solidarietà e di un “vero multilateralismo”.
In altre parole tutti sulla carta chiedono il multilateralismo ma sul come realizzarlo le ricette divergono. Draghi offre ai presenti la sua visione del nuovo modello economico. “Dalla pandemia, al cambiamento climatico, a una tassazione giusta ed equa, fare tutto questo da soli, semplicemente, non è un’opzione possibile”, dice invitando i partner a “fare tutto ciò che possiamo per superare le nostre differenze” e a “riaccendere lo spirito che ci ha portati alla creazione e al rafforzamento di questo consesso”.
Tuttavia qualcosa a livello globale si muove: i Grandi Venti danno il loro “ampio e trasversale” sostegno all’accordo sulla minumum tax per i colossi dell’economia mondiale, per tassare con un’aliquota fiscale minima le multinazionali che hanno un fatturato annuo superiore a 750 milioni di euro. E approvano l’obiettivo messo sul tavolo dall’Oms e rilanciato dallo stesso Draghi di abbattere le disuguaglianze fra Paesi poveri e ricchi nella disponibilità e nella distribuzione dei vaccini contro il Covid e vaccinare almeno il 40% della popolazione mondiale entro quest’anno e almeno il 70% entro il 2022.
La crisi causata dal Covid ha cambiato profondamente l’economia e la società mondiali, per questo serve “un nuovo modello economico, che stiamo costruendo”, aggiunge il premier. L’avvertenza è che la pandemia non è finita, ma dopo due anni dal suo inizio “possiamo finalmente guardare al futuro con più ottimismo: campagne vaccinali di successo e azioni coordinate da parte dei Governi e delle banche centrali hanno permesso la ripresa dell’economia globale. Molti dei nostri Paesi hanno lanciato dei piani di ripresa per dare impulso alla crescita, ridurre le diseguaglianze, promuovere la sostenibilità. Insieme, stiamo costruendo un nuovo modello economico, e tutto il mondo ne beneficerà”.
L’obiettivo è costruire una ripresa solidale, perché sono tanti i lavoratori rimasti indietro a causa della crisi pandemica, così come tante piccole e medie imprese che hanno rischiato di scomparire o che non sono riuscite a sostenere l’impatto della recessione. “Le piccole e medie imprese sono il fondamento di molti dei nostri Paesi, compreso il mio; – ricorda Draghi – le nostre economie prosperano grazie all’ingegno e al duro lavoro dei loro dipendenti e imprenditori. I Governi devono impegnarsi per aiutarli”. Draghi dedica un passaggio del suo intervento anche all’importanza del ruolo delle donne. “Non ci può essere una ripresa rapida, equa e sostenibile se ci dimentichiamo di metà del mondo”, dice.
Ue, a che punto siamo sul dossier migranti
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Diciamolo subito: il pericolo è stato scongiurato. E solo per ora. Ma il solo fatto che in un Consiglio europeo, come quello che si è concluso venerdì pomeriggio dopo lunghe ore di negoziato, abbia trovato piena cittadinanza una discussione per il finanziamento da parte della Commissione di barriere anti migranti e limitazioni all’accordo sulla libera circolazione nello spazio Schengen racconta a che punto è arrivato il dibattito sul dossier migranti in Europa. E pensare che prima di salire sull’aereo che lo avrebbe portato a Bruxelles il premier italiano Mario Draghi si sentiva tranquillo mentre incalzava il Presidente del Consiglio Ue Charles Michel e lo sollecitava ad aprire una discussione approfondita con verifiche periodiche sull’attuazione del piano d’azione sui migranti.
Ma la “trappola” era già scattata e stava tutta nella lettera di invito dello stesso Michel che citava in maniera esplicita la questione dei migranti secondari (o “dublinanti”). Riferimento che ha autorizzato alcuni Paesi ad affrontare la questione dei movimenti secondari come quelli dei migranti che arrivano in Sicilia e poi transitano verso i Paesi del Nord Europa. Questione posta con forza dal premier olandese Mark Rutte così come da Polonia e Paesi baltici per i migranti utilizzati strumentalmente dal regime della Bielorussia.
Insomma, si rischiava una pericolosa marcia indietro. Alla fine, però, niente muri anti migranti e nessuna modifica a Schengen ma il risultato è frutto solo di elaborati escamotage lessicali inseriti nelle conclusioni. Come ha confessato lo stesso premier italiano alla fine del vertice, “un Consiglio che sulla carta doveva essere solo di transizione ha fatto registrare invece discussioni molto complesse”.
In realtà, in un passo del documento finale, il Consiglio europeo invita la Commissione “a proporre le modifiche necessarie al quadro giuridico della Ue e le misure concrete sostenute da un sostegno finanziario adeguato per garantire una risposta immediata e adeguata in linea con il diritto Ue e gli obblighi internazionali, compresi i diritti fondamentali”. Questo passo consente al “fronte” pro muri anti-immigrati che si va nella loro direzione. Austria, Bulgaria, Cipro, Cechia, Estonia, Grecia, Ungheria, Lituania, Lettonia, Polonia e Slovacchia avevano chiesto alla Commissione di “adattare l’attuale cornice legale alle nuove realtà, fornendo la possibilità di rispondere ai tentativi di strumentalizzare la migrazione illegale con scopi politici”.
Ma a chiarire il senso delle conclusioni è intervenuta la stessa Presidente della Commissione Ursula von der Leyen. “Si è parlato di infrastrutture fisiche – ha ammesso – ma sono stata molto chiara sul fatto che non ci saranno finanziamenti di reticolati di filo spinato o muri”, ha detto in una conferenza stampa al termine del Consiglio.
Draghi ha raccontato così lo scampato pericolo: “Sono molto soddisfatto di come si è conclusa la discussione sulle migrazioni. Il testo originale delle conclusioni parlava solo di movimenti secondari, mentre ora cita l’equilibrio tra solidarietà e responsabilità. Il testo attuale ha introdotto esplicitamente questo concetto”. Inoltre “Il testo prevedeva una frase sulla modifica di Schengen e questo è sparito, non c’è nel testo finale; alla fine l’abbiamo spuntata”. Il premier italiano ha spiegato che il problema vissuto per tantissimi anni da soli “oggi è un problema di tutti e quindi è importante non dividersi e non ha senso privilegiare un Paese o una rotta”.
Ma c’è di più: secondo il Presidente del Consiglio il passaggio sul finanziamento dei muri, in realtà, per una sorta di “strana eterogenesi dei fini”, apre invece uno spiraglio alla ripresa della discussione sul nuovo patto per le migrazioni e l’asilo. Secondo Draghi il testo delle conclusioni, anche se sembra un’apertura al finanziamento delle barriere, prevede che “tutto questo dovrà essere proposto dalla Commissione, che è contraria, e approvato dal Consiglio europeo, dove non siamo d’accordo in tanti, a cominciare da noi”. E poi, ha aggiunto Draghi, il linguaggio utilizzato autorizza a riaprire la discussione sul patto per l’asilo e la migrazione fermo da oltre un anno.
Energia: Ue cerca intesa, Putin gongola
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Sarà il Consiglio europeo del 21 e 22 ottobre a Bruxelles a cercare una posizione comune per affrontare l’impennata dei prezzi delle bollette energetiche proprio mentre si è alla viglia del G20 a presidenza italiana del 30 e 31 ottobre a Roma e della Cop26 a Glasgow, dove il tema della green economy e della transizione energetica sarà tra le priorità dei leader mondiali.
La Commissione Ue presenterà ai 27 una sorta di “tool box”, cassetta degli attrezzi per misure di breve e lungo termine in grado di calmierare i prezzi e ha invitato la Banca europea per gli investimenti (Bei) a velocizzare gli investimenti nella transizione verde per ridurre i rischi di interruzioni di energia e per venire incontro alle ambizioni di una connettività globale europea. I capi di Stato e di Governo europei ne discuteranno a Bruxelles da giovedì prossimo per passare poi il dossier a un Consiglio straordinario sull’energia che si terrà il 26 ottobre, al quale parteciperà per l’Italia il Ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti.
L’Ue alla ricerca di un’intesa
Ma, come già emerso al vertice straordinario di Brdoin Slovenia, le posizioni restano molto distanti tra Paesi europei. Da un lato, Paesi come la Francia puntano alla riduzione dei costi in bolletta attraverso il nucleare di terza e quarta generazione, mentre la Germania si sta già muovendo tanto che il Governo tedesco abbasserà una tassa sul consumo di elettricità dal prossimo anno per ridurre le bollette delle famiglie. La tariffa sulle energie rinnovabili (EEG) scenderà a 3,723 cent/kWh nel 2022 contro i 6,5 cent/kWh attuali, hanno annunciato in un comunicato i quattro gestori della rete tedesca, 50Herz Transmission, Amprion, TenneT TSO e TransnetBW.
La Camera dei deputati spagnola ha intanto convalidato il decreto legge con cui il Governo di Pedro Sánchez ha applicato misure straordinarie per contenere l’impatto del caro-prezzi delle bollette. Il decreto contiene un meccanismo che dovrebbe portare a ridurre i benefici extra che le aziende del settore elettrico ottengono per l’energia che producono a basso costo ma che riescono a vendere a prezzi molto più vantaggiosi grazie all’attuale conformazione del mercato. La Spagna, come Grecia e Italia, puntano a un meccanismo europeo che consenta alla Commissione Ue di agire come camera di compensazione utilizzando gli stoccaggi di gas dei singoli Stati membri seguendo l’esempio già messo in atto per l’approvvigionamento dei vaccini.
La dipendenza dal gas russo
Dietro gli alti costi in bolletta si nascondono però strategie geopolitiche non ancora del tutto chiare. La dipendenza europea dal gas russo è ancora alta e viene usata come strumento di pressione anche su dossier di natura politica, dall’Afghanistan all’Ucraina agli attacchi cyber. Una conferma della postura russa al riguardo l’ha data lo stesso Presidente Vladimir Putin ieri, venerdì 15 ottobre, nel corso della settimana russa dell’energia. Rispondendo alla giornalista della CNBC Hadley Gamble, Putin ha usato termini anche pesanti definendo la reporter “bella” e “graziosa” ma di scarso comprendonio. “Lei è una bella donna, davvero graziosa – ha detto Putin – ma le dico una cosa e lei mi dice immediatamente il contrario, come se non avesse sentito quello che ho detto. Stiamo aumentando le forniture all’Europa, solo Gazprom del 10%. La Russia ha aumentato le forniture del 15%. Stiamo aumentando, non diminuendo, le forniture. Ho davvero detto qualcosa di così difficile da capire?”.
Un’egemonia quella del gas russo che Putin intende sfruttare al meglio. Il 25 novembre incontrerà ad esempio il Primo Ministro serbo Aleksander Vucic che è preoccupato per l’aumento dei prezzi energetici. Vucic ha sottolineato l’enorme differenza che esiste tra il prezzo di mercato del gas (1.200 dollari per mille metricubi) e quello ottenuto da Mosca, fermo a 270 dollari per mille metri cubi, ma il contratto per le forniture di gas russo a questo prezzo è valido fino alla fine dell’anno.
L’Italia verso la carbon neutrality
In Italia la questione è arrivata all’attenzione del Copasir, il comitato per la sicurezza dello Stato il cui Presidente Adolfo Urso ha chiamato giovedì scorso a riferire il Ministro della Transizione energetica Roberto Cingolani, avviando così un’indagine sulla sicurezza energetica nel nostro Paese. Nel corso dell’audizione durata oltre due ore, secondo Urso “si è posta l’attenzione sui principali attori nello scenario internazionale dell’approvvigionamento energetico, alcuni dei quali fornitori del nostro Paese che, a differenza di altri, dipende sempre più dall’estero ma con una significativa diversità di fonti. Si è poi delineato il percorso che il nostro Paese dovrà intraprendere per raggiungere l’obiettivo della carbon neutrality, anche in riferimento alla evoluzione della tecnologia e delle ricadute sul sistema sociale ed economico. Si è analizzato in modo approfondito il ruolo attualmente rivestito dal gas naturale quale risorsa energetica strategica per i prossimi dieci anni, i diversi canali di approvvigionamento, il suo utilizzo nel sistema industriale, il grado di indipendenza e la capacità di stoccaggio del nostro Paese, elemento rassicurante nell’attuale contesto europeo e internazionale, così come le potenzialità dei nuovi progetti nel Mediterraneo orientale”.
Affrontato anche il tema delle fonti da considerare green e quindi compatibili con la transizione ecologica, anche alla luce di quanto richiesto dalla Francia e da altri Paesi europei sul nucleare di nuova generazione. Il Comitato ha poi discusso il tema della neutralità tecnologica e della digitalizzazione delle infrastrutture di produzione e distribuzione con attenzione alla loro sicurezza. Esaminata anche “la possibilità di introdurre modifiche al quadro normativo di riferimento al fine di agevolare l’ambizioso e necessario processo di transizione ecologica intrapreso dal nostro Paese anche grazie al Pnrr, la cui attuazione dipende dalla capacità di realizzare in tempo utile i progetti in campo”.
Cingolani ha spiegato che ci saranno ulteriori aumenti del gas “perché la curva non cala per il momento ma se entra il Nord Stream il prezzo calerà a marzo”. Secondo il Ministro “non è vero che la transizione fa aumentare il costo delle bollette; quello che impatta sono gli aumenti delle materie prime e un certo nervosismo del mercato, anche perché la CO2 vale per un 20%. “Ma – ha aggiunto – se potessimo avere una percentuale di gas estratta in Italia, da giacimenti che già ci sono, noi stabilizzeremmo il mercato e pagheremmo di meno”.
G20 del Commercio, da Sorrento riparte la riforma del Wto
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Nell’agenda del G20, la riunione che si terrà a Sorrento lunedì e martedì prossimi sul commercio internazionale si presenta già come una delle più difficili della presidenza italiana, per le implicazioni economiche e geopolitiche che inevitabilmente comporta. A presiederla il Ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ma le conclusioni dovranno poi confluire nel testo del comunicato finale del G20 dei capi di Stato e di Governo presieduto da Mario Draghi il 30 e 31 ottobre a Roma.
Solo così si spiega l’attenzione di Palazzo Chigi per l’appuntamento, che molto probabilmente non si concluderà con un comunicato condiviso per le profonde divisioni tra i Paesi membri ma semmai solo con una dichiarazione della presidenza italiana. Paesi come India, Sudafrica e Cina hanno posizioni autonome sugli aiuti di Stato mentre altri come Brasile e Arabia Saudita non vogliono inserire la transizione verde tra i temi del commercio.
Ci si aspetta tuttavia un’inversione di tendenza in senso multilaterale, soprattutto da parte degli Stati Uniti che saranno presenti con il rappresentante al commercio Usa, l’Ambasciatrice Katherine Tai. Sul tavolo, la riforma del Wto e in particolare del sistema per la risoluzione delle controversie e la creazione di un “Tool-kit” che favorisca l’accesso al mercato delle piccole e medie imprese. Le indicazioni del G20 Trade di Sorrento serviranno poi al G7 commercio a presidenza inglese del 22 ottobre in vista della ministeriale del Wto che si terrà a fine novembre a Ginevra.
“La presidenza italiana del G20 – ha chiarito venerdì il premier Draghi – sta lavorando per preservare e rafforzare un efficace sistema commerciale multilaterale basato su regole all’interno del Wto. Sono fiducioso che il G20 di Roma a fine mese raggiungerà un forte impegno a riformare l’Organizzazione mondiale del commercio”. Una riforma che, secondo Draghi, è importante, ad esempio, per “affrontare il protezionismo sui prodotti sanitari. Questo è essenziale per assicurarci di avere gli strumenti per combattere questa pandemia e prevenirne di future. Dobbiamo difendere la libera circolazione dei vaccini e delle materie prime necessarie per produrli”.
Intervenendo al B20 venerdì, Di Maio ha tenuto a ricordare che “un sistema commerciale multilaterale rafforzato che si basi su regole, sulla non discriminazione e sulla trasparenza e con al centro l’Organizzazione mondiale del Commercio è fondamentale per mitigare l’impatto duraturo della pandemia e ottenere una ripresa migliore”. Il vertice ministeriale G20 sul Commercio, ha detto Di Maio, punterà all’obiettivo di “facilitare un esito positivo” della Conferenza ministeriale del Wto che si aprirà a fine novembre, e a creare un “impulso politico” per una riforma del Wto. Secondo Di Maio la presidenza italiana del G20 “ha fatto fare vari progressi all’agenda dei venti Paesi nella direzione di un efficace multilateralismo attorno ai tre pilastri persone, pianeta e prosperità.
La G20 Innovation League
Ma il G20 Trade sarà preceduto a Sorrento sabato e domenica da un’iniziativa totalmente inedita, la G20 Innovation League, organizzata dalla Farnesina insieme a ICE, Cdp Venture Capital e SIMEST, in collaborazione con il Ministero dello Sviluppo Economico e il Ministero per l’Innovazione Tecnologica e la Transizione Digitale dedicato alle startup e all’innovazione. L’iniziativa vuole stimolare il flusso di investimenti internazionali nel settore dell’innovazione tecnologica e favorire la cooperazione per la ricerca di soluzioni alle principali sfide globali. A questo scopo si è conseguito il coinvolgimento di oltre 100 fondi di venture capital, corporates e startup innovative dei Paesi G20, attraverso il lavoro esplorativo e di selezione condotto da focal point nazionali individuati nel circuito degli sherpa.
Si punta anche a sfruttare il valore aggiunto in termini di potenziale attrazione di investimenti diretti e piattaforma di visibilità offerta all’ecosistema globale delle startup innovative, che deriverebbe all’Italia dall’organizzazione di un simile evento di respiro internazionale. L’evento si struttura attorno a cinque temi prioritari: le opportunità legate alle tecnologie pulite (c.d. clean tech); le potenzialità e i rischi dell’intelligenza artificiale; l’uso efficiente dell’Internet delle cose (IoT); le città intelligenti e il futuro della mobilità; il futuro della sanità. Durante l’evento, le startup illustreranno le loro progettualità innovative a una platea di investitori globali. Al termine delle presentazioni, vi sarà una seconda sessione plenaria, dove saranno annunciate le 10 migliori startup a livello globale. Le startup vincitrici saranno quelle più votate dai fondi di Venture Capital e dalle corporates che parteciperanno all’evento, mediante una piattaforma virtuale messa a disposizione dei partecipanti. Infine, l’evento sarà chiuso da una “handover session”, ossia un passaggio di consegne tra l’Italia e l’Indonesia, che deterrà la prossima presidenza del G20.
Nato, anche l’Italia corre per il dopo Stoltenberg
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A 51 anni dalla segreteria Nato affidata a Manlio Brosio, l’Italia ci riprova a candidarsi alla guida dell’Alleanza Atlantica. Lo fa con passi felpati ma con un handicap di fondo: la rosa dei possibili candidati è molto ristretta, soprattutto se – come sembra – il nuovo capo dell’Alleanza dovrà essere una donna. In un incontro informale di pochi giorni fa il Ministro della Difesa Lorenzo Guerini non è stato di grande aiuto nel decifrare le future mosse del Governo italiano.
È però un fatto che entro Natale il nome del successore del norvegese Jens Stoltenberg (che lascerà esattamente tra un anno, il 1° ottobre 2022) dovrà cominciare a circolare in maniera abbastanza ufficiale per essere poi incoronato formalmente dal vertice dei capi di Sato e di Governo dell’Alleanza che si terrà a Madrid nel giugno 2022. Come è noto non esiste una procedura chiara e definita per arrivare alla nomina. Fu proprio quello l’errore principale dell’ex Ministro e vicepresidente della Commissione Ue, Franco Frattini, che si presentò come candidato ufficiale dell’Italia alla Nato. In realtà il processo decisionale è frutto di un processo informale di consenso tra i capi di Stato e di Governo.
A favore dell’Italia c’è il fatto che dopo due mandati affidati a Paesi scandinavi (il danese Rasmussen e il norvegese Stoltenberg) sarebbe ora il turno di un Paese del Sud soprattutto se, come nel caso dell’Italia, può vantare un contribuito importante alle missioni Nato (in alcuni casi, ad esempio, in Kosovo abbiamo anche il comando della missione) e si è sempre distinto per essere un fedele alleato degli Stati Uniti.
Probabili candidature
Durante il G7 inglese in Cornovaglia il premier italiano Mario Draghi a una precisa domanda sulla Nato chiarì che l’Italia non ha un candidato per quella posizione. Infatti non è ancora uscito allo scoperto un candidato forte mentre voci si rincorrono sui possibili nomi spendibili. Dagli ex premier come Enrico Letta e Matteo Renzi a personalità come Piero Fassino, Presidente della commissione Esteri della Camera. Sembra che anche l’attuale commissario Ue agli Affari economici ed ex premier, Paolo Gentiloni, si sia informato recentemente su temi e modalità per la nomina per successore di Stoltenberg. Chi è invece uscito allo scoperto e con un candidato forte è il Regno Unito che punta su una donna ed ex premier come Theresa May.
La mossa inglese, che verrebbe sostenuta ovviamente dagli Stati Uniti, è tesa a mantenere una posizione aperta a Bruxelles dopo la Brexit e utile anche per sviluppare future sinergie con le industrie della difesa degli altri Paesi Ue. La candidatura inglese è vista con una certa ostilità da parte francese. Sarebbe proprio il Governo di Parigi il nostro migliore alleato ora che Draghi e Macron entro Natale stanno finalizzando tutti gli articoli del mega accordo di cooperazione italo-francese anche nel settore della sicurezza e della difesa, noto come Trattato del Quirinale.
La candidatura della May ha spostato di fatto i riflettori sulle altre possibili candidate donne alla guida della Nato. Oltre alla May, quella poltrona rientra nella sfera di interesse di Kolinda Grabar-Kitarović, già Presidente della Croazia dal 2015 al 2020, dopo essere stata Ministro degli Esteri e responsabile della Public Diplomacy della stessa Nato. Tra i nomi di donne italiane spendibili c’è quello di Federica Mogherini, già Ministra degli Esteri e poi Alto rappresentante della politica estera e di difesa europea, attualmente a capo del College d’Europe di Bruges. L’altro nome è quello di Roberta Pinotti, già Ministro della Difesa e Presidente della Commissione Difesa del Senato.
Un ruolo non secondario nella partita per il dopo Stoltenberg potrebbe giocarlo il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Potrebbe essere infatti proprio lui a ricordare al Presidente americano Joe Biden – che arriverà a Roma il 30 ottobre per il vertice G20 (direttamente o tramite il premier Draghi) – che l’Italia ha un credito da esigere dagli americani perché nel 2014 il suo predecessore Obama assicurò a Napolitano che il sostegno Usa a Rasmussen non era in chiave anti-italiana e anzi che Washington avrebbe aiutato in futuro una candidatura italiana. Vedremo ora se quelle promesse verranno mantenute.
Elezioni in Germania: finisce l’era Merkel
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È toccato al Presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier rassicurare venerdì la comunità internazionale sull’affidabilità della Germania qualunque sarà l’esito del voto di domenica. Per la prima volta dall’83 il Presidente tedesco è intervenuto all’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York per confermare che “anche dopo queste elezioni la Germania resterà un Paese consapevole della propria responsabilità internazionale e se ne farà carico”.
I sondaggi
Nel frattempo i sondaggi fotografano una situazione in cui la distanza fra i conservatori di Armin Laschet e i socialdemocratici di Olaf Scholz si assottiglia sempre di più. Il candidato Spd, Ministro delle Finanze uscente e grande estimatore di Mario Draghi è sicuro della vittoria: “Sento che la gente vuole una svolta, – ha detto Scholz parlando a Colonia – lo sento qui oggi, e in molte piazze del Paese. Noi vogliamo questo cambiamento. Noi vogliamo un Governo a guida Spd”. Nelle stesse ore a Monaco, al comizio di chiusura degli alleati Cdu e Csu, la Cancelliera uscente Angela Merkel ha sentenziato: “Per garantire stabilità alla Germania il Cancelliere dovrà essere Armin Laschet”.
Ma è un fatto che il sondaggio Allensbach, pubblicato dal quotidiano Faz, attribuisce il 26% delle preferenze ai socialdemocratici e il 25% a Cdu-Csu. I Verdi sono dati al 17%, i liberali al 10,5%, l’ultradestra di Afd al 10% e la Linke al 5%, in bilico per l’ingresso al Bundestag. Questo anche se una vittoria del Ministro delle Finanze della Grosse Koalition non sarebbe affatto scontata.
Premiato da consensi personali, Scholz avrebbe infatti il compito tutt’altro che semplice di formare una coalizione di Governo. E tenterebbe come prima strada quella delle consultazioni con Verdi e Liberali. La partita sarebbe nelle mani di Lindner che ha già detto di preferire una coalizione cosiddetta ‘giamaica’, con l’Unione e gli ecologisti. Scholz sembra escludere una nuova edizione della Groko e vorrebbe vedere Cdu-Csu all’opposizione. Maretta anche in casa dei conservatori. Laschet è stato accolto con calore a Monaco, dove i due partiti gemellati si sono trovati insieme, ma i bavaresi della Csu hanno già fatto sapere che in caso di sconfitta si aspettano un rinnovamento dell’Unione. Se Laschet non sarà cancelliere, Markus Soeder, che ha dovuto rinunciare alla corsa pur essendo favorito, presenterà il conto.
Chi è Olaf Scholz
Nato ad Osnabrueck nel 1958, ma battezzato ad Amburgo, Scholz vive a Potsdam. Il nonno era un ferroviere. Da ragazzo entrò nell’Spd, diventando vicepresidente dei giovani socialdemocratici dello Jusos (1982-88), poi dello Youth europeo (1989) e infine deputato nel Bundestag (1998). Prima di impegnarsi nell’amministrazione, Scholz è stato però avvocato del lavoro, per diventare poi senatore ad Amburgo nel 2001 e sindaco nel 2011. Per sette anni ha governato la città, fra successi come la Filarmonica dell’Elba e momenti difficili, come quando al G20 del 2017 la città fu devastata dagli anti-summit e il primo cittadino dovette assumersene la responsabilità. Dal 2017 è Ministro delle Finanze.
La carriera di Angela Merkel
Quanto ad Angela Merkel, la “ragazza dell’Est”, come la chiamava Helmut Kohl, lascerà l’incarico di Cancelliera della Germania come una dei leader più longevi. Nei 16 anni alla guida della maggior economia europea ha messo fine alla leva militare obbligatoria, avviato il Paese a un futuro senza energia nucleare e uso di combustibili fossili, legalizzato le nozze per tutte le persone, introdotto il salario minimo e misure per incoraggiare i padri a dedicarsi alla cura dei figli. Agli occhi di molti, la sua leadership è riassumibile con una frase pronunciata dal governatore bavarese Markus Soeder: “Ha protetto bene il nostro Paese”.
Prima di essere eletta la prima volta nel 2005 ha fatto campagna elettorale come “Cancelliera del cambiamento, per rendere la Germania più moderna”. Poi ha assunto un approccio di “molti piccoli passi”. Per i suoi sostenitori è la ‘Mutti’, mamma, sinonimo di affidabilità. Negli ultimi 15 anni, è stata il pilastro attorno a cui si sono scatenate bufere ed emergenze, dalla crisi dell’eurozona a quella dei migranti, dalla Brexit alla crisi greca, dalla tensione con gli Usa di Donald Trump all’attuale pandemia di Covid-19.
Quanto alle prossime scadenze istituzionali, dopo le elezioni di domenica per il rinnovo del Bundestag e per la scelta del nuovo Cancelliere, il Governo federale tedesco resterà in carica e come tale sarà “pienamente in grado di agire” fino alla prevista sessione costituente del Bundestag del 26 ottobre. Resterà in carica per l’espletamento dell’ordinaria amministrazione, fino a quando non si sarà insediato un nuovo Governo frutto delle trattative tra i partiti eletti per discutere la futura coalizione.
Europa-Stati Uniti: patto sugli obiettivi e le azioni di contrasto ai cambiamenti climatici.
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Sempre ieri, ad Atene, il vertice dei sette capi di Stato e di Governo dei Paesi europei del Mediterraneo (da quest’anno allargato anche a Croazia e Slovenia) ha insistito sugli obiettivi fissati a Parigi e sollecitato una più stretta integrazione tra le politiche ambientali dei vari Paesi europei e un’ulteriore cooperazione nell’ambito del meccanismo Ue di risposta ai disastri. Dossier che l’Italia sta gestendo nella copresidenza con il Regno Unito della Cop 26 e nella presidenza del G20. Un pre-Cop26 è previsto già a fine mese a Milano con l’incontro ad alto livello delle Nazioni Unite dal 30 settembre al 2 ottobre preceduto dall’evento dedicato ai giovani “Youth4Climate: Driving Ambition”.
Al vertice di Atene, Draghi spiega come “occorra considerare che una transizione così grande e rapida comporti costi sociali ed economici immensi; qui abbiamo una scelta, un programma che non è facile da conciliare. Da un lato siamo determinati a percorrere l’obiettivo della transizione ecologica con il massimo impegno, la massima determinazione; dall’altro siamo determinati a proteggere soprattutto i più deboli dai costi sociali che potrebbero essere – come stiamo vedendo ora dalle bollette – davvero significativi”. Insomma, “Dobbiamo sederci insieme e ragionare molto attentamente a livello europeo. Nessuno di noi è disposto ad aumentare il costo sociale di questa transizione, ma allo stesso tempo nessuno di noi è disposto a ignorare le conseguenze disastrose dei cambiamenti climatici”.
Nel processo di transizione ecologica in atto, aggiunge Draghi, “bisogna anche chiedersi se il debito che accumuleremo sarà sostenibile: è chiaro che in tutto questo un ruolo chiave e fondamentale sarà dell’Unione europea e della Commissione. I Paesi all’interno dell’Europa in questo viaggio nella lotta al cambiamento climatico sono in una posizione diversa: quelli del Nord dipendono meno da certi idrocarburi”. Draghi riconosce il ruolo “straordinario” della Ue nell’acquisto dei vaccini, ruolo che può funzionare ora anche per il coordinamento sul clima.
Ma, insieme agli altri leader europei e alla presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen Draghi solleva anche la questione della difesa europea. ”Gli eventi di questi ultimi mesi – dice – stanno portando a un profondo riesame delle nostre relazioni internazionali, occorre rafforzare la sovranità europea e uno di questi aspetti è la difesa europea, è iniziata una riflessione esplicita su aspetti organizzativi, siamo solo all’inizio ma sono certo che questa riflessione ci terrà occupati per gli anni a venire”. Il vertice di Atene affronta anche la situazione sicurezza nella sponda Sud del Mediterraneo, regioni a forte instabilità che richiedono gli sforzi congiunti di tutti i Paesi europei del Mediterraneo. Difficile che non si sia parlato anche delle ambizioni egemoniche della Turchia nel Mediterraneo orientale e del suo ruolo per la stabilità della regione e per il futuro dell’Afghanistan. Temi questi ultimi sui quali forse il rapporto tra Ue e Usa resta ancora un po’ in bilico.
L’11 settembre venti anni dopo
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È stato scritto tutto, e anche di più. Non c’è persona che non si ricordi dove era e cosa stava facendo in quel dannato 11 settembre di venti anni fa. Chi non era nato ha visto solo le immagini televisive. Scioccanti ancora oggi dopo tanti anni, nella loro tragica spettacolarità. Ma per chi c’era quello segna il passaggio tra un prima e un dopo. Tra un’America forte e ingenua vissuta come approdo felice, dove ogni sogno poteva trasformarsi in realtà. Dove i “buoni” alla fine vincevano sempre. E il dopo, la paura che era entrata in casa a scompaginare le carte. E la necessità di difendersi, magari collezionando errori. Come l’ultimo, la scomposta fuga da Kabul.
Chi scrive ha visto in diretta le immagini del primo attacco alla torre su una televisione della saletta vip dell’aeroporto di Lubiana insieme al Ministro degli Esteri di allora, Renato Ruggiero. Le prime telefonate dei colleghi della Reuters parlavano di grave incidente aereo a Manhattan. Ma eravamo già in volo per Zagabria quando anche la seconda torre era stata attaccata. Giusto il tempo di trovare un altro televisore e lo scempio si stava compiendo sotto i nostri occhi con il crollo delle due torri. Ruggiero scosse la testa e ripeteva: “Qui cambierà tutto, la storia da oggi sarà diversa”.
Un rapido passaggio al Ministero degli Esteri croato e poi il rientro a Roma per capire, informarsi, prendere le prime decisioni. Nei giorni successivi Berlusconi tardava a far sentire la sua voce insieme a quella di Chirac o di Schroeder. Di lì a pochi giorni l’Assemblea generale delle Nazioni Unite si stava trasformando in un vertice mondiale sul terrorismo. Ruggiero su invito di Colin Powell volò a New York (suscitando, pare, alcune gelosie dello stesso Berlusconi).
Dai piani alti dell’Hotel Millenium Plaza si vedevano a Downtown le rovine ancora fumanti delle Torri mentre un odore acre impestava ancora tutta Manhattan. Insieme al console italiano Radicati e a Ludovico Ortona salimmo con il sindaco Rudolph Giuliani su un piccolo elicottero che ci portò proprio sulle Torri. Era una scena di guerra e di dolore infinito. In diretta per la CNN Ruggiero commosso annunciò il sostegno dell’Italia, anche economico. Un primo immediato aiuto di alcune centinaia di migliaia di dollari per la ricostruzione della Chiesa ortodossa di San Nicola, patrono di Bari, distrutta anch’essa dal crollo e alla quale era molto affezionato il sindaco Giuliani, che vi passava accanto quando aveva lì vicino il suo ufficio di Attorney del Southern District di New York.
Poi subito dopo a Bruxelles per attivare, prima volta nella storia, l’articolo 5 del Trattato Atlantico sulla mutua difesa. Si capì solo dopo che gli Stati Uniti con Enduring Freedom volevano fare da soli. Lo ricorda bene l’ambasciatore Sergio Vento che in quel momento reggeva l’ambasciata italiana presso le Nazioni Unite.
“L’esperienza del ’99 per il Kosovo – spiega Vento – e i condizionamenti del comando congiunto con gli europei erano stati vissuti negativamente dagli Stati maggiori americani. Dopo le Torri, gli Usa avevano messo in chiaro subito che non volevano mettere i loro militari sotto il controllo né dell’Onu e tantomeno della Nato. Volevano fare da soli con gli alleati che si fossero resi disponibili. Così partì Enduring Freedom. Poi nel 2003 il coordinamento tedesco delle operazioni in Afghanistan convinse anche gli Usa ad accettare un passaggio al coordinamento Nato con Isaf”.
“A tanti anni di distanza – osserva sempre Sergio Vento – dobbiamo riconoscere che ci siamo trovati a fare i conti con un vero fallimento dell’intelligence politica e militare in Afghanistan. È mancata una vera mission politica perché l’azione poggiava su ambienti politici locali poco rappresentativi e corrotti. Non è stata poi considerata l’importanza di una exit strategy. E gli accordi di Doha del 2020 hanno di fatto legittimato i Talebani come interlocutori politici anche se non formalmente riconosciuti. Ma l’11 settembre ha cambiato anche il modo di fare politica e intelligence negli Stati Uniti. Quella che una volta era la Foreign Policy oggi è National Security. È una rivoluzione copernicana che non può non avere riflessi su tutto l’Occidente”.
Come l’Afghanistan cambierà l’Europa
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Nel ristorante stellato “Le Petit Nice”, giovedì sera a Marsiglia, Emmanuel Macron e Mario Draghi hanno siglato un patto di ferro che, salvo sorprese, dovrebbe durare per tutti i prossimi mesi. L’oramai imminente uscita di scena della Cancelliera tedesca Angela Merkel non potrà che essere colmata da un asse preferenziale tra Roma e Parigi che governi la difficile transizione necessaria a gestire la ripresa post Covid, l’assegnazione dei fondi dei Pnrr e ora anche gli effetti della crisi afghana per una temuta emergenza profughi e nuove relazioni della Ue con Nato e Stati Uniti. Tutto questo in attesa che il vagone di testa franco-tedesco riprenda a svolgere il suo ruolo tradizionale per l’integrazione europea. Per l’Italia, tuttavia, un’occasione da non perdere utile a rafforzare quella credibilità che a Bruxelles, nonostante la presenza di Draghi, resta sempre vacillante.
L’Italia quest’anno presiede il G20 mentre la Francia siede nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e dal gennaio prossimo avrà la presidenza di turno dell’Unione europea. Macron ha garantito a Draghi il suo sostegno a un G20 straordinario in videoconferenza da tenersi alla fine del mese o ai primi di ottobre subito dopo l’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Per il 7 settembre è prevista la telefonata tra Draghi e il Presidente cinese Xi Jinping che avrebbe già superato alcune perplessità iniziali a discutere di temi politici e strategici in un foro essenzialmente economico. Da parte sua Draghi ha assicurato a Macron il sostegno dell’Italia alla creazione di una “safe zone” all’aeroporto di Kabul come prevede il testo di una proposta presentata al Consiglio di sicurezza da Parigi e Londra.
“Bisogna approfittare di questo contesto tra Parigi e Roma – dice Sandro Gozi, già Ministro delle Politiche europee con Renzi o ora parlamentare europeo eletto nella lista Renew Europe e segretario del Partito democratico europeo – occorre suggellare questa intesa speciale attraverso il Trattato del Quirinale che può essere di grandissima utilità per i due Paesi e per la nostra influenza a livello europeo e internazionale”.
Secondo Gozi “è fondamentale che Italia e Francia lavorino mano nella mano, anche perché c’è una grandissima condivisione degli interessi e dei rischi. Di fronte alla crisi afghana e ai flussi migratori che verranno l’Europa ha una scelta: o li subiamo, andando in ordine sparso, come è accaduto negli anni passati; o li gestiamo, cominciando ad aiutare i Paesi più vicini all’Afghanistan che saranno quelli colpiti per primi, senza farsi bloccare dai veti di Ungheria, Polonia o altri. Francia e Italia devono spingere assolutamente perché l’Europa abbia una gestione efficace dei prossimi flussi”.
Un fronte comune tra Italia e Francia che avrà modo di dispiegare i suoi effetti anche per la conferenza sul futuro dell’Europa. Il nodo riproposto dalla crisi afghana ripropone la necessità di completare l’Unione politica e creare una vera Europa della sicurezza e della Difesa.
Mentre il Ministro degli Esteri Luigi Di Maio in partenza dalla Slovenia per la missione in Uzbekistan, Tagikistan, Qatar e Pakistan afferma che l’obiettivo è quello di aiutare il popolo afghano e i Paesi confinanti per gestire in loco i flussi migratori, Lorenzo Guerini è stato ieri il Primo Ministro della Difesa straniero a essere ricevuto dal capo del Pentagono Lloyd Austin dopo il ritiro da Kabul. Nell’agenda dell’incontro la situazione in Afghanistan, ma anche lo scenario nel Mediterraneo con Libia e Sahel e il dossier Iraq.
Da Bruxelles il Presidente del Consiglio europeo Charles Michel si domanda: “Quale altro evento geopolitico oltre alla crisi afghana è necessario per portare l’Europa a rafforzare la sua autonomia decisionale e la sua capacità di azione?”. E il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, è dell’idea che la Nato “dovrebbe cercare di mantenete contatti con i Talebani, ma i nuovi governatori dell’Afghanistan dovranno dimostrarsi degni degli aiuti e del riconoscimento impegnandosi a evacuare il maggior numero possibile di persone vulnerabili”. In altre parole, “Il riconoscimento del governo dei Talebani verrà discusso dagli alleati della Nato, ma dipenderà dalle azioni del nuovo Governo”.
Paolo Gentiloni, commissario Ue agli Affari economici giudica la crisi afghana uno spartiacque anche per l’Europa. “Non voglio – dice Gentiloni a Cernobbio – che la critica feroce all’epilogo disastroso di questa vicenda diventi una abiura delle ragioni iniziali che ci hanno portato a sostenere l’operazione; io non mi vergogno di avere sostenuto l’idea di una missione internazionale contro il terrorismo dopo l’11 settembre ma il modo in cui si è conclusa interroga anche gli altri Paesi e l’Unione europea”. E aggiunge: “Noi non siamo andati lì per portare la democrazia, ma per sconfiggere al-Qaeda e il terrorismo. La speranza di portare i diritti delle donne e altri però era una motivazione forte per restare. Io non amo usare troppo il senno di poi. Forse la missione l’abbiamo sostenuta troppo a lungo, è facile dirlo adesso. Ma non doveva finire nel modo in cui è finita, è stato un disastro e il disastro si doveva evitare. Sarà uno spartiacque”.
Ma occorre pensare anche al futuro. Alle nuove crisi possibili e a un ruolo più autonomo che l’Europa dovrà avere. “Un ruolo – spiega il generale Claudio Graziano, presidente del comitato militare dell’Unione europea – che non può e non deve essere in contrapposizione agli Stati Uniti e alla Nato. Ma occorre anche un’Europa più assertiva perché dopo la Siria, la Libia e il Libano non possiamo permetterci di rimanere inermi di fronte a un nuovo Afghanistan in Sahel”.
Afghanistan, corsa contro il tempo per un G20 straordinario
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In un mondo in cui ogni Paese cerca di ritagliarsi ruolo e visibilità nella vicenda afghana, l’Italia, con la presidenza di turno del G20, è forse più titolata di altri a far sentire la sua voce. Si tratta di una sfida nuova anche per il premier italiano, Mario Draghi, che possiede tutti gli strumenti necessari al negoziato finanziario internazionale ma si misura questa volta su un terreno politico diplomatico per lui nuovo, difficile e scivoloso e che richiede doti di grande abilità e visione.
Il rischio di sancire un fallimento è dietro l’angolo, soprattutto se in un foro molto ampio come quello del G20, tra i grandi Paesi coinvolti nel dossier Afghanistan come Stati Uniti, Cina, e Russia si dovessero registrare divisioni profonde. Meglio, dunque, una prudente politica di piccoli passi per mettere nero su bianco alcuni punti fermi quali le evacuazioni, la cooperazione per gli interventi umanitari, il ruolo delle agenzie delle Nazioni Unite e poco altro.
Molto dipenderà dagli Stati Uniti
Molto dipenderà da come si muoveranno gli Stati Uniti. L’idea di Draghi è di convocare il vertice straordinario del G20 nella prima metà di settembre in formato remoto. L’affollamento di appuntamenti internazionali nella seconda metà del mese, a cominciare dall’assemblea generale dell’Onu, sconsiglia una richiesta di summit anche se virtuale. Certo, Draghi avrebbe preferito pianificare prima una visita alla Casa Bianca ma il viaggio negli States per ora è collegato solo all’assemblea delle Nazioni Unite.
Più in particolare occorre capire se in questo momento gli Stati Uniti, come Paese che ha sbagliato e che deve rimediare ai suoi errori, hanno qualche interesse a delegare alla presidenza di un Paese europeo come l’Italia il ruolo guida sul futuro dell’Afghanistan. Come ha spiegato chiaramente in un articolo apparso venerdì l’ex segretario di Stato Usa e padre nobile della diplomazia americana, Henry Kissinger, “L’America non può sottrarsi al suo ruolo di attore chiave nell’ordinamento internazionale, sia per le sue capacità che per i suoi valori storici. Non può rinnegarli, semplicemente ritirandosi dall’Afghanistan. Il Governo Biden è agli esordi. Avrà sicuramente l’occasione di sviluppare e sostenere una strategia comprensiva compatibile con le esigenze interne ed internazionali”. Insomma, che piaccia o meno, restano ancora una volta gli Stati Uniti a dover guidare le danze correggendo magari gli errori fatti negli ultimi anni.
L’incontro tra Draghi, Di Maio, Lavrov
Draghi è consapevole di queste criticità e lavora in sordina ma in lotta contro il tempo per organizzare il vertice straordinario. Ora che il ponte aereo con Kabul è terminato e sono stati portati in salvo in Italia circa 5mila afghani, l’impegno del Governo si concentra su come organizzare la conferenza di pace straordinaria nella prima metà di settembre. C’è da decidere pure il formato, invitando Paesi decisivi nel dossier ma che non fanno parte del G20 come Pakistan e Iran. Tema affrontato venerdì durante gli incontri del premier Mario Draghi e del Ministro degli Esteri Luigi Di Maio con il capo della diplomazia russa Sergei Lavrov, giunto a Roma come tappa di un viaggio europeo.
Draghi ha condiviso con Lavrov la necessità di assicurare la stabilizzazione e la sicurezza del Paese e di far fronte all’emergenza umanitaria in atto vigilando sul rispetto dei diritti umani, in particolare delle donne. In linea di principio Lavrov ha condiviso con Draghi e con Di Maio l’idea del G20.
“La presidenza italiana nel G20 – ha detto Lavrov – offre la possibilità di intensificare la nostra collaborazione reciproca; a differenza del G7, il G20 è una piattaforma che riflette la realtà multipolare del nostro mondo”. Ma la Russia, ha aggiunto Lavrov, vuole capire meglio “quale ruolo vedono i nostri partner occidentali per la Russia nel contesto del G20; ci hanno detto che ci verranno presentate linee guida, ma finora il terrorismo mi pare sia solo al quinto posto, per noi non è accettabile, vista la minaccia per i nostri vicini che confinano con noi”. In ogni caso, ha aggiunto Lavrov, “dall’Italia abbiamo ottenuto promesse che al G20 straordinario saranno invitati anche Pakistan, Iran e altri Paesi che non fanno parte del G20”.
In altre parole, la Russia dello zar Putin è pronta anche a dare una mano all’Occidente sull’Afghanistan ma solo se verrà riconosciuto il suo ruolo e non verrà più messa all’indice della comunità internazionale per l’Ucraina, per il caso Navalny e i cyberattacchi in rete. L’Italia è tra i Paesi europei forse il più aperto a queste richieste anche per i danni economici che le sanzioni Ue causano al nostro export ma non è detto che questa sia la posizione di tutta l’Europa e soprattutto degli Stati Uniti.
In ogni caso Draghi va avanti per la sua strada e venerdì scorso ha parlato al telefono anche con il premier indiano, Narendra Modi, su una risposta coordinata della comunità internazionale sull’Afghanistan e sui temi globali oggetto del G20. Ma si sta lavorando anche per organizzare a breve un contatto con il Presidente cinese, Xi Jinping. Un membro influente nel G20 che può avere un ruolo chiave anche sul dossier afghano.
Afghanistan: era già tutto scritto a Doha
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Nel suo libro del 2009 “La strada per Kabul”, l’ambasciatore Alessandro Minuto Rizzo – una lunga carriera alla Farnesina culminata con la nomina a segretario generale aggiunto dell’Alleanza Atlantica – i problemi e le criticità dell’intervento occidentale in Afghanistan li aveva già messi tutti in evidenza.
Del resto, era stato proprio lui come “vice” del segretario della Nato, l’inglese George Robinson, ad aprire ufficialmente l’operazione Enduring Freedom l’11 Agosto del 2003, presiedendo un Consiglio Atlantico che raccoglieva il testimone dalla Germania, Paese che guidava, in quel momento, la coalizione creata dopo l’11 settembre per smantellare le centrali del terrore qaedista nell’Asia centrale sulla base delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che autorizzavano una Forza internazionale a Kabul per mantenere “una cornice di sicurezza”.
“Le ambizioni di allora erano altissime, – dice ora l’ambasciatore Minuto Rizzo – era quasi impossibile pensare a uno scenario diverso e che non vedesse vittoriosa l’Alleanza Atlantica nel confronto con le forze militari dei Talebani non supportati, almeno ufficialmente, da nessuna grande potenza”. E invece, nonostante l’enorme investimento finanziario e il sacrificio di tantissime vite umane, la coalizione guidata dagli Stati Uniti decise il 31 dicembre del 2014 di trasformare Enduring Freedom in una missione non più di contrasto ai Talebani ma solo di training e mentoring per le forze di sicurezza locali: la missione “Train and Equip”.
“Insomma – continua Minuto Rizzo – era come se avessimo deciso a un certo punto di combattere con una mano legata dietro alle spalle poiché il training, al quale tra l’altro non partecipavano tutti i Paesi dell’Alleanza, aveva obiettivi molto limitati per cui i militari Nato non potevano muoversi liberamente nel Paese per dare la caccia ai Talebani e non potevano nella maggior parte dei casi rispondere al fuoco nemico”.
L’accordo di Doha del 2020
Ma il vero momento in cui anche gli osservatori meno attenti capirono che ormai la partita per l’Occidente era definitivamente persa è l’accordo di Doha tra Usa e Talebani del 29 febbraio 2020. In quel momento avviene la vera e incondizionata “legittimazione” da parte degli Stati Uniti del cosiddetto “Emirato islamico dell’Afghanistan”. Così, almeno, viene chiamata più volte la controparte dai note-takers americani nei loro documenti ufficiali nei quali alla data del 29 febbraio 2020 viene accostata anche la data islamica di Sabato 5 Rajab 1441. “In quel documento gli Stati Uniti – osserva sempre Minuto Rizzo – parlano a nome dell’amministrazione di Washington citando però anche gli alleati, che in nessun caso vengono informati così come non è informata neppure la Nato. Ma quel che è peggio, al negoziato non viene invitato il Governo ufficiale di Kabul presieduto da Mohammad Ashraf Ghani Ahmadzai, che viene messo al corrente solo in una fase successiva; un accordo, peraltro, che non prevede un Piano B o condizioni particolari ma prevede semplicemente l’impegno dei Talebani a negoziare con il Governo ufficiale, cosa che nessuno pensava potesse avvenire”.
A quel punto, aggiunge l’ex segretario generale aggiunto della Nato, si è capito che la conclusione della missione vera e propria “era questione di tempo”. Un negoziato “anomalo”, voluto da Trump, in cui “il dato centrale appariva l’impegno a non organizzare attentati negli Stati Uniti dopo che i Talebani fossero entrati in un ipotetico Governo di coalizione. Promesse scritte sulla sabbia, poiché si trattava di una copertura di facciata, che il Governo di Kabul doveva ingoiare senza alcuna possibilità di manovra. Un duro colpo per il Governo uscito, sia pure a fatica, da un processo elettorale fortemente voluto a Washington. Ma quel che è peggio, al disimpegno americano è seguita anche la diminuzione della presenza degli alleati che hanno rivisto al ribasso il loro impegno”.
Sembra che solo il Regno Unito e l’Italia (i due Paesi che guidano quest’anno rispettivamente il G7 e il G20) abbiano sollevato perplessità in una recente ministeriale Difesa della Nato sulla decisione americana e si siano espressi a favore di un mantenimento anche a ranghi ridotti della missione in un quadro di rafforzamento delle istituzioni afghane.
Ma sulle istituzioni afghane, riflette Minuto Rizzo, c’è da guardare agli scarsissimi risultati ottenuti finora tra corruzione diffusa e lotta tra etnie diverse. È pur vero che dalle prime elezioni generali del settembre 2005 è nato un vero Parlamento e vari movimenti politici. La condizione femminile è cambiata in meglio così come il livello di istruzione. C’era, dice Minuto-Rizzo, l’impressione di una società in movimento verso un futuro più moderno. L’obiettivo della presenza internazionale intendeva promuovere istituzioni moderne, una società con diritti umani riconosciuti, parità per donne e minoranze, pluralismo politico. “Non è vero – osserva l’ambasciatore – che l’obiettivo fosse solo la lotta al terrorismo internazionale, si sta isolando questo aspetto, che invece è parte di un quadro più ampio”.
Ma le cose sono peggiorate nelle ultime elezioni per un contrasto fra Ghani e Abdullah. Il secondo, rappresentante della minoranza uzbeka, ha gridato ai brogli in favore di Ghani, espressione della maggioranza pashtun. Mesi di polemiche e scambi di accuse conclusi con Ghani Presidente e il rivale Primo Ministro. Tutto ciò ha solo indebolito il Governo. “La storia – dice in conclusione l’ex numero due della Nato – ci mostra che le armi possono essere importanti in certi momenti, ma che poi le soluzioni durature possono essere solo politiche”.
E allora? “Allora – dice Minuto Rizzo – dobbiamo imparare dagli errori a capire meglio i Paesi ai quali ci avviciniamo”.
Tokyo 2020: le medaglie degli Azzurri e la politica li “arruola”
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È l’Italia che non si vede. Che non strilla, lavora ogni giorno quasi in clandestinità nelle palestre, nei campi di atletica, nelle piscine e nelle acque libere. Che non si piange addosso, non si fa piegare dalle paure e dalle ovvietà da main stream. Che accetta le sfide. E le vince.
L’Italia che ci ha regalato le migliori emozioni degli ultimi mesi nonostante un impossibile fuso giapponese. Sono gli atleti di Tokyo, le loro eccezionali performance con tutto quello che ci sta dietro: famiglie, infrastrutture, federazioni sportive. Sono loro che hanno rimesso il sorriso su volti afflitti dalla paura del domani. Ridato speranza a un Paese in lotta con troppe fragilità.
Era successo già con gli europei di calcio. Ma ora è di più. Una combinazione di successi che si interseca in felice allineamento astrale con i successi (o quantomeno le buone pratiche) del Governo Draghi a riprova del fatto che pure la politica è anch’essa disciplina sportiva delle più complesse, che richiede allenamento, studio, forza fisica e mentale.
Non sappiano se i successi sportivi porteranno un vantaggio concreto alla tenuta dell’attuale maggioranza o alla “credibilità” del Sistema Paese. Per ora, telefonate sulla linea calda Roma-Tokyo che si sprecano come tweet e post. Fino a ieri erano atleti semi sconosciuti. Ora tutti li vogliono arruolare d’ufficio nelle fila dei loro partiti.
Ma una cosa è certa: politica e sport sono sempre andate a braccetto, certe volte pure troppo. In molti casi hanno evitato il peggio, come nel ‘48 quando il presidente del Consiglio De Gasperi chiese a Bartali di vincere la più difficile tappa del Tour de France per evitare una sommossa popolare e una nuova guerra civile dopo l’attentato a Togliatti. E le manifestazioni operaie, come per incanto, si trasformano in cortei festosi.
E pensare che fino a sei mesi fa c’era il rischio tutt’altro che remoto che i nostri atleti andassero a Tokio senza bandiera e senza inno italiani, solo con le insegne del Cio come nel 1980 a Mosca ma in quel caso per protesta per l’invasione dell’Afghanistan. Mennea e Sara Simeoni non trovarono dietro di loro un tricolore da abbracciare, la Simeoni cantò a denti stretti Viva l’Italia di de Gregori.
Nel giugno del 2019 il Cio di Losanna assegna a Milano-Cortina le Olimpiadi invernali del 2026 esprimendo preoccupazione per la riforma dello sport che toglieva autonomia al Coni. Ad agosto la situazione peggiora e una richiesta di spiegazioni dal Comitato Internazionale resta senza risposta.
Ma a fine agosto cade il primo Governo Conte, con il sottosegretario allo sport Giorgetti che viene sostituito dal Ministro per le politiche giovanili e lo sport Vincenzo Spadafora. Lo scontro prosegue, sia pure con meno criticità, ma il Dpcm sullo sport indica le funzioni per il Ministro Spadafora, tra cui “indirizzo e vigilanza sul Coni” in violazione alla Carta Olimpica.
Alla fine, quasi in zona Cesarini viene trovato un accordo e gli atleti possono avere il loro tricolore.
Ma è dopo la storica vittoria di Jacobs sui 100 metri che Malagò si toglie qualche sassolino dalle scarpe e “invade” un terreno tutto politico, quello dello ius soli, argomento di contese infinite. “Noi vogliamo occuparci di sport e non riconoscere lo Ius Soli sportivo è qualcosa di aberrante, folle. Oggi va concretizzato: a 18 anni e un minuto chi ha quei requisiti deve avere la cittadinanza italiana” ha detto il presidente del Coni.
Sono molti, infatti, gli azzurri a Tokyo che hanno dovuto aspettare i diciotto anni per poter gareggiare ufficialmente con i colori italiani.
Ma vediamo chi sono questi ragazzi che ci hanno fatto sognare. Che si sono allenati in un contesto reso difficile come non mai per la pandemia e con un orizzonte temporale più lungo (Olimpiadi prorogate di un anno).
Hanno portato casa 38 medaglie, 10 ori e 10 argenti, 18 bronzi Ad aprire il medagliere azzurro il 24 luglio è il 34enne pugliese Luigi Samele, sconfitto in finale nella sciabola dall’ungherese Aron Szilagyi.
Ma il primo oro è per il ventenne Vito Dell’Aquila nel taekwondo maschile. Poi è tutto un crescendo che vede lo storico record di 9 e 80 per Marcel Jacobs nei 100 metri, la regina della velocità su pista in coincidenza con i 2 metri e 37 di Gianmarco Tamberi che fa storia con l’ex aequo insieme al qatariota Mutaz Essa Barshim.
Un’atletica con cinque ori azzurri a Tokyo come per l’oro nella staffetta 4×100 con il quartetto azzurro di Lorenzo Patta, Marcell Jacobs, Eseosa Desalu e Filippo Tortu che stabilisce il nuovo primato italiano di 37″50. Un Tortu eccezionale che nell’ultima frazione batte il britannico Nethaneel Mitchell-Blake.
Senza parlare della marcia con il 29enne pugliese Massimo Stano, oro nella 20 Km come è oro nella stessa gara al femminile Antonella Palmisano. E’ la prima volta che l’Italia vince l’oro nella marcia con uomini e donne.
Nel ciclismo su pista, oro per Elia Francesco Lamon, Simone Consonni, Jonathan Milan e Filippo Ganna che migliorano il record mondiale. Viviani è bronzo nell’Omnium di ciclismo su pista mentre la 29enne piemontese Elisa Longo Borghini è bronzo nella prova su strada in linea di ciclismo femminile.
Luigi Busà è oro nel karatè specialità kumite mentre Viviana Bottaro è bronzo del karate, specialità kata. È la prima medaglia olimpica per l’Italia in questo sport, entrato nel programma olimpico proprio a Tokyo.
Dopo l’argento di cinque anni fa a Rio, per Odette Giuffrida a Tokyo è arrivato il bronzo sempre nella categoria fino a 52 chilogrammi del judo mentre Maria Centracchio è bronzo nel judo 63 chili.
Anche sulle acque di Tokyo c’è molta Italia. Manfredi Rizza è medaglia d’argento nella canoa sprint, nel K1 200 metri. Nel canottaggio, bronzo nel quattro senza maschile con Matteo Castaldo, Marco Di Costanzo, Matteo Lodo e Giuseppe Vicino. Di Costanzo ha sostituito all’ultimo minuto Bruno Rosetti risultato positivo al covid-19 prima della gara.
Un oro eccezionale per le azzurre del doppio pesi leggeri, Federica Cesarini e Valentina Rodini. Bronzo per il doppio pesi leggeri maschile di Stefano Oppo e Pietro Willy Ruta.
Nel nuoto Gregorio Paltrinieri, campione olimpico dei 1500 stile a Rio 2016 ha conquistato una stupenda medaglia d’argento sugli 800 metri stile libero. Ottimo prova della staffetta mista maschile 4×100 che con Thomas Ceccon, Nicolò Martinenghi, Federico Burdisso e Alessandro Miressi conquistano la medaglia di bronzo dietro agli Usa (oro e record del mondo) e Gran Bretagna. Simona Quadarella ha conquistato il bronzo sugli 800 metri stile libero. Federico Burdisso vince la medaglia di bronzo nei 200 farfalla. E poi quattro ragazzi come Alessandro Miressi, Thomas Ceccon, Lorenzo Zazzeri e Manuel Frigo, argento nella staffetta 4×100 stile libero dietro solo al colosso Usa mentre Nicolò Martinenghi si aggiudica la medaglia di bronzo nella finale dei 100 rana.
Nella vela Ruggero Tita e Caterina Marianna Banti sono oro nella disciplina del catamarano misto foiling Nacra 17. Nella medal race è bastato un sesto posto per chiudere con la medaglia d’oro al collo. È la prima medaglia olimpica per la vela italiana, 13 anni dopo le due conquistate a Pechino 2008 e dopo 21 anni dall’ultima medaglia d’oro a Sydney di Alessandra Sensini.
Nella ginnastica Vanessa Ferrari è argento nel corpo libero. Nel sollevamento pesi Nino Pizzolato è bronzo mentre è argento Giorgia Bordignon nella categoria 64 kg donne, nuovo primato nazionale.
Mauro Nespoli ha vinto la medaglia d’argento nella finale del tiro con l’arco individuale. Nella boxe femminile Irma Testa, pugile di Torre Annunziata e bronzo, perdendo la semifinale con la campionessa del mondo 2019, Nesthy Petecio.
Lucilla Boari conquista il bronzo nel tiro con l’arco, anche questa prima medaglia della storia nell’arco femminile italiano.
Nella scherma Enrico Berrè, Luca Curatoli, l’argento individuale Luigi Samele e il capitano Aldo Montano raggiungono l’argento. L’Italia del fioretto femminile batte gli Stati Uniti nella finale per il terzo posto, conquistando il bronzo. Le fiorettiste italiane si sono imposte per 45 a 23.
Sul terzo gradino del podio Arianna Errigo, Martina Batini, Alice Volpi ed Erica Cipressa. Italia di bronzo nella spada a squadre femminile. Rossella Fiamingo, Federica Isola, Mara Navarria e Alberta Santuccio sconfiggono la Cina. Il siciliano Daniele Garozzo è argento nel fioretto maschile dopo aver perso in finale con l’avversario di Hong Kong, Cheung Ka Long.
Nel tiro Diana Bacosi ha conquistato la medaglia d’argento nella gara di skeet di Tokyo 2020. La campionessa azzurra è stata battuta 56-55 dall’americana Amber English.
G20 Cultura: dal Colosseo un segnale di ripartenza
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Il colpo d’occhio, giovedì sera al tramonto di Roma, è stato di quelli da mozzare il fiato e che non si possono facilmente dimenticare. Vedere il tavolo con i capi delegazione del primo G20 Cultura (tra cui emergeva anche qualche kefiah dell’Arabia Saudita) in mezzo del Colosseo ha aperto i cuori all’ottimismo sul futuro di una ripartenza possibile. Il premier Mario Draghi ha voluto essere presente e ha messo il sigillo sotto un evento unico. Del resto fin dall’inizio ha fatto di tutto, insieme al Ministro Dario Franceschini, per portare a Roma i Ministri della Cultura e dare loro il segnale che le ombre del passato si possono superare proprio investendo sui beni culturali, sui teatri, sui musei.
“Sono orgoglioso – ha confessato Draghi ai Ministri – che il debutto della prima ministeriale della cultura nella storia del G20 avvenga in Italia. Questo testimonia come la storia e la bellezza siano parte integrante dell’essere italiani”. Quando il mondo ci guarda, ha detto Draghi “vede arte, letteratura, segni della storia antica”. L’Italia, con i suoi 58 siti Unesco, meriterebbe forse, ha scherzato il premer italiano “di essere tutta quanta patrimonio dell’umanità”. Patrimonio che l’Italia custodisce per sé stessa e per il mondo intero. Il Presidente del Consiglio ha citato alcune cifre: il settore dei viaggi e del turismo contribuisce al 13% del Pil italiano e occupa circa 3 milioni di addetti; il Pnrr della Ue assegna alla cultura italiana circa 7 miliardi di euro.
Franceschini ha rincarato la dose, ha fatto approvare all’unanimità una “dichiarazione di Roma” sulla tutela e la promozione dei beni culturali che costituirà parte integrante del comunicato finale del G20 dei capi di Stato e di Governo che si terrà sempre a Roma a fine ottobre. “Vedere le città senza musica, senza teatro, senza cinema, senza turisti – ha detto Franceschini – è stato triste e ci si è resi conto come la cultura sia fondamentale e ci sia grande voglia di ripartire. La cultura sarà un punto di ripartenza”. “Abbiamo mostrato al mondo – ha aggiunto il Ministro della Cultura – la bellezza infinita dell’Italia prima al Colosseo, poi con Muti al Quirinale, quindi a Palazzo Barberini e infine alla Galleria Borghese”. L’Italia è tornata a essere il Paese con maggior siti Unesco proprio in questi giorni ed è bello che questo primato sia stato festeggiato in concomitanza con la prima riunione dei Ministri della Cultura del G20″.
Ma i problemi restano e la pandemia li ha fortemente aggravati come ha ricordato Alberto Garlandini, Presidente dell’Icom (International Council of Museum). “La situazione che emerge – ha affermato Garlandini – è drammatica: nel mondo le porte del 60% dei musei sono rimaste ancora chiuse, dopo la crisi per la pandemia del Covid; in Italia la situazione è di gran lunga migliore, abbiamo parzialmente riaperto. Ma il tema riguarda anche le professionalità: nella prima fase dell’ondata, il 13% dei musei correva il rischio di restare chiuso, ora siamo scesi al 4% ma è sempre un dato incredibile”.
Tuttavia il segnale che viene lanciato da Roma è pieno di ottimismo. La Dichiarazione di Roma dei Ministri della Cultura del G20, approvata all’unanimità, è un documento di 32 punti che introduce la cultura nei lavori del G20, riconoscendone il valore economico. “Abbiamo ottenuto – ha messo in evidenza Franceschini – l’impegno di tutti i Paesi membri nella creazione di forze per l’intervento a protezione del patrimonio culturale a rischio nelle aree di crisi”.
Ripartire dalla cultura
La cultura, afferma la dichiarazione “è stata gravemente colpita dalla pandemia ma proprio essa aiuta ad affrontare le pressioni e i crescenti divari economici, sociali ed ecologici, contribuendo alla rigenerazione delle nostre economie e delle nostre società, pesantemente colpite da Covid-19”. La dichiarazione esorta quindi i Governi a riconoscere la cultura e la creatività come parte integrante di agende politiche più ampie, come i diritti umani, la coesione sociale, l’occupazione, l’innovazione, la salute e il benessere, l’ambiente e lo sviluppo locale sostenibile. I Ministri G20 si sono impegnati a riconoscere l’impatto sociale dei settori culturali e creativi, sostenere la salute e il benessere, promuovere l’inclusione sociale, l’uguaglianza di genere e l’emancipazione femminile.
Si segnala poi la necessità di proteggere il patrimonio culturale contro i rischi, compresi i disastri naturali, il degrado ambientale e il cambiamento climatico, la distruzione deliberata e il saccheggio, il traffico illecito di beni culturali. Per questo i Ministri della Cultura dei Paesi G20 si sono impegnati a riconoscere ogni minaccia alle risorse culturali come possibile perdita di beni culturali insostituibili, capace di violare i diritti umani, colpire la diversità culturale e privare persone e comunità di preziose fonti di significato, identità, conoscenza, resilienza e sviluppo. Si sollecita poi la costruzione di capacità formative per affrontare la complessità del mondo contemporaneo e le sfide del settore culturale, tra cui la rapida digitalizzazione, la transizione verde e il cambiamento demografico, e per contribuire a raggiungere gli obiettivi internazionali di sviluppo sostenibile.
Le verità dietro al G8, dai video no global agli sforzi del Ministro Ruggiero
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Con l’attuale direttore di eastwest, Giuseppe Scognamiglio, ho avuto la fortuna di condividere nell’estate del 2001 una breve ma intensa esperienza di lavoro al primo piano della Farnesina come collaboratore di Renato Ruggiero, Ministro degli Esteri del secondo Governo Berlusconi. Fino a quando Ruggiero non decise di dimettersi nel gennaio del 2002 a seguito della freddezza di Ministri come Bossi e Tremonti per l’adozione dell’Euro in Italia. Quelli, visti dall’interno del “palazzo”, furono mesi eccezionali in cui “si dettero appuntamento” molti episodi destinati successivamente a cambiare il corso della politica interna e internazionale.
Il più scioccante tra tutti ovviamente l’attacco terroristico alle Torri Gemelle dell’11 settembre a New York, l’applicazione per la prima volta nella storia dell’articolo 5 della Nato e la creazione di una forza di coalizione per sradicare le centrali del terrore in Afghanistan. Ma già due mesi prima, alla metà di luglio, il G8 di Genova aveva mostrato agli occhi del mondo tutta la complessità e le difficoltà di instaurare un dialogo tra i Governi e il popolo no global, in quella fase particolarmente strutturato.
Quello di Genova era il quarto vertice internazionale ospitato dall’Italia, che diventava per la prima volta G8 (sia pure solo per alcune sessioni) per la partecipazione della Russia che solo l’anno prima aveva incoronato Putin come suo indiscusso “zar”. La regia della preparazione del vertice sarebbe toccata unicamente a Palazzo Chigi ma il Ministro degli Esteri, soprattutto dopo “l’incursione” a Palazzo Grazioli qualche settimana prima di Gianni Agnelli e di Henry Kissinger, aveva convinto Berlusconi che era forse meglio ascoltare i consigli di un diplomatico di lungo corso come Ruggiero, ben conosciuto e apprezzato all’estero, che sarebbe stato in grado di tirare un colpo di spugna sull’immagine internazionale del capo del Governo, fortemente compromessa dalla copertina dell’Economist che lo bollava come “Unfit to lead Italy”.
Ci furono varie riunioni a Palazzo Chigi, alla Farnesina e al Viminale dove il neo Ministro ligure Claudio Scajola voleva mostrare tutte le sue capacità organizzative al “cavaliere”. Tra le “veline” apocalittiche dei “servizi”, le batterie antimissili e la sospensione della libera circolazione alle frontiere Schengen quello che emergeva in tutta chiarezza era l’assoluta inadeguatezza di quell’esecutivo di governare quell’evento. Fu difficile per il Governo Berlusconi comprendere le ragioni e l’effettiva “pericolosità” dei movimenti “no global” confondendo tutto, Black bloc, tute bianche e ragazzi animati dalle migliori intenzioni. Fu più semplice derubricare tutta l’ondata di protesta a un mero episodio di ordine pubblico da contrastare con lacrimogeni e manganelli come già era successo a Napoli mesi prima sotto il Governo di sinistra guidato da Amato. Fu uno degli errori principali di Genova. Unica eccezione quella del Ministro degli Esteri dell’epoca, Renato Ruggiero, che aveva già sperimentato sulla propria pelle, da primo direttore del Wto, cosa voleva dire aprire un tavolo di confronto con le Ong e con i “no global” anche quando frange violente di alcuni di loro mettevano a ferro e fuoco una città come accadde nel 2000 a Seattle per il vertice mondiale sul commercio.
Diciamo subito che non fu Berlusconi e nemmeno Scajola a indicare Genova come sede del G8. Era stato Massimo D’Alema, Presidente del Consiglio dal 1998 al 2000, a indicare la città per il vertice forse su indicazione del compagno di partito Burlando. Berlusconi con Scajola fece almeno tre sopralluoghi nel capoluogo ligure, occupandosi soprattutto delle facciate dei palazzi da coprire e delle fioriere da disporre nel tragitto dei leader. Ma poca attenzione mise sul merito dei dossier, che contenevano rispetto ai vertici precedenti qualcosa di veramente innovativo quanto a lotta alla povertà e creazione di un fondo mondiale per sconfiggere l’Aids. Berlusconi puntava soprattutto a stringere rapporti amichevoli con i leader che più sentiva vicini alle sue corde, dal Presidente americano George W. Bush a quello russo Vladimir Putin. Con Jacques Chirac non c’era buona chimica mentre con l’inglese Tony Blair, fautore della “terza via”, si aprivano prove di dialogo.
Dopo venti anni, la verità dell’ex Ministro Scajola, oggi sindaco di Imperia, pur condannando Diaz e Bolzaneto, consegna la teoria degli infiltrati violenti che cambiarono il corso degli eventi: “Da una parte – ha dichiarato Scajola pochi giorni fa – c’erano manifestanti arrivati a Genova per metterla a ferro e fuoco, infiltrati insieme ai contestatori pacifici che avevamo deciso di accogliere. È successo l’irreparabile, un inferno che poi ha portato all’uccisione di Giuliani da parte di un altro giovane che si sentiva assediato, trovatosi nella paura di essere assalito dalla massa e che ha sparato. E il giorno dopo una pagina infamante per l’Italia. Una macelleria fatta alla Diaz e torture a Bolzaneto che non possono trovare nessuna giustificazione in uno Stato democratico”. “Avevamo provato a dare indicazioni precise, – ha detto anche Scajola – a non intendere i manifestanti come nemici ma come persone che manifestavano le loro idee. Tutto è trasceso. Io stesso consegnai personalmente a tutti gli operatori un nostro volumetto. All’interno diceva: “I manifestanti non sono nemici, il vostro compito non può che essere di rispetto nel rispetto”. Ma pochi tra gli addetti all’ordine pubblico devono aver fatto tesoro dell’opuscolo se è vera l’intercettazione presentata in tribunale tra due agenti di polizia dopo la morte di Giuliani in cui una voce femminile si sente dire: “Uno a zero per noi”.
Gli elementi per evitare il peggio c’erano tutti. Il Genoa Social Forum si era costituito per preparare le rivendicazioni in vista del G8. Era formato da oltre mille sigle anche diverse tra loro. Aderivano anche partiti come Rifondazione comunista e i Verdi, movimenti cristiani come Pax Christi e la Federazione delle Chiese evangeliche e sindacati come la Fiom e i Cobas. C’era anche la rete Lilliput, insieme a Ong che operano nei Paesi più poveri, centri sociali come il Leoncavallo, WWF e Legambiente. Ruggiero, alla vigilia del G8, convocò alla Farnesina il portavoce del Genoa Social Forum, Vittorio Agnoletto. Ruggiero cercò di ottenere da Agnoletto un “via libera” almeno sui temi dello sviluppo che il G8 avrebbe affrontato a cominciare da una road map precisa per rispettare i cosiddetti Millenium Goals delle Nazioni Unite su sanità, ambiente e lotta alla povertà. Ma non ci fu nulla da fare. Le posizioni erano troppo lontane e, soprattutto, i “no global” non si fidavano del Governo Berlusconi. L’obiettivo era abbattere la zona rossa. Insomma, un nulla di fatto che però spiazzò almeno una parte del movimento che si era presentato alla Farnesina con un atteggiamento costruttivo.
Ruggiero lavorò anche per convocare a Roma come “osservatori” del vertice un gruppo di personalità di alto profilo. A guidare i lavori avrebbe voluto il premio Nobel per l’Economia, Amartya Sen, studioso della globalizzazione e dei suoi effetti, il quale però declinò l’invito. Non altrettanto fece Mary Robinson, ex Presidente dell’Irlanda ed ex Alto commissario per i diritti dell’uomo. Era un mondo totalmente nuovo per Berlusconi che si prestò comunque di buon grado a ricevere le personalità.
Alla vigilia di Genova, forse terrorizzato dalle “veline” sfornate dal Viminale a getto continuo, il più impaurito di tutti appariva proprio il capo del Governo. Un mese prima di Genova, il 15 e 16 giugno del 2001, Berlusconi, reduce da un successo elettorale senza precedenti sull’Ulivo di Rutelli (ma senza ancora aver presentato il suo programma alle Camere), prese parte con Ruggiero al Consiglio europeo della presidenza svedese a Goteborg. Berlusconi rimase scosso dalla portata delle proteste in terra svedese e soprattutto dalla risposta molto dura della polizia svedese che ridusse quasi in fin di vita un giovane manifestante.
Qualche settimana più tardi, a Palazzo Chigi, Berlusconi riunì tutti gli alti funzionari impegnati alla preparazione di Genova. C’era anche il capo della Polizia, Gianni De Gennaro. Berlusconi lo fissò negli occhi e gli chiese: “Lei mi può assicurare che a Genova non succederà nulla di quanto abbiamo visto a Goteborg?”. La risposta di De Gennaro non sembrava lasciare dubbi: “Presidente, il modus operandi del nostro personale è totalmente diverso da quello della polizia svedese”. Berlusconi fece una smorfia ma non sembrò affatto soddisfatto della risposta.
Il resto è cronaca consegnata agli atti processuali. Nel tempo ognuno si è costruito la propria verità di comodo per alleggerire le responsabilità o scaricarle in capo a qualcun altro. Genova segnò, per molti aspetti, la fine dell’innocenza, la fine dei rapporti duri ma tutto sommato leali tra manifestanti e polizia. Nella città medaglia d’oro della Resistenza, che aveva combattuto nell’estate del 1960 contro il Governo Tambroni e il congresso dell’Msi, si consumava una tragedia italiana sotto gli occhi del mondo. Ma rispetto al passato qualcosa stava cambiando. Quasi tutti i manifestanti erano “armati” più che di molotov, di piccole telecamere. Tutti riprendevano tutto. Una nuova modalità di fare informazione che, da allora, prese piede e si diffuse a macchia d’olio per ogni altro tipo di evento e che ebbe il merito di smascherare sul nascere qualunque tipo di verità di Stato. Molto resta ancora oscuro, come tutto ciò che avvenne nella notte della Diaz e nella centrale operativa dove pare abbia fato visita il vice premier di allora Gianfranco Fini.
Quello che so (e di cui sono stato testimone diretto) è che molti giorni dopo il vertice la batteria del Viminale e il centralino della Farnesina alle ore più improbabili cercavano di contattare il Ministro degli Esteri Ruggiero. A cercarlo erano i suoi colleghi europei: il Ministro degli Esteri tedesco, Joschka Fischer, dell’Austria, Benita Ferrero Waldner, e della Francia, Hubert Vedrine. Tuti volevano sapere la stessa cosa: che fine avevano fatto i loro ragazzi e le loro ragazze andate a Genova e che non avevano ancora fatto ritorno a casa. Le famiglie non ne sapevano nulla da giorni. Una situazione tipo Argentina o Cile, che gettava un’ombra sinistra sul vertice già macchiato del sangue di Giuliani. Si cancellava in questo modo ogni possibile successo di un vertice che per primo aveva affrontato in modo forte i temi dello sviluppo, creato il fondo contro l’Aids e aveva affrontato questioni che poi sarebbero state il pane quotidiano di tutti i successivi vertici G8 e G20 fino a quello che si terrà a Roma alla fine dell’ottobre prossimo.
La morte di Giuliani fu un duro colpo di immagine per Berlusconi. In quel momento la cosa più semplice fu individuare tutte le responsabilità in capo a De Gennaro. Berlusconi convocò Ruggiero e chiese di sondare il segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, per sapere se il nome di De Gennaro sarebbe stato gradito al Palazzo di vetro come successore di Pino Arlacchi all’antidroga Onu di Vienna, che stava lasciando. Annan, da navigato diplomatico, capì al volo il problema ma annacquò tutto con la rosa di candidati fra i quali inserire “anche” De Gennaro. Ma la cosa finì lì. Nel frattempo nessuno aveva comunicato neppure informalmente a De Gennaro che qualcuno stava preparandogli le valige per Vienna. A distanza di anni l’ex capo della polizia confessò a Gianni Letta (che sapeva tutto): “Se mi aveste detto quanto si guadagnava a Vienna forse avrei accettato subito”.
Giandomenico Picco, il soldato disarmato della diplomazia Onu
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Se la commissione della legge 440 dell’85 voluta da Bettino Craxi per aiutare Riccardo Bacchelli, autore del Mulino del Po (che si trovava in gravi difficoltà economiche), dovesse dare il via libera definitivo all’istruttoria in corso, Giandomenico Picco sarebbe il primo diplomatico italiano a usufruire dell’assegno vitalizio per chi, pur avendo dato lustro al nostro Paese nei più diversi campi di attività, si trova in ristrettezze economiche.
Saranno dunque ora Dacia Maraini, Roberto Cicutto, produttore cinematografico e Presidente della Biennale e l’ex Ministro Luigi Berlinguer nelle funzioni di componenti della commissione per l’esame della domanda a decidere se concedere o meno l’assegno a Picco creando quindi un precedente che farà certamente discutere. Gli ultimi beneficiari del sussidio sono stati Giovanni Mapelli, scultore del legno, Dante Vanelli, pianista, compositore e musicista, e Walter Cerquetti, giornalista, sceneggiatore, regista, ideatore e conduttore.
La legge prevede la concessione dell’assegno in favore di cittadini di chiara fama che abbiano dato prestigio all’Italia per essersi distinti in vari campi e che versino in grave stato di necessità. Tra i beneficiari illustri ci sono l’eroe di guerra Giorgio Perlasca, l’attrice Alida Valli, il pugile Duilio Loi e l’attore Franco Citti ma anche Gavino Ledda, Alda Merini e Guido Ceronetti mentre Valentino Zeichen e Laura Antonelli rifiutarono l’assegno.
Eppure sono in molti tra il suo Friuli (Picco è nato a Udine 72 anni fa) e New York che si stanno battendo perché l’ex diplomatico Onu possa godere dell’aiuto pubblico. Gli ultimi anni sono stati un calvario per Picco. Dai successi del Palazzo di vetro dell’Onu come “regista” della liberazione degli ostaggi occidentali in Libano alla triste routine di un costoso pensionato del Connecticut per malati di Alzheimer, malattia che lo ha colpito quattro anni fa. Per lui si starebbe preparando un futuro in Friuli e forse anche il sostegno della legge Bacchelli. La sua storia professionale è legata quasi per intero alle Nazioni Unite fino a divenire segretario generale aggiunto delle Nazioni Unite con Javier Perez de Cuellar. Ma dal ’92, con il cambio della guardia e l’arrivo del nuovo segretario generale dell’Onu Boutros Ghali, la situazione diventa difficile per Picco che accetta l’offerta di Carlo Sama per diventare il “Ministro degli Esteri” del gruppo Feruzzi Montedison. Incarico che durerà poco a causa delle vicende di Tangentopoli che si abbatterono sul gruppo di Ravenna. Picco proverà quindi a mettersi in proprio nel settore della consulenza con Gdp fino al 2017 quando la malattia lo costringe a lasciare il lavoro.
Finora a prendersi cura di lui è stata con affetto e dedizione Sulome Anderson, figlia di Terry Anderson il bureau chief dell’Associated Press che fu catturato a Beirut dai terroristi e che si pensava fosse stato ucciso. “I miei ultimi 30 anni di amore e sorrisi con mio padre – ha detto recentemente la Anderson – non sarebbero stati possibili se non ci fosse stato Giandomenico Picco”. Un impegno gravoso dal punto di vista economico supportato solo in parte dalla raccolta fondi dal titolo “Helping the man who saved my father”.
Un vero “soldato disarmato della diplomazia”, lo definì Perez de Cuellar sempre in prima linea nei negoziati che hanno portato alla fine dell’invasione sovietica in Afghanistan nel 1988 e della guerra Iran-Iraq, impegnato in importanti missioni di peacekeeping nei Balcani. Ma il successo che lo celebrò come “man of the year” sulle principali emittenti televisive Usa gli venne senza dubbio dal negoziato dal 1989 al 1992, per il rilascio degli ostaggi occidentali in Libano, rapiti dai guerriglieri che confluiranno in Hezbollah. Per mano delle milizie sciite in quegli anni scompaiono 104 persone, tra cui 26 americani, 16 francesi, 12 inglesi. Le milizie rapiscono anche l’italiano Alberto Molinari, vicepresidente della Camera di Commercio a Beirut. “Non è mai stato ritrovato”, e fu quello il grande rammarico di Picco. Tra i liberati il reverendo anglicano inglese Terry Waite, che aveva provato a negoziare un’intesa.
Il capo della stazione Cia William Buckley, rapito nel marzo 1984 fu torturato, giustiziato o morto per un infarto, il colonnello dei Marines Higgins impiccato. Per i negoziati Picco si interfaccia con il numero due della rappresentanza iraniana all’Onu Javad Zarif (attuale capo della diplomazia di Teheran) e avvia una trattativa fruttuosa che consente la liberazione in varie fasi degli ostaggi sopravvissuti. Per ultimi restano due tedeschi per i quali i tempi saranno più lunghi anche perché, a quel punto, il numero uno dell’Onu è Boutros Ghali che guarda con diffidenza al modus operandi di Picco.
In vista del G20, a Venezia una riunione dei Ministri finanziari
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VENEZIA – L’Ocse e il G7 in Cornovaglia hanno aperto la strada alla global minimum tax sui giganti transnazionali. Il Presidente americano Joe Biden, che si era fatto promotore della battaglia contro l’elusione fiscale delle multinazionali, è riuscito alla fine a ottenere anche il disco verde di Cina e India. Ma il testimone è ora nelle mani del Ministro dell’Economia Daniele Franco, Presidente del G20 dei Ministri finanziari. Dalla sala “squadratori” dell’Arsenale di Venezia Franco imprime in queste ore la spinta finale all’accordo politico per tassare equamente i colossi transnazionali, impedire shopping fiscali, ridurre le attuali diseguaglianze e allentare la pressione fiscale sul mondo del lavoro.
Venezia sarà dunque stato di un accordo politico cui seguirà un lavoro tecnico fino a ottobre, in tempo per essere approvato dal G20 dei capi di Stato e di Governo che prevederà di andare a regime entro il 2023, cancellando progressivamente le web tax nazionali. La bozza del comunicato finale di Venezia al riguardo è già abbastanza chiara: “Appoggiamo – dicono i Ministri finanziari – le principali componenti del sistema a due pilastri sulla riallocazione dei profitti delle multinazionali e un’effettiva tassa minima globale come prevista nell’accordo a livello Ocse”. Il documento ricalca quello approvato dalla drafting session dei vice capi delegazione G20, i cui lavori sono terminati lunedì, ed è ora all’esame dei Ministri e dei Governatori. Già aprendo i lavori dell’High-Level Tax Symposium al G20, il Ministro Franco rileva che “quello della tassazione è un tema cruciale per il futuro” e impone una forte “attenzione”, dalla fiscalità per le multinazionali a una aliquota minima globale, senza dimenticare il “cambiamento climatico che è al centro dell’agenda” del G20 che punta su “persone, pianeta e prosperità”.
Verso una “green economy”
Franco ha invitato tutti ad “agire” contro la “grande minaccia” rappresentata dal cambiamento climatico, “modificando le nostre abitudini”. Franco si dice “fiducioso che questa discussione aprirà la strada a un dialogo strutturale”. Sulla tassazione minima globale alle multinazionali il Ministro dell’Economia tedesco, Olaf Scholz, chiarisce: “Sono molto felice che ne abbiamo parlato. Dopo la lotta al Covid – spiega – abbiamo accumulato molto debito per combattere la crisi sanitaria, e contro questa crisi finanziaria è necessario che facciamo questo passo in avanti”.
Quanto all’impegno sul cambiamento climatico Franco richiama le difficoltà della scelta. Dopo anni di appelli e manifestazioni – tra cui quelle dei Fridays For Future – i protagonisti dell’economia globale sembrano aver trovato una posizione comune a Venezia. Il dato certo è che ignorare le conseguenze del cambiamento climatico non è più possibile. La “posta in gioco è molto alta: dobbiamo identificare le aree di convergenza”, osserva Franco. Anche se “la neutralità carbonica è un obiettivo ampiamente condiviso, avremo bisogno di strategie di mitigazione e adattamento, del supporto delle politiche fiscali. Non sarà facile da un punto di vista economico e fiscale. Sarà costoso e difficile, soprattutto per alcuni gruppi, aziende e comunità, ma non abbiamo scelta”.
Gli fa eco il commissario Ue agli Affari economici, Paolo Gentiloni secondo il quale “il momento per una svolta sembra essere giunto”. Per una tassazione a favore della green economy “ora o mai più”, avverte Gentiloni.
E il Ministro dell’Economia francese Bruno Le Maire, dopo aver ricordato che “il clima è la questione principale, ma costa”, ammette che “sul clima non siamo all’altezza del compito, abbiamo bisogno di modelli economici che ci permettano di affrontare il cambiamento climatico”. I Paesi del G20 hanno infatti una responsabilità sociale in quanto rappresentanti “dell’80% delle emissioni di gas serra”, prosegue Le Maire. “Se vogliamo essere credibili – dice – dobbiamo impegnarci per raggiungere l’obiettivo della neutralità carbonica entro il 2050”. Per questo la Francia propone un global floor sul carbon pricing: “Un tetto globale: in questo modo tutti gli Stati membri potrebbero impegnarsi nel carbonio” spiega Le Maire.
E per gli Stati Uniti la segretaria al Tesoro Janet Yellen propone incentivi alla decarbonizzazione. “I Paesi – ricorda – dovranno creare degli incentivi dal punto di vista della decarbonizzazione, sussidi e incentivi pubblici e ovviamente anche politiche per intervenire e dare al settore pubblico e privato una chiarezza di incentivi e risorse per ridurre le emissioni”. Secondo Yellen il G20 “può fornire una piattaforma per consentire di lavorare insieme e evitare ricadute negative dal punto di vista internazionale”. Sempre da Washington anche la direttrice del Fmi, Christalina Georgieva, dice che per accelerare sul clima serve “un segnale potente sul fronte dei prezzi” che porterà a raggiungere i “75 dollari a tonnellata” per il carbonio “entro il 2030”, contro gli attuali 3 dollari.
La sfida del Covid-19
Quanto alla pandemia, la sfida del Covid-19 non è ancora vinta e i Paesi del G20 ne sono pienamente consapevoli. Dal G20 arriva un piano d’azione per rispondere a future eventuali crisi pandemiche. L’High Level Independent Panel (Hlip), panel indipendente di esperti per il finanziamento dei beni comuni globali, per la risposta alle crisi pandemiche, in un report propone una serie di misure per contrastare future crisi. Tra le soluzioni “cruciali e attuabili” un massiccio programma di investimenti da 15 miliardi di dollari annui per un totale di 75 miliardi di dollari nei prossimi 5 anni.
La recessione, dice il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, spinge “l’economia globale verso territori incerti. Credo che Governi e banche centrali possano fare molto per preparare le economie del futuro rendendo la crescita più forte, più inclusiva e sostenibile e spingendola con un mix di strumenti”. Il Ministro Franco, pur ricordando che per l’Italia “la crescita quest’anno sarà almeno del 5%”, ribadisce che “dobbiamo considerare che la nostra sfida principale rimane la crescita strutturale”.
Franco si attende “che questo shock economico” causato dal Covid “sarà in grado di far superare le debolezze strutturali e spingere l’economia in una traiettoria di crescita. Ma il Pnrr non è una panacea per le debolezze di lunga data del Paese. E deve essere accompagnato da una combinazione ambiziosa di riforme”. Per questo le istituzioni non possono farsi trovare impreparate.
Italia-Francia: quasi pronto il Trattato del Quirinale
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La visita di Stato di lunedì prossimo a Parigi del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella chiude definitivamente, dopo oltre due anni, momenti di tensione e gelo diplomatico tra l’Italia e la Francia.
Si giunse fino all’atto estremo del ritiro dell’ambasciatore francese a Roma Masset dopo le prese di posizione dei grillini a favore dei gilet gialli più violenti e le accuse di Matteo Salvini al Presidente francese sul dossier migranti. Ma già a fine febbraio del 2020 il vertice di Napoli tra Giuseppe Conte ed Emmanuel Macron si trasformò in un successo con l’invito ufficiale da parte francese per una visita di Stato a Parigi di Mattarella, atto solenne che metteva una pietra tombale su tutte le incomprensioni dei mesi precedenti.
Nel frattempo il contenzioso bilaterale tra i due Paesi si è praticamente azzerato e si è tornati anzi a lavorare al testo di quel Trattato del Quirinale lanciato al vertice di Lione del 2017 e al quale aveva lavorato il Governo Gentiloni ma messo poi in soffitta dal Conte 1. Ora le delegazioni dei due Paesi stanno lavorando alacremente per finalizzare un testo comune che potrebbe essere firmato in autunno in occasione del prossimo vertice bilaterale che si terrà in Francia. Il Governo italiano ha già inviato le sue osservazioni e la settimana scorsa sono giunte le contro osservazioni francesi.
Il Trattato coprirà tutto lo spettro della cooperazione tra i due Paesi. Si discute oramai solo di dettagli ma appare chiaro che il testo finale, pur rappresentando una novità importante nelle relazioni tra Roma e Parigi, non potrà essere certo collocato al livello di quella collaborazione integrata che la Francia di De Gaulle nel ’63 realizzo con la Germania di Adenauer firmando il Trattato dell’Eliseo. Si tratta comunque di uno strumento che prevede consultazioni periodiche non solo a livello politico ma anche tecnico tra le due burocrazie nei settori più vari, dall’istruzione alla ricerca, dalla cultura all’economia.
Un’intesa favorita dal clima di grande collaborazione che già l’ex premier Conte era riuscito a instaurare un anno fa con Macron per la trattativa in Europa del Next Generation EU e ora rafforzata dall’amicizia molto stretta del Presidente francese con Mario Draghi e che lascia immaginare un condominio franco-italiano nella guida dell’Unione europea in questa fase che vede il terzo protagonista del vagone di testa, ossia la Germania, ancora alla ricerca di un erede della Cancelliera Merkel ormai prossima a lasciare il suo incarico.
Molto nutrito il programma di Mattarella, che vedrà tra lunedì e martedì tutte le più alte cariche istituzionali oltre a Macron, il Primo Ministro e i Presidenti dell’Assemblea nazionale e del Senato. Lunedì mattina il colloquio all’Eliseo con Macron cui seguirà il punto stampa. Dopo la colazione offerta dal Presidente dell’Assemblea nazionale Richard Ferrand, Mattarella parlerà alla Sorbona (un intervento dedicato ai rapporti bilaterali ma soprattutto alle sfide della pandemia e dell’integrazione europea). In serata i brindisi ufficiali all’Eliseo. Il giorno successivo Mattarella visiterà la sede dell’Unesco dove dal 2018 il vicedirettore delegato al settore Education è l’italiana Stefania Giannini, ex Ministro dell’Università e della Ricerca. La colazione del martedì, prima del rientro a Roma, sarà offerta dal Primo Ministro Jean Castex.
A favorire il nuovo clima di collaborazione tra i due Paesi anche il lavoro fatto in questi mesi dall’eurodeputato di Renew Europe Sandro Gozi, eletto in Francia, che con il Governo Gentiloni lavorò alla prima stesura del Trattato. Gozi tiene a ricordare che anche nei momenti più critici “il filo del dialogo e la volontà di lavorare insieme, tra Mattarella e Macron, non sono mai venuti meno”. C’è chi critica un legame così stretto con la Francia ma, dice Gozi, “si tratta di una posizione miope perché non tiene conto della strettissima integrazione economica tra Francia e Italia. Non solo della Francia in Italia, ma anche dell’Italia in Francia, tra export, presenza delle rispettive imprese e posti di lavoro che gli italiani danno in Francia e i francesi danno in Italia”.
Inoltre, ricorda Gozi, avere un meccanismo di cooperazione strutturato “può aiutare a superare o diminuire” le divergenze e “non impedisce affatto all’Italia di avere un rapporto nuovo e anche più forte con la Germania”. Del resto, “tedeschi e francesi hanno un trattato dal 1963 e addirittura fanno dei Consigli dei Ministri congiunti. E questo non ha impedito né agli uni né agli altri di lavorare anche con l’Italia”. “Non capisco – continua l’eurodeputato – perché oggi, che l’Italia può stabilire un rapporto strategico, stretto, con un grande alleato come la Francia, si invochi il rapporto con la Germania come alternativa. Non è un’alternativa: è un rapporto complementare. Il treppiede è decisivo, soprattutto in questa fase di grande trasformazione europea”.
Migranti: Draghi porta a casa l’accordo Ue
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Dieci minuti. Il tempo necessario ai capi di Stato e di Governo europei, giovedì sera, per approvare le conclusioni del Consiglio sul tema migranti. Un copione già scritto quasi per intero dal premier italiano Mario Draghi e dalla Cancelliera tedesca Angela Merkel il 21 giugno nel loro ultimo bilaterale. I due hanno messo sul tavolo i rispettivi problemi: la Merkel non vuole offrire altre armi alla destra nazionalista alla vigilia delle elezioni e chiede ai partner europei la conferma dei contributi (altri 3 miliardi) alla Turchia di Erdogan perché offra asilo ai migranti che arrivano da Lesbo. Draghi, da parte sua, vuole evitare di trasformare il dossier migranti in un’arma in mano a Fratelli d’Italia e della Lega contro il Governo e punta alla stabilizzazione della Libia per trattare con un Governo forte che possa ricevere aiuti e frenare le partenze.
L’Italia ha evitato questa volta di ripetere gli errori di tre anni fa puntando i piedi per una relocation ancora una volta solo volontaria per i migranti salvati in mare cercando di ottenere un impegno di tutta l’Europa a sostanziosi aiuti finanziari (complessivamente circa 10 miliardi di euro) ai Paesi di origine (Mali e Sahel) o transito (come Libia) dei flussi migratori. “Il mio obiettivo – spiega Draghi a Bruxelles al termine del Consiglio europeo – non era ottenere un accordo sui ricollocamenti. Tutto quello che avevo visto nelle settimane passate mi diceva che non era possibile avere un accordo per noi conveniente, ma che fosse a due o a tre; semmai, un coinvolgimento significativo, massiccio, dell’Ue nel Nord Africa, nel Centro Africa e nelle zone che manifestano instabilità, non solo quindi nei confronti della Turchia, ma anche nei confronti di questi Paesi, primo tra tutti la Libia”.
Draghi precisa che “tutto quello che abbiamo chiesto è stato accolto, a cominciare dalla dimensione esterna dell’Ue nelle politiche di migrazione”. Il tema resterà comunque nell’agenda del Consiglio europeo, aggiunge il premier italiano, “perché ci sarà piano di azione della Commissione ed eventi di rilievo che necessitano discussione in Consiglio Ue. Il problema dell’immigrazione ha bisogno dell’Europa e l’Europa ha bisogno di affrontarlo in armonia senza escludere accordi tra gruppi di Paesi”.
Draghi enfatizza l’accordo raggiunto laddove si dice che “al fine di prevenire la perdita di vite umane e ridurre la pressione sui confini europei, saranno intensificati i partenariati e la cooperazione reciprocamente vantaggiosi con i Paesi di origine e di transito, come parte integrante dell’azione esterna dell’Unione europea. L’approccio sarà pragmatico, flessibile e su misura, farà un uso coordinato, come team europeo, di tutti gli strumenti e incentivi disponibili dell’Ue e degli Stati membri e si svolgerà in stretta collaborazione con l’Unhcr e l’Oim”.
Partenariati, dunque, con i Paesi di origine e transito nell’interesse di entrambe le parti, come è avvenuto con la Turchia, che proprio dal Consiglio ha avuto altri 3 miliardi di euro fino al 2024 per l’assistenza dei rifugiati siriani e per il controllo delle frontiere orientali. “Il Consiglio – si legge nelle conclusioni – dovrebbe affrontare tutte le rotte e basarsi su un approccio globale, affrontando le cause profonde, sostenendo i rifugiati e gli sfollati nella regione, sviluppando capacità di gestione della migrazione, sradicando il contrabbando e la tratta, rafforzando il controllo delle frontiere, cooperando in materia di ricerca e soccorso, affrontando la migrazione legale nel rispetto delle competenze nazionali e garantendo il rimpatrio e la riammissione”. Infine, vi è l’indicazione specifica della criticità di alcune rotte che “destano serie preoccupazioni e richiedono una vigilanza continua e un’azione urgente”.
Ora bisogna passare ai fatti, avverte Draghi, rispettando le scadenze e gli impegni stabiliti dai leader europei. La Commissione Ue e l’Alto rappresentante, in stretta cooperazione con gli Stati membri, dovranno presentare piani d’azione per i Paesi prioritari di origine e transito nell’autunno 2021, indicando obiettivi chiari, ulteriori misure di sostegno e tempistiche concrete. Verrà poi utilizzato al meglio almeno il 10% della dotazione finanziaria del NDICI, lo strumento di vicinato, sviluppo e cooperazione internazionale, assieme ad altri strumenti di finanziamento pertinenti.
Secondo alcune forze politiche, sia nella maggioranza che nell’opposizione, si poteva ottenere di più, ma l’idea del premier era muoversi con diplomazia e gradualità portando a casa un primo risultato. E questo obiettivo può dirsi raggiunto.
La ricetta Draghi per la ripresa economica post Covid
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Al G7 di Corbis Bay era stato il premier inglese Boris Johnson a offrire l’apertura della sessione economica a Mario Draghi. A Barcellona, ieri, per la cerimonia del premio al Cercle d’Economia e al foro di dialogo italo-spagnolo le parole del Presidente del Consiglio italiano vengono ascoltate in religioso silenzio. Lo precisa lo stesso premier spagnolo Pedro Sánchez: “Devo dire – chiarisce Sanchez – che quando parla al Consiglio europeo il Presidente Draghi tutti rimaniamo zitti e ascoltiamo. Questo non succede sempre. Con Mario Draghi succede”. E Draghi non si tira indietro: elenca i risultati ottenuti nella lotta alla pandemia, illustra i dati macroeconomici positivi, spiega perché è necessario mantenere ancora “una politica monetaria e fiscale espansiva”. Ricorda, soprattutto, che se “durante la pandemia abbiamo protetto il lato dell’offerta delle nostre economie, ora dobbiamo fare in modo che la domanda aumenti”. Ma il futuro, avverte Draghi, ci riserva altri sforzi anche perché l’inflazione è iniziata ad aumentare e nell’area Ocse ha raggiunto il 3,3% in aprile, il tasso più alto dal 2008.
Draghi parte dai dati della pandemia che “ha colpito le nostre vite e le nostre società in maniera devastante con 3,8 milioni di persone, un quinto delle quali in Europa, che hanno perso la vita”.
Italia e Spagna sono tra i Paesi più colpiti, con un totale complessivo di oltre 200.000 decessi. L’incertezza creata dalla pandemia, mette in chiaro Draghi, “ha inciso pesantemente sull’economia”. Il Pil della Ue è calato del 6,1% e la riduzione più forte è stata registrata in Italia e in Spagna, dove il Pil è calato rispettivamente dell’8,9% e del 10,8%. Ma “lo sviluppo di alcuni vaccini efficaci ha tracciato un percorso ben definito per uscire da questa crisi” e nell’ultima settimana nell’Ue sono stati registrati 140.000 nuovi casi rispetto a più di 1 milione solo due mesi fa. Sforzi vaccinali che hanno ridato fiato alle nostre economie tanto che, secondo le previsioni della Commissione europea, quest’anno il prodotto interno lordo Ue crescerà del 4,2%. In Italia e in Spagna, si prevede un aumento rispettivamente del 4,2% e del 5,9%.
Merito, questo, delle risposte di Governi e banche centrali che hanno implementato misure di politica fiscale e monetaria a sostegno dell’economia evitando una pericolosa recessione. Ma il protrarsi della situazione di incertezza, osserva sempre Draghi, significa che “le ragioni per mantenere una politica monetaria e fiscale espansiva restano convincenti”. L’obiettivo è quello di riportare l’attività economica almeno in linea con la situazione precedente alla pandemia. Con livelli di attività più alti di prima, potremo compensare, dice Draghi, l’aumento del debito registratosi durante la crisi sanitaria. Infine, dobbiamo fare in modo che la ripresa sia equa e sostenibile. “Nel recente passato – precisa Draghi – ci siamo dimenticati dell’importanza della coesione sociale. In seguito alla crisi del debito sovrano europeo, il numero di persone nell’Ue a rischio di povertà o di esclusione sociale è aumentato di 3,5 milioni – e quel numero non è ancora tornato ai livelli pre-crisi.
Ma per fare tutto ciò occorrono ulteriori sforzi. “Durante la pandemia – avverte il premier italiano – abbiamo protetto il lato dell’offerta delle nostre economie e ora dobbiamo fare in modo che la domanda aumenti per raggiungere tali livelli di offerta”. È fondamentale infatti, secondo Draghi, “mantenere favorevoli le condizioni della domanda per poter garantire un sostegno ai lavoratori, che stanno affrontando un rischio crescente di dislocazione”. Nonostante la situazione pandemica sembri sempre più sotto controllo, siamo ancora lontani dalla fine e gli sforzi vaccinali fino ad adesso si sono concentrati nel mondo ricco.
Dobbiamo continuare a investire nella ricerca, oltre ad accelerare l’impegno a garantire un accesso diffuso ai vaccini. Sostenere i nostri scienziati ci porrà anche in una situazione decisamente migliore nel caso in cui dovessimo affrontare un’altra pandemia. Inoltre, mette in guardia Draghi, “dopo un lungo periodo in cui l’inflazione mondiale è rimasta troppo bassa, di recente è iniziata ad aumentare. Il tasso di inflazione nell’area Ocse ha raggiunto il 3,3% in aprile, il tasso più alto dal 2008”.
G7 in Cornovaglia: Draghi insiste sulla coesione sociale
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CORBIS BAY – Non si vergogna neppure un po’ il premier inglese e Presidente di turno del G7 Boris Johnson nel paragonare alla Costiera amalfitana la frastagliata e piovosa costa della Cornovaglia che ospita il primo summit in presenza dei sette Paesi più industrializzati dopo la pandemia.
Il Presidente del Consiglio italiano Mario Draghi, al suo primo vertice G7, abbozza un mezzo sorriso di cortesia. In mezz’ora di faccia a faccia Draghi e Johnson affrontano i temi di comune interesse G7 e G20 dai vaccini al clima al digitale. E anche se il protocollo relega Draghi nella foto di famiglia in seconda fila, poi Johnson gli assegna il ruolo che tutti gli riconoscono di grande leadership sui temi dell’economia globale.
Un palcoscenico che Draghi si prende tutto nella prima sessione del G7 dedicata alla ripresa economica. “Mario, con una frase hai salvato l’euro, ora dacci la tua prospettiva”, dice il premier inglese. E Draghi, insieme al Presidente americano Joe Biden e alla Cancelliera tedesca Angela Merkel apre la sessione del G7 sull’economia a Corbis Bay. Draghi non intende impartire lezioni a nessuno. Dice solo che le politiche attuate da tutti i Paesi durante la crisi sanitaria erano corrette.
“Ci siamo concentrati su misure di sostegno rivolte alle imprese e alle persone; – dice il premier italiano agli altri leader – ora questo è un buon periodo per l’economia mondiale e ci stiamo orientando sempre di più sulla spesa per gli investimenti e meno su forme di sussidio”. La crescita economica è oggi, per Draghi, il modo migliore per assicurare la sostenibilità dei conti pubblici.
Anche se resta necessario, aggiunge il premier italiano, “mantenere un quadro di politica di bilancio prudente nel lungo periodo, per rassicurare gli investitori e evitare politiche restrittive da parte delle banche centrali”. Ma rispetto alle crisi passate, precisa il Presidente del Consiglio, questa fase di ripresa va gestita in maniera diversa “senza dimenticare la coesione sociale”. Per Draghi c’è il “dovere morale” di agire diversamente con politiche attive del lavoro per aiutare i più deboli, soprattutto donne e giovani.
Una linea di politica economica, quella illustrata da Draghi, che raccoglie subito il consenso degli altri leader. Dalla Merkel, che parla del “completo cambiamento culturale” avvenuto in Germania e della necessità di investire in digitalizzazione e sugli investimenti, a Johnson, secondo il quale occorre “far partire presto i progetti.
Il G7 all’insegna della ripartenza e della cooperazione
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Coraggio, flemma e resilienza. Il popolo inglese sa soffrire in silenzio e in silenzio (e con grande forza d’animo) risollevarsi. Come le bombe tedesche nella Seconda guerra mondiale non riuscirono a scalfire minimamente la determinazione degli inglesi, la Brexit prima e una pandemia devastante poi non hanno piegato in alcun modo la volontà della Regina Elisabetta (da poco vedova del Principe Filippo) e del Governo guidato da Boris Jonhson di sottrarsi a quella nefasta narrazione che voleva ormai il Regno Unito sempre più lontano dall’integrazione europea, solo prigioniero delle anacronistiche logiche di una remota monarchia del nord.
E invece, come tante altre volte nel passato, gli inglesi hanno saputo stupirci. Boris Johnson sta preparando per venerdì prossimo in Cornovaglia un summit del G7 tutto nel segno della ripartenza e della cooperazione internazionale. Accoglierà il nuovo Presidente americano Joe Biden al suo primo viaggio europeo offrendosi agli altri 3 membri europei del G7 (Italia, Francia e Germania) come il vero traghettatore dall’era conflittuale di Trump al nuovo multilateralismo di Biden, dal gelo delle relazioni transatlantiche alla ripresa del dialogo tra Washington e Bruxelles. Un compito che richiede l’aiuto degli altri formati a cominciare dal G20 a presidenza italiana. Due giorni fa una lunga telefonata tra Mario Draghi e Boris Johnson ha suggellato l’alleanza tra G7 e G20 che produrrà degli effetti concreti anche per la copresidenza italo-inglese della Cop26 sul clima a novembre.
Johnson disegna il mondo come vorremmo che uscisse dalla pandemia: regole sanitarie il più possibili globali e condivise, tassazione globale sui giganti del web, uscita definitiva dal carbone guardando alle nuove fonti e all’idrogeno. In questo fine settimana il G7 dei Ministri finanziari presieduto dal Cancelliere allo Scacchiere Sunak Rishi ha messo le basi per la tassazione dei giganti del web mentre i Ministri della Sanità (per l’Italia Roberto Speranza) cercavano di condividere le linee guida del nuovo passaporto vaccinale. Impegni sintetizzati così dal commissario Ue per gli Affari economici e finanziari Paolo Gentiloni: “Abbiamo diversi temi da affrontare: primo, come coordinare la nostra ripresa, secondo come possiamo contribuire alla vaccinazione globale, che sta andando molto bene nei Paesi avanzati ma non in quelli a basso reddito e poi la discussione sulla tassazione globale. Ci aspettiamo di avere una buona discussione in questi giorni e di fare passi avanti”. Sulla tassazione, Gentiloni ha spiegato che si sta lavorando a livello di Ocse per avere riallocazione dei diritti fiscali per le multinazionali giganti, comprese le aziende digitali. “L’idea è molto forte; – aggiunge l’ex premier italiano – in questa pandemia abbiamo dei chiari vincitori e quando discutiamo del futuro dopo la pandemia è giusto parlare di questa proposta sulla tassazione dei giganti”.
Almeno quattro Paesi europei, ossia Francia, Germania, Italia e Spagna, si presentano compatti sul tema. Da più di 4 anni questi Paesi lavorano insieme per creare un sistema di tassazione internazionale “più equo ed efficiente”: ma dopo anni di alti e bassi, ora dicono “è il momento di arrivare a un accordo perché se era già una priorità prima dell’attuale crisi economica, sarà ancor più necessario quando ne verremo fuori”. La crisi è stata infatti una manna per le società tech, che hanno incassato profitti record: “Ma il fatto che il loro business sia online – osservano – non significa che non debbano pagare le tasse nei Paesi in cui operano e dai quali derivano i loro profitti”. Quindi i quattro Paesi Ue “si impegnano a definire una posizione comune su un nuovo sistema di tassazione internazionale al G7 finanziario di oggi a Londra”. “Siamo fiduciosi che questo creerà lo slancio necessario per raggiungere un accordo globale al G20 di Venezia a luglio”, spiegano al Guardian i Ministri dell’Economia dei quattro Paesi, il francese Bruno Le Maire, il tedesco Olaf Scholz, l’italiano Daniele Franco e la spagnola Nadia Calviño.
Per il Cancelliere dello Scacchiere Rishi Sunak, Presidente del G7 finanziario, “quest’anno è stata una priorità fondamentale garantire un accordo globale sulla tassazione digitale: vogliamo che le aziende paghino la giusta quantità di tasse nel posto giusto e spero che possiamo raggiungere un accordo equo con i nostri partner”. A favorire un accordo anche il fatto che “con la nuova amministrazione Biden, non c’è più la minaccia di un veto su questo nuovo sistema”: la nuova proposta Usa per una tassazione minima, infatti, “è un passo importante nella direzione della proposta presentata inizialmente dai nostri Paesi e adottata dall’Ocse”. Anche il Ministro delle Finanze tedesco Olaf Scholz si è detto fiducioso sul fatto che si possa raggiungere un accordo sulla tassazione globale all’interno del G7.
Allo steso tempo, i Ministri della Salute dei Paesi del G7 hanno stabilito di lavorare “sul mutuo riconoscimento dei test e dei certificati di vaccinazione nei diversi Paesi”. L’obiettivo è lo sviluppo di standard internazionali e pratiche raccomandate “per la creazione, l’uso e il mutuo riconoscimento dei certificati di test e vaccinazioni che si basino su vaccini sicuri, efficaci e rigorosamente esaminati”. Così hanno deciso i Ministri al termine di un vertice di 2 giorni a Oxford. I Ministri della Salute di Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone, Regno Unito e Stati Uniti hanno anche convenuto su una carta comune per stabilire uno standard su dati e test, in modo da accelerare l’accesso a trattamenti e vaccini. Previsto anche uno standard minimo comune sui dati della salute per facilitare lo scambio internazionale d’informazioni.
Una società, quella che vorrebbe la presidenza inglese del G7, con meno squilibri, con l’accesso garantito ai vaccini per tutti e soprattutto ecosostenibile. Il 20 e 21 maggio si sono già riuniti i Ministri responsabili dell’Ambiente per siglare un documento congiunto che prevede l’impegno alla decarbonizzazione di tutti i settori energetici entro il 2030, oltre che a interrompere ogni investimento diretto nel carbone già dalla fine del 2021. Si conferma quindi l’intenzione di perseguire gli obiettivi energetici previsti dall’Accordo di Parigi, mirando a contenere il riscaldamento globale a 1,5 gradi. Nonostante il documento contenga una clausola che autorizzerebbe i Governi a finanziare il carbone in “circostanze limitate a discrezione di ogni Paese”, si tratta comunque di un importante passaggio del percorso verso la piena decarbonizzazione. L’addio al carbone apre la porta a fonti di energia alternative e rinnovabili: tra queste, sicuramente, anche l’idrogeno. Ora, da venerdì 11 giugno, la parola passerà ai capi di Stato e di Governo dei Sette Grandi.
Draghi e Merkel: la crisi Covid richiede risposte multilaterali
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Anche se giunta a fine mandato la Cancelliera tedesca resta pur sempre al timone del più importante Paese europeo, quello dal quale non si può prescindere qualunque piega in futuro prenda l’Unione europea. E Mario Draghi intende coltivare il suo rapporto con la Merkel fino all’ultimo giorno utile (forse anche dopo). Ma intanto, in attesa di volare a Berlino per incontrarla di persona, si accontenta di scambiare idee e analisi con la Cancelliera sulla lezione che la pandemia sta lasciando all’Europa e al mondo. I due leader ne hanno discusso ieri durante la seconda giornata del Global Solution Summit. Si sono trovati d’accordo nel considerare il sovranismo la risposta meno efficace per le crisi globali.
Il multilateralismo, anche grazie alla nuova amministrazione americana, sta riprendendo vigore e si offre oggi come unica via di uscita per governare i processi globali. In Europa la legacy lasciata dalla pandemia disegna un futuro in cui la sovranità condivisa realizzata nell’Ue sui vaccini potrebbe venire applicata in futuro anche ad altri settori, dalla difesa alle relazioni internazionali.
Mario Draghi ha ribadito alla Merkel le priorità del suo Governo in politica estera e nel lavoro di presidenza del G20. Un impegno che la Cancelliera mostra di apprezzare: “Con il vertice di venerdì scorso a Roma, Mario ha mostrato che il G20 è pronto a lavorare insieme sui temi globali. Voglio dare tutto il mio sostegno all’Italia per un vertice di successo e per la tua leadership“.
L’importanza del multilateralismo
Ma è sull’esigenza del multilateralismo che il premier insiste nel suo dialogo con la Cancelliera. “La crisi sanitaria ci ha insegnato che è impossibile affrontare i problemi globali con soluzioni interne; – ha spiegato Draghi – lo stesso vale per le altre sfide determinanti dei nostri tempi: il cambiamento climatico e le disuguaglianze globali. Come quest’anno alla presidenza del G20, l’Italia è determinata a guidare il cambiamento di paradigma. Il mondo ha bisogno del mondo intero, non di un insieme di singoli Stati”. Un nuovo inizio anche per l’Unione europea dove “serve una maggiore condivisione della sovranità in molti altri campi. La pandemia ha mostrato alcuni limiti della globalizzazione. Ci sono tanti problemi tra gli Stati ma tutto ciò non prova la debolezza del multilateralismo, al contrario, dimostra che ne abbiamo sempre più bisogno. Siamo convinti che il multilateralismo darà le risposte giuste. Sono d’accordo con Merkel: la Ue è il nuovo spazio della sovranità sui vaccini e spero su tanti altri campi, dalla difesa ai rapporti internazionali”.
Vaccini e cambiamento climatico
La Merkel ha anche insistito sul fatto che l’Ue sia diventato uno spazio “in cui si producono vaccini non per vaccinare solo gli europei ma per esportare vaccini agli altri”. L’esportazione dei vaccini ai Paesi meno sviluppati è un tema fondamentale per l’Italia. Mario Draghi lo ha spiegato così: “La nostra prima priorità è, naturalmente, sconfiggere la pandemia. Questo significa farlo ovunque e non soltanto nei Paesi sviluppati. Garantire che i Paesi più poveri abbiano accesso a vaccini efficaci è un imperativo morale. Ma c’è anche una ragione pratica e, se vogliamo, egoistica. Finché la pandemia infuria, il virus può subire mutazioni pericolose che possono minare anche la campagna di vaccinazione di maggior successo”.
Ma la battaglia contro il virus, secondo Draghi “non può distogliere la nostra attenzione dalla lotta al cambiamento climatico. I ghiacci polari si stanno sciogliendo e il livello del mare è in aumento. Il numero di disastri legati al clima, segnalati naturali, è più che triplicato a partire dagli anni ‘60. Nei Paesi a basso e medio reddito, le calamità naturali arrivano a costare 390 miliardi di dollari all’anno, una cifra sconvolgente. L’Organizzazione mondiale della sanità stima che il cambiamento climatico causerà 250.000 morti all’anno tra il 2030 e il 2050″.
L’Italia, ha aggiunto Draghi è co-Presidente della COP26 in partnership con il Regno Unito e ha due obiettivi chiari: “impegnarsi a raggiungere obiettivi di riduzione delle emissioni sufficientemente ambiziosi al punto da limitare il surriscaldamento globale non oltre 1,5 gradi e da raggiungere le emissioni nette pari a zero entro il 2050. Il secondo è mitigare i potenziali danni associati ai cambiamenti climatici. Dobbiamo rafforzare le nostre misure di contenimento, ad esempio accelerando l’eliminazione graduale del carbone. E dobbiamo garantire che vi sia un maggiore afflusso di capitali pubblici e privati verso iniziative legate al clima”.
Cina e uguaglianza di genere
Una sfida che richiede l’impegno di tutti. Gli Usa hanno aderito a Parigi ma anche la Cina è una realtà importante. “La Cina – osserva Draghi – rappresenta il 17% del Pil globale ma anche il 30% delle emissioni di gas. Serve preservare uno spazio di dialogo e cooperazione basato sulla condivisione di regole globali comuni, senza fare passi indietro sui nostri valori democratici”. E La Merkel aggiunge che “se da un lato il rapporto con la Cina desta preoccupazioni, dall’altro dobbiamo continuare la collaborazione sul clima e su altre sfide globali che senza la Cina non possiamo affrontare. Dobbiamo cooperare con la Cina anche se abbiamo sistemi diversi”.
Multilateralismo e Unione europea restano infine per Draghi i più solidi ancoraggi del nostro Paese. “Nel corso della sua storia – ha tenuto a precisare il premier – l’Italia ha prosperato grazie al commercio e alla cooperazione internazionale. L’apertura è stata la nostra migliore ricetta per il successo. La nostra presidenza del G20 rifletterà questo impegno di lunga data. Insieme alla Germania e agli altri partner del G20, siamo fiduciosi di poter costruire un mondo più forte”.
Quanto all’uguaglianza di genere (altro tema al centro dei dossier globali e una delle priorità trasversali del Recovery), Draghi annuncia che “incoraggeremo le imprese che vogliono investire” nel Recovery ad assumere “più donne e giovani: non è una condizionalità ma è molto vicino a esserlo”. E cita la recente nomina dell’ambasciatore Elisabetta Belloni alla guida del Dis: “Il mio Governo ha nominato la prima donna a capo dei servizi segreti. Ci piace agire dando esempi concreti”.
Global Health Summit: basta egoismi
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Il mondo delle Ong che macina dichiarazioni roboanti praticamente ogni giorno sui temi dello sviluppo (e spesso riesce anche a decifrarne i messaggi non scritti) boccia quasi senza appello la Dichiarazione di Roma del Global Health Summit che si è chiuso ieri a Villa Pamphili, co-presieduto dalla Presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, e dal premier italiano, Mario Draghi. In collegamento da remoto molti leader del G20, rappresentanti degli organismi internazionali (Fondo monetario, Banca mondiale, Wto) oltre a Bill Gates, Mario Monti, Stella Kyriakides (Ue), Paolo Gentiloni e Tedros Ghebreyesus (Oms).
Ma secondo Sara Albiani di Oxfam Italia e Rossella Miccio, Presidente di Emergency, a Roma “sono state approvate solo dichiarazioni di principio con qualche timido passo avanti, ma nessuna vera lezione appresa dagli errori commessi finora, che stanno costando tantissime vite e hanno portato a una drammatica disuguaglianza nell’accesso ai vaccini”.
Drastico Bill Gates, impegnato con la sua fondazione nella lotta alle pandemie: “Dobbiamo garantire un accesso più equo al vaccino; – afferma Gates – oltre l’80% del primo miliardo di vaccini è andato a persone dei Paesi ricchi, se non chiudiamo questo gap immenso, altre persone moriranno senza ragione”. Secondo Gates “se gli Stati Uniti e l’Europa sembrano aver girato l’angolo della fase più brutta della pandemia di Covid, altri Paesi stanno vivendo il picco più alto. Ci sono due azioni immediate che i Paesi più ricchi possono fare per l’equità vaccinale: condividere dollari e dosi”.
Tutti sembrano d’accordo sul fatto che i Paesi ricchi non dovranno più manifestare il loro egoismo verso le aree svantaggiate come è successo un anno fa con il Covid. La dichiarazione di Roma impegna G7, G20 e organismi internazionali a garantire un accesso equo ai vaccini eliminando barriere alle esportazioni, liberalizzando i brevetti e garantendo le produzioni di vaccini.
Ancora una volta, è l’Unione europea a fare da apripista. La Presidente von der Leyen annuncia che ai primi di giugno l’Ue presenterà al Wto una proposta già discussa all’ultimo Consiglio Ue Commercio per una ‘terza via’ sui brevetti che “prevede tre elementi: agevolazioni alle esportazioni, sostegno a una maggiore produzione e utilizzo dei brevetti sulla base della dichiarazione di Doha per la proprietà intellettuale che prevede una cessione obbligatoria di licenze in situazioni eccezionali, e la pandemia è una situazione eccezionale”.
Draghi non getta troppo la scure sugli Stati Uniti, che stanno liberalizzando ora le esportazioni di vaccini, ma ricorda che “se c’è un’area del mondo che si è comportata meglio della media è stata proprio l’Ue. Abbiamo fatto – aggiunge – quello che era disponibile e necessario. Abbiamo esportato la stessa quantità di vaccini che erano disponibili per i nostri cittadini mentre altri bloccavano le esportazioni. Qualcuno mi ha detto, non a Roma ma a Bruxelles, ‘stiamo morendo di esportazioni’, non una vita fa ma un mese e mezzo fa. È giunto il momento di evitare errori perché possiamo imparare da quelli che abbiamo fatto”.
La “sincerità e la forza” degli impegni presi secondo il Presidente del Consiglio nasce proprio dal “desiderio di rimediare a ingiustizie e iniquità avvenute nel periodo più difficile, quando il ragionamento è stato chiudersi su se stessi. Ci sono state promesse da parte nostra, da altri Paesi Ue, donazioni, un piccolo Paese come l’Italia ha promesso 300 milioni a Covax e ha offerto 15 milioni di vaccini. Ora non ho alcun dubbio che gli impegni presi verranno mantenuti ma è molto importante prepararci per la prossima pandemia che ci sorprenderà”.
Quello che preoccupa Draghi è anche la possibile “catastrofe all’orizzonte per i Paesi poveri che potrebbero essere schiacciati dal debito sovrano che si è aggravato con il Covid”. È stato messo a punto con Fondo monetario e Banca mondiale un pacchetto di aiuti per alleggerire il peso del debito ma il problema dovrà essere affrontato anche all’interno del G7 e del G20. Toccherà dunque ora alla presidenza italiana del G20, a ottobre, mostrare nel concreto quali seguiti dare alla Dichiarazione di Roma.
Elisabetta Belloni a capo dei servizi segreti
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Quando nel maggio ’91, per la prima volta, Giulio Andreotti nominò un diplomatico di lungo corso come Francesco Paolo Fulci alla segretaria del Cesis (ora Dis) molti si domandarono cosa mai c’entrasse un ambasciatore in mezzo alle “barbe finte”. Un “innesto” che non fu certo indolore e che oggi Fulci ricorda come un incubo (“mi venne pure il fuoco di Sant’Antonio dallo stress” confessa).
Molto meno traumatico il passaggio di un altro ambasciatore ai “servizi” come Giampiero Massolo nel 2012. Massolo aveva frequentato per anni i palazzi romani e ne conosceva pregi e difetti; sapeva, soprattutto, stare prudentemente alla larga dalle mille insidie che inevitabilmente contengono.
Ora l’ambasciatore Elisabetta Belloni andrà da lunedì 17 in Piazza Dante a sostituire il generale Gennaro Vecchione in un contesto diverso non solo dal ’91 ma anche dal 2012 e con molte meno criticità di una volta. L’interazione di diplomatici con la catena di comando del “comparto” intelligence è diventato già da tempo un modus operandi, come ben si è visto durante l’era Conte a Palazzo Chigi con il consigliere diplomatico ambasciatore Piero Benassi a colloquio spesso con il consigliere per la sicurezza nazionale di Trump, Robert O’Brien, si trattasse di 5G e Cina oppure di Russiagate. Forse ora la nuova direttrice del Dis, Elisabetta Belloni, potrà interagire direttamente con il giovane consigliere per la sicurezza nazionale di Joe Biden, Jake Sullivan, senza dover ricorrere all’intermediazione del consigliere diplomatico di Draghi, ambasciatore Luigi Mattiolo. Senza contare che tra i suoi counterpartners la Belloni potrebbe avere anche un’altra donna, Avril Haines, che dal 21 gennaio scorso negli Stati Uniti guida la Intelligence Community, ente federativa che controlla 17 agenzie e organizzazioni di spionaggio, una sorta di “mega Dis”.
I rapporti con gli uomini della sicurezza la Belloni li curava da tempo, da quando all’unità di crisi erano suoi interlocutori quotidiani così come quelli della Protezione civile e delle Organizzazioni non governative. La sua educazione professionale e la sua cultura di dirigente statale hanno subito l’influenza diretta oltre che della scuola della Farnesina del rapporto col marito Giorgio Giacomelli, un grande diplomatico amante dell’Africa con posti di responsabilità nelle agenzie delle Nazioni Unite e con all’attivo azioni anche coraggiose, come quando su una zattera riuscì a portare in salvo alcuni missionari italiani in pericolo di vita nelle zone remote del Congo. Competenza e umanità che facevano (e non da oggi) della Belloni il candidato ideale per dare ai “servizi” quel volto di affidabilità e stabilità che è spesso mancato in passato.
È vero che la Belloni si è dovuta fare strada in un mondo di uomini in 36 anni di carriera, prima donna all’Unità di crisi, così come alla Cooperazione allo Sviluppo, ancora a capo del gabinetto di Gentiloni e infine alla segreteria generale della Farnesina. Il suo credo lo ha esplicitato bene parlando alla conferenza degli ambasciatori. “Essere servitori dello Stato – ha detto la Belloni – significa solo una cosa: farlo con lealtà, con indipendenza, al di là di ogni logica di appartenenza, avendo come stella polare la difesa dei valori delle istituzioni, in primo luogo la Costituzione”.
Un incondizionato spirito di servizio che, secondo la Belloni “ha bisogno del Governo per navigare, abbiamo bisogno di conoscere la rotta e meglio la conosciamo meglio possiamo lavorare”. Forse questa sarà la sfida più grande della sua carriera ma lei la prende con tranquillità. Senza rinunciare ai suoi weekend in campagna, alle sue camminate veloci sul Lungotevere di prima mattina. E soprattutto senza rinunciare ad abbracciare i suoi cani.
Esigente con sé stessa, prima che con gli altri: a capo dei servizi segreti sarà per la Belloni l’ennesima prima volta, ancora una volta in un mondo di uomini, che è abituata a coordinare. Sarà forse più ferrata nell’attività di intelligence che riguarda l’estero piuttosto che la minaccia interna, ma non è un marziano catapultato a piazza Dante, è piuttosto il coronamento di una carriera che l’ha vista diverse volte candidata, con un profilo tecnico, anche per cariche politiche: da Ministra degli Esteri a Presidente del Consiglio. Nei suoi cinque anni a capo della struttura della Farnesina, Belloni ha maturato relazioni con tutti i suoi omologhi dei Paesi alleati, ma non solo: puoi chiamarla al cellulare e ascoltare una segreteria agganciata alla rete telefonica di un Paese arabo o africano. Una coincidenza. Anche i rapporti fra Belloni e Washington sono ottimi e costanti.
Brevetti vaccini: se Draghi sceglie Biden
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Succede anche questo. Che nel suo primo vertice in presenza Mario Draghi compia uno “strappo” rispetto al vagone di testa franco-tedesco della Merkel e di Macron per schierarsi a favore (sia pure con alcune condizioni) della proposta del Presidente americano Joe Biden di sospendere temporaneamente l’accordo sulla proprietà intellettuale dei brevetti per i vaccini in ambito Wto.
L’ultima sortita a sorpresa del Presidente americano Joe Biden sui brevetti per i vaccini spiazza di fatto l’Unione europea. La Cancelliera tedesca Angela Merkel e il Presidente francese Emmanuel Macron sono scettici e riconoscono tutte le difficoltà della proposta americana e di un accordo in ambito Wto. Ma il premier Mario Draghi guarda invece con favore alla proposta Biden. Parlando ieri sera al working dinner dei capi di Stato e di Governo europei di Oporto, Draghi ricorda che in Europa dobbiamo continuare ad accelerare le vaccinazioni con trasparenza e affidabilità. Secondo il premier italiano occorre aumentare la produzione in ogni parte d’Europa, ma gli altri Paesi devono rimuovere i blocchi alle esportazioni perché oggi l’Ue esporta l’80% della propria produzione verso Paesi interessati da blocchi alle esportazioni.
In questo contesto Draghi vede con favore la proposta del Presidente Biden. Siamo di fronte, aggiunge il Presidente del Consiglio, a un evento unico: milioni di persone che non sono in condizione di acquistare i vaccini stanno morendo. Le case farmaceutiche hanno ricevuto finanziamenti enormi dai Governi, e a questo punto ci sarebbe quasi da aspettarsi che ne restituissero almeno una parte a chi ha bisogno. Draghi rivela: “Persone che conoscono bene la materia mi dicono che una misura temporanea e ben congegnata non rappresenterebbe un disincentivo per l’industria farmaceutica. Ci sono tuttavia due ulteriori problemi che dovranno essere affrontati affinché la proposta si possa considerare realistica: la sicurezza della produzione e l’incredibile complessità del processo produttivo. Come europei non possiamo ignorare questo problema; sappiamo che le risorse finanziarie non sono e non saranno mai sufficienti. Ma il grido risuona”.
Un’iniezione di sano pragmatismo apprezzata da molti Paesi anche se Berlino e Parigi restano molto cauti sulla proposta americana. Angela Merkel è la più scettica nei confronti dell’annuncio di Biden sulla liberalizzazione dei vaccini. Se si seguisse il volere di Biden, secondo la Merkel questo avrebbe “implicazioni significative per la produzione nel suo complesso”. Secondo Berlino “la protezione della proprietà intellettuale è una fonte di innovazione e deve rimanere tale in futuro. Il fattore limitante nella produzione di vaccini è la capacità di realizzarli, insieme agli elevati standard di qualità che questi vaccini richiedono. Non sono i brevetti”.
La Merkel ha ritrovato sui vaccini anche il pieno sostegno del Presidente francese Emmanuel Macron. “Noi europei – ha spiegato il presidente – ci battiamo perché il vaccino sia un bene pubblico mondiale da un anno, sono felice che veniamo seguiti. Ora il tema non è la proprietà intellettuale, perché si può dare la proprietà intellettuale a dei laboratori che non sono in grado di produrre, e non produrranno; il primo tema nella solidarietà vaccinale è donare le dosi”. E per il premier spagnolo Pedro Sanchez “la proposta di Biden è nella direzione giusta, ma è insufficiente”.
Francia-Italia: ombre rosse (e non solo)
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“La comprensione storica non condanna né assolve. Al massimo prende atto delle ragioni che determinano i successi e i fallimenti”, scrive Gustavo Zabreleski a proposito degli ex terroristi arrestati in Francia, che sembra “rinnegare” la dottrina Mitterand e “chiudere” dopo decenni la stagione degli anni di piombo italiana. Zagrebelski invita a non confondere i quattro livelli della questione: storico, politico, giuridico ed emotivo. Ma forse se ne può aggiungere anche un quinto: il piano relativo alla futura postura strategica ed economica italo-francese nell’Europa del dopo pandemia.
Non è un mistero per nessuno che il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella abbia consolidato in questi anni un rapporto privilegiato con Parigi. Si deve a lui se la crisi innescata dai grillini alleati dei gilet gialli si sia risolta senza gravi danni nelle relazioni tra i due Paesi. Non è un mistero neppure che tra Draghi e Macron il dialogo sia costante e la Francia guardi proprio a Roma come compagno di viaggio naturale nel vagone di testa dell’Unione nel momento in cui la Cancelliera tedesca Angela Merkel lascerà il suo incarico.
Certo, ci sono le esigenze della politica che pure richiama Zagrebelski: Macron teme le elezioni del 2022 e soprattutto una deriva di destra che potrebbe premiare la Le Pen. Cancellare con un tratto di penna la dottrina Mitterand potrebbe aiutare a recuperare terreno nell’elettorato di destra e poco male se questo provocherà inevitabili mal di pancia tra quegli intellettuali d’Oltralpe che avevano giustificato e accolto i “rifugiati” italiani. Anche dal lato italiano per Draghi esibire come un risultato politico il “trofeo” degli ex terroristi viene incontro all’esigenza di rendere meno incalzante l’opposizione di Fratelli d’Italia.
Ma se si ragiona appena un poco con la testa dei francesi, seguendo l’idea stessa che loro hanno di campioni mondiali della libertà e della democrazia sembra difficile che una “dottrina” come quella di Mitterand (confermata anche da Presidenti di destra come Chirac e Sarkozy) possa essere stata sacrificata se non come inevitabile contropartita di una partita più ampia, non solo politica ma anche economica. I dossier dove un eventuale trade-off più o meno esplicito si sarebbe potuto esercitare certo non mancano. Si va da Euronext a Vivendi, da Stellantis a Fincantieri Stx. Il Ministro dell’Economia francese, Bruno Le Maire, è volato un mese fa a Roma per discutere con i Ministri Franco e Giorgetti di cooperazione nell’aerospazio e nella difesa. Poco prima era arrivato in Italia il Ministro degli Esteri Jean Yves Le Drian e il sottosegretario agli Affari europei Clement Baune per discutere di sicurezza, Mediterraneo e Libia. Senza contare che Italia e Francia hanno firmato il contratto per il programma Samp/t NG per una nuova generazione di sistemi di difesa aerea a medio raggio. E tutto questo mentre non risulta abbia compiuto un solo passo in avanti il follow-up dell’accordo franco-tedesco di Aquisgrana per la difesa europea.
Del resto l’Italia conosce fin troppo bene gli inevitabili intrecci che si possono creare tra vicende giudiziarie, politiche ed economiche. Era il 1974 e la situazione dei conti pubblici italiani era disastrosa. Il governatore di Bankitalia Guido Carli, in concertazione con il Governo guidato da Mariano Rumor (Emilio Colombo alle Finanze e Aldo Moro agli Esteri) diede in pegno una parte delle riserve d’oro della Banca d’Italia come garanzia per un prestito di 2 miliardi di dollari concesso dalla Bundesbank. La parte non scritta dell’accordo (mai smentita) prevedeva il “diritto alla fuga” concesso al “prigioniero di guerra” Herbet Kappler che indisturbato lasciò infatti l’ospedale militare del Celio il giorno di Ferragosto del 1977.
Tornando alle Ombre Rosse l’annuncio degli arresti ha già prodotto i risultati attesi anche se sono tornati tutti in libertà sia pure con diverse restrizioni i 9 ex terroristi italiani. Da mercoledì prossimo cominceranno i processi davanti alla Chambre de l’Instruction della Corte d’Appello di Parigi, che dovrà entrare nel merito, caso per caso, delle richieste di estradizione dell’Italia.
Il Syndicat des avocats de France (Saf, Sindacato degli avvocati di Francia) esprime “soddisfazione” per la decisione della giustizia francese di rimettere in libertà vigilata i 9 ex terroristi italiani. “Questa estradizione – scrive il Saf – segna una svolta senza precedenti della dottrina politica francese seguita dallo Stato da oltre 30 anni”. E ancora: “Scegliere oggi di estradare questi rifugiati dopo i fatti e per alcuni casi anni dopo la loro condanna in contumacia, senza alcun fatto nuovo a loro carico, nel disprezzo degli impegni statali, è un indicibile tradimento della Francia”. Per il sindacato, è “davvero arrivato il momento per l’amnistia degli ultimi rifugiati italiani come fu il caso altrove, in condizioni comparabili. Se vogliamo finalmente voltare questa pagina della storia, ciò che è auspicabile e invocato da tutti, qui e là, bisogna farlo decentemente e in modo equo. Rifiutiamo questi arresti e queste estradizioni e chiediamo che lo Stato rispetti gli impegni”, si conclude nella nota.
E un ex di Lotta continua come Marco Boato afferma che “dopo gli arresti di Parigi ho pensato che Mitterrand, Chirac, Sarkozy e Hollande, Presidenti di sinistra e di destra, erano stati più saggi nel contribuire a porre fine alla stagione del terrorismo. Macron forse guarda alle prossime elezioni presidenziali e alla concorrenza di Marine Le Pen, riconquistando consenso in quell’elettorato di estrema destra, tentazione a cui Chirac e Sarkozy si erano sottratti”.
Libia: Tripoli sceglie Roma per la ricostruzione
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Senza le forze militari turche l’assedio di Haftar a Tripoli sarebbe proseguito per altri mesi, ma non sembra affatto scontato che le richieste di Ankara per un adeguato dividendo della pace in termini di nuovi accordi economici vengano soddisfatte. Un recente viaggio delle autorità di Tripoli ad Ankara ha prodotto un accordo per l’ampliamento dell’aeroporto Mitiga di Tripoli, un progetto faraonico per uno scalo in grado di ospitare fino a 50 milioni di passeggeri l’anno. Ma la Ministra degli Esteri del nuovo Governo di transizione, Najla Al-Mangoush, avvocato, ricercatrice universitaria in America sulla costruzione della pace in aree di conflitto, nella sua missione di giovedì e venerdì scorso a Roma ha tenuto a rassicurare tutti i Ministri, da Di Maio a Giorgetti a Lamorgese, sulle reali intenzioni del Governo guidato da Abdelhamid Dbeibha.
Gli accordi economici
Le aziende italiane, ha chiarito Al-Mangoush, giocheranno un ruolo centrale per il completamento dei progetti già avviati (dall’autostrada costiera al nuovo aeroporto di Tripoli) e per i progetti futuri su digitale, energia e reti, start-up per giovani imprenditori. La conferma viene dal co-Presidente della Cecil (Commissione economica congiunta italo-libica), il sottosegretario agli Esteri Manlio di Stefano.
“La Ministra Al Mangoush – osserva Di Stefano – nel corso della sua missione italiana e nei suoi numerosi incontri, ha tenuto a ricordare che il Governo di transizione libico si aspetta il massimo sostegno da parte delle aziende italiane per la ricostruzione del Paese. In particolare, le autorità libiche vogliono riattivare tutte le intese previste dall’accordo di amicizia e partenariato del 2008 raggiunto da Berlusconi e Gheddafi”. Accordo che assegna un vantaggio competitivo alle imprese italiane rispetto a quelle concorrenti di altri Paesi. “Abbiamo capito – prosegue Di Stefano – che vi è un preciso interesse libico a privilegiare le aziende italiane che non subiranno, ad esempio, la concorrenza di quelle turche a ovest e di quelle russe a est. In particolare il recente memorandum of understanding firmato in Turchia non mette in discussione la commessa al consorzio italiano Aeneas per 79 milioni di dollari per l’aeroporto di Tripoli, che resta dunque confermato”. Per quanto riguarda “l’autostrada della pace”, di oltre 1700 Km, finora è stato dato il via libera solo per il primo lotto a est, mentre il lotto 4 della Tripolitania che dovrà arrivare al confine con la Tunisia è stato suddiviso in lotti più piccoli che andranno messi a gara entro i prossimi mesi.
Per i progetti innovativi del futuro, l’Eni è coinvolto nella creazione di un impianto con fonti rinnovabili nel Fezzan mentre Selex Leonardo è coinvolta nel progetto europeo di controllo dei confini meridionali del Paese. Ancora da finalizzare la ripresa della produzione dell’azienda italo-libica per la costruzione di elicotteri, mentre la Iveco mantiene la sua unità produttiva per la produzione di camion. All’interno della Commissione economica congiunta italo-libica verrà affrontato poi il tema degli insoluti di pagamento per le imprese italiane. Un accordo del 2014 fissava in 233 milioni di dollari i crediti accertati oltre ad altre decine di milioni di crediti più recenti. Sul piano amministrativo la Ministra Mangoush ha apprezzato il lavoro svolto negli ultimi mesi da Natalina Cea, nuova capo della missione dell’Unione europea di assistenza alle frontiere libiche (Eubam) e sul fronte fiscale l’attrazione di nuovi investimenti italiani si avvarrà della ratifica da parte italiana del Trattato contro la doppia imposizione.
Immigrazione e sicurezza
Tra i temi trattati dalla Mangoush anche l’immigrazione. “La Ministra – spiega Di Stefano – ci ha ricordato che la Libia sta diventando sempre più non solo un Paese di transito per immigrati irregolari, ma una Paese di destinazione finale e questo richiede la collaborazione attiva dell’Unione europea”.
Ma la premessa di tutto è la sicurezza del Paese. Ieri la Ministra Al Mangoush, alla commissione Esteri della Camera, ha ricordato che “Si deve in primo luogo garantire il rispetto del cessate-il-fuoco, la smobilitazione delle milizie e l’uscita dalla Libia di tutte le presenze militari straniere. Allo stesso tempo vanno avviati rapidamente programmi di sostegno economico, mettendo in campo i piani di ricostruzione individuati nel corso della visita del Presidente Draghi”.
Afghanistan: da maggio via anche gli italiani
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Il ritiro delle truppe dall’Afghanistan deciso dalla Nato pochi giorni fa riguarderà anche gli 800 militari italiani di stanza a Herat. Inizierà a maggio e terminerà a settembre. Lo ha annunciato il Ministro degli Esteri Luigi Di Maio spiegando che la road map sarà decisa dallo Stato maggiore della Difesa italiana in stretto coordinamento con gli americani e gli altri alleati.
“Inizieremo il primo di maggio – ha fatto sapere il responsabile della Farnesina – e ci aspettiamo che la logistica pesante americana sia l’ultima a partire entro l’11 settembre”. Ma non smetteremo di aiutare il Paese, secondo Di Maio, perché continueranno ad essere operativi i programmi di cooperazione tuttora in essere. “Abbiamo aperto – ha osservato Di Maio – una ‘via italiana’ alla ricostruzione, una via fraterna, lontana dalle armi e dalle bombe, vicina alle esigenze dei cittadini afghani e alle loro speranze di ripresa”.
La decisione italiana sull’Afghanistan rafforza ancora di più i legami con la nuova amministrazione Usa così come già si è potuto vedere nel più cauto atteggiamento verso Russia e Cina e dalla recente vicenda dell’arresto dell’ufficiale dello Stato maggiore che passava documenti segreti della Nato ai servizi russi. “Italia e Stati Uniti – ha però insistito Di Maio – non sono mai stati tanto vicini. L’Italia non ha mai mutato il suo posizionamento geopolitico di fondo. I nostri Governi sono sempre stati fedeli all’Alleanza atlantica”.
Quali i futuri assetti?
Il ritiro degli 800 militari dall’Afghanistan non dovrebbe però cambiare di molto il numero complessivo dei nostri soldati impiegati in missioni internazionali (oltre 6mila). Come ha ricordato lo stesso Ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, a partire dai prossimi mesi si andranno a definire i futuri assetti delle forze da dispiegare nei teatri internazionali a cominciare dall’Africa e dall’Iraq. L’Italia cercherà di concentrare i suoi sforzi nel cosiddetto Mediterraneo allargato da dove provengono la maggioro parte delle minacce (dal terrorismo ai flussi irregolari di immigrazione). In questo contesto le missioni in Africa potrebbero subire dei rafforzamenti in termini di uomini e mezzi. Da poche settimane l’Italia ha inviato i primi 30 militari in Mali per la missione europea Takuba (a regime previsti 93 uomini), mentre in Niger la missione bilaterale Misin di addestramento alle forze locali è attualmente garantita da 295 elementi. Più complesso il discorso che riguarda l’Iraq dove attualmente sono presenti tra Erbil e Baghdad circa 1100 uomini.
L’Italia si è candidata a guidare dall’anno prossimo la nuova missione in Iraq al posto degli americani che ritireranno il loro contingente. Ciò comporterà un maggiore contributo di forze valutabile ad oggi sull’ordine di almeno altri 500 uomini. L’operazione avrebbe tra i suoi compiti il coordinamento e l’addestramento delle truppe che in Iraq avversano e combattono la rinascita dello Stato Islamico, praticamente gli stessi compiti svolti attualmente da Prima Parthica a guida italiana. Finora non vi sono reazioni ufficiali alla candidatura italiana per l’Iraq, ma il Ministro della Difesa Guerini ha ricevuto parole di apprezzamento da parte dei Paesi membri della Nato per l’impegno italiano nelle operazioni della missione avviata nel 2014 dagli Stati Uniti a seguito dell’espansione dello Stato Islamico in Iraq e Siria. Se venisse affidata all’Italia anche la missione in Iraq salirebbero a tre i comandi di importanti missioni internazionali, oltre alla Kfor Nato in Kosovo (generale Franco Federici) e Unifil dell’Onu in Libano (generale Stefano Del Col).
Ue-Turchia: il sofa-gate scuote le poltrone europee
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Ci sono incidenti di percorso, anche traumatici, che sembrano quasi provvidenziali per la loro capacità di rimettere in moto meccanismi bloccati o quantomeno un poco arrugginiti. Ebbene, le immagini di due giorni fa della Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, nel palazzo presidenziale di Ankara, in piedi, visibilmente imbarazzata davanti al Presidente turco Erdogan e al Presidente del Consiglio europeo Charles Michel già comodamente seduti mentre lei era ancora in attesa di trovare un posto dignitoso dove sedere, hanno plasticamente riportato l’attenzione sul problema della rappresentanza all’estero dell’Unione europea.
Gli specialisti del protocollo si sono nel frattempo esercitati in dissertazioni sulle precedenze e i piazzamenti essendo – dicono – Michel parificato a un capo di Stato e la von der Leyen a un capo di Governo come si evincerebbe anche dal fatto che le due personalità sono insieme presenti e sedute una accanto all’altra in quei vertici (appunto dei capi di Stato e di Governo) come G7 e G20.
Ma l’articolo 17 del Trattato di Lisbona prevede espressamente che la Commissione assicura la rappresentanza esterna dell’Unione europea tranne che per le questioni di politica estera e di sicurezza. Poiché queste ultime sono delegate all’Alto rappresentante Josep Borrell (che non era presente in Turchia perché non si trattavano i suoi dossier), la von der Leyen avrebbe dovuto avere un ruolo di primo piano nell’incontro con Erdogan pari a quello di Michel. Tanto più che i temi dell’immigrazione, al centro della visita, riguardano lo spazio di sicurezza, libertà e giustizia della Ue, i soldi stessi che vengono dati ad Ankara per contrastare i flussi di immigrazione irregolare vengono erogati dalla Commissione, i temi legati all’unione doganale riguardano una delle competenze esclusive della Commissione e non del Consiglio.
Tuttavia, a giudizio dell’eurodeputato di Renew Europe, Sandro Gozi, già sottosegretario alle Politiche europee con il premier Matteo Renzi, sarebbe giunta l’ora di fare un po’ di chiarezza. “Parafrasando Pirandello – osserva Gozi – nell’Ue ci sono troppi Presidenti in cerca di autore. Se avessimo un(a) Presidente unico(a) invece che un Presidente del Consiglio europeo, della Commissione europea e dell’Eurogruppo, l’Ue avrebbe maggiore visibilità e influenza. In questo caso c’è stata una gaffe di protocollo: chi ha preparato la visita ha fatto un grosso errore, in quanto doveva assicurare una presenza degna anche alla Presidente della Commissione. Se poi vogliamo entrare nel protocollo, il Presidente del Consiglio Ue è una carica superiore rispetto al Presidente della Commissione, ma il problema politico di fondo è che dovremmo avere un unico Presidente. Un’Europa sovrana nel mondo deve parlare con una voce sola: quella del(la) Presidente dell’Unione”.
E un Presidente unico della Ue è possibile già tra qualche mese. In effetti, il mandato di Michel scadrà proprio a fine anno e nulla vieta che la von der Leyen possa assumere oltre alla presidenza della Commissione anche quella di Presidente del Consiglio. Si porrebbe, a quel punto, una questione di equilibri tra famiglie politiche presenti nel Parlamento europeo per cui l’uscita di un liberale come Michel potrebbe essere compensata con la presidenza di un altro liberale al Parlamento europeo al posto di David Sassoli che è in scadenza. Insomma, l’incidente di Ankara, per quanto spiacevole, potrebbe sbloccare un prossimo giro di valzer delle nomine ai vertici delle istituzioni europee.
Il commento di Piervirgilio Dastoli
Dello stesso parere anche Piervirgilio Dastoli, già assistente storico di Altiero Spinelli, Presidente del Movimento europeo, e già capo dell’Ufficio di Rappresentanza in Italia dell’Unione europea. “Il protocollo della visita al Palazzo presidenziale – osserva Dastoli – è stato deciso di comune accordo dal gabinetto di Charles Michel, insieme al delegato dell’Ue ad Ankara Meyer-Landrut, e dal cerimoniale di Erdogan. Charles Michel si è seduto sulla sedia accanto a Erdogan sapendo che era stata assegnata a lui e non chiedendosi se era per lui o per Ursula von der Leyen essendo convinto, nella sua arroganza istituzionale, che il suo incarico lo pone al di sopra del Presidente della Commissione”.
Dastoli ricorda che Charles Michel e Ursula von der Leyen sono stati chiamati a riferire insieme, su quel che è avvenuto ad Ankara, davanti alla Conferenza dei Presidenti dei gruppi al Parlamento europeo. “Sarà interessante verificare – aggiunge Dastoli – se daranno interpretazioni univoche o differenziate di quel che è successo e su come e da chi è stata preparata la visita.
Sarà anche l’occasione per i parlamentari europei di chiedere se è stata sollevata e in che termini la questione del rispetto dei diritti fondamentali, delle condizioni dei detenuti politici nelle carceri e delle ragioni delle loro detenzioni, della legalità degli ultimi arresti e dell’esito dell’inchiesta sulla morte dell’avvocatessa Ebru Timtik dopo 237 giorni di disumana prigionia”.
Secondo Dastoli, occorre comunque trarre due conclusioni dai fatti di Ankara: “Dal punto di vista amministrativo, Ursula von der Leyen e Josep Borrell devono rimuovere immediatamente il delegato dell’Unione europea ad Ankara Meyer-Landrut. Dal punto di vista politico e istituzionale, il Parlamento europeo deve presentare una interrogazione orale con dibattito al Consiglio concludendo il dibattito con l’approvazione di una risoluzione di disapprovazione politica dell’operato del Presidente del Consiglio europeo Charles Michel sostenendo che lo stesso Consiglio europeo dovrebbe mettere fine al suo mandato sulla base dell’art. 15 par. 5 del Trattato sull’Unione europea per “colpa grave”.
Spionaggio russo: il caso Biot
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Come nei migliori romanzi di Le Carrè, c’è quasi sempre in tutte le spie – soprattutto in quelle che tradiscono – il gusto della sfida portato all’eccesso. Fino al punto di compiere volontariamente (o meno) quegli errori poi fatali che permettono di assaporare tutto il desiderio inconfessabile di essere smascherati, unico vero rimedio per sottrarsi allo stress e alla routine di ogni tradimento.
E, come nelle migliori spy stories, c’è anche il gusto di vestire l’azione spregevole con dettagli personali, una ”firma”, un modus operandi “creativo” come quello di usare proprio le scatole del farmaco Crestor contro il colesterolo da sovrappeso per gli scambi tra la pen drive con i segreti Nato raccolti e fotografati dal capitano di Fregata Walter Biot e la scatola gemella di Crestor contenente le 100 banconote da 50 euro piegate ordinatamente dal capostazione del servizio militare russo Aleksej Nemudrov.
Erano mesi che Biot veniva “attenzionato” dall’Ufficio Analisi per la minaccia asimmetrica (Uama) della Difesa e fotografato durante le sue azioni illecite prima che gli uomini del controspionaggio italiano lo bloccassero fuori dal parcheggio di Spinaceto. Le istruzioni che Nemudrov aveva assegnato a Biot erano precise: non documenti specifici ma una “pesca a strascico” su documenti classificati fino al “segretissimo”. L’importante è che fossero molti, più erano e meglio era.
I retroscena del caso Biot
Il Crestor – si sa – può curare solo gli effetti di eccessi di peso ma la bulimia di Nemudrov si placava solo quando poteva trasmettere a Mosca una mole mai vista di documenti classificati, pass essenziale per ulteriori promozioni e incarichi strategici (per non parlare di una disponibilità di danaro pronta cassa). Una bulimia che intercettava l’ingordigia di soldi di Biot sommerso da spese cui non sapeva più come fare fronte. Difficile però che Biot non sapesse che far entrare così frequentemente negli uffici di via XX settembre l’addetto militare russo Dmitrij Ostroukhov non poteva certo essere liquidato come un gesto di cortesia troppe volte reiterato. Eppure all’accordo coi russi Biot non riusciva a sottrarsi. Forse, involontariamente, come tutti i giocatori d’azzardo, sperava proprio che finisse così.
Ma cosa volevano conoscere i russi attraverso Biot? Per un terzo i documenti trasmessi da Biot ai russi riguardavano pianificazioni Nato, per un altro terzo collocazione e previsioni di dispiegamento dei contingenti italiani nelle missioni Nato (la Kfor in Kosovo è da tempo a guida italiana) e per un terzo la logistica ossia le richieste che dai teatri all’estero venivano inviate a Roma e dalle quali si possono comprendere le necessità operative. Soprattutto in questa fase in cui la Nato non è più impegnata in operazioni combat tutto si gioca sulle grandi esercitazioni che servono per testare la capacità di risposta rapida a una minaccia esterna. Si tratta di esercitazioni molto impegnative e costose come Defender 2021 o Trident Juncture.
Per quanto riguarda l’Italia, da poche settimane sono operativi i cinque droni basati a Sigonella da cui dipende il monitoraggio di tutte le attività in Medio Oriente e nel Mediterraneo orientale. Ma c’è interesse a conoscere i futuri accordi industriali italo-tedeschi sul fronte dei sottomarini U212 e l’impiego degli F35 sulla portaerei Cavour appena testati negli Usa. Sapere in anticipo, ad esempio, che l’Italia dal prossimo anno guiderà il contingente in Iraq con un numero di militari superiore a quello attuale al posto degli americani non è una notizia da poco per chi come Mosca ha l’ambizione di giocare un ruolo nel Medio Oriente, dalla Siria alla Libia.
Ora i magistrati di Roma, sia civili che militari, cercheranno di capire a quali autorità russe erano destinate quelle informazioni. Ma prima ancora occorrerà scindere quelli che possono presentare il profilo di Segreti di Stato sui quali la Presidenza del Consiglio potrebbe opporre il segreto di Stato. Per quanto riguarda la competenza militare o ordinaria nei prossimi giorni i vertici delle due procure si incontreranno per fare il punto sulla vicenda. L’analisi della SIM card, di quattro smartphone e di due pc potrebbe fornire ulteriori elementi ai magistrati di Roma, ma da una prima analisi sono emersi almeno 181 documenti classificati che erano stati fotografati dall’indagato. Al momento, gli inquirenti hanno individuato 9 atti classificati come segretissimi e 47 Nato Secret. Chi indaga verificherà anche le quattro utenze, tre intestate allo stesso Biot e una al Ministero della Marina. Dall’esame del traffico telefonico è emerso che non ci sono stati contatti tra il militare e il funzionario delle forze armate russe. Un elemento che fa supporre agli inquirenti che gli appuntamenti tra i due venissero fissati in altri modi e in cadenze prestabilite.
Quanto al capitano di Fregata, attualmente a Regina Coeli, attraverso il suo avvocato ha confermato l’intenzione di voler rispondere alle domande degli inquirenti perché “desideroso non solo di difendere la sua posizione ma anche di dare serenità alla sua famiglia e al Paese”. Biot si dice certo di poter grandemente ridimensionare la vicenda “perché non ha potuto avere accesso a informazioni di interesse strategico o operativo: il suo incarico non gli poteva garantire di avere a disposizione questi dati”.
Biden alla Ue: uniti contro il Covid, un po’ meno su Cina e Russia
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Era dal giugno 2001 (Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi) che un Presidente americano non partecipava a un vertice europeo e nel 2009 Barack Obama era intervenuto al summit Usa-Ue di Praga. Dopo molti anni, giovedì 25 marzo Joe Biden si è collegato in videoconferenza con Bruxelles e con tutte le altre 27 capitali europee per riallacciare un dialogo troppe volte interrotto bruscamente durante l’era Trump.
È il segnale di un’attenzione particolare nei confronti dei Paesi europei visti come alleati indispensabili per la difesa dei valori fondamentali delle democrazie occidentali. Certo, i primi passi in politica estera di Biden hanno riguardato soprattutto il Far East e la sfida per contenere le ambizioni cinesi con il recente vertice a quattro (Usa, Australia, India e Giappone), il viaggio del segretario di Stato Usa Antony Blinken a Tokio e Seul e poi il confronto duro con la diplomazia cinese nel vertice Usa-Cina in Alaska.
Ma Biden spera molto nell’aiuto europeo. Lo farà in presenza l’11 giugno in Cornovaglia, al G7 a presidenza inglese e poi al vertice Nato a Bruxelles. Ieri ai capi di Stato e di Governo dei 27 Stati membri Biden si è limitato a ricordare che “una Ue forte è nell’interesse degli Stati Uniti”. Biden ha chiesto ai leader europei “una stretta cooperazione” su alcune sfide comuni, a partire dalla lotta al Covid-19 e ai cambiamenti climatici, e un “rafforzamento” dei legami economici. “La mia priorità numero uno – ha aggiunto – è mettere la pandemia sotto controllo e gli Usa condivideranno i vaccini appena potranno”. Più in particolare Biden ha annunciato che sta lavorando per “rimuovere i colli di bottiglia e aumentare la capacità produttiva di farmaci anti-Covid”. Ma Biden ha anche espresso il desiderio di lavorare insieme all’Europa su alcuni temi di politica estera, tra cui Cina e Russia e ha rilevato la necessità di un impegno continuo degli Stati Uniti e dell’Ue su alcuni dossier come Turchia, Caucaso meridionale, Europa orientale e Balcani occidentali.
I dossier Cina e Russia
Nel suo intervento al Consiglio Ue, il Presidente americano ha parlato dei rapporti con Cina e Russia. La Cina, ha detto Biden, è un rivale con cui competiamo, la competizione è anche benvoluta ma restano differenze profonde sui diritti umani. La Russia è un altro concorrente, non particolarmente minaccioso, con cui occorre trattare e misurarsi, ma “devono smettere di interferire con le politiche interne e i processi elettorali di vari Paesi. Con la Russia bisogna essere franchi ed espliciti sulle violazioni dei diritti umani”.
In sostanza, gli Stati Uniti puntano a rafforzare il “blocco occidentale” soprattutto imponendo sanzioni contro Pechino per la violazione dei diritti umani nella vicenda degli uiguri. Per l’Unione europea quelle decise negli ultimi giorni sono le prime sanzioni contro la Cina dopo le misure successive al massacro di piazza Tienanmen dell’89. Eppure, nella ritrovata stagione di accordo tra le due sponde dell’Atlantico, non mancano motivi di qualche criticità. È sempre presente la disputa Boeing-Airbus che aveva prodotto ritorsioni commerciali da parte di Washington, così come la questione dei dazi sull’acciaio e l’alluminio, fino alle obiezioni sui rapporti con Mosca per il gasdotto Nord Stream 2.
Quanto alla Cina, non è un mistero che gli Stati Uniti considerino l’attuale postura geopolitica della Cina una minaccia non solo per gli Stati Uniti ma per tutte le democrazie occidentali. Una minaccia rafforzata da una crescita economica senza precedenti. I primi dati di gennaio e febbraio 2021 confrontati con i primi due mesi del 2020 in piena crisi pandemica parlano da soli: la crescita cinese supera il 30% in produzione industriale, consumi e investimenti e se il Pil nel primo trimestre 2020 aveva subito un calo del 6,8% si è ora registrato un +15% nel primo trimestre 2021.
Al momento gli Stati Uniti non chiedono impegni precisi agli europei, ma non è escluso che comportamenti troppo aperti sulle tecnologie cinesi a partire dal 5G da parte di alcuni Paesi europei possano suscitare reazioni da parte americana. La missione del segretario di Stato Usa Antony Blinken mercoledì e giovedì a Bruxelles per il vertice Nato prevedeva per ora solo la riapertura del dialogo transatlantico. Ma nel futuro le cose potrebbero cambiare “Gli Stati Uniti – ha chiarito infatti il capo della diplomazia Usa – non costringeranno gli alleati di fare una scelta “o noi o loro” per quanto riguarda la Cina”. I Paesi possono lavorare con la Cina dove è possibile, ha ribadito Blinken sottolineando come per esempio “sia necessaria la cooperazione con Pechino sul fronte dei cambiamenti climatici”.
Tra Italia e Francia è di nuovo luna di miele
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È una rotta molto affollata quella che da qualche giorno collega con sempre maggiore frequenza Roma con Parigi. E non solo per la soluzione di dossier caldi che stanno seguendo il loro corso naturale come Euronext, Vivendi, Stellantis, Fincantieri Stx.
Ieri il Ministro dell’Economia francese Bruno Le Maire era a Roma per incontrare i Ministri Franco e Giorgetti con all’ordine del giorno il rilancio della cooperazione nel settore dell’aerospazio, della difesa e dell’idrogeno. Pochi giorni prima erano a Roma il Ministro degli Esteri Jean Yves Le Drian e il sottosegretario agli Affari europei Clement Baune per discutere di rilancio europeo, sicurezza Mediterraneo e Libia. E sempre ieri a Parigi l’ammiraglio Matteo Bisceglia ha firmato il contratto per il programma Samp/t NG con il consorzio italo-francese Eurosam per una nuova generazione di sistemi di difesa aerea a medio raggio.
Insomma mai come in questi ultimi tempi sembra scoccata una nuova luna di miele con i cugini d’Oltralpe che sembra cancellare definitivamente incomprensioni e polemiche successive all’appoggio dei 5 Stelle ai gilet gialli francesi. Ma cosa si nasconde dietro a tutto questo attivismo nelle relazioni italo-francesi? C’è sicuramente l’attenzione al ruolo dell’Italia come Presidente di turno del G20, di organizzatore del Global Health Summit per il 21 maggio, il nostro ruolo nel G7 per un’armonizzazione del sistema fiscale ma anche la volontà di presentare a Bruxelles progetti congiunti sui piani di ripresa e resilienza. E poi, come dice il politologo francese Emmanuel Dupuy, le nuove criticità nel dialogo della Francia di Macron con la Germania stanno rilanciando le relazioni con Roma.
Sono un fatto gli attriti tedeschi che stanno frenando il progetto con i francesi del caccia del futuro Scaf aperto alle collaborazioni di Italia e Spagna. E non è un mistero che tra Parigi e Berlino non sono poche le divergenze recenti sul ruolo strategico dell’Europa e sui rapporti con la Russia e la Turchia. Per di più il successore alla guida del Cdu, Armin Laschet, al posto di Angela Merkel, non fa mistero di privilegiare l’atlantismo all’asse franco-tedesco.
Tutti elementi che secondo il politologo Dupuy favoriscono un avvicinamento di Parigi con Roma e, anzi, guardano al Governo Draghi come a una sorta di “laboratorio politico” in vista dei nuovi assetti politici che si vanno delineando alla vigilia di un rimescolamento delle carte a metà del mandato dell’Europarlamento. Macron guarda a cosa potrà accadere a Strasburgo, dove il premier ungherese Viktor Orbán è uscito dal Ppe per creare un nuovo gruppo con la Lega di Matteo Salvini e con i conservatori polacchi. Dall’altro lato le trasformazioni in senso europeista di 5 Stelle, e in parte della Lega, modificheranno forse gli equilibri tra grandi famiglie politiche europee. Si sta quindi rafforzando l’asse italo-francese per trainare la ripresa economica del continente e sul piano bilaterale per garantire all’Europa l’autonomia nell’accesso allo spazio.
Il Ministro francese Le Maire ha definito venerdì il Governo Draghi “una speranza e una grande chance per l’Europa”. Poi indica la necessità di accelerare la ripresa europea, che è per Le Maire la priorità “assoluta”. “Non è accettabile – dice il Ministro francese – che gli Stati Uniti rilancino l’economia e l’Europa sia invece frenata. L’Europa deve assolutamente accelerare”. Restano sullo sfondo alcuni temi chiave delle relazioni industriali italo-francesi. Sull’ingresso pubblico in Stellantis, Le Maire ha chiarito che “non abbiamo previsto nessun tipo di partecipazione pubblica dello Stato francese in Stellantis, che è un’impresa privata”.
Quanto all’ipotesi del controllo affidato a Tim (di cui la francese Vivendi è il principale azionista), il Ministro francese ha detto che “non c’è una politica contro qualcosa o qualcuno ma una politica per raggiungere un obiettivo”, che è quello della diffusione della fibra. “In Europa – ha sottolineato Le Maire – ci sono cose che sono andate avanti, per esempio la protezione dell’economia da parte della Bce, il debito comune che non era neanche pensabile due anni fa e il ritorno di una nuova ambizione industriale a livello europeo. Altre cose, invece, sono andate più a rilento, tra queste c’è l’armonizzazione fiscale e l’unione bancaria, che sono necessarie. Pertanto, su temi come questi bisognerebbe passare da un meccanismo come quello attuale che richiede l’unanimità a un sistema che preveda la maggioranza qualificata”.
Libia verso le elezioni
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Nell’ottobre del 2011 a bombardamenti ormai finiti e Gheddafi deposto e ucciso, un Ministro della Difesa di Berlusconi come Ignazio La Russa volava a Tripoli e ascoltava quasi in estasi le parole del Presidente del consiglio di transizione libico Mustafà Abdel Jalil, secondo il quale senza l’Italia e il suo colonialismo “non ci sarebbe stata neppure la Libia”.
Per l’eterogenesi dei fini, anche ora senza l’Italia, la sua determinazione nel dialogo e la lotta alle interferenze di Paesi terzi non si sarebbe arrivati a quel Governo ad interim guidato da Abdel Hamid Dbeibah che ha ottenuto giovedì a Sirte un consenso plebiscitario con 132 si su 132 votanti.
Lo stesso giorno, giovedì, il premier italiano Mario Draghi si è congratulato con Dbeibah per la fiducia al suo Governo, inaugurando una nuova fase nelle relazioni tra Roma e Tripoli dove conteranno sempre i dossier dei flussi migratori e delle commesse petrolifere economiche, ma con uno sguardo alla stabilità di tutto il Mediterraneo orientale con un ruolo sempre più attivo del nostro Paese.
Draghi ha esortato Dbeibah e il suo Governo a concentrarsi sugli obiettivi prioritari quali la sicurezza e la prosperità del popolo libico e dell’intera regione. Ma un’attenzione particolare è stata dedicata al “rafforzamento del partenariato bilaterale nei diversi settori di comune interesse”.
Durante i lunghi mesi della guerra civile l’Italia ha coltivato l’ambizione di fare dialogare est e ovest. Una stabilità che ora significa anche superamento delle vecchie polemiche tra Roma e Parigi sulla sorte del Paese. L’idea francese che solo un uomo forte come Haftar avrebbe potuto unificare il Paese si è rivelata pericolosa ed errata, alimentata anche dal fatto che dal 2013 la Francia non era più presente in Libia a differenza dell’Italia, che aveva diplomatici e uomini dell’intelligence. Il nuovo approccio del Presidente americano Joe Biden e di tutta l’Unione europea sta premiando a distanza di tempo gli sforzi dell’Italia che si è spesa per il dialogo e non ha garantito forniture militari a nessuna delle due parti.
Il futuro post-rivoluzionario democratico che si delinea per la riconciliazione e le elezioni del 24 dicembre sembra rispondere a un “metodo post-gheddafiano transattivo” che cerca di soddisfare i bisogni di larghe fasce della popolazione e centri di interesse pacificando est, sud e ovest. Un sistema che cerca di utilizzare le risorse pubbliche derivanti dai proventi del petrolio in maniera più trasparente. Chiuso il capitolo della guerra civile per procura tra l’Egitto di al-Sisi da una parte e la Turchia di Erdogan dall’altra, si sta aprendo una nuova fase in cui la Libia cercherà di affrancarsi dalle logiche geopolitiche per assumere una sua connotazione.
Non manca chi rema contro, come Fhati Bashaga, misuratino ex Ministro dell’Interno di Serraj, e il generale di Bengasi Khalifa Haftar. Bashaga punta a una rivincita nelle prossime elezioni mentre gli egiziani hanno ormai scaricato Haftar sostituendolo con Aguila Saleh, Presidente della Camera dei rappresentanti di Tobruk. E si terrà lunedì, proprio nella sede della Camera dei rappresentanti di Tobruk, invece che a Bengasi, come annunciato, il giuramento dei Ministri del nuovo Governo ad interim guidato da Dbeibah. Uno spostamento legato a un attacco condotto da “uomini armati al quartiere generale della Camera dei rappresentanti a Bengasi” e soprattutto dalla diffidenza di Haftar verso il nuovo esecutivo.
Sono sempre più forti gli interessi di chi punta a una Libia stabile per tornare a fare affari nel Paese. I turchi hanno fretta di riprendere i contratti anche perché hanno già accumulato molti insoluti di pagamento con la presidenza Serraj. Dbeibah è uomo d’affari ed è consapevole che le condizioni di sicurezza e la puntualità nei pagamenti sono precondizione per attrarre nuovi investimenti. Il primo passo per l’unificazione, oltre agli aspetti amministrativi e la formazione di un esercito unico, sarà il bilancio unificato per i proventi del petrolio su un conto della Noc. Quanto ai rapporti bilaterali, il nuovo Governo ad interim creerà anche una nuova commissione mista italo-libica per risolvere gli insoluti dei pagamenti alle imprese italiane finora valutati in 324 milioni di dollari.
L’Ambasciatore Pasquale Ferrara, Inviato speciale per la Libia del Ministro degli Esteri Luigi Di Maio, in un’intervista a un quotidiano egiziano ha affermato che “la vera transizione libica comincia ora” e “faremo tutto quello che ci sarà possibile – sia a livello bilaterale che nel quadro dell’Unione Europea – per sostenere con rispetto e amicizia questo processo che può aprire un nuovo capitolo nella storia della Libia”.
Ma la vera incognita del futuro restano i russi ancora presenti con i contractors della Wagner. Mosca non ha interessi economici immediati sulla Libia ma solo geopolitici: vuole usare il Paese come trampolino di lancio per una penetrazione sempre più consistente nell’area centroafricana. Una fase di instabilità duratura in Libia sarebbe stata gradita ai russi che si devono ora accontentare di sostenere la componente gheddafiana radicale alle prossime elezioni, che possa servire come alleato forte delle loro ambizioni egemoniche.
Ue, Covid: tra nuove alleanze e spinte sovraniste
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Non sarà un discorso semplice e rituale quello che il premier italiano Mario Draghi dovrà pronunciare il 7 maggio prossimo all’Istituto universitario europeo di Fiesole, a chiusura della decima edizione della conferenza “The State of Union”. Insieme alla Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, all’Alto rappresentante per gli Affari esteri e la sicurezza Josep Borrell, alla Presidente della Bce Christine Lagarde e alla Direttrice del Fondo monetario Kristalina Georgieva, Draghi dovrà tracciare un bilancio degli ultimi mesi della politica europea, lanciando nello stesso tempo messaggi rassicuranti per il futuro. La decima edizione avrà un tema ambizioso – “L’Europa in un mondo che cambia” – e si terrà in forma ‘ibrida’ per le misure anti Covid, con sessioni in presenza e altre online.
C’è solo da sperare che a maggio il quadro politico europeo non sia più così fortemente condizionato dalla pandemia acuta e che si possa ricominciare a delineare un futuro di ripresa. Si spera soprattutto che i programmi di vaccinazione in Europa possano produrre buoni risultati spazzando via le residue polemiche sulla debolezza delle istituzioni europee nei rapporti con le case farmaceutiche. Una debolezza che, oltre a creare un gap nei tempi di ripresa economica tra Europa e altri Paesi che hanno vaccinato di più (come Regno Unito, Israele, Russia e Stati Uniti), rischia di innescare anche reazioni a catena nelle grandi famiglie politiche europee fino a ridisegnare gli equilibri creati all’indomani delle elezioni del 2018. Da un lato, si sta assistendo a un rinascente nazionalismo e a spinte sovraniste con l’uscita del partito dell’ungherese Orbán dal Ppe. Dall’altro, partiti come la Lega (oggi presente nel gruppo della Le Pen), con l’appoggio al Governo guidato da un europeista doc come Mario Draghi, potrebbero pensare di avvicinarsi sempre più al Ppe portando i seggi dei popolari a 200 contro i 140 dei socialisti europei. Nuovi equilibri che a maggio saranno forse più chiari anche in vista di una spartizione di poltrone a metà mandato nell’Europarlamento, a cominciare da quella più importante del Presidente che succederà a David Sassoli.
Equilibri e rapporti di forza che si giocheranno in gran parte sulla partita dei vaccini. Nelle ultime settimane la stessa Presidente Ursula von der Leyen è stata bersaglio di accuse per i ritardi nel piano antipandemico e per l’incapacità di dettare regole chiare alle Big Pharma. Una responsabilità che tuttavia non può ricadere solo sulle istituzioni europee perché in materia sanitaria le competenze restano ancora dei singoli Stati membri. Ma le decisioni prese dall’ultimo Consiglio europeo del 25 e 26 febbraio e poi il colloquio tra Draghi e la Presidente von der Leyen di mercoledì 3 marzo hanno ristabilito un rapporto più equilibrato con le case produttrici di vaccini. Fino alla decisione di giovedì 4 marzo di vietare l’esportazione di 250mila dosi di vaccino anti Covid prodotte da AstraZeneca in Italia e destinate all’Australia. Decisione presa dalla Commissione europea su proposta dell’Italia. Un messaggio preciso alla AstraZeneca, secondo il Ministro degli Esteri Di Maio. “Le case farmaceutiche – ha spiegato Di Maio – sono in ritardo con le forniture che avevano assicurato all’Unione europea, non solo all’Italia, e questi ritardi sono inaccettabili”. “Ci aspettiamo – ha aggiunto un portavoce della Commissione Ue – che le imprese facciano il massimo per rispettare gli impegni di consegna che hanno sottoscritto nei contratti con l’Ue e con gli Stati membri”.
Eppure sia Austria che Danimarca hanno annunciato che si muoveranno da soli per trovare i vaccini necessari alla loro popolazione utilizzando anche il prodotto russo Sputnik che l’Agenzia per il farmaco europeo ha attualmente sotto esame. Un segnale di autonomia rispetto a Bruxelles proprio mentre il Primo Ministro ungherese, Viktor Orbán, decide di costruire una propria forza politica in Europa, dopo avere ritirato il proprio partito, Fidesz, dal gruppo del Partito popolare europeo (Ppe) all’Europarlamento. Orbán si avvicinerà al gruppo dei conservatori Ecr dove siedono già la Meloni e Fitto. Marco Zanni, europarlamentare della Lega e leader di Identità e Democrazia, ha reso noto che “Salvini e Orbán hanno parlato un paio di giorni fa, ma di temi politici più che di nuovi gruppi al Parlamento europeo”.
Secondo Zanni “non c’è una piattaforma, non c’è una timeline, non c’è un calendario. Apriamo un dialogo e vediamo quello che viene fuori senza fretta. Se si può costruire qualcosa di positivo e migliore di quello che abbiamo, molto bene. Altrimenti andremo avanti sempre collaborando. Noi siamo pronti a lavorare con chi condivide i nostri obiettivi, che sia Fidez o i partiti che stanno oggi nel gruppo dei Conservatori”. Ma lo stesso Zanni ha ammesso che “l’uscita di Fidesz rimescola un po’ le carte, anche perché credo che in futuro avrà anche degli effetti e dei traumi collaterali all’interno del Ppe”. I copresidenti del gruppo Ecr nel Parlamento europeo, Raffaele Fitto e Ryszard Legutko, in una nota hanno tenuto intanto a ricordare che “il gruppo Ecr è la vera casa dei valori conservatori e dell’eurorealismo. Siamo sempre stati aperti a coloro che condividono i nostri valori e che considerano il gruppo Ecr come una possibile dimora politica”.
È comunque un fatto che l’uscita dal Ppe di Orbán rafforzi le ipotesi di un avvicinamento della Lega ai popolari, che porterebbe il Ppe ad avere quasi 200 seggi. In un Europarlamento così ridisegnato, il gruppo della Le Pen passerebbe poi da quarto a sesto. A un avvicinamento al Ppe sta lavorando in silenzio da tempo il Ministro Giorgetti, ma si tratta di un’operazione che non piace molto a Forza Italia, che si vedrebbe così marginalizzata a un ruolo subalterno. Ma se, come sembra, il successore di Sassoli sarà il popolare Manfred Weber non è escluso che alla Lega dentro il Ppe possa toccare anche una vicepresidenza. Davvero un bel salto dal Papeete a Strasburgo.
Draghi: il pressing alla Ue sui vaccini
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Salvare l’Europa dalla crisi dell’Euro e salvarla dalla pandemia possono sembrare due imprese impossibili molto diverse tra loro. Ma il modello di governance che Mario Draghi ha applicato nella prima sfida potrebbe funzionare con successo anche per la seconda. Così come la crisi dell’Eurozona stava facendo naufragare il sogno europeo, oggi le nuove priorità dettate dalla pandemia più che dal debito rischiano di far finire in frantumi l’Unione. Tutta colpa di una campagna vaccinale a rilento che procede a singhiozzo per colpa delle Big Pharma, ma ci sono anche responsabilità delle istituzioni europee che non incalzano a sufficienza le imprese e non segnalano subito le inadempienze nelle consegne dei vaccini.
Gettare la croce solo su Ursula von der Leyen e i suoi uffici sarebbe eccessivo ma resta il fatto che l’Italia – anche per la responsabilità che ha come Presidente di turno del G20 e organizzatore della Global Health Summit del 21 maggio a Roma – ha chiesto un radicale cambio di passo. Non siamo ai cosiddetti “pugni sul tavolo” di Renzi né tantomeno all’antieuropeismo del Conte 1 ma a una strategia di pressing dei capi di Stato e di Governo dei 27 sulla Commissione per aumentare il numero dei vaccinati anche solo con la prima dose per intercettare quanto prima crescita economica e ripresa.
Al Consiglio europeo Draghi ha parlato con franchezza dei ritardi nel piano vaccinale, sostenuto in questo dalla Cancelliera tedesca Angela Merkel e dal Presidente francese Emmanuel Macron, con i quali nelle ore precedenti aveva concordato una linea d’azione comune. In realtà, era da settimane che aumentavano i dubbi sulla reale efficacia del piano europeo. I Primi Ministri di alcuni Paesi come Spagna, Polonia, Danimarca, Lituania e Belgio avevano già chiesto alla Commissione di assicurare per il futuro una produzione sicura ed efficiente dei vaccini. Del resto, molti Paesi stanno coltivando l’idea di muoversi da soli e lo stesso Ministro italiano della Salute Roberto Speranza avrebbe confermato la volontà di investire per sviluppare un sistema industriale della farmaceutica quale asset strategico ricordando che il vaccino Reithera sarà prodotto in Italia.
Draghi conosce troppo bene le regole delle istituzioni europee per non sapere che il suo intervento molto franco al vertice Ue di giovedì segnerà un cambio di linguaggio rispetto ai suoi predecessori, che si rifletterà sulle dinamiche interne tra Stati membri. Con Draghi l’Italia ritorna nel vagone di testa dell’Unione, in quella stanza dei bottoni dove periodicamente siamo ammessi ma dalla quale altrettanto periodicamente veniamo estromessi per nostre incapacità. In un’Europa che ha rintuzzato le spinte sovraniste alle ultime elezioni molto cambierà con l’uscita di scena della Cancelliera Merkel e con le elezioni francesi del 2022. In quel vuoto un uomo come Draghi potrebbe fare la differenza. Tanto più se le sue pressioni sui vaccini riusciranno a produrre gli effetti sperati. La linea dura dei 27 contro le Big Pharma mondiali che producono il vaccino negli stabilimenti europei, ma lesinano le dosi ai cittadini europei, è in gran parte opera sua.
L’obiettivo è di fare trasparenza sui contratti per rivederne alcuni punti condividendo le licenze, superando il segreto industriale e ampliando il numero dei siti di produzione. Draghi è stato molto fermo nel chiedere che non vengano più tollerati comportamenti inaccettabili da parte delle aziende inadempienti nei confronti degli accordi di acquisto anticipato siglati con la Commissione europea. Se la situazione non cambierà non si esclude il ricorso a strumenti molto forti come il blocco delle esportazioni di vaccini fuori dall’Europa applicando l’articolo 122 del Trattato che consente il blocco all’export in casi di carenza di beni essenziali per gli Stati membri. Ma nel frattempo sulle regole europee in materia sanitaria (esclusa dai trattati) occorrerà trovare forme di armonizzazione come un approccio comune sui tamponi e il passaporto vaccinale per migliorare gli spostamenti interni ai Paesi.
G7 sul vaccino Covid: il debutto di Draghi
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Sarà il G20 presieduto da Mario Draghi a curare già nei prossimi giorni i seguiti del vertice G7 di venerdì pomeriggio che ha definito l’immunizzazione estesa contro la pandemia come “bene globale collettivo”. Sono in corso contatti per definire in telefonate o videoconferenze i dettagli della futura azione globale sui vaccini anti Covid con il segretario delle Nazioni Unite, António Guterres, e con il premier inglese, Boris Johnson, Presidente di turno del G7.
Più nel dettaglio, l’Italia – in quanto Presidente di turno del G20 e organizzatore del Global Health Summit del 21 maggio a Roma (oltre 40 i Paesi invitati) – avrà il compito di creare un gruppo di lavoro di alto livello per indentificare i problemi industriali e commerciali nel reperimento delle dosi e della loro distribuzione. C’è grande fiducia da parte di tutti i leader del G7 sul fatto che Draghi, per la sua storia personale e la sua autorevolezza, sia la persona giusta per un compito così gravoso.
Venerdì, nella prima riunione dei capi di Stato e di Governo del G7, Draghi ha ricevuto molte dimostrazioni di stima, apprezzamento ma anche di grande affetto – e non solo – dal Presidente americano Joe Biden, dagli europei Merkel e Macron e, inaspettatamente, anche dal premier canadese Justin Trudeau. Nel giro di tavolo del vertice, Draghi ha parlato per secondo in base al rigido ordine alfabetico dopo il Presidente americano Biden (anche lui new entry nel G7, insieme a Draghi e al premier giapponese Yoshihide Suga). Con lo stesso Biden si sono salutati con affetto e durante la videoconferenza si sono spesso scambiati segni di assenso e condivisione su alcuni interventi (anche mostrando il pollice alzato).
Nella sua introduzione, il premier inglese ha tenuto a ricordare che lui e Draghi portano sulle loro spalle in questo momento una grande responsabilità condivisa sugli strumenti per affrontare la pandemia, come Presidenti di turno del G7 e del G20, e che lavoreranno insieme spalla a spalla. Secondo Johnson, le principali potenze mondiali devono “far sì che il mondo intero sia vaccinato”, oltre ad assicurare che tutti i Paesi procedano insieme. “Non abbiamo interesse a vaccinare solo le nostre popolazioni; – ha precisato il premier inglese – dobbiamo assicurare che il mondo intero sia vaccinato poiché si tratta di una pandemia globale e non serve a niente che un Paese avanzi da solo. Non ne usciremo se non avanzeremo insieme verso un’immunizzazione generale della popolazione mondiale”.
Le risorse finanziarie ci sono. Ora il problema è l’interlocuzione con Big Pharma per tradurre rapidamente nei fatti la volontà dei sette Grandi. I leader del G7 affermano che “oggi, con l’aumento del nostro impegno finanziario di oltre quattro miliardi di dollari a ACT-A e Covax, l’appoggio collettivo del G7 è di sette miliardi di mezzo di dollari”. “Il Covid 19 – si legge nel comunicato finale del G7 – ha mostrato che il mondo ha bisogno di difese più forti contro i futuri rischi alla sicurezza della salute globale. Lavoreremo con l’Oms, il G20 e altri, soprattutto tramite il Global Health Summit di Roma, per rafforzare la salute globale e l’architettura della sicurezza sanitaria esplorando fra l’altro il potenziale valore di un trattato globale sulla salute”.
La presidenza inglese del G7 ha anche preannunciato un piano che prevede uno sforzo collettivo per la riduzione a 100 giorni del tempo necessario a sviluppare gli aggiornamenti dei vaccini per contrastare in modo più specifico nei prossimi mesi anche le ultime, temute varianti del coronavirus. È previsto, poi, che siano rilanciati gli impegni sul finanziamento degli aiuti per le vaccinazioni nei Paesi poveri del mondo e più indietro nelle campagne vaccinali. Impegni già definiti nell’ambito del programma Covax, promosso dall’Organizzazione mondiale della sanità col patrocinio dell’Onu. Su questo fronte il Presidente Biden ha messo sul piatto 4 miliardi di dollari da parte degli Usa, cifra peraltro già promessa da Washington nel dicembre scorso per il Covax; mentre l’Ue ha formalizzato nel suo complesso un raddoppio del proprio contributo a un miliardo di euro, contro il mezzo milione messo a disposizione finora, inferiore inizialmente ai circa 600 milioni stanziati fin da subito dal solo Regno Unito.
Secondo la Cancelliera tedesca Angela Merkel, la lotta alla pandemia ha riproposto la necessità del multilateralismo; necessità che già si mostra nelle prime decisioni della presidenza Biden, come il rientro degli Stati Uniti agli accordi di Parigi sul clima, abbandonati da Donald Trump. La Germania poi contribuirà con 1,5 miliardi di euro aggiuntivi alla lotta contro la pandemia e alla campagna globale di vaccinazione Covax. Lo ha annunciato il Ministro delle Finanze tedesco, Olaf Scholz, a margine dei lavori del G7. La Germania ha già contribuito a questa campagna con 600 milioni di euro e ora metterà a disposizione dell’alleanza per il vaccino Gavi, l’organo che gestisce il programma Covax, 1 miliardo di euro per le vaccinazioni nei Paesi in via di sviluppo. Gli altri 500 milioni andranno a favore della ricerca sui vaccini.
Quando Costa Gavras mi disse:” Tu sarai Draghi!”
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“Lo confesso, ero un po’ intimorito – e come non esserlo se ti chiama un regista che è una leggenda vivente del cinema mondiale come Costa-Gavras, 88 anni compiuti proprio oggi, 12 febbraio. Ma mi sono messo subito al lavoro e lì ho scoperto un Draghi inedito”.
Chi parla è Francesco Acquaroli, 59 anni, attore romano, una lunga carriera tra teatro, cinema e televisione, ora impegnato nelle riprese del nuovo film Sky di Marco Pontecorvo sulla tragedia di Alfredino Rampi a Vermicino, dove interpreta il capo dei Vigili del fuoco e primo capo della Protezione civile, Elveno Pastorelli. Acquaroli racconta di quando, nell’inverno del 2018 il regista greco – autore tra l’altro di “Z – l’orgia del potere”, “La Confessione”, “L’amerikano” – lo chiama per assegnargli la parte del Presidente della Bce, Mario Draghi, nel film “Adults in the room”, tratto dal libro dell’ex Ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis “Adults in the room: my battle with Europe’s deep establishment” sulla crisi finanziaria greca e l’arrivo della trojka ad Atene. Titolo del libro e del film che si ispira a una battuta pronunciata da Christine Lagarde, allora Direttrice del Fondo monetario internazionale: “Servirebbero degli adulti in questa stanza”. Come a dire che le decisioni prese non furono da uomini maturi.
Un film nato tra grandi difficoltà (per i problemi di finanziamento), girato tra Atene e Parigi (i Palazzi di Bruxelles rimasero ermeticamente off limits per le riprese) e osteggiato infine dalle catene di distribuzione. Fu presentato alla Mostra del Cinema di Venezia del 2019 ma, subito dopo, se ne sono perse le tracce. I pochi che lo hanno visto hanno potuto toccare con mano tutta l’abilità creativa di Costa-Gavras, capace di dare forma a una tragedia greca vissuta ai nostri giorni e insieme un atto di accusa contro le miopie delle istituzioni europee, che avevano scoperto i trucchi di bilancio, ma avevano forse insistito troppo con un approccio punitivo.
Ma perché Costa-Gavras sceglie Acquaroli, noto al grande pubblico in Italia soprattutto per aver prestato il volto al Samurai di Suburra? “Innanzi tutto – spiega Acquaroli – Costa voleva che a interpretare le personalità dei vari Paesi europei fossero attori di quegli stesso Paesi. Certo, ci sono state eccezioni perché ad esempio l’ex Ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan è stato interpretato da un attore americano che vive a Parigi così come la moglie di Varufakis, Danae Stratou, è interpretata da Valeria Golino”. Ma Costa-Gavras non pensava tanto al Samurai di Suburra; aveva visto Acquaroli interpretare il gestore della sala giochi di “Dogman” di Garrone, personaggio borderline e gli era piaciuto. “Costa – racconta sempre Acquaroli – non cercava un attore che somigliasse molto a Draghi ma voleva che nei tratti e nella presenza scenica trasmettesse tutta la forza che il personaggio rappresentava in quel momento. E io, che tra l’altro sono un pessimo imitatore, non ho fatto nulla per trasformarmi in una copia di Draghi ma del Presidente della Bce ho studiato ogni parola e ogni gesto”.
Con quali risultati? “Ho scoperto, innanzi tutto un aspetto che non conoscevo, un lato umoristico che ho colto in una sua intervista al World Economic Forum di Davos con battute e saluti personali per scaldare la sala prima di elencare fatti e numeri; nel body language così come nella retorica ho visto un controllo pieno, una padronanza dello stage che risponde a precise regole dello schema teatrale e dell’azione scenica: oltre, ovviamente, a un equilibrio inaspettato tra la capacità di gestire il pubblico e la chiarezza dell’analisi tecnica”.
Di quel set Acquaroli ha ancora ricordi molto vivi. Una grande sintonia tra gli attori che sentivano il peso di portare in scena una tragedia di un Paese sull’orlo della bancarotta e delle istituzioni europee divise sulle ricette per salvarlo. Le battute del Draghi-Acquaroli sono brevi ma fulminanti: “O accettate il memorandum of understanding – dice Draghi a Varoufakis -oppure è Grexit, uscita dall’Euro”. Qui, probabilmente, la narrazione del film va oltre la realtà, dal momento che, per come conosciamo l’ex Presidente della Bce, non è mai lapidario, casomai il contrario, annoverando tra le sue doti una capacità inclusiva non comune.
La percezione dell’attore è che il duro confronto personale finì con il segnare l’epilogo della tragedia. “In verità – aggiunge Acquaroli – la figura di quello che tutti chiamano nel film solo Mario mostra aspetti controversi: per un buon tratto condivide le analisi di Varoufakis sulle cause che hanno prodotto la crisi e contrasta i falchi tedeschi di Wolfgang Schauble ma alla fine si allinea a loro scatenando la delusione del Ministro delle Finanze greco” che però, a detta di tutti gli esperti, avrebbe avuto davvero bisogno di lezioni di base di economia, tanto da essere stato scaricato dal suo stesso premier.
E nella memoria di Acquaroli resta incisa la scena girata al Teatro dell’Opera di Atene con la disposizione dei Ministri a seconda che i Paesi facessero parte dei virtuosi o degli spendaccioni. Così, tutti da un lato si trovarono i Ministri di Portogallo, Italia, Grecia e Spagna. A formare quella parola – PIGS – data in pasto alle opinioni pubbliche dei Paesi virtuosi, Germania in testa. Un ballo finale da coro greco chiude la “tragedia” moderna.
Con Draghi, Italia protagonista Ue
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È una storia che abbiamo vissuto tante altre volte. Ma dalla quale non riusciamo a trarre gli insegnamenti necessari. Storia che sembra tatuata nel Dna del nostro Paese. Una politica senza visione e responsabilità che appicca il fuoco al Palazzo, porta il Paese sull’orlo del baratro e poi, incapace di spegnere l’incendio, si arrende all’evidenza ed è costretta a passare la mano alla “riserva della Repubblica”, ai “tecnici di alto profilo”.
È successo nel ’93 dopo Tangentopoli e la svalutazione della lira con Carlo Azeglio Ciampi. È successo poi con Dini dopo il primo Governo Berlusconi. E poi anche nel 2001 con Kissinger e Agnelli a “consigliare” Berlusconi di far salire a bordo da Ministro degli Eteri Renato Ruggiero per rendere quell’esecutivo un po’ meno “unfit”. Fino al dicembre 2011 con lo spread sopra 500 punti quando il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano riceve le telefonate della Cancelliera Merkel preoccupata dal fatto che durante i Consigli europei Silvio Berlusconi era preda di sonni improvvisi. Con il successivo warning: “se dopo la Grecia crolla l’Italia, crolla anche l’euro”. Napolitano sfodera dal cilindro Mario Monti, lo nomina senatore a vita ed evita la trojka per l’Italia. Al 90% tutti votano in Parlamento il suo programma di lacrime e sangue tranne dopo pochi mesi rinnegarlo sbeffeggiandone l’esordio alle successive elezioni che – detto per inciso – avrà pure fatto irritare Napolitano ma drenò quei voti del centro impedendo a Berlusconi di tornare a Palazzo Chigi.
E siamo all’oggi, all’avvocato del popolo Giuseppe Conte che si stava incartando in un Recovery Plan senza l’adeguato corredo di riforme richieste da Bruxelles e senza una governance adeguata. Cosicché il tavolo fatto saltare da Renzi avrebbe di fatto solo accelerato la segreta ambizione del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella che da mesi registrava segnali preoccupanti sull’estrema debolezza del Piano italiano di Ripresa e Resilienza e già pensava all’ex Presidente della Bce per rimettere in carreggiata un Paese sfinito dalla pandemia e dalla crisi economica.
La costruzione del consenso intorno a Mario Draghi sconta evidentemente in queste ore anche l’incapacità delle forze politiche di riconoscere fino in fondo i propri errori fino a nascondere divisioni interne e ripensamenti. Ma i numeri dovrebbero esserci, e se tutto andrà in porto come si spera, in poche settimane il lavoro dell’esecutivo potrà riprendere sui due filoni cruciali: emergenza sanitaria ed emergenza economica. Sono due aspetti della stessa medaglia e Draghi sa bene come gestirne gli effetti.
I rapporti con la Presidente della Commissione Ursula von der Leyen così come con la Cancelliera tedesca Angela Merkel e con il Presidente francese Emmanuel Macron non hanno bisogno di intermediazioni diplomatiche: sono diretti e in alcuni casi quasi amichevoli. Sarà molto difficile per le cancellerie europee “juniorizzare” il nostro Paese e relegarlo al ruolo di comprimario sui grandi dossier continentali e globali. Il Draghi “politico” saprà utilizzare al meglio la prima presidenza italiana del G20 e il Global Health Summit del 21 maggio per rimettere l’Italia tra i grandi attori globali e al fianco della nuova amministrazione americana di Joe Biden su dossier centrali che si chiamano ricerca congiunta sui vaccini e lotta alla pandemia, competizione con la Cina, dialogo critico con la Russia sui diritti umani, gestione delle crisi nel Mediterraneo allargato su stabilità politica, democrazia e controllo dei flussi migratori, lotta al terrorismo fondamentalista e sfida dei cambiamenti climatici.
Insomma nel direttorio europeo quello strapuntino di solito riservato all’Italia potrebbe trasformarsi – e rapidamente – in una poltrona di prima fila.
Renzi: deserto saudita o Quirinale?
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Nella primissima Repubblica – a un certo punto -, sotto la spinta di qualche ricorrente campagna moralizzatrice, si aprì un dibattito che, visto con gli occhi di oggi, sembrerebbe quasi surreale. Si discuteva non tanto se fosse consentito a un politico di professione di avere una consulenza esterna o un incarico retribuito ma se grandi professori universitari come Aldo Moro e Francesco De Martino potessero ancora, svolgendo attività politica e di Governo, salire in cattedra nelle Università rinunciando ovviamente a percepire ogni tipo di prebenda.
Lo “spirito dei tempi” sembrerebbe invece quasi assolvere in via preventiva l’ultima “incursione nel deserto” dell’Arabia saudita nella reggia del discusso principe ereditario Mohammed Bin Salman dell’ex premier Matteo Renzi. E tutto questo proprio in coincidenza con la crisi aperta dalla sua Italia Viva. Tanto che Renzi è dovuto salire all’ultimo momento sul Gulfstream del principe saudita per tornare in tempo a Roma ed essere ricevuto dal Presidente Mattarella al Quirinale.
“L’Italia – ha spiegato poi Renzi – si sta giocando il futuro. La crisi deve decidere del Recovery Plan, vaccini, scuole. Chi ha idee, le porti al tavolo, chi non ne ha, usi i diversivi, l’aggressione personale, la simpatia, il carattere”. Il “diversivo” di oggi sarebbe la conferenza internazionale a Riad. “Prendo l’impegno – promette Renzi, sperando di soffocare le polemiche – di discutere con tutti i giornalisti in conferenza stampa dei miei incarichi internazionali, delle mie idee sull’Arabia Saudita, di tutto. Ma lo facciamo la settimana dopo la fine della crisi di Governo. Adesso è del futuro dell’Italia, non del futuro dei sauditi, che stiamo discutendo”.
Il dialogo tra il principe ereditario Mbs e Renzi è stato trasmesso in video nella seconda e ultima giornata della conferenza, a cui hanno partecipato 150 relatori, tra cui David Solomon, Ceo di Goldman Sachs, Stephen Schwarzman, Direttore del fondo di investimento Blackstone e Larry Fink, Ceo della società americana Blackrock. Renzi ha sostenuto che “l’Arabia Saudita è il luogo del nuovo Rinascimento”. Affermazione che ha suscitato un coro di critiche di quanti hanno ricordato che la situazione dei diritti umani in Arabia Saudita è piuttosto lontana dagli standard occidentali. Il Presidente di Italia Viva, Ettore Rosato, scomoda perfino l’invidia (non si capisce se per la “lezione” sul Nuovo Rinascimento o per gli 80mila euro di competenze percepite da Renzi come membro dell’Advisory Board del Future Investment Initiative saudita). “Da senatore, – afferma Rosato – Renzi nel rispetto delle leggi, fa quello che fanno tutti gli altri leader mondiali, è chiaro che uno che non è considerato al di fuori dei confini e in questa politica nazionale ne abbiamo tanti, suscita un po’ di invidia, però non è con l’invidia che si Governa il Paese”.
Il verde Bonelli si domanda tuttavia “cosa c’entra il Rinascimento con la realizzazione sulle coste del Mar rosso in un’area marina protetta e incontaminata di 22 resort su 22 isole, di un aeroporto da 1 milione di passeggeri l’anno e della costruzione di una città, che si chiamerà The Line, da oltre 1 milione di abitanti lunga 172 km voluta dalla società Neom, di cui è Presidente del consiglio di amministrazione il principe saudita Bin Salman?”. E aggiunge: “Chi protesta in Arabia Saudita viene arrestato, i dissidenti muoiono in carcere e vengono perseguitati – come nel caso di Loujain al-Hatloul, attivista per i diritti delle donne condannata a 5 anni – o fatti a pezzi come nel caso del giornalista Jamal Kashoggi del Washington Post”.
Tanto per montare meglio il caso, incrudelire il confronto tra grillini e renziani e aprire un altro fronte con il regime di Riad, il sottosegretario grillino agli Esteri, Manlio Di Stefano, annuncia “la revoca della vendita di 12.700 bombe all’Arabia Saudita autorizzate nel 2016 da Renzi proprio nel momento peggiore della guerra in Yemen”. Ordigni, ricorda Di Stefano, utilizzati nel conflitto in Yemen, Paese dove Arabia Saudita ed Emirati sono coinvolti militarmente nel quadro di una coalizione araba che sostiene il Governo Hadi, riconosciuto dalla comunità internazionale e che combatte i ribelli Houthi. Ma un altro sottosegretario alla Farnesina di Italia viva, Ivan Scalfarotto, chiarisce: “Fu proprio Manlio Di Stefano a venire in aula, nel giugno 2019, a chiedere a nome del Conte 1 il voto per l’embargo solo su bombe di aereo e missili e non sulle altre armi. Con la nostra maggioranza, il mese scorso, si è riparato al grave errore di allora”. Con immediata controreplica via Twitter di Di Stefano: “La risoluzione di revoca è a prima firma di Yana Ehm, l’iter è stato gestito da me come delegato e da Luigi Di Maio come Ministro, l’approvazione finale è stata di Giuseppe Conte. Tutti nomi – sottolinea Di Stefano – espressione del M5S. O vivi di manie di protagonismo come il tuo leader o sei molto confuso”.
Poi, alla fine, sono le fonti ufficiali della Farnesina a precisare: “I contratti di export di armi con alcuni Paesi non sono iniziati nel 2014, ma prima, quindi è tecnicamente sbagliato attribuirli a un singolo o a una singola forza politica. Peraltro, se si considerano i 3 anni precedenti la guerra in Yemen e i 3 anni successivi, il valore complessivo di armamenti venduti a Riad non è aumentato, anzi è diminuito. Lo stop all’export di bombe e missili arrivò con una risoluzione del Parlamento poche settimane prima del Conte II, il che significa che le esportazioni di armamenti andarono avanti per tutto il corso del Conte I”.
Ma il principe ereditario saudita, più che a Renzi, guardava da tempo agli Stati Uniti, dove aveva un importante alleato in Donald Trump che gli garantiva contratti miliardari di armamenti in funzione anti-Iran e una pietra tombale sulle responsabilità in vari casi giudiziari aperti. Mohammed bin Salman, era accusato di avere ordinato a una squadra di sicari di uccidere un ex alto funzionario dell’intelligence saudita, Saad Aljabri, che aveva intentato una causa legale nella quale affermava che Salman avrebbe inviato una squadra di sicari dove lui si trova in esilio.
Fatto sta che il nuovo Presidente, Joe Biden, ha temporaneamente sospeso la vendita di armi all’Arabia Saudita e di caccia F-35 agli Emirati Arabi Uniti al fine di “riesaminare le decisioni prese sotto la presidenza di Donald”. Un portavoce ha precisato che il congelamento punta a fare in modo che “la vendita di armi statunitensi risponda ai nostri obiettivi strategici di costruire alleanze di sicurezza più forti, intercambiabili ed efficaci”.
La trappola di Conte a Renzi: Benassi ai Servizi
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Che un ambasciatore si occupi di intelligence non è certo una novità. La familiarità con i dossier riservati e i rapporti con quelle che vengono definite “barbe-finte” sono all’ordine del giorno nel lavoro di molti diplomatici.
Già ben prima che un “pezzo da novanta” della Farnesina come Francesco Paolo Fulci, e poi l’ex segretario generale degli Esteri Giampiero Massolo, assumessero il ruolo di capi della struttura di coordinamento tra i due Servizi Aisi e Aise (eredi dal 2007 di Sismi e Sisde) un diplomatico vicino ai socialisti come Francesco Malfatti di Montetretto aveva costruito buona parte delle sue fortune fino ai massimi vertici della carriera diplomatica proprio sulle relazioni con i servizi dei Paesi alleati, coltivate durante l’ultima parte della guerra. La novità è, semmai, che per la prima volta un diplomatico assume il ruolo di “autorità delegata” per i servizi, ruolo riservato ai politici (si pensi a Marco Minniti) con l’unica eccezione, durante il Governo Monti, per Gianni De Gennaro ex capo della Polizia.
Chi è Pietro Benassi
Le qualità umane e professionali dell’ambasciatore Pietro Benassi, fino a due giorni fa consigliere diplomatico del premier Giuseppe Conte, nominato giovedì sera dal Consiglio dei Ministri sottosegretario per i Servizi, sono fuori discussione, come si evince facilmente dal coro di apprezzamenti giunti in suo favore dal Ministro degli Esteri Luigi Di Maio al Ministro per gli Affari europei Enzo Amendola fino ai numerosi esponenti dei 5 Stelle. Nel corso degli ultimi due anni Benassi ha introdotto con pazienza (ma anche fermezza) il Presidente del Consiglio a tutti i segreti della diplomazia fatta di regole scritte e protocolli da seguire ma più spesso di consuetudini e relazioni personali intessute negli anni. Si è guadagnato così la stima di Conte sulla preparazione e il negoziato di dossier delicati che vanno dalle relazioni turbolente con gli Stati Uniti dell’era Trump (compresi i viaggi a Roma del guardasigilli Barr per il Russiagate) alla gestione della crisi libica con la conferenza di Palermo e il sostegno al Governo di Tripoli. Ma è stato sul rientro nell’ortodossia europea che Benassi ha convinto Conte della necessità di chiudere il capitolo dell’era salviniana (e in parte dei 5 Stelle) contro Bruxelles e riaprire con le istituzioni europee un dialogo da posizioni negoziali più forti.
Strategico è stato il rapporto con la Merkel ricostruito gradualmente da Conte con l’aiuto di Benassi, che conta ancora a Berlino numerosi rapporti fin dai tempi in cui ricopriva il ruolo di ambasciatore italiano in Germania. In altre parole, uno dei “consiglieri” più vicini a Conte, un “civil servant” che ha interpretato il suo ruolo come servizio al Paese. Per Conte avere scelto lui come “autorità delegata” ai servizi è stato un po’ come dire: la cabina di regia del “comparto” resta qui a Palazzo Chigi. Formalmente le richieste di Renzi per la delega vengono soddisfatte ma nella sostanza poco a nulla potrebbe cambiare. La delega a Benassi ha anche evitato a Conte il lungo valzer delle candidature a quel posto tra Pd e grillini magari in competizione tra loro (tra i candidati c’era manche il Ministro della Giustizia Bonafede). Anzi, a ben vedere, la lunga mano di Conte sui servizi sembra rafforzarsi anche nelle strutture cardine del comparto con la nomina dei due vicedirettori dell’Aise e del vicedirettore dell’Aisi. Al servizio per l’estero andranno l’ammiraglio Carlo Massagli – fino a ieri consigliere militare proprio di Conte a Palazzo Chigi – e il generale Luigi Della Volpe (della Finanza, come il direttore del Dis Vecchione, molto vicino a Conte); mentre al servizio interno andrà il generale dei Carabineri Carlo De Donno.
Chi sarà il nuovo consigliere diplomatico
Il trasferimento di Benassi ai servizi apre ora la questione del nuovo consigliere diplomatico a Palazzo Chigi. Un ruolo che rivestirà nei prossimi mesi sempre più importanza per gli impegni della presidenza italiana del G20, l’organizzazione del Global Health Summit del 21 maggio e la partnership con gli inglesi per la Cop 26 sul clima di Glasgow in novembre. Tra i candidati alla successione di Benassi si fanno già i nomi di due ambasciatori di grado: Maurizio Massari, attuale rappresentante permanente a Bruxelles, e Pasquale Ferrara, fino a pochi mesi fa ambasciatore ad Algeri da poco rientrato alla Farnesina. Massari è stato ambasciatore a Il Cairo nel momento più duro del confronto con le autorità egiziane subito dopo il ritrovamento del cadavere di Giulio Regeni. Ferrara è stato capo del servizio stampa con Massimo D’Alema e segretario generale dell’Istituto europeo di Firenze. Un ritorno a Roma di Massari (sia pure in una fase delicata come quella del negoziato sul Recovery Plan) potrebbe però soddisfare le ambizioni dell’attuale capo di gabinetto di Di Maio, l’ambasciatore Ettore Sequi, che da tempo vorrebbe chiudere la sua carriera proprio a Bruxelles.
Conte-Rutte: strane coincidenze tra “duellanti”
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Tra i due erano “volati gli stracci” al palazzo del Consiglio Ue nel luglio del 2020 nei quattro giorni di estenuante trattativa sul Next Generation EU da 750 miliardi di euro (209 per l’Italia). Tra il premier italiano Giuseppe Conte e quello olandese Mark Rutte la questione si era fatta quasi personale. Erano volate parole grosse. E anche qualche sfottò come quando lo stesso Conte, in una pausa notturna, tenne a ricordare alla delegazione olandese quello storico “cucchiaio” di Francesco Totti nella partita Italia-Olanda del 2000. “Do you remember Totti?”, andava chiedendo Conte agli olandesi mimando la parabola vincente. Poi, l’accordo si trovò all’alba del quarto giorno e le obiezioni di Rutte furono respinte tutte al mittente ma più che altro per l’intervento decisivo della Cancelliera tedesca Angela Merkel e del Presidente francese Emmanuel Macron.
Ebbene, ora i duellanti del Next Generation EU stanno condividendo analoghe preoccupazioni che riguardano le sorti delle rispettive politiche interne. Mentre Conte cerca in tutti i modi di evitare con il sostegno dei “costruttori” l’apertura ufficiale di una crisi creata da Matteo Renzi, Rutte, il leader europeo più longevo dopo la Merkel (è in carica dal 2010), si è già recato dal re per presentare le dimissioni sue e del suo gabinetto.
Il Governo di centro-destra di Rutte è stato travolto da uno scandalo legato a sussidi di welfare per l’infanzia già concessi che l’agenzia delle imposte olandese erroneamente chiedeva venissero restituiti (in alcuni casi oltre 40mila euro a famiglia, spesso immigrate). La caduta del Governo era già stata annunciata dopo che diversi partiti della coalizione avevano lasciato intendere che lo scandalo avrebbe avuto conseguenze politiche.
I leader dei partiti della maggioranza come quello cui appartiene Rutte, il Vvd oltre a Cda, D66 e i Cristiani Uniti si sono riuniti ieri per decidere il destino del Governo. Ma la tensione era aumentata già giovedì scorso con le dimissioni del leader del Partito laburista (PvdA) all’opposizione, Lodewijk Asscher, che fu Ministro per gli Affari sociali e l’occupazione in un precedente Governo Rutte, tra il 2012 e il 2017. Dimissioni che hanno aumentato la pressione politica sull’esecutivo e reso inevitabile la crisi. Ma la caduta del Governo Rutte III non porterebbe automaticamente a elezioni anticipate. L’attuale gabinetto potrebbe infatti rimanere in carica per il disbrigo degli affari correnti in vista delle elezioni legislative previste il prossimo 17 marzo.
Il caso è nato dopo che i funzionari del fisco olandese avevano accusato ingiustamente circa 20mila famiglie di frode, facendone indebitare molte per rimborsare le indennità per l’infanzia già erogate. Ma si è poi scoperto che si trattava di un errore del sistema informatico. “Non ho alcun coinvolgimento diretto nel caso – ha osservato Rutte – ma ovviamente un coinvolgimento indiretto. Penso di poter continuare come leader del partito, ma alla fine spetterà agli elettori decidere”.
Quanto all’Italia, la crisi aperta da Renzi preoccupa molto le cancellerie europee. La Merkel segue da vicino l’evolversi della crisi. E si augura che venga scongiurato il rischio che i “falchi” sovranisti di Lega e Fratelli d’Italia possano rialzare la testa e minacciare gli equilibri europei. Anche la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha chiesto al commissario italiano Paolo Gentiloni di rassicurarla sul fatto che l’attuale Governo filo-europeo non vada a casa. A condividere le idee di Renzi sull’attuale esecutivo sembra essere solo il Faz (Frankfurt Allgemeine Zeitung), secondo il quale “questo Governo italiano, oltre alla gestione della pandemia, non ha prodotto niente che guardi al futuro. Conte voleva distribuire i soldi di Bruxelles secondo criteri politici e clientelari”.
Assalto a Capitol Hill: manca la condanna di Conte
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Il più duro, stanti i pericolosi venti di crisi che aleggiano sulla maggioranza, è stato il renziano Luciano Nobili con il suo “C’è qualcuno a Palazzo Chigi? Quando arriva la condanna di Conte?” Ma anche l’ex segretario dem, Walter Veltroni, ha ricordato che “non si può commentare l’attacco alla democrazia americana senza condannare esplicitamente chi ne è responsabile”. E anche il vicesegretario del Pd, Andrea Orlando sulla vicenda dell’assalto dei trumpiani a Capitol Hill ha chiarito: “Io avrei detto di più. Bisogna essere chiari, la violenza è inaccettabile ed è stata innescata da Trump”. Orlando che difende di solito Conte come “punto di equilibrio” per la maggioranza, ha trovato fin troppo timido il tweet con il quale, nella serata dell’Epifania, il Presidente del Consiglio italiano è intervenuto in ritardo sull’assalto al Congresso americano. “La violenza è incompatibile con l’esercizio dei diritti politici e delle libertà democratiche”, ha scritto Conte senza mai citare le responsabilità del Presidente uscente.
Un abisso rispetto a quanto fatto dallo stesso premier inglese Boris Johnson e dalla Cancelliera Angela Merkel, che ha “deplorato” il comportamento di Trump che “non ha riconosciuto il risultato delle elezioni e ha preparato l’atmosfera per gli eventi della notte scorsa.”. Mentre il Presidente francese Emmanuel Macron ha almeno citato il fatto che sono stati “i sostenitori di Trump a mettere in discussione con le armi il risultato legittimo”.
È un fatto che la timidezza di Conte sta diventando ora un caso anche perché ha riportato d’attualità quanto accadde il 7 novembre scorso, quando i capi di Governo di tutto il mondo avevano riconosciuto la vittoria di Biden come Presidente eletto e il premier italiano aveva preferito fare i complimenti al “popolo e alle istituzioni americane”. Gaffe che obbligò il giorno seguente Conte a riformulare meglio gli auguri a Biden.
Ma il Presidente del Consiglio vuole evitare in tutti i modi che si possa guardare a un ruolo decisivo di Trump nel via libera d’oltre Oceano al suo secondo incarico di Governo con quell’endorsement all’amico “Giuseppi” subito dopo il vertice G7 di Biarritz del 2019. Da qualche giorno è in atto una vera e propria strategia ad ampio raggio di “riposizionamento strategico” per avvicinare gli uomini di Biden, a cominciare da Anthony Blinken, colui che ricoprirà il ruolo di segretario di Stato.
È la diplomazia italiana la più impegnata in questa opera di ricucitura che vede molto attivo l’attuale ambasciatore italiano a Washington, Armando Varricchio (sia pure in regime di prorogatio), già consigliere diplomatico di Matteo Renzi a Palazzo Chigi e dell’attuale consigliere diplomatico di Conte, l’ambasciatore Pietro Benassi. Un’azione che si rivolge anche nei confronti della nuova Flotus (First Lady of The United States), l’italo americana Jill Tracy Jacobs, originaria di Gesso in provincia di Messina da dove proveniva suo nonno Gaetano Giacoppo. In realtà, Farnesina e Palazzo Chigi hanno anche buoni strumenti per rasserenare i rapporti tra Roma e Washington. Toccherà infatti all’Italia guidare per tutto il 2021 il G20 fino al vertice finale di fine ottobre a Roma, mentre il 21 maggio sarà sempre il nostro Paese a organizzare l’Health Global Summit sulla pandemia. Due appuntamenti che richiederanno un grande sintonia tra Roma e Washington e che potrebbero favorire l’auspicabile riavvicinamento.
Difficile però cancellare del tutto l’ombra delle accuse e dei sospetti per l’affare Barr-Mifsud. Ora è Italia viva di Renzi a gettare benzina sul fuoco, chiedendo la cessione della delega sui servizi da parte di Conte per chiarire finalmente se nell’estate del 2019 vi fu quell’intreccio di contatti e appoggi tra amministrazione Trump e Governo italiano durante le due visite del guardasigilli americano l’Attorney general, William Barr, che cercava le prove di un complotto ordito ai danni del Presidente Usa sul Russiagate. Nell’ottobre scorso Conte ha spiegato al Copasir che non vi fu alcun ruolo dei nostri servizi nel Russiagate ma solo scambi di informazioni. In particolare Barr, nel corso di due viaggi in agosto e settembre del 2019, chiedeva notizie su Joseph Mifsud, docente maltese passato per la Link Campus University di Roma attualmente irreperibile, che nel 2016 avrebbe passato a George Papadopoulos, consulente dell’allora candidato Donald Trump, la ‘polpetta avvelenata’ delle email di Hillary Clinton in mano ai russi.
Vicenda sulla quale, nelle due sponde dell’Oceano e per motivi magari diversi, sono in molti ad avere tutto l’interesse nello stendere un velo di generale oblio.
Libia: l’Italia rilancia il progetto dell’autostrada della pace
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Bisognerà attendere l’autunno del prossimo anno per vedere l’effettivo avvio dei lavori dell’autostrada costiera sul tracciato dell’antica Via Balbia, dal confine con l’Egitto a quello con la Tunisia (circa 2mila km). Il mega progetto da 5 miliardi di dollari era il fiore all’occhiello dell’accordo di amicizia e cooperazione firmato da Silvio Berlusconi e Muammar Gheddafi nel 2008, riconfermato anche dopo la caduta del regime nel 2011. Nel 2013 era stato assegnato un primo lotto alla Salini (ora Webuild) per la prima parte, ma i lavori si sono arenati per la guerra civile.
Ora quell’autostrada potrebbe assumere un valore altamente simbolico per unire la Cirenaica del generale Khalifa Haftar e la Tripolitania di Fayez al-Sarraj.
Se ne è discusso giovedì scorso in videoconferenza durante la prima riunione della Commissione tecnica economica congiunta italo-libica (Cecil), guidata per parte libica dal dottor Mahmoud Khalifa El-Tellisi, sottosegretario del Ministero degli Affari Esteri per gli Affari Tecnici, e per parte italiana da Manlio Di Stefano, sottosegretario del Ministero degli Affari Esteri. Un appuntamento che segna la volontà di Sarraj di mantenere una forte partnership con l’Italia per non rimanere schiacciato dall’egemonia turca. E a questo riguardo, lunedì e martedì prossimi, a Roma, si terranno i seguiti della commissione istituita tra i due Ministeri della Difesa per i programmi di formazione e collaborazione per l’ospedale militare di Misurata.
Proprio nel momento in cui il premier Conte e il Ministro degli Esteri Di Maio volavano a Bengasi per chiudere con Haftar la vicenda del sequestro dei 18 pescatori di Mazara del Vallo, la Commissione approfondiva i rapporti bilaterali con Tripoli “in un’atmosfera di amicizia e in uno spirito di profonda collaborazione”. Molti i settori toccati: dai trasporti alle infrastrutture, all’agricoltura, dall’istruzione alla giustizia. Il primo incontro è stato dedicato alle opportunità di cooperazione in settori quali la tecnologia dell’informazione e dei trasporti, le infrastrutture, la sicurezza energetica e le energie rinnovabili, l’industria, l’agricoltura, la preservazione del patrimonio archeologico.
Sull’autostrada costiera si è convenuto che in estate, o al più tardi all’inizio dell’autunno, verrà lanciata una gara ristretta alle aziende italiane per la tranche di lavori da 400 Km che vanno da Misurata a Ras Jader, a ridosso del confine con la Tunisia. L’ammontare di questa tranche dovrebbe essere di circa 1,5 miliardi di dollari. Ma l’avvio dei lavori è condizionato dallo sminamento e dalla messa in sicurezza del tracciato. La parte libica potrebbe anche chiedere nuove specifiche come la terza corsia, che farebbe però lievitare tempi e costi dell’operazione. Il finanziamento resterà a carico dell’Italia attraverso una tassazione annua per circa 250 milioni di dollari in capo al gruppo Eni.
Ma il risultato operativo più immediato della Commissione è l’accordo per la messa in pagamento dei crediti storici vantati dalle aziende italiane per contratti precedenti al 2011. Si tratta di 323 milioni di dollari già concordati con il Governo Zidane che vengono confermati ora dal Governo Sarraj mentre si dovrà aprire un negoziato nuovo per il riconoscimento di crediti dopo il 2011 che oscillano tra i 50 e i 100 milioni di euro. Di Stefano e El-Tellisi hanno anche discusso su come affrontare insieme le conseguenze socio-economiche della pandemia Covid-19. Le due parti hanno inoltre accolto con favore la recente firma del Memorandum d’Intesa sull’insegnamento della lingua italiana nella scuola secondaria e nelle scuole libiche come materia opzionale.
”Nonostante la pandemia – ha osservato Di Stefano – abbiamo creduto che inaugurare la Commissione entro la fine di quest’anno fosse un importante segnale politico della determinazione di Italia e Libia a rilanciare una collaborazione a tutto tondo, in ambito politico, economico, culturale e di sicurezza”. La Commissione, secondo il sottosegretario, testimonia che la Libia ha superato la fase del conflitto militare aperto. “Oggi, sebbene il percorso sia ancora lungo e non manchino i tentativi interni ed esterni di ostacolarlo, siamo lieti di constatare la determinazione delle autorità libiche a preservare l’unità, l’integrità e la sovranità del Paese. Questo ha già permesso di ottenere importanti progressi. Penso in primo luogo alla ripresa della produzione petrolifera, che in poche settimane ha praticamente raggiunto i livelli precedenti al blocco di gennaio”. La situazione economica però registra ancora uno stallo poiché i proventi delle vendite di prodotti petroliferi vengono fatti confluire in un fondo della Noc – la Lybian Foreign Bank – in attesa che si raggiunga un accordo su come ripartire i fondi tra est e ovest.
Si sta anche lavorando per la definizione di un nuovo tasso di cambio ufficiale e per riportare a unità la Banca centrale di Libia. “Noi – ha precisato Di Stefano – vogliamo che l’Italia sia al fianco del popolo e delle autorità libiche in questo percorso e con la Cecil ci siamo dati il difficile compito di rilanciare i rapporti economico-commerciali bilaterali. Nel 2012 l’interscambio commerciale raggiungeva i 15 miliardi di euro. Nel 2019, al termine di un anno complicatissimo sul piano interno – ha ricordato -, l’interscambio si è attestato a poco meno di 6 miliardi: sicuramente una sensibile riduzione ma comunque una cifra notevolissima.”
Next Generation EU: sbloccato veto di Polonia e Ungheria
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Alla fine, la Cdu tedesca, e dietro a tutti la Cancelliera Angela Merkel, ha fornito al premier ungherese Victor Orbán, “alleato” a Strasburgo nel Ppe, un salvacondotto ben confezionato per presentarsi alle elezioni del 2022 senza troppi rischi di vedersi cancellati i fondi Ue per mancato rispetto delle norme Ue sullo Stato di diritto.
Certo, la presidenza tedesca – che ha negoziato fino alla vigilia del Consiglio europeo di giovedì e venerdì scorsi – potrà sempre dire che il testo finale del regolamento sullo Stato di diritto bloccato dal veto di Polonia e Ungheria (dal quale dipendeva la sorte di 1800 miliardi di euro tra bilancio Ue 2021-2027 e Next Generation Ue) è rimasto quello voluto da Consiglio e Parlamento, ma l’interpretazione che gli si dà con il richiamo alle “identità nazionali”, la riduzione di poteri in capo alla Commissione e il ricorso al voto all’unanimità del Consiglio sulle questioni da portare alla Corte di Giustizia consentono a Orbán e al premier polacco Mateusz Morawiecki di presentarsi alle rispettive opinioni pubbliche in fase pre-elettorale, vendendo una vittoria sulla burocrazia di Bruxelles in difesa della loro identità nazionale.
C’è da dire, tuttavia, che i termini del compromesso (non tutti così chiari e condivisibili) non sembra abbiano scaldato più di tanto i cuori dei politici italiani, molto impegnati a risolvere i rebus sulla tenuta della maggioranza dopo le minacce di Matteo Renzi e il futuro della governance del Recovery Plan e della task force che dovrebbe guidarlo.
“L’Europa va avanti”, esulta la Presidente della Commissione Ursula von der Leyen, relegando i termini del compromesso alla bassa “intendenza” dei servizi giuridici che comunque hanno portato a casa un risultato apprezzato anche dal Presidente francese Emmanuel Macron, secondo il quale “l’Europa non rinuncia ai suoi valori”. Giuseppe Conte si mostra soddisfatto. Il veto di Polonia e Ungheria avrebbe bloccato anche i 209 miliardi di euro destinati al nostro Paese, tra sovvenzioni a fondo perduto e crediti. “Ora avanti tutta con la fase attuativa – scrive su Twitter il premier italiano – dobbiamo solo correre”.
Ma riusciremo veramente a correre? I tempi sono stretti, anche se lo stesso Conte spiega alla fine del vertice europeo che per le ratifiche del Recovery Fund “il clima è molto buono, anche da Paesi che sono stati più diffidenti. Non c’è stato nessun segnale di nervosismo, non ci aspettiamo un cammino irto ma ragionevolmente sarà difficile che potremo partire prima di febbraio”. Conte si mostra aperto al dialogo con tutti (da Renzi all’opposizione) e spiega come il nostro Paese sia l’unico a coinvolgere il Parlamento nel Recovery Plan ma senza esautorare Ministeri e istituzioni. Il Presidente del Consiglio vuole soprattutto smentire le voci che vedrebbero preoccupati gli altri leader europei a causa delle fibrillazioni politiche di casa nostra. “Semmai – dice il premier italiano – alcuni si sono complimentati del passaggio parlamentare sul Mes; qualcuno ha seguito il dibattito e l’espressione di forza della maggioranza e di coesione è stata molto apprezzata; questo sicuramente ha rafforzato me e l’Italia. Ma nessuno mi ha chiesto dettagli su fibrillazioni interne”.
Certo, Conte non nasconde che “ci sono istanze critiche” che richiederanno un “doveroso confronto con Italia Viva e con gli altri”. E questo perché “per andare avanti abbiamo bisogno di determinazione e fiducia reciproca, le sfide sono troppo complesse per affrontarle in modo diverso”. Conte premette di non essere “arrogante o spocchioso”. Non vede però nel 2021 un anno di elezioni ma semmai di lavoro per guidare eventi internazionali di grande impegno, dal G20 alla Cop 26 con gli inglesi, fino al Global Health Summit il 21 maggio insieme alla Commissione Ue. Tutti eventi, dice Conte, che “non si possono affrontare se non c’è da parte di tutti piena convinzione, determinazione, convergenza verso l’obiettivo che non può che essere il bene dell’Italia”.
Med Dialogues: le sette priorità e l’intervento di Conte
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La sesta edizione dei Mediterranean Dialogues (Med) si è svolta per la prima volta in formato digitale. Milioni di persone però si sono collegate per ascoltare in streaming le idee sul futuro del Mediterraneo allargato, idee espresse da rappresentanti di Governo delle due sponde del Mediterraneo e da esponenti delle imprese, della società civile e del mondo della cultura e della scienza.
Gli obiettivi
Secondo Giampiero Massolo – Presidente dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale), che insieme alla Farnesina ha curato l’organizzazione dell’evento – sono sette i messaggi di questa edizione. Una sorta di memorandum in sette punti da riempire di contenuti nei prossimi mesi.
Il primo punto, ha spiegato Massolo, è lasciarsi alle spalle la pandemia non solo per pensare ai vaccini e alle cure ma come cambio culturale per progettare il futuro post Covid. Il secondo messaggio è far lavorare insieme i Governi del lato nord per una maggiore coesione tra loro e creare maggiore disponibilità alla collaborazione regionale nel lato sud. Il terzo messaggio è quello di non lasciare tutto nelle mani dei Governi ma di coinvolgere di più le società civili, le Ong, le industrie, le Università e le istituzioni culturali. Il quarto messaggio è quello di sviluppare un modello di crescita più inclusivo che abbia attenzione alla formazione, all’occupabilità delle forze lavoro e a una crescita progressiva per le due sponde, con la condivisione delle stesse risorse, dall’ambiente marino alle fonti energetiche. Il quinto messaggio riguarda i flussi migratori e vuole impedire che l’immigrazione non controllata possa aumentare i rischi di fondamentalismo e marginalizzazione e creare flussi di immigrazione regolare. Il sesto messaggio è lo sviluppo di una cultura che favorisca il dialogo e impedisca estremismo e nazionalismo. Settimo e ultimo punto in agenda l’emancipazione o empowerment delle donne e dei giovani della sponda sud, vero motore di crescita e sviluppo sostenibile in quell’area del mondo.
L’intervento di Conte
Nel suo intervento conclusivo, il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha ricordato che l’approccio multilaterale della nuova amministrazione Usa non può essere utilizzato come alibi dall’Europa per non svolgere il suo ruolo di stabilità nel Mediterraneo allargato. “Il mio augurio – ha detto Conte – è che il prossimo anno, tutti noi possiamo tornare a partecipare di persona ai Med Dialogues. Una speranza che per il nostro Paese è anche un impegno. La salute come valore universale è un obiettivo che vede l’Italia e l’Europa in prima linea. Anche per questo, il 21 maggio 2021 ospiteremo a Roma il Global Health Summit, in collaborazione con la Commissione europea nel quadro della nostra presidenza al G20, ma con una platea più ampia”.
L’esperienza e le prospettive che guideranno l’azione italiana nella realizzazione di queste iniziative secondo Conte devono molto al Mediterraneo perché “per posizione geografica e storia siamo un Paese che ha nel Dna il dialogo e il confronto. Sappiamo bene cosa sia e cosa implichi l’interdipendenza. E conosciamo anche l’impegno e lo sforzo che occorre per coltivare sempre la via del dialogo. Ma sappiamo anche che è sempre la più redditizia”. Il Mediterraneo, secondo il premier, deve continuare a essere “una sorgente inestinguibile di creatività dove le persone possono ricevere le luci della conoscenza, la grazia della bellezza e il calore della fraternità.” Così lo descrisse, tempo fa, un illustre politico e accademico italiano, Giorgio La Pira.
Ma vecchie crisi e scenari conflittuali come le ambizioni egemoniche turche richiedono una politica di vicinato della Ue e della Nato. L’Italia, ha affermato Conte, guida la missione Unifil in Libano, è in Iraq il maggiore contributore di forze anti Isis e comanda la missione europea Irini per l’embargo di armi alla Libia. L’Europa deve avere una voce unitaria sui migranti dove il recente patto Ue per l’immigrazione è “una buona partenza ma insufficiente”.