Pietro Malesani [TORINO] autore freelance, è appassionato di Germania e di Africa. Cofondatore della newsletter sulla Germania Il Fendinebbia, collabora con Altreconomia.
Elezioni legislative francesi: si vota domenica 30 giugno
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Sono giorni cruciali per la Francia. Domenica 30 giugno si terrà infatti il primo turno delle elezioni legislative, organizzate in seguito all’insuccesso del partito di Emmanuel Macron in occasione del voto europeo di inizio mese e alla conseguente decisione del Presidente di sciogliere il Parlamento. E per la prima volta ad aggiudicarsi la vittoria potrebbe essere l’estrema destra, andando in questo modo ad eleggere un proprio primo ministro.
Al momento, i sondaggi non sembrano lasciare grossi dubbi. Il Rassemblement National guidato da Marine Le Pen e Jordan Bardella si colloca nettamente al primo posto, con oltre il 35% dei voti. Attorno al 28% si colloca il Nouveau Front Populaire, l’alleanza di sinistra formata da La France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon, i Socialisti, i Verdi e il partito comunista. Ben più indietro, con appena il 20% dei consensi, si trova infine Ensemble, la formazione centrista guidata da Macron e ora maggioritaria in parlamento.
Difficile che il voto restituisca una realtà estremamente diversa da quella delineata dai sondaggi: per quanto questi possano rivelarsi errati, infatti, il sostegno dei francesi verso l’estrema destra è stato dimostrato in maniera netta dalle recenti elezioni europee, che hanno visto il Rassemblement National ottenere un terzo dei voti totali.
Al tempo stesso, tuttavia, è pressoché impossibile fare delle proiezioni certe, in quanto la composizione del prossimo parlamento francese dipenderà molto dall’esito del secondo turno, che si terrà il 7 luglio. In Francia, infatti, i seggi non vengono distribuiti in maniera proporzionale, ma secondo un sistema uninominale maggioritario. In ogni circoscrizione, viene eletto deputato il rappresentante di quel partito che prende la maggioranza assoluta dei consensi e almeno il 25% dei voti di tutti gli aventi diritto, considerando anche gli astenuti. Se nessuno raggiunge queste condizioni, vanno al secondo turno i primi due candidati o tutti quelli che hanno ottenuto più del 12,5% dei voti degli aventi diritto. E dopo il ballottaggio viene eletto chi prende la maggioranza relativa.
Secondo gli esperti, è estremamente probabile che la destra di Le Pen e Bardella ottenga il maggior numero di seggi, ma non è detto che sia in grado di ottenere la maggioranza assoluta in Parlamento. Nel caso ci riesca, gli sviluppi sarebbero abbastanza chiari. Macron dovrebbe nominare primo ministro un rappresentante del Rassemblement National, probabilmente Jordan Bardella, che a sua volta avrebbe il compito di nominare i ministri. A quel punto, inizierebbe una coabitazione, ossia una convivenza tra un presidente – Macron – e un primo ministro di diversi colori politici. Non si tratterebbe di una novità, per la politica francese. E porterebbe ad un grosso ridimensionamento dei poteri presidenziali.
Se l’estrema destra dovesse rispettare le aspettative, ma senza sfondare al secondo turno, potrebbe ottenere invece la maggioranza relativa in Parlamento. In questo secondo scenario il Rassemblement National non avrebbe i numeri per governare da solo e dovrebbe cercare delle alleanze, stabili o anche di riforma in riforma, come fatto dagli ultimi governi centristi. Anche in questo caso, il primo ministro verrebbe espresso dall’estrema destra. Ma il governo sarebbe estremamente instabile, costantemente esposto al rischio di essere sfiduciato e di cadere.
Soprattutto nel caso in cui il secondo turno dovesse trasformarsi in un referendum tra chi è a favore e chi è contro l’estrema destra, come successo in occasione delle ultime elezioni presidenziali, anche la sinistra e – più difficilmente – il partito di Macron potrebbero ottenere la vittoria finale. Con ogni probabilità, otterrebbero solamente una maggioranza relativa dei seggi, che per i due schieramenti avrebbe un significato simile ma conseguenze totalmente diverse. Per Ensemble si tratterebbe di un successo politico, che confermerebbe lo scenario attuale ed evidenzierebbe che ai francesi la destra piace, ma non abbastanza da farla governare. Per la sinistra si tratterebbe ugualmente di un trionfo, ma con conseguenze incerte: al Nouveau Front Populaire toccherebbe guidare un governo di minoranza, con poche prospettive di trovare alleati.
Le sfide del nuovo mandato del Presidente Ramaphosa
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Dopo le elezioni presidenziali, tenutesi a fine maggio, non c’era nulla di certo. La riconferma di Ramaphosa era l’opzione più probabile, considerata la vittoria ottenuta con ampio margine dal suo partito, l’African National Congress (ANC). Al tempo stesso, però, il voto aveva negato all’ANC una maggioranza assoluta, per la prima volta dalla fine dell’apartheid: si sapeva quindi che prima di eleggere un presidente, il partito che fu di Nelson Mandela avrebbe dovuto trovare anche degli alleati. Alla fine, tutto è andato come da previsioni, e venerdì Ramaphosa è stato confermato per i prossimi cinque anni.
La rielezione del Presidente è stato tuttavia l’unico evento davvero scontato, tra quelli che hanno interessato la politica sudafricana nelle ultime settimane. Prima c’è stato il voto, in cui un calo del partito presidenziale era largamente atteso, ma in pochi prevedevano che sarebbe stato così netto. Invece che arrivare a pochi punti dalla maggioranza assoluta, l’African National Congress è crollato fino al 40%, ottenendo di gran lunga il risultato peggiore della propria storia. E questo ha avuto un impatto anche sulle dinamiche successive al voto. Già negli scorsi mesi l’ANC si era rassegnato a dover cercare un accordo di coalizione, ma la speranza era che potesse essere sufficiente appoggiarsi ad alcuni piccoli partiti. Invece, il pessimo risultato elettorale ha costretto Ramaphosa a trovare un accordo con una delle maggiori forze di opposizione.
E così si è arrivati all’alleanza con la Democratic Alliance (DA), il partito liberale di centrodestra che si è classificato secondo alle elezioni e che dal 1994 ha sempre rappresentato la principale forza di opposizione all’ANC. Ramaphosa e i suoi compagni hanno parlato di un esecutivo di unità nazionale, facendo riferimento alla volontà di includere all’interno della coalizione di governo tutti i principali partiti sudafricani. Ma in realtà il tentativo non è andato a buon fine. Hanno rifiutato di collaborare sia il partito guidato dall’ex presidente Jacob Zuma, uMkhonto weSizwe (MK), sia la formazione di sinistra Economic Freedom Fighters (EFF). E ad allearsi con l’ANC, oltre alla Democratic Alliance, sono stati soltanto due piccoli partiti.
La coalizione tra African National Congress e Democratic Alliance non rappresenta un fatto di per sé sorprendente. L’ANC aveva bisogno di un numero di seggi considerevole per arrivare alla maggioranza e il partito guidato da John Steenhuisen era tra i pochi a poterli garantire. Inoltre, un’alleanza con le altre due forze d’opposizione era complicata, per motivi diversi. In particolare, si sapeva che Zuma avrebbe difficilmente appoggiato l’ANC, di cui era stato a lungo parte e da cui era stato marginalizzato, per di più sapendo di poter giocare soltanto un ruolo da comprimario.
A stupire sono stati tuttavia i modi in cui l’accordo tra ANC e DA si è concretizzato. Per anni, il partito di Steenhuisen ha criticato aspramente l’African National Congress per la corruzione diffusa e l’incapacità di risolvere i problemi del Paese. A sua volta, la Democratic Alliance è stata accusata di essere rimasta essenzialmente un partito dei bianchi e di voler proteggere i privilegi che questa minoranza ancora detiene. Dopo il voto, tuttavia, l’accordo tra le due forze politiche è stato molto veloce e per nulla complicato. Steenhuisen ha subito riconosciuto che Ramaphosa avrebbe dovuto rimanere presidente, considerata la vittoria ottenuta dall’ANC. E la Democratic Alliance ha avanzato richieste limitate, sia relativamente al programma di governo, sia per quanto riguarda le cariche.
L’impressione degli analisti è che quella della DA sia una scelta strategica. Alleandosi con l’ANC, il partito corre il rischio di alienarsi una parte del proprio elettorato, non favorevole a sostenere Ramaphosa. Limitando il proprio coinvolgimento nell’esecutivo, tuttavia, il partito si prepara ad uscire quasi indenne da un eventuale governo fallimentare: in quel caso, sarebbe semplice scaricare le colpe sull’African National Congress.
Viste le premesse, sarà interessante osservare se il nuovo governo funzionerà o se i due partner cercheranno soltanto di tirare acqua al proprio mulino. Per il Sudafrica questa sarebbe un’eventualità disastrosa, che impedirebbe di affrontare i veri problemi del Paese. Da anni lo stato è colpito infatti da una grave crisi: l’economia è stagnante, i tassi di disoccupazione e povertà sono elevatissimi e la violenza è estremamente diffusa.
Germania: la debacle dei partiti al governo
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Quello europeo non è stato un voto felice, per la gran parte dei governi del continente. In tutti i Paesi più grandi e rilevanti, Italia esclusa, chi è al potere ha perso. In alcuni casi la sconfitta è stata di misura, come accaduto in Spagna. In altri, invece, la debacle di chi governa è stata talmente fragorosa da avere conseguenze politiche immediate sulla scena nazionale: in Francia il presidente Emmanuel Macron ha sciolto il Parlamento e indetto nuove elezioni, dopo che il suo partito è stato addirittura doppiato dal Rassemblement National di Jordan Bardella e Marine Le Pen.
Ancora prima che le urne chiudessero in Italia, il clamore di quanto stava accadendo a Parigi è stato talmente forte da oscurare quanto accadeva negli altri stati. A Berlino, però, l’esito e il significato del voto non sono stati poi così diversi da quelli francesi. Il cancelliere Olaf Scholz e i partiti che formano la coalizione di governo sono usciti dall’appuntamento elettorale con un consenso bassissimo, a fronte di una crescita dell’opposizione sia della destra estrema che di quella conservatrice. E l’esecutivo, già in difficoltà prima del voto, si trova ora in una posizione di ulteriore debolezza.
La sconfitta della coalizione semaforo – composta da Socialdemocratici, Verdi e Liberali – non può essere di certo considerata una sorpresa. I tre partiti erano usciti dalle elezioni del 2021 con un risultato ben al di sopra delle aspettative, ma la loro convivenza all’interno del governo Scholz si era da subito rivelata complicata. I piani di transizione ecologica dei Verdi erano risultati ben presto difficilmente compatibili con la volontà dei Liberali di chiudere i bilanci pubblici in positivo. E la SPD del Cancelliere aveva dovuto mettere da parte le proprie proposte per ricoprire piuttosto un ruolo di mediazione, reso ancora più complicato dalla crisi economica legata alla pandemia e dall’esigenza di abbandonare il gas russo dopo l’invasione dell’Ucraina. Sono bastati pochi mesi, perciò, perché il governo perdesse la fiducia degli elettori. Da allora non è più riuscito a recuperarla, nonostante le numerose riforme approvate, e ora i sondaggi indicano come soltanto tre cittadini su dieci siano soddisfatti di quanto fatto da Scholz e i suoi ministri.
Nonostante le prospettive non fossero incoraggianti, però, in pochi pensavano che i partiti al governo sarebbero andati così male. La SPD si è fermata al 13,9%, facendo registrare il peggior risultato della propria storia e perdendo due ulteriori punti rispetto al risultato delle Europee del 2019, che già era stato visto come disastroso. I Verdi hanno preso poco meno del 12% e possono essere considerati i principali sconfitti. Il loro calo è stato netto rispetto alle elezioni federali ma soprattutto rispetto al 2019, quando avevano ottenuto quasi il doppio dei voti. E il partito ambientalista ha perso gran parte del voto dei giovani: le preoccupazioni relative alla crisi climatica rimangono ma, dopo due anni al governo, i Verdi non sono più considerati in grado di portare soluzioni efficaci. Infine, i Liberali si sono fermati poco sopra la soglia di sbarramento del 5%, confermando quanto indicato dai sondaggi e l’impressione che il loro successo alle elezioni nazionali sia stato soltanto momentaneo.
Se il Bundestag non è stato sciolto, come successo invece in Francia, è solo per il diverso funzionamento del sistema politico. Mentre a Parigi il Presidente può indire nuove elezioni restando al proprio posto, in Germania lo scioglimento del Parlamento porta inevitabilmente alla caduta del governo. Inoltre, si tratta di un fatto inusuale: a prescindere dai consensi e dagli avvenimenti politici, le legislature tedesche tendono ad arrivare al loro termine naturale. I partiti al governo non hanno poi alcun interesse a recarsi nuovamente alle urne. Tutto lascia infatti pensare che i risultati delle Europee verrebbero replicati anche in occasione del voto federale, e che le tre formazioni dovrebbero quindi abbandonare la loro posizione al governo.
Con ogni probabilità, Socialdemocratici, Verdi e Liberali resteranno quindi al governo fino al prossimo autunno ed avrebbero tutto il tempo e gli interessi per provare ad invertire la rotta e recuperare il consenso. Difficile però immaginare che possano riuscirci, senza scossoni esterni. Al momento, soprattutto gli elettori di Verdi e Liberali credono che i loro partiti di riferimento abbiano raggiunto compromessi troppo svantaggiosi, sacrificando i loro interessi. Senza un accordo comune, è probabile quindi che queste formazioni diventino ancor più intransigenti nelle loro posizioni, nel tentativo di risalire nei sondaggi.
Per capire cosa accadrà sarà sufficiente aspettare un mese. A inizio luglio, l’esecutivo dovrebbe infatti presentare il bilancio per il 2025. E già si preannuncia uno scontro tra i Liberali, che vorrebbero evitare ad ogni costo di indebitarsi, e i loro alleati, che non vogliono invece dover tagliare in maniera consistente la spesa relativa al welfare.
Regno Unito: i laburisti si preparano alla vittoria
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La data delle elezioni è stata annunciata dal primo ministro Rishi Sunak alcuni giorni fa, a sorpresa. In teoria, infatti, il suo mandato avrebbe dovuto continuare fino alla fine dell’anno e la gran parte degli analisti credeva che Sunak avrebbe aspettato almeno fino all’autunno, per indire le elezioni. Il Primo ministro ha però cercato di giocare d’anticipo, cogliendo impreparato anche il suo stesso governo.
Sunak ha deciso di puntare tutto sui timidi segnali positivi che si sono visti nell’ultimo periodo: l’economia è tornata a crescere, l’inflazione si è fermata, il governo è finalmente riuscito ad approvare il discusso accordo con il Rwanda per la deportazione dei richiedenti asilo. E così il primo ministro, pur consapevole dell’ampio divario che divide i conservatori dai laburisti nei sondaggi, ha scommesso sul fatto che i prossimi mesi avrebbero ulteriormente diminuito le possibilità del suo partito di ottenere una vittoria elettorale. Non sono infatti previsti ulteriori miglioramenti dell’economia, l’inflazione non calerà ulteriormente ed è improbabile che l’espulsione dei migranti possa effettivamente iniziare a breve.
I media britannici hanno parlato di una mossa sconsiderata o potenzialmente geniale, sottolineando il grande rischio corso da Sunak. In realtà, però, i sondaggi indicano che lui e il suo governo hanno ben poco da perdere. Per i conservatori, la situazione è tragica: dopo 14 anni di governo ininterrotto, i loro consensi arrivano appena al 23%, contro il 44% dei laburisti. In parte, il calo del partito al governo è descritto come fisiologico, dopo tutto questo tempo al potere. Inoltre, gli elettori sono delusi da un partito che ha gestito in maniera disastrosa prima la Brexit e poi la pandemia, e che sotto Liz Truss ha causato un crollo della sterlina e notevoli difficoltà economiche. La sconfitta è annunciata, quindi. E se anticipare le elezioni può servire a limitare i danni o ad avere qualche flebile speranza di vittoria, tanto vale provarci.
Mentre iniziano i dibattiti televisivi tra Rishi Sunak e il suo rivale Keir Starmer, alla guida del partito laburista, oltremanica si inizia già ad immaginare come sarà il Regno Unito sotto la guida del centrosinistra.
In particolare, a tenere banco è il posizionamento internazionale del Paese, considerando anche che non molto dopo le elezioni britanniche si terranno quelle americane. Da sempre, quello tra Londra e Washington è un rapporto privilegiato. Con la Brexit, poi, il legame si è ulteriormente rafforzato: il Regno Unito si è trovato isolato a livello europeo ed ha trovato naturale volgere lo sguardo verso gli Stati Uniti.
Storicamente, la relazione tra i due Paesi non è stata eccessivamente influenzata dall’alternanza tra conservatori e laburisti da un lato, repubblicani e democratici dall’altro. Quest’anno, però, la situazione è quantomeno particolare. Negli Stati Uniti, ci sono concrete possibilità che il prossimo presidente sia Donald Trump: un personaggio già di per sé divisivo, che ora è stato anche giudicato colpevole di vari capi d’accusa in un processo per i pagamenti effettuati ad un’attrice di film porno. Nel corso del suo mandato presidenziale, il tycoon aveva trovato nel Regno Unito un forte alleato anche grazie alla presenza di Boris Johnson alla guida del Paese. Nel caso venisse rieletto, invece, dovrebbe probabilmente confrontarsi con Keir Starmer e con i laburisti. In molti si sono quindi chiesti se, in caso di una vittoria laburista e di una contemporanea sconfitta di Biden, il rapporto tra Londra e Washington rimarrebbe forte.
A rassicurare tutti, negli ultimi giorni, ci hanno pensato lo stesso Starmer e il suo partito. “Lavoreremo con chiunque sceglieranno come presidente” ha chiarito il leader del centrosinistra britannico, pur riconoscendo che in caso di una condanna definitiva la situazione sarebbe particolare, senza precedenti. Per Starmer, si tratta di una posizione obbligata: l’unica alternativa alla special relationship con gli Stati Uniti sarebbe un legame più stretto con Bruxelles. Ma un avvicinamento all’Unione Europea sarebbe dannoso, tanto più a poche settimane dal voto. Sarebbe guardato con sospetto da una parte consistente dell’elettorato, che ha votato a favore della Brexit e che teme un rientro di Londra nelle istituzioni europee.
In ogni caso, quelle di Starmer non sembrano essere soltanto parole di circostanza, per non scontentare nessuno. Il giornale Politico osserva come il suo partito si stia effettivamente preparando all’eventualità di una seconda presidenza Trump. Alcuni esponenti laburisti hanno notevolmente ammorbidito le posizioni verso il leader repubblicano. E in generale il partito di Starmer sta costruendo dei legami con numerosi esponenti vicini a Trump.
Elezioni oggi in Sudafrica per rinnovare il Parlamento
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“Per i sudafricani, ci sono moltissime ragioni per non votare l’African National Congress” osserva il giornalista Simon Allison, sulle pagine di The Continent. Il Sudafrica è piagato dalla povertà e dalla disoccupazione, che colpisce un terzo della popolazione. La corruzione è endemica e ha coinvolto tutti gli ultimi governi. La popolazione continua ad essere divisa, con una minoranza bianca che ha risorse economiche ed opportunità infinitamente maggiori rispetto alla maggioranza nera. E l’African National Congress (ANC), al potere da ormai 30 anni, ha dimostrato di non sapere come risolvere questi problemi.
Eppure oggi in Sudafrica si vota e, con ogni probabilità, sarà proprio la formazione che fu di Nelson Mandela a vincere le elezioni. Durante tutta la giornata, i cittadini sudafricani si recheranno alle urne per rinnovare il Parlamento. In seguito, saranno i deputati a scegliere chi sarà il Presidente, che nel Paese ricopre anche la carica di capo del governo. E, tra i 70 partiti presenti, nessuno ha dubbi sul fatto che sarà l’ANC ad aggiudicarsi la fetta più larga di consensi.
Il fatto è che i motivi per continuare a votare l’African National Congress sono tanti quanti quelli per voltare pagina, se non di più. A trent’anni dalla fine dell’apartheid, una larga parte dei sudafricani non dimentica che è stato proprio l’ANC a segnare la fine delle discriminazioni razziali e – dettaglio non trascurabile – a rendere possibile un passaggio pacifico alla democrazia. Da quel momento, il partito è riuscito a mettere fine ad una divisione della società che aveva radici profonde, estendendo a tutta la popolazione quei diritti che erano prima riservati ai pochi bianchi e rendendo il Sudafrica un Paese fortemente liberale.
Le alternative politiche, poi, sono pressoché inesistenti. Il secondo partito è la Democratic Alliance (DA), orientata verso un modello economico liberista e pro business. Ma la formazione è diretta erede dei partiti pre-apartheid ed è ancora legata a doppio filo alla minoranza bianca. Negli anni ha avuto un unico leader nero, Mmusi Maimane, dimessosi in polemica con il partito, e ha ricevuto numerose accuse di razzismo. Difficile, dunque, pensare che possa trovare un consenso trasversale e possa spingersi molto oltre il 20%, la quota su cui è ferma ormai da anni.
Tra i partiti più rilevanti ci sono anche l’Economic Freedom Fighters (EFF) e Newcomers uMkhonto we Sizwe (MK), che a loro volta non possono essere visti come alternative al dominio dell’ANC. La prima è una formazione di estrema sinistra, che spinge per la redistribuzione delle terre. Il secondo è invece un partito nuovo, formato dall’ex presidente Jacob Zuma. Proprio Zuma è stato però escluso dal voto a causa di una condanna. Inoltre, è lui il principale protagonista degli scandali di corruzione che hanno colpito l’ANC negli ultimi anni: è improbabile che chi vuole un Paese più funzionante scelga di votarlo.
Nonostante la certezza della vittoria e la probabile riconferma di Cyril Ramaphosa alla presidenza del Paese, l’African National Congress non può certo esultare. Secondo i sondaggi, il partito si dovrebbe fermare a poco più del 40% dei consensi, un risultato disastroso. Da quando in Sudafrica c’è la democrazia, nel 1994, l’ANC ha sempre ottenuto la maggioranza assoluta, toccando un picco del 70% vent’anni fa. Da allora, la contrazione è stata costante, ma il peggior risultato rimane comunque il solido 57% ottenuto nell’ultima tornata elettorale.
Perdere 15 punti percentuali in una sola legislatura rappresenterebbe un vero e proprio disastro. Al tempo stesso, si tratta di una dinamica naturale e strettamente legata ai motivi stessi che determinano il consenso del partito. L’ANC viene infatti votato per il ruolo avuto nel determinare la fine dell’apartheid. Ma 5 milioni degli elettori registrati hanno meno di trent’anni e le discriminazioni precedenti al 1994 non le hanno mai vissute. Tra l’altro, si tratta degli stessi giovani che sono particolarmente colpiti dalla disoccupazione e dalla mancanza di opportunità. E che, più dei loro genitori, vorrebbero vedere un governo diverso da quello che hanno conosciuto fino ad ora.
Assistere alla nascita di un esecutivo guidato da un partito diverso dall’ANC è quasi impossibile, secondo le previsioni. Ma se i sondaggi dovessero essere rispettati, il partito di Ramaphosa dovrebbe comunque essere obbligato a trovare delle alleanze per governare, un fatto mai successo prima. A quel punto, ad essere determinante sarà la percentuale che la formazione riuscirà ad ottenere. Se dovesse spingersi ben oltre il 40%, allora sarebbe sufficiente trovare il sostegno dei partiti più piccoli. In caso di un tracollo elettorale, invece, l’African National Congress dovrebbe rivolgersi ad uno dei tre maggiori partiti di opposizione. Inaugurando una nuova era per il Sudafrica.
Dissidi interni a Identità e Democrazia, il gruppo parlamentare della destra europea
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A poco più di due settimane dal voto europeo, una crisi agita il gruppo di destra Identità e Democrazia (ID) e mette in discussione la sua composizione, se non addirittura la sua esistenza. “In seguito alle recenti dichiarazioni di AfD, non siederemo con loro durante il prossimo mandato del Parlamento Europeo” ha dichiarato Caroline Parmentier del partito francese Rassemblement National martedì 21 maggio, confermando le voci che si erano diffuse in questi giorni. E sottolineando come l’alleanza tra la formazione francese e l’estrema destra tedesca di Alternative für Deutschland (AfD) sia ormai conclusa.
La decisione del partito di destra francese arriva in seguito ad un’intervista rilasciata nei giorni scorsi a Repubblica da Maximilian Krah, eurodeputato di AfD e capolista per il partito per il voto europeo. Nel corso della sua chiacchierata con la giornalista Tonia Mastrobuoni, il politico tedesco si è reso protagonista di alcune affermazioni revisioniste, affermando in particolare “non dirò mai che chi aveva una uniforme delle SS era automaticamente un criminale”. Inoltre, Krah ha sottolineato con forza la sua volontà di continuare a mantenere stretti rapporti con la Cina, sminuendo i rischi politici legati a questa operazione. E ha sostanzialmente dichiarato che, se un accordo di pace in Ucraina non è ancora stato raggiunto, la colpa va data principalmente a Kiev.
Come era prevedibile, l’intervista ha sollevato forti polemiche, soprattutto al di fuori della Germania e tra gli altri componenti del gruppo europeo Identità e Democrazia, di cui fa parte anche la Lega. Il Rassemblement National ha subito fatto trasparire una certa irritazione, prima di dichiarare martedì la propria volontà di interrompere i rapporti politici con AfD. E anche il Partito Popolare Danese ha preso le distanze dalla formazione tedesca, attraverso una dichiarazione del suo candidato di punta Anders Vistisen su X: “Se l’AfD non approfitta della situazione e non si libera di Krah, la nostra posizione è che l’AfD debba lasciare il gruppo ID”.
Nonostante il punto di rottura sia arrivato soltanto in questi giorni, i rapporti tra AfD e il Rassemblement National sono deteriorati ormai da mesi. Negli ultimi anni, infatti, il partito francese ha compiuto sforzi notevoli nel tentativo di distanziarsi dalle posizioni revisioniste e troppo controverse, cercando in questo modo di conquistare anche l’elettorato più moderato. Al contrario, le posizioni di AfD si sono radicalizzate, con la parte più estrema del partito che ha preso sempre più il sopravvento su quella conservatrice. Particolarmente problematica per gli equilibri tra AfD e Rassemblement National è stata la notizia dell’incontro di Potsdam tra membri della formazione tedesca e esponenti neonazisti, data dal giornale investigativo tedesco Correctiv. Subito dopo questo evento, la leadership di AfD ha provato a ricucire con il partito di Marine Le Pen e Jordan Bardella, ma senza successo. “Abbiamo avuto discussioni aperte, ma non è stato imparato nulla” ha dichiarato il responsabile della campagna elettorale di RN, Alexandre Loubet.
Nell’annunciare la decisione di rompere i rapporti con AfD, il Rassemblement National non ha specificato quali saranno le conseguenze di questa scelta. L’opzione più probabile, ora, è che il partito tedesco si faccia da parte o venga espulso dal gruppo di Identità e Democrazia. Secondo un esponente di RN, che ha parlato a Politico preferendo restare anonimo, l’esclusione di AfD “non avrà alcun impatto sull’ID in un futuro mandato, poiché abbiamo abbastanza nazionalità per mantenere il nostro gruppo politico”. Non si tratta però di una convinzione condivisa da tutti: nel corso dell’intervista a Repubblica, lo stesso Krah si era detto dubbioso che, senza AfD, Identità e Democrazia sarebbe riuscita a raggiungere le sette nazionalità necessarie per formare un gruppo al Parlamento europeo. Esiste quindi anche la possibilità che sia il partito francese a farsi da parte, uscendo dal gruppo parlamentare in attesa di sviluppi futuri.
Di certo, la crisi arriva nel momento peggiore per Identità e Democrazia. Fino a questo momento, il gruppo di destra era dato in grande crescita nei sondaggi e al quarto posto tra i gruppi del prossimo parlamento europeo, con la possibilità di scavalcare anche i liberali di Renew. Senza AfD o RN, questo non sarà di certo possibile. E, se una soluzione non dovesse essere trovata in tempi brevi, i dissidi interni potrebbero danneggiare ulteriormente il gruppo, portandolo a perdere ulteriori pezzi o a calare nei sondaggi.
Germania: il nuovo programma della CDU si sposta a destra
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“Die CDU ist wieder da, la CDU è di nuovo qua – ha annunciato Friedrich Merz dal palco di Berlino, davanti ai mille delegati riuniti per il congresso del partito -. La CDU ha un’idea di futuro. E ha un piano per i grandi compiti da svolgere”.
La scorsa settimana il partito cristianodemocratico si è riunito nella capitale tedesca, per eleggere il proprio segretario e per definire la linea che verrà seguita da qui alle prossime elezioni nazionali, quelle che si terranno nell’autunno del 2025. Non ci sono state sorprese, ma il congresso è stato senz’altro rilevante: Friedrich Merz è stato riconfermato alla guida della CDU e il partito ha adottato un nuovo programma fondamentale. Soprattutto, la formazione di centrodestra si è mostrata sicura di sé e certa di riconquistare la cancelleria al più presto. “Un massimo di quattro anni di governo semaforo è sufficiente – ha dichiarato Merz – ed ogni giorno in meno di questo spettacolo è un buon giorno per il nostro Paese”.
All’inizio del congresso, Friedrich Merz è stato rieletto come segretario attraverso un plebiscito, come del resto era successo nel 2022. Allora i voti a suo favore erano stati il 95%, questa volta la percentuale si è fermata poco sotto il 90, ma poco cambia.
Se la conferma era scontata, lo stesso non si può dire dei toni usati sul palco. Forse per la prima volta da quando è in politica, il leader del centrodestra ha abbandonato il ruolo del politico antipatico, divisivo e controverso, per diventare improvvisamente uno statista.
Come ha evidenziato Edoardo Toniolatti su Kater, anche questo è un segno che la CDU e il suo leader siano ormai proiettati verso il prossimo voto federale. Per quanto possa sembrare paradossale, visto il consenso ottenuto nel voto congressuale, Merz è tutt’altro che certo di essere il candidato del centrodestra alle prossime elezioni. In molti sono infatti convinti che Merz sia un ottimo leader di opposizione, ma non sia abbastanza giovane e popolare per essere il giusto pretendente alla carica di Cancelliere. Secondo i critici, la vera prova di questo è data dai sondaggi: la CDU è il primo partito ma non riesce a superare il 30%, nonostante siano ben pochi i tedeschi che sono soddisfatti di quanto fatto dal governo.
In vista dell’appuntamento elettorale, Merz ha quindi bisogno di costruirsi un’immagine più rassicurante, centrista, che gli garantisca la certezza di essere il candidato alla cancelleria del centrodestra. Una decisione definitiva verrà presa dopo il voto regionale in autunno, ma intanto si iniziano a fare i nomi dei possibili sostituti. Il leader della CSU Markus Söder è senz’altro il primo, da anni in attesa di giocarsi le proprie chance. Ma valide alternative sono rappresentate anche da Daniel Günther e Hendrik Wüst, ora presidenti rispettivamente dello Schleswig-Holstein e del Nordrhein-Westfalen.
Le giornate di partito hanno portato la CDU anche ad aggiornare il proprio Grundsatzprogramm, il documento contenente i principali punti programmatici. L’adozione di un nuovo programma rappresenta un vero e proprio punto di svolta, per la formazione, soprattutto dal punto di vista simbolico. Quello precedente risaliva al 2007, quando Angela Merkel era appena all’inizio del suo lungo dominio sulla Germania e sulla CDU, e segnava il posizionamento della formazione al centro dello spettro politico. Il nuovo documento certifica invece una virata su posizioni conservatrici, avvenuta in realtà già con l’uscita di scena di Merkel nel 2021.
Lo spostamento a destra della CDU non è accompagnato però da un possibile avvicinamento ad AfD, ed anzi le distanze dal partito di estrema destra sono sottolineate in maniera molto più chiara che non nel recente passato. La formazione identitaria rappresenta una minaccia da combattere, non un potenziale alleato, e le proposte della CDU si ispirano allo storico conservatorismo del partito e non alle politiche nazionaliste dell’ultradestra.
Il nuovo Grundsatzprogramm insiste molto sul concetto di sicurezza. All’interno del Paese questa andrebbe perseguita attraverso la presenza di più forze di polizia. A livello internazionale, invece, sono necessari un controllo maggiore dei confini esterni europei e soprattutto la reintroduzione del servizio militare obbligatorio. La CDU sottolinea quanto i tempi siano cambiati rispetto a quando, nel 2011, il governo Merkel aveva abolito la leva. Allora l’Europa era in pace, ora il mondo è in fermento ed è quindi necessario invertire la rotta e reintrodurre gradualmente il servizio militare. Che, secondo Söder, servirebbe anche per fare sì che i giovani sviluppino “un legame più forte con il nostro Stato costituzionale democratico”.
Infine, il documento sottolinea la volontà di una stretta per quanto riguarda le politiche migratorie e di accoglienza. Il programma sembra suggerire anche per la Germania un modello Rwanda, simile a quello adottato dal Regno Unito, sottolineando come “chiunque faccia richiesta di asilo in Europa dovrebbe essere trasferito in un paese terzo sicuro e sottoporsi a una procedura”. Ai migranti si chiede di aderire alla Leitkultur tedesca, un termine che può essere tradotto con “cultura dominante” e che è parecchio controverso, in quanto portatore di una visione assimilazionista che non riconosce l’importanza della cultura di chi arriva. La diffidenza nei confronti dell’altro è percepibile infine dal fatto che si senta l’esigenza di sottolineare che i musulmani possano essere parte della diversità religiosa tedesca. A patto, però, che condividano i valori e la società libera della Germania.
Togo: democrazia di facciata e golpe istituzionale
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In Togo, il partito Unione per la Repubblica (UNIR) ha vinto le elezioni legislative che si sono tenute il 29 aprile, per rinnovare il Parlamento. La vittoria dell’UNIR è stata assoluta: la formazione, che è guidata dal presidente Faure Gnassingbé, ha conquistato infatti la quasi totalità dei seggi, 108 su 113. Il risultato del voto è stato reso noto sabato 4 maggio, mentre nei giorni successivi è stato annunciato che il partito di Gnassingbé ha ottenuto una forte maggioranza anche al Senato, grazie al voto regionale.
Il risultato delle elezioni non sorprende e certifica una volta di più non soltanto il fatto che in Togo la democrazia esiste soltanto di facciata, ma anche che il sistema del Paese sia più simile ad una monarchia che non ad un classico regime autoritario. La famiglia Gnassingbé è infatti al potere in Togo da oltre cinquant’anni. Tra il 1969 e il 2005 il potere era rimasto saldamente nelle mani di Étienne Eyadéma Gnassingbé, che lo aveva ottenuto attraverso un colpo di stato militare. Al momento della sua morte, nel 2005, il testimone era passato al figlio Faure: l’attuale presidente aveva ereditato la carica del padre, nonostante le proteste popolari e il fatto che nessuna norma prevedesse questa eventualità.
Negli ultimi due decenni, Faure Gnassingbé ha sempre mantenuto la sua carica, sottoponendosi a quattro elezioni presidenziali ed ottenendo altrettante vittorie. A livello parlamentare il suo dominio non è stato invece così marcato e, soprattutto nei primi anni della sua presidenza, l’opposizione è riuscita ad ottenere una rappresentanza significativa in Parlamento. La tendenza è tuttavia cambiata negli ultimi anni, a causa di alcune riforme e di una maggiore repressione. Nel corso dell’ultima legislatura, poi, l’UNIR e i suoi alleati hanno ottenuto la quasi totalità dei seggi, in seguito al boicottaggio da parte delle principali forze di opposizione.
Il voto di fine aprile sembrava dover portare ad un cambiamento, anche se minimo: la maggior parte dei partiti di opposizione aveva infatti deciso di partecipare nuovamente alle elezioni e si credeva dunque che almeno una parte del Parlamento sarebbe stata sottratta al controllo presidenziale. Non è andata così e l’UNIR ha anzi aumentato la propria rappresentanza con una dimostrazione di forza: se nella scorsa tornata elettorale era rimasta quantomeno la parvenza di un pluralismo e un certo numero di seggi era finito ad altri partiti, poi cooptati da Gnassingbé, questa volta il partito governativo ha preferito garantirsi il controllo diretto di tutto il Parlamento.
Il risultato elettorale mostra la volontà di Faure Gnassingbé di rafforzare ulteriormente il proprio dominio sulla scena politica togolese e va letto in parallelo con il cambio di sistema politico che sta avvenendo in questo momento nel Paese.
Nei giorni immediatamente successivi al voto, infatti, Gnassingbé ha promulgato una nuova costituzione che sancisce il passaggio dal presidenzialismo al parlamentarismo. In pratica, d’ora in poi il presidente diventerà una carica soltanto onoraria e sarà eletto dal Parlamento, non più a suffragio universale. A guidare il Paese sarà invece il presidente del consiglio, ossia il leader del partito che ha la maggioranza in Parlamento.
Con l’adozione di una nuova costituzione, Gnassingbé si garantisce la possibilità di restare al potere senza limiti di mandati, a differenza di quanto previsto per la carica di presidente fino ad ora. Con la vittoria schiacciante registrata alle elezioni, invece, il leader togolese mostra di poter controllare senza difficoltà il Parlamento e quindi le sorti politiche del Paese, specialmente con la nuova Carta.
L’adozione di una nuova costituzione è stata duramente criticata dall’opposizione e dalla società civile, che hanno parlato di “golpe istituzionale”. Molto critiche in particolare le affermazioni di Samira Daoud, direttore regionale di Amnesty International per l’Africa occidentale e centrale: “In Togo, le voci dissenzienti non possono più godere del diritto alla libertà di espressione e di riunione pacifica – ha detto -. È stato difficile, se non impossibile, contribuire liberamente al dibattito sulla nuova costituzione senza temere rappresaglie, tra cui la detenzione arbitraria, nonostante i ripetuti impegni delle autorità a garantire i diritti umani”.
Unione europea: 20 anni fa il grande allargamento
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Sono passati vent’anni dalla più grande e significativa espansione dell’Unione Europea. Era il primo maggio 2004 e l’UE si allargava a nord con le tre Repubbliche baltiche, Estonia, Lettonia e Lituania. Aggiungeva al suo corpo centrale Polonia, Slovacchia, Repubblica Ceca e Ungheria, spingendosi per la prima volta fino ai Balcani con l’ingresso della Slovenia. E nel Mediterraneo includeva Cipro e Malta.
In una notte, entravano a far parte del grande progetto europeo 10 nuovi stati membri e 74 milioni di nuovi cittadini europei: l’Unione arrivava così a contare oltre 450 milioni di persone e 25 Paesi – oggi sono 27, dopo l’entrata di Bulgaria, Romania e Croazia e l’uscita del Regno Unito.
Soprattutto, Bruxelles cancellava con un colpo di spugna la cortina di ferro e la divisione del continente che c’era stata dalla fine della seconda guerra mondiale in avanti. La gran parte dei nuovi membri avevano fatto parte del Patto di Varsavia e la caduta del Muro di Berlino non era bastata ad annullare le differenze con l’Europa occidentale, da anni unita sotto una bandiera comune.
L’allargamento dell’UE segnava quindi un cambiamento enorme. “Non è stata solo la nascita di un’Unione più grande; è stata la nascita di una nuova era – ha dichiarato la Presidente della Commissione Europea, Ursula Von der Leyen, nel discorso con cui ha celebrato l’anniversario – È stata una notte di promesse, perché l’Europa è una promessa di libertà e stabilità, pace e prosperità. E nei vent’anni successivi, questa promessa è stata mantenuta”.
In due decenni, l’espansione dell’Unione ha attratto giudizi estremamente contrastanti. Che, se ci limitasse ad osservare i dati economici, sarebbero incomprensibili.
Da un punto di vista della crescita e del benessere, l’allargamento del 2004 è stato infatti un successo. Quando sono entrati a far parte dell’UE, i 10 nuovi membri avevano un Pil medio che arrivava al 59% di quello europeo: oggi, questa percentuale arriva a quota 81, mostrando quanto gli standard di vita dell’Europa orientale si siano avvicinati a quelli del resto dell’Unione. Anche il reddito pro capite dei dieci stati è aumentato sensibilmente, avvicinandosi alla media europea e anche superandola, nei casi di Malta e Cipro. Ma non sono stati solo i 10 nuovi membri a beneficiare dell’allargamento: tutta l’UE è stata infatti positivamente colpita da un sensibile aumento degli scambi commerciali, al suo interno.
Se però i risultati economici e sociali sono stati ottimi, non è facile sostenere lo stesso dal punto di vista politico. “In questo ambito ci sono alcuni ostacoli sulla strada, altrimenti noti come Polonia e Ungheria, e forse Slovacchia” osserva Michael Emerson, ricercatore presso il think tank CEPS.
L’espansione dell’UE era pensata in realtà proprio per avere un effetto politico, in modo da portare i nuovi membri fuori dall’orbita sovietica e verso una democrazia sempre più solida. Non sempre ha funzionato, però: negli ultimi anni in Ungheria e Polonia si è registrata una forte erosione dello stato di diritto, e anche Slovacchia e Repubblica Ceca hanno portato a forti preoccupazioni. A Cipro, poi, l’ingresso nell’Unione Europea non è bastato per sbloccare la situazione del Paese, che da decenni è diviso in due parti. E negli ultimi anni Malta ha fatto parlare parecchio, per i suoi problemi legati alla corruzione.
Non tutti però credono che gli effetti politici dell’espansione vadano considerati negativamente. “La realtà è più complessa” sottolinea il giornalista David Carretta sul Foglio. “La Polonia dimostra che le forze delle democrazie liberali possono riconquistare il potere, anche quando un regime illiberale ha preso il controllo delle redini dello stato per quasi un decennio. In Repubblica ceca Andrej Babiš non è diventato un Orban. Nei Baltici le forze politiche filo russe non sono riuscite a destabilizzare il corso occidentale dei loro governi pro europei e filo atlantisti”. Inoltre, le fragilità dello stato di diritto non sono visibili soltanto nei 10 stati entrati in blocco nel 2004, anzi, la crisi della democrazia è un fenomeno più trasversale e comune a tutto il mondo occidentale.
La valutazione di quanto accaduto in questi vent’anni e di quanto l’espansione abbia effettivamente funzionato potrebbe sembrare un esercizio di analisi fine a se stesso, ma non è così. Oggi, infatti, l’Unione Europea si trova nuovamente davanti alla prospettiva di un allargamento. Nei Balcani, soprattutto, con Montenegro, Macedonia del Nord e Albania che sono i più vicini ad un ingresso nell’UE. Ma anche ai confini con la Russia dove, per ragioni geopolitiche, la candidatura di Ucraina, Moldavia e Georgia è supportata da molti.
Questa volta, però, Bruxelles eviterà delle adesioni di gruppo, a meno che non avvengano cambiamenti radicali. Se anche l’espansione del 2004 non viene considerata un insuccesso, i casi di Polonia e Ungheria hanno portato a imporre paletti più rigidi per l’ingresso di nuovi stati membri. E la crescita del populismo obbliga le istituzioni europee a muoversi con attenzione, per evitare ulteriori difficoltà al progetto europeo.
La deportazione dei migranti dal Regno Unito al Rwanda è una realtà
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Alla fine, il piano di deportazione dei migranti dal Regno Unito diventerà realtà. Nella serata di lunedì il Parlamento inglese ha approvato il disegno di legge che prevede il trasferimento in Rwanda dei migranti entrati illegalmente nel Paese, e con ogni probabilità il testo riceverà l’assenso reale nei prossimi giorni, entrando ufficialmente in vigore.
Non si tratta del primo tentativo di dare una base legale all’accordo tra Londra e Kigali. Nel 2022, una legge simile a quella approvata in questi giorni era stata presentata in Parlamento e il Regno Unito aveva già provveduto all’organizzazione del primo volo verso il Rwanda.
Il tentativo era stato però fermato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e in seguito anche dalla Corte suprema inglese, che aveva avanzato forti dubbi sul fatto che il Paese africano garantisse delle condizioni di sicurezza accettabili per i richiedenti asilo espulsi dal territorio britannico. Il governo di Londra ha deciso di procedere comunque, aggirando l’ostacolo: lo ha fatto dichiarando il Rwanda uno stato sicuro per legge, e approvando i disegni di deportazione sulla base di questa “rassicurazione”.
L’approvazione definitiva del piano rappresenta un successo significativo per il governo inglese. Da tempo infatti la realizzazione dell’accordo con il Rwanda era stata messa al centro degli obiettivi politici dell’esecutivo guidato da Rishi Sunak, giustificandola come una misura per evitare gli attraversamenti illegali della Manica e diminuire le morti in mare.
“La legge impedirà alle persone di abusare della legge utilizzando false rivendicazioni dei diritti umani per bloccare gli allontanamenti. E chiarisce che il Parlamento britannico è sovrano” ha dichiarato James Cleverly, segretario di stato per gli affari interni, nel salutare l’approvazione della norma.
La scelta politica è stata criticata da più parti.
“Inviare i rifugiati in Rwanda rappresenta un approccio inefficace, crudele e costoso” ha sottolineato Denisa Delić, direttrice della sezione britannica dell’organizzazione International rescue committee. Le associazioni che si battono per i diritti umani e per la tutela dei migranti denunciano il principio stesso di una deportazione verso uno stato terzo, a prescindere dall’area di origine. Inoltre, evidenziano come il piano sarà estremamente costoso per Londra: la deportazione dei primi 300 migranti costerà 540 milioni di sterline.
Se l’insistenza del Regno Unito nell’approvare la legge può essere spiegata con la volontà di sbarazzarsi dei richiedenti asilo e di limitare il loro arrivo nel Paese, più difficile è a prima vista comprendere quale sia l’interesse del Rwanda nell’accogliere i migranti arrivati in Europa.
Di sicuro ha un peso il fatto che Kigali riceverà notevoli finanziamenti in cambio della propria disponibilità: al governo rwandese sono stati già stanziati 240 milioni di sterline, che coprono parte delle spese legate alle persone deportate ma che finanziano anche lo sviluppo del Paese. Tuttavia, va considerato che lo stato africano è piccolo, estremamente affollato e relativamente povero: non dispone di particolari spazi e risorse, e l’argomento economico non sembra sufficiente a spiegare la scelta di accogliere nuovi migranti.
La partnership con Londra va quindi spiegata soprattutto con delle ragioni politiche. Il Rwanda rappresenta uno dei paesi più in vista tra gli stati africani, forse quello che più è stato descritto all’estero come una storia di successo.
Dopo il genocidio, sotto la guida del presidente Paul Kagame, il Paese si è distinto per la propria capacità di rinascere e di crescere a ritmi vertiginosi, con una crescita media del Pil del 7,4% tra il 2000 e il 2020. Oggi, Kigali rappresenta il centro di un Paese dinamico e all’avanguardia, spesso lodato per le molteplici differenze rispetto alle altre capitali del continente.
Negli ultimi anni, il governo di Kagame si è mostrato sempre più propenso a ritagliare un ruolo per il Rwanda anche sullo scacchiere internazionale. Lo ha fatto mostrando un forte protagonismo militare nella regione dei Grandi Laghi, ma anche attraverso diverse iniziative diplomatiche e accordi politici.
L’accoglienza dei migranti va considerata all’interno di questo schema: mentre altri stati come il Ghana hanno fermamente rifiutato di diventare la destinazione dei migranti che giungono in Europa, il Rwanda si è invece mostrato disponibile, facendosi così vedere come un alleato su cui i Paesi occidentali possono contare. Oltre che con il Regno Unito lo ha fatto con Israele, da cui sono effettivamente arrivati migliaia di eritrei e sudanesi, e con la Danimarca, il primo stato europeo ad ipotizzare di trasferire all’esterno i propri migranti.
La deportazione dei migranti in Rwanda, già problematica di per sé, ha perciò anche delle conseguenze sulla situazione politica interna al Paese, finendo per rafforzare il regime di Kagame.
Il Presidente rwandese governa il Paese dal 2000 con un regime a tutti gli effetti autoritario, in cui il dissenso politico è poco tollerato. Al tempo stesso, però, Kagame è tollerato o addirittura supportato perché è colui che assicura all’Occidente di poter contare su un Rwanda stabile, forte e pronto a collaborare su una serie di questioni, come quella migratoria.
In Sudan si combatte da un anno esatto
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Era la mattina del 15 aprile 2023, quando in Sudan si è iniziato a sparare. Si sperava che gli scontri potessero concludersi in fretta e lasciare spazio ad un nuovo accordo per la spartizione di potere tra le parti, così come era già successo altre volte nel Paese. Ed invece, a distanza di un anno, la guerra civile non ha accennato a terminare ed anzi diventa sempre più grave.
A dodici mesi dall’inizio del conflitto, in Sudan la situazione è drammatica, in primis perché sullo sfondo non si intravede nessuna possibilità di cessate il fuoco: la guerra continua, nonostante sia in una situazione di stallo e l’attenzione internazionale su quanto sta accadendo nello stato africano sia scemata da tempo.
Nel frattempo, gli effetti degli scontri diventano sempre più drammatici. La guerra ha toccato gran parte del Paese, portando distruzione e massacri. E i suoi effetti sono ben evidenziati dai numeri: le Nazioni Unite contano 14.600 morti, a cui si aggiungono 8,5 milioni di persone sfollate. Due milioni di queste hanno dovuto abbandonare il Sudan, rifugiandosi nei Paesi vicini e soprattutto in Sud Sudan, uno stato già caratterizzato da conflitti e instabilità.
La guerra civile
La guerra civile era iniziata lo scorso aprile nella capitale Khartoum, quando le Forze di Supporto Rapido – conosciuto come RSF – avevano cercato di prendere il controllo dell’aeroporto, del palazzo presidenziale e del quartier generale dell’esercito. All’offensiva del gruppo paramilitare aveva risposto immediatamente l’esercito regolare, con uno scontro che si era presto propagato in tutta la città e poi nel resto del Paese.
Da subito, era risultato chiaro che gli scontri tra la milizia e l’esercito andassero letti come una lotta di potere tra i due uomini forti del Sudan. Le forze armate rispondono infatti al generale Abdel-Fattah Burhan, mentre le RSF sono una creazione di Mohammed Hamdan Dagalo, un signore della guerra meglio conosciuto come Hemedti.
Nell’ottobre del 2021, Burhan e Dagalo avevano rovesciato con un colpo di stato il governo di transizione guidato da Abdalla Hamdok, che di lì a breve avrebbe dovuto lasciare spazio ad un governo civile. In seguito, Burhan aveva preso il controllo effettivo del Paese, alleandosi con Hemedti e trovando con lui un accordo di condivisione di potere, che è durato fino all’aprile del 2023. In seguito, le divergenze tra le due parti sono esplose, portando allo scoppio della guerra civile.
Un anno dopo
In questi mesi è diventato chiaro però come né l’esercito ufficiale né la milizia paramilitare dispongano di una forza militare sufficiente per prevalere l’una sull’altra. E questo rischia di rendere la guerra civile ancora più sanguinosa, ha denunciato l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Volker Türk, “poiché le parti in conflitto armano i civili e sempre più gruppi armati si uniscono ai combattimenti”.
Nel tentativo di sconfiggere le forze rivali, sia l’esercito che le RSF stanno distribuendo armi ai civili e ad altri gruppi. Allo stesso tempo, la loro debolezza militare fa sì che né Burhan né Dagalo siano in grado di controllare efficacemente i propri alleati. La conseguenza è che in Sudan si assiste alla proliferazione di gruppi ribelli, che seguono unicamente i propri interessi ed aumentano la complessità del conflitto, così come la difficoltà nell’arrivare a delle soluzioni.
Carestia e migrazione
Se gli sviluppi bellici in Sudan restano complicati da prevedere, più semplice è invece purtroppo capire quale sarà l’evoluzione della situazione umanitaria di qui a breve. Già negli ultimi mesi era stato denunciato il rischio di una grave crisi alimentare, dovuta alla distruzione dei raccolti nel corso del conflitto e alla quasi totale assenza di aiuti, a causa della scarsa attenzione catturata dal conflitto e dell’impossibilità di avere accesso a gran parte delle aree interessate da scontri.
Ora, però, il Paese sembra essere ad un passo dalla carestia. “Non è un termine che noi operatori umanitari usiamo con disinvoltura. È qualcosa di riservato, in realtà, alle situazioni più terribili. E temo che il popolo sudanese si trovi proprio in questa situazione” ha spiegato Justin Brady, responsabile di UN OCHA per il Sudan.
Secondo l’ultimo rapporto dell’Integrated Food Security Phase Classification (IPC), il Paese verrà colpito da malnutrizione acuta entro l’estate: questa porterà mezzo milione di vittime, che potrebbero arrivare fino al doppio secondo gli scenari più negativi. “Maggiori aiuti sono fondamentali per un conflitto che, avendo già generato la più grave crisi di rifugiati e sfollati al mondo, rischia di trasformarsi anche nella maggiore emergenza alimentare” ha sottolineato Lucia Ragazzi, analista di ISPI, nel commentare l’emergenza vissuta dal Sudan.
Spagna: i golden visa e la crisi abitativa
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La Spagna eliminerà il programma di “golden visa” e non garantirà più i permessi di residenza agli stranieri che investono cifre significative nel Paese. La decisione era stata annunciata nei giorni scorsi dal primo ministro Pedro Sanchez ed è stata formalizzata martedì, in una riunione di governo. Sanchez ha detto che i golden visa non rappresentano “il modello di stato che vogliamo” e ha motivato la misura anche con la necessità di affrontare la crisi edilizia ed abitativa: “Prenderemo tutte le misure necessarie per assicurare che esista un diritto all’abitazione e che il settore non sia colpito da un business speculativo”.
Ad oggi, la Spagna garantisce un visto a quegli stranieri che investono nel settore immobiliare o nei titoli di stato. In questi casi, la possibilità di ottenere un golden visa è subordinata soltanto alla quantità di denaro investito: ne ha diritto chi compra una proprietà dal valore di almeno 500mila euro o chi investe almeno 2 milioni di euro in titoli di stato o in compagnie spagnole emergenti.
Lo schema è stato introdotto nel 2013, dal governo conservatore di Mariano Rajoy. Erano gli anni della crisi e la Spagna, fortemente colpita, aveva un disperato bisogno di investimenti stranieri. Ed il governo era convinto che la concessione del diritto a risiedere nel Paese per tre anni, potendovi anche lavorare, avrebbe aumentato in maniera significativa il numero e le dimensioni degli investimenti finanziari in Spagna.
In dieci anni, i golden visa forniti ad investitori stranieri sono stati oltre 5mila, secondo le fonti governative, mentre l’associazione Transparency International ne conta almeno 6200. Una buona metà dei visti sono andati a cittadini cinesi, mentre di almeno mille hanno beneficiato investitori russi. Tra coloro che li hanno ricevuti ci sono anche numerosi iraniani, britannici e statunitensi.
La decisione di eliminare il programma riflette un cambio radicale del panorama politico, sia in Spagna che a livello internazionale, avvenuto in questo decennio.
Da anni, ormai, il Paese attraversa una grave crisi abitativa, iniziata anche questa con la grande crisi finanziaria. Dopo il 2008, migliaia di persone sono state sfrattate dagli alloggi sociali in cui vivevano e hanno iniziato ad affittare nuove abitazioni. In poco tempo, però, il mercato delle case in affitto si è gonfiato, iniziando una crescita che è poi continuata negli anni successivi. In dieci anni, i canoni di affitto sono aumentati del 50%, a fronte di una crescita dei salari di poco più del 3%. E la Spagna è diventata lo stato europeo in cui i costi abitativi rappresentano una porzione maggiore del reddito, in media il 40%.
In questo contesto, attirare investimenti immobiliari dall’estero non serve ed è anzi controproducente, in quanto non fa altro che aumentare la richiesta delle case e marginalizzare chi necessita di un’abitazione a basso costo. La fine dei golden visa non è di certo risolutiva, come hanno fatto notare alcuni osservatori critici verso la scelta di Sanchez, ma rappresenta una scelta naturale per il governo spagnolo, che da tempo è impegnato per risolvere la questione.
In generale, poi, la concessione di visti a cittadini extraeuropei è diventata particolarmente controversa negli ultimi anni, in particolare dopo lo scoppio della guerra in Ucraina e l’imposizione di sanzioni sulla Russia e sui suoi cittadini. Come denunciato tra gli altri da Altreconomia, la promessa di un permesso di residenza e in alcuni casi addirittura della cittadinanza – a Malta, ad esempio – ha portato numerosi cittadini stranieri a investire denaro acquisito in maniera dubbia in Europa, dovendo sottostare a controlli limitati e acquisendo notevoli diritti. Nel marzo del 2022, la Commissione europea aveva perciò chiesto agli stati membri di sospendere i programmi di golden visa a favore di cittadini russi e bielorussi, per non facilitare l’ingresso nell’UE di persone a cui dovrebbero essere applicate le sanzioni.
Elezioni in Turchia: sconfitto il partito di Erdoğan
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In Turchia, il partito di Recep Tayyip Erdoğan è stato severamente sconfitto alle elezioni amministrative che si sono tenute domenica 31 marzo. Il voto locale ha visto infatti il Partito repubblicano CHP – la principale formazione di opposizione – prevalere ad Istanbul, Ankara e numerosi altri comuni. Mentre per il partito guidato dal presidente turco le urne hanno riservato la più importante battuta d’arresto degli ultimi vent’anni.
Il voto era atteso dalla maggioranza, in quanto sembrava l’occasione perfetta per rafforzare il controllo del Partito giustizia e sviluppo (AKP) sul Paese. La vittoria alle elezioni presidenziali dello scorso anno aveva infatti dato fiducia ad Erdoğan e ai suoi alleati, in quanto era stata ottenuta nonostante le numerose difficoltà economiche attraversate dalla Turchia e, soprattutto, nonostante i danni e lo scontento causati dal terremoto avvenuto pochi mesi prima. Inoltre, a differenza di quanto accaduto lo scorso maggio, l’opposizione si presentava divisa ed il CHP non poteva contare sul sostegno dell’Iyi Parti e sul partito filo-curdo DEM. Nel corso della campagna elettorale, Erdoğan si era perciò speso personalmente per spingere l’AKP e aveva spinto molti dei suoi ministri a fare lo stesso.
Alla fine, però, è andata molto diversamente da quanto preventivato, e il voto si è trasformato in un segnale di debolezza per la maggioranza. Istanbul ed Ankara non sono passate di mano, ma sono restate saldamente sotto il controllo del Partito Repubblicano. E, più in generale, l’opposizione si è affermata in tutte le principali città del Paese: tra queste Bursa, Izmir, Antalya, Adana e Balikesir.
Il partito di Erdoğan si è confermato la forza principale nell’area centrale del Paese e in parte del Sud-Est. Tuttavia, il CHP è riuscito ad ottenere il controllo di alcune aree dell’Anatolia, un risultato difficilmente preventivabile alla vigilia, e il partito DEM si è imposto nella regione che confina con Iran e Iraq. Infine, il Partito repubblicano ha prevalso sulla formazione governativa anche per quanto riguarda il calcolo complessivo dei voti ottenuti: il CHP è arrivato poco sotto al 38%, con un margine di 2 punti sull’AKP.
“Purtroppo non abbiamo ottenuto il risultato che volevamo. Ovviamente rispettiamo la decisione della nazione” ha dichiarato Erdoğan, riconoscendo la sconfitta e sottolineando come il risultato deludente non rappresenti la fine per il proprio partito, ma piuttosto “un punto di svolta”.
L’opposizione ha invece parlato di un momento storico, che cambierà il futuro della Turchia. “La fiducia e la fede che la popolazione ha riposto in noi è stata ricompensata” ha detto Ekrem Imamoglu, riconfermatosi alla guida di Istanbul.
La sconfitta di Erdoğan e del suo partito è strettamente collegata alla situazione economica che la Turchia sta vivendo. Da alcuni anni, infatti, il Paese è attraversato da una forte crisi, a cui il governo non sembra essere in grado di contrapporre misure adeguate. Le difficoltà sono particolarmente visibili se si guarda all’inflazione: questa ha raggiunto un picco del 67%, spinta dall’aumento dei prezzi delle abitazioni e dei beni alimentari, e sta causando una diminuzione costante del potere d’acquisto della popolazione.
Oltre che alla sfiducia verso il governo, il risultato elettorale è però certamente dovuto alla capacità dell’opposizione di attirare consensi trasversali. Pur privato del sostegno del resto dell’opposizione, il Partito repubblicano è stato infatti in grado di ottenere i voti di molte persone esterne alla propria base, ed in particolare della popolazione curda residente nelle zone urbane e anche di una parte dell’elettorato islamico e conservatore.
Elezioni regolari e senza disordini in Senegal
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In Senegal, l’opposizione ha vinto le elezioni presidenziali di domenica 24 marzo. A dire il vero, i risultati ufficiali non sono stati ancora pubblicati e dovrebbero essere diffusi nei prossimi giorni. Ma il conteggio dei voti ha mostrato da subito come lo schieramento guidato da Bassirou Diomaye Faye fosse nettamente avanti, con percentuali superiori al 50% e quindi senza la necessità di andare ad un secondo turno. L’esito del voto è stato certificato anche dagli altri candidati alla presidenza, che si sono congratulati con Faye già nel corso dello spoglio.
Che le elezioni presidenziali si siano tenute regolarmente e senza disordini è il maggior successo, per un Paese che ha vissuto un percorso di avvicinamento travagliato a questo voto. Gran parte dell’incertezza è stata dovuta all’atteggiamento del presidente uscente Macky Sall, che a lungo si è mostrato pronto a competere per un terzo mandato, nonostante il divieto imposto dalla Costituzione.
Per oltre un anno, Sall ha evitato di chiarire le proprie intenzioni, lasciando però intendere di essere desideroso di candidarsi. L’atteggiamento del Presidente ha scatenato la rabbia di una parte consistente della popolazione, preoccupata delle mire del Capo di Stato e di un’eventuale deriva autoritaria.
A luglio, la situazione sembrava essere definitivamente risolta, quando Sall ha annunciato di rinunciare alla candidatura, pur dicendosi legittimato a presentarsi al voto. Poi, però, nelle ultime settimane c’è stato un ultimo colpo di scena, quando il Presidente ha spostato le elezioni previste per il 25 febbraio, nel tentativo di guadagnare alcuni mesi di tempo. Alla fine, la sua iniziativa è stata bocciata dal Consiglio costituzionale, ma è stato comunque necessario posticipare il voto di un mese.
Il clima politico è stato reso incandescente anche dalla repressione che il governo ha ripetutamente attuato nei confronti dell’opposizione. Ad Ousmane Sonko, colui che era visto da tutti come il principale rivale di Macky Sall, è stato impedito di presentarsi al voto presidenziale a causa di una serie di condanne che lui e l’opposizione considerano politicamente motivate.
Anche Bassirou Diomaye Faye ha avuto vari problemi con la giustizia: fino a dieci giorni prima delle elezioni si trovava in prigione, accusato di cospirazione e di comportamento immorale. Alla fine, Faye ha potuto comunque candidarsi, ma come indipendente e non a capo di Pastef, il partito di cui fa parte anche Sonko: la principale formazione di opposizione è stata infatti sciolta lo scorso luglio, accusata di aver causato disordini nel Paese.
Nonostante i numerosi ostacoli, l’opposizione è riuscita ad assicurarsi il supporto della maggior parte della popolazione senegalese e Bassirou Diomaye Faye diventerà il nuovo presidente del Senegal. E nell’arena internazionale, c’è ora molta attesa per capire se la transizione di potere porterà effettivamente ad una forte discontinuità, come è stato ipotizzato da numerosi osservatori.
I motivi per credere ad un cambiamento significativo sono vari e affondano le radici nel programma di Pastef e del suo leader. Il partito di opposizione si presenta come una formazione di rottura, che critica lo stretto legame tra Macky Sall e l’Occidente e vuole rivedere in particolare i rapporti tra il Senegal e la Francia, l’ex potenza coloniale.
Fino ad ora, Faye ha negato ogni ostilità verso Parigi e si è detto pronto a mantenere un rapporto privilegiato. Al tempo stesso, però, ha sottolineato l’esigenza di far rispettare l’indipendenza politica ed economica del Senegal.
In particolare, l’opposizione si è detta più volte intenzionata ad abbandonare il Franco CFA, la valuta che ha un valore legato a quello dell’euro e che è adottata da 14 stati africani. Il Franco CFA è visto infatti come un lascito coloniale e, soprattutto, è considerato uno strumento con cui Parigi continua a controllare in maniera indiretta l’Africa francofona.
Faye e il suo schieramento hanno evidenziato anche la volontà di rivedere i contratti che permettono lo sfruttamento delle materie prime presenti nel Paese. Questi riguardano in primis gli idrocarburi, che il Senegal inizierà ad estrarre nei prossimi mesi al largo delle proprie coste, ma anche le miniere e le riserve di gas. Il nuovo governo vorrebbe modificare gli accordi attuali, per assicurare a sé e ai propri cittadini un maggior beneficio dall’esportazione di queste risorse.
Prima di affrontare questi temi, però, Faye e l’opposizione dovranno fare i conti con la situazione economica. Il Senegal è indebitato ed in questo momento sta portando avanti dei piani di aggiustamento strutturale che hanno colpito duramente il potere d’acquisto della popolazione.
Inoltre, il Paese è colpito da una forte disoccupazione, in particolare tra i giovani. Proprio i giovani rappresentano la base elettorale del nuovo governo che, se vorrà mantenere un certo consenso, dovrà provare ad intervenire in fretta per creare nuove opportunità di lavoro.
Elezioni presidenziali in Senegal domenica 24 marzo
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In Senegal, sono usciti dalla prigione i due esponenti principali dell’opposizione Ousmane Sonko e Bassirou Diomaye Faye. I politici sono stati liberati la sera del 14 marzo, grazie ad un’amnistia votata dall’Assemblée nationale e ratificata dal capo di stato Macky Sall, nel tentativo di allentare la tensione politica nel Paese in vista delle elezioni presidenziali di questa domenica. La decisione di liberare Sonko e Faye è stata salutata dai loro sostenitori con moti di gioia nelle strade di Dakar, la capitale.
Per Ousmane Sonko, l’amnistia rappresenta l’ennesimo capitolo del suo scontro con il governo e della conseguente vicenda giudiziaria. Dopo essere arrivato terzo in occasione dell’ultimo voto, nel 2019, l’ex sindaco della città di Ziguinchor si è man mano affermato come il principale oppositore del presidente Sall. Alla guida dei Patrioti africani del Senegal per il lavoro, l’etica e la fraternità (Pastef), Sonko ha portato avanti un discorso panafricanista e anti-francese, conquistando l’appoggio soprattutto delle fasce più giovani della popolazione grazie alle critiche verso il governo di Macky Sall e la sua vicinanza al mondo occidentale.
Insieme ai consensi, tuttavia, per Sonko sono arrivati anche i problemi giudiziari, e nel 2021 il politico è stato accusato di violenza sessuale. L’opposizione senegalese ha sempre sostenuto la sua innocenza, accusando a propria volta il governo di fare un uso strumentale della giustizia per escludere i rivali di Sall dalle elezioni – una tecnica che in precedenza era stata usata anche con Karim Wade, Barthelemy Dias e Khalifa Sall, altri sfidanti potenzialmente insidiosi per il presidente in carica. Alla fine, Sonko non è stato condannato per violenza, ma il tribunale l’ha giudicato comunque colpevole di “corruzione dei giovani” e di “incitamento all’insurrezione”.
Le condanne di Sonko hanno fatto sì che il leader di Pastef venisse effettivamente escluso dalle liste elettorali e dichiarato ineleggibile per il voto del 2024. E così, l’opposizione si è trovata a dover optare per un nuovo candidato, scegliendo il meno conosciuto Bassirou Diomaye Faye. Fino a questi giorni anche lo stesso Faye si trovava in prigione, a causa di un’accusa di oltraggio nei confronti di un magistrato. Tuttavia, la mancanza di una condanna definitiva aveva fatto sì che a gennaio il Consiglio costituzionale dichiarasse Faye eleggibile, al contrario di Sonko.
La liberazione di Sonko e Faye arriva assieme a quella di almeno altre 344 persone, detenute a causa delle proteste che hanno avuto luogo a partire dal 2021. La decisione di concedere un’amnistia è stata presa in questi giorni, nel tentativo di diminuire la tensione politica in un Paese che negli ultimi mesi ha rischiato in più occasioni di assistere ad uno scoppio generalizzato delle violenze, a causa delle condanne di Sonko, dei tentativi di Sall di correre per un terzo mandato – poi falliti – e del rinvio delle elezioni, inizialmente previste per il 25 febbraio.
Effettivamente, l’amnistia rappresenta un passo in avanti verso la stabilizzazione politica del Senegal: fino in ultimo, infatti, non era chiaro se questa sarebbe stata approvata da Sall e se avrebbe riguardato anche i due leader dell’opposizione. Ma anche la loro liberazione non va ad annullare del tutto gli effetti politici che le condanne hanno avuto: Sonko resta ineleggibile e non potrà correre alla presidenza, nonostante il consenso di cui gode, ed è quindi confermata la candidatura di Faye al suo posto.
Ora, il voto di domenica rappresenta il vero banco di prova per il Senegal. La situazione nel Paese resta tesa, ed eventuali nuovi ostacoli verso l’opposizione o sospetti di brogli da parte del governo potrebbero portare a forti proteste da parte della popolazione.
Inoltre, sarà interessante capire quale sarà il ruolo di Macky Sall e di Ousmane Sonko, in questi giorni e nel prossimo periodo. I due uomini politici di punta del Senegal sono fuori dai giochi, rispettivamente per aver raggiunto il limite massimo di mandati e per la condanna. Ma è chiaro a tutti che sono loro a guidare i due schieramenti: difficile dire quanto faranno sentire il loro peso, durante il voto e dopo che il nuovo presidente sarà stato
Quale governo si potrà fare in Portogallo?
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In Portogallo, è finita l’era di Antonio Costa e del suo Partito Socialista. Il tempo del primo ministro uscente era in realtà terminato già mesi fa, a novembre, quando Costa aveva rassegnato le dimissioni dopo essere stato indagato per corruzione – erroneamente, come si è scoperto in seguito.
Con il voto anticipato di questo fine settimana, anche i Socialisti sono stati costretti a farsi da parte: il partito di centrosinistra è stato sconfitto per pochi voti e non governerà il Paese, interrompendo un dominio iniziato nel 2015 e durato nove anni.
A vincere le elezioni è stata Alleanza Democratica, la coalizione di centrodestra guidata da Luís Montenegro che comprende il Partito Socialdemocratico e i Liberali. Alleanza Democratica ha ottenuto il 29% dei voti, fermandosi poco sotto le previsioni ma sopravanzando comunque di un punto i Socialisti.
La coalizione di centrodestra potrà così contare su 79 seggi, contro i 77 del centrosinistra, su un totale di 230. Nessuno dei due schieramenti potrà perciò governare autonomamente, una conseguenza del sistema proporzionale che vige in Portogallo.
La vittoria del centrodestra rappresenta una svolta importante per il Portogallo, ma non è di certo una sorpresa ed era stata preventivata dagli analisti. I Socialisti arrivavano infatti al voto indeboliti dall’ultimo periodo di governo, in cui il partito era stato colpito da numerosi scandali e contestazioni.
Nel novembre del 2022, l’opaco processo di privatizzazione della compagnia aerea di stato TAP aveva portato alle dimissioni di vari membri del governo, tra cui il ministro delle Infrastrutture Pedro Nuno Santos – tra l’altro leader dei Socialisti alle elezioni di domenica. Un anno dopo, lo stesso primo ministro Costa era stato indagato per presunti episodi di corruzione nell’assegnazione di licenze per lo sfruttamento di giacimenti di litio e per la produzione di idrogeno.
In seguito, era emerso che ad essere coinvolto non era il premier, ma il ministro dell’Economia e quasi omonimo Antonio Costa Silva. In ogni caso, tuttavia, la credibilità dell’esecutivo era stata fortemente danneggiata e il primo ministro aveva confermato le dimissioni, portando il Portogallo a nuove elezioni.
Se i risultati di centrodestra e centrosinistra hanno rispecchiato le previsioni, questo non si può dire per l’estrema destra. Il partito populista e sovranista Chega – parola portoghese che significa abbastanza – ha ottenuto il 18% dei voti, aumentando significativamente il proprio consenso e il numero di seggi su cui può contare, rispetto alla legislatura precedente: con 48 deputati, la formazione rappresenta ora la terza forza in Parlamento.
Chega ha inserito nella sua campagna alcune questioni care alle destre, come il contrasto all’emigrazione, alla transizione ecologica e alla cosiddetta ideologia gender. Questi temi sono però rimasti in secondo piano, a favore di altri maggiormente significativi per l’elettorato portoghese. Il partito ha saputo sfruttare lo scandalo che ha colpito il governo per avvicinare una fascia ampia della popolazione, con la promessa di combattere la corruzione. Inoltre, è riuscito a conquistare voti facendo leva sul problema dell’aumento dei costi della vita e soprattutto delle abitazioni, a fronte di salari che rimangono bassi.
Prima e dopo il proprio successo, Chega ha chiesto esplicitamente di essere inclusa all’interno di un governo di destra guidato da Montenegro e da Alleanza Democratica. Al momento, però, il leader del centrodestra sembra escludere questa opzione e più volte ha rimarcato di non voler governare insieme all’estrema destra.
Anche il presidente della repubblica Marcelo Rebelo de Sousa ha detto di voler evitare che Chega prenda il potere e si è detto pronto ad affidare l’incarico a Luís Montenegro nonostante possa contare soltanto su un governo di minoranza.
Dal Congo all’Italia le prime esportazioni di gas
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La Repubblica del Congo ha iniziato ad esportare gas naturale liquefatto (GNL). Il 27 febbraio è stato effettuato il primo carico, un fatto di grande importanza per lo stato africano ma anche per l’Italia. Le operazioni di estrazione e commercio sono infatti gestite da Eni, la compagnia energetica controllata dallo stato italiano. E, di conseguenza, la nave cargo riempita in questi giorni si dirigerà verso il porto di Piombino e il GNL congolese andrà a rifornire le riserve energetiche italiane.
Attraverso un comunicato stampa, Eni ha dichiarato che “con questo primo carico, la Repubblica del Congo entra nel gruppo dei Paesi esportatori di GNL, aprendosi a nuove opportunità di crescita economica e contribuendo all’equilibrio energetico globale”. L’amministratore delegato ha ringraziato la collaborazione del governo locale, guidato dal generale Denis Sassou Nguesso, e ha sottolineato che “Eni e i partner locali hanno condiviso competenze, know-how e tecnologie, garantendo ulteriori entrate al Paese e contribuendo alla sicurezza energetica dell’Europa”.
La compagnia petrolifera italiana è presente nella Repubblica del Congo sin dal 1968 e gode di un monopolio nella gestione del gas lì presente. In seguito all’invasione dell’Ucraina e vista la necessità di diminuire la dipendenza dal gas russo, il Paese è stato subito individuato tra quelli su cui puntare per raggiungere una maggiore sicurezza energetica.
Nel dicembre del 2022, il Congo e lo stato italiano – attraverso Eni – hanno così raggiunto un accordo per l’estrazione e l’esportazione di GNL, puntando ad estrarre circa 4,5 miliardi di metri cubi di gas all’anno. Negli ultimi giorni del 2023 Eni ha annunciato di aver iniziato ad introdurre gas presso l’impianto di liquefazione galleggiante, posizionato davanti alla costa congolese. Infine, in questi giorni, è stata caricata la prima nave cargo, dando ufficialmente il via alla commercializzazione di GNL congolese.
Nonostante l’inizio delle operazioni in Congo sia stato salutato come un grande successo e come una svolta che porterà beneficio a tutti gli attori coinvolti, il piano di Eni presenta diversi punti oscuri. Il primo riguarda la stretta collaborazione con il regime congolese, che non si distingue per trasparenza e democraticità. Il presidente Sassou Nguesso, ringraziato pubblicamente dalla compagnia energetica, è alla guida del Congo ininterrottamente dal 1997 e nel 2021 è stato confermato con quasi il 90% dei voti. In generale, il governo è stato accusato a più riprese di brogli e repressione ai danni delle opposizioni.
L’esportazione di GNL dal Congo è stata criticata anche per le promesse fatte da Eni al momento di aumentare il proprio coinvolgimento nel Paese. Come sottolinea la compagnia nello stesso comunicato di questi giorni, “Eni è fortemente impegnata a promuovere la transizione energetica nel Paese”, con l’obiettivo di perseguire una propria svolta green e di aiutare il Paese africano a non basarsi soltanto sulle risorse minerarie. In particolare, Eni si è impegnata a stimolare lo sviluppo di biocarburanti e a produrre in Congo 170mila tonnellate di coltivazioni entro il 2026, da destinare poi alla creazione di energia verde.
Per ora, però, poco sembra essere stato fatto, come sottolinea un’inchiesta di The Continent e di Transport & Environment. Innanzitutto, Eni avrebbe affidato le coltivazioni a soggetti terzi, tra cui Agri Resources, senza occuparsene direttamente e mostrando quindi un interesse decisamente minore che non verso il GNL. Inoltre, le operazioni avrebbero portato a risultati minimi, e ad un anno e mezzo dal loro inizio le coltivazioni sarebbero ferme ad uno stadio pilota, per la difficoltà di adattare le colture scelte al clima locale.
Infine, le attività di Eni avrebbero danneggiato la popolazione locale, portando ad un esproprio improvviso di grandi aree coltivate, senza che nessuna compensazione fosse prevista per gli agricoltori. Almeno fino ad adesso: dopo una lunga battaglia legale, Agri Resources ha accettato di pagare a 57 contadini una somma di circa 24mila dollari.
Le difficoltà di Eni nel produrre biocarburanti non si limiterebbero alla Repubblica del Congo. Anche in Kenya Eni starebbe incontrando ostacoli simili, nonostante le promesse e le dichiarazioni trionfanti. Nel 2023, le importazioni dallo stato africano si sarebbero fermate a poco più di 7mila tonnellate di olio di ricino, meno di un quarto degli obiettivi previsti.
Parte da Durban la campagna di Ramaphosa per le elezioni di maggio
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La campagna elettorale in Sudafrica è ufficialmente iniziata. In vista delle elezioni che si terranno a fine maggio, nelle scorse settimane alcune delle formazioni di opposizione avevano già presentato il loro programma elettorale. Sabato 24 febbraio è stato invece il turno del partito più atteso, l’African National Congress (ANC), che da trent’anni governa ininterrottamente il Paese.
L’ANC ha scelto di cominciare la sua marcia verso le elezioni a Durban, nella provincia del KwaZulu-Natal, con una manifestazione in stile americano. Il presidente uscente e candidato ad un secondo mandato, Cyril Ramaphosa, si è presentato in uno stadio gremito da 75 mila persone, fatte arrivare da ogni parte del Paese per evitare che l’affluenza non fosse massima. E lì, in un’atmosfera che ricordava più quella di una partita o di un concerto che non di una manifestazione politica, ha esposto alla folla i punti grazie ai quali conta di essere rieletto.
In caso di vittoria, ha detto, l’ANC interverrebbe con forza per risolvere i maggiori problemi che affliggono il Paese e quindi povertà, criminalità e disoccupazione. Per quanto riguarda quest’ultimo punto, il Presidente uscente ha promesso la creazione di 3,5 milioni di posti di lavoro.
Soprattutto, però, Ramaphosa ha ricordato alla folla che i sudafricani dovrebbero scegliere l’African National Congress principalmente per il ruolo che il partito ha giocato in questi anni. Per un terzo del suo discorso, il Presidente ha lodato quanto fatto da lui e dai suoi predecessori, rivendicando come sia stato proprio l’ANC a porre fine all’apartheid e a lasciarsi definitivamente alle spalle una stagione di discriminazioni, inaugurando un periodo di crescita e democrazia.
La narrazione non è diversa da quella che è stata portata avanti negli ultimi anni e che a lungo ha mostrato di funzionare. Sulla spinta di quanto raggiunto sotto la leadership di Nelson Mandela e negli anni a cavallo del duemila, l’ANC è stato votato a lungo dalla grande maggioranza della popolazione, fermandosi appena sotto il 70% dei consensi alle elezioni del 2009.
Da tempo, tuttavia, la situazione è significativamente cambiata e la formazione ha perso il credito illimitato di cui godeva all’inizio, per colpa di una gestione politica pessima e dei numerosi problemi che affliggono il Sudafrica.
Il boom economico si è bloccato: negli ultimi dieci anni, il tasso medio di crescita è stato di appena lo 0,8%, una percentuale nettamente inferiore a quella della gran parte del continente. Frenato dalla stagnazione, il mercato del lavoro non è stato in grado di rispondere alla crescita della popolazione, e la disoccupazione è quindi esplosa: quella generale si attesta al 32%, ma arriva al 45 tra coloro che hanno meno di 35 anni. Infine è tornata ad aumentare la criminalità, rendendo Città del Capo e Durban due delle città più pericolose al mondo.
La popolarità dell’ANC ne ha risentito. Anche perché sotto la presidenza di Jacob Zuma, tra il 2009 e il 2018, è emerso quanto la corruzione fosse presente all’interno del partito e come i suoi vertici anteponessero l’interesse personale a quello del Paese.
In occasione delle ultime elezioni nazionali il partito ha preso il 57%, mantenendo la maggioranza ma conquistando il minor numero di voti dal 1994. E oggi, le proiezioni dicono che l’ex partito di Mandela potrebbe addirittura fermarsi al 40-45%, perdendo la maggioranza assoluta e facendo registrare una sconfitta epocale.
La vittoria di Ramaphosa non sembra poter essere messa in discussione, in realtà, in quanto il suo partito gode ancora di una base troppo ampia. Inoltre, non esistono veri rivali: il maggior partito di opposizione, Democratic Alliance – che governa la ricca provincia di Western Cape – è infatti ancora troppo legato all’elettorato bianco ed è difficile che possa andare oltre un buon 20%.
La situazione non è però rosea, per l’African National Congress: a peggiorarla contribuisce il fatto che l’ex presidente Zuma abbia deciso di non supportare il suo ex partito e di creare una formazione alternativa.
Per l’ANC, quindi, quello di non ottenere la maggioranza dei seggi è un pericolo reale. Nel caso, Ramaphosa si troverebbe costretto a dover formare una coalizione all’indomani del voto, con un evento che segnerebbe un punto di svolta per la politica sudafricana.
Grecia: i diritti civili vincono contro la scomunica
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La Grecia ha legalizzato il matrimonio per le persone dello stesso sesso. Dopo alcuni giorni di discussione, il progetto di legge è stato approvato giovedì scorso dal Parlamento, nonostante le divisioni interne al governo. In questo modo, la Grecia si unisce ad altri 36 Paesi nel mondo – venti dei quali in Europa – che prevedono la possibilità di sposarsi per i cittadini omosessuali, e diventa il primo stato a maggioranza ortodossa a farlo.
La proposta di riforma era arrivata nei primi giorni di febbraio, sponsorizzata dal primo ministro Kyriakos Mitsotakis. Il leader greco aveva già promesso una misura di questo tipo nel corso della campagna elettorale prima delle elezioni di giugno, in cui ha ottenuto il secondo mandato con una vittoria schiacciante. Ma, nonostante fosse annunciata, la presentazione del disegno di legge ha rappresentato una parziale sorpresa: in uno stato come la Grecia, in cui la Chiesa ortodossa mantiene una forte influenza sulla popolazione e sulla politica, era chiaro che la riforma avrebbe incontrato numerose resistenze, anche da una parte della coalizione di governo.
Così è stato, in effetti. Un terzo dei deputati di Nuova Democrazia – il partito di centrodestra di cui Mitsotakis fa parte – si è astenuto o ha bocciato la legge. Contro la riforma si sono schierati anche la Chiesa Ortodossa, che ha anche minacciato di scomunica coloro che hanno votato a favore, e pure l’ex premier Antonis Samaras, sostenendo che il matrimonio per le persone omosessuali non rappresenti un diritto. Mitsotakis ha però potuto contare sull’appoggio di gran parte dei deputati di Syriza e del Pasok, nonostante anche tra i due partiti progressisti si siano contate delle defezioni. Alla fine, la legge è stata votata da 176 deputati su 300 totali. “Questa è una pietra miliare per i diritti umani e riflette la Grecia di oggi: uno stato progressista e democratico, fortemente attaccato ai valori europei” ha detto il primo ministro.
Nel 2013, Atene era stata condannata dalla Corte europei per i diritti umani, per aver introdotto una legge sulle unioni civili che discriminava le coppie dello stesso sesso. Nel 2015, il governo guidato da Alexis Tsipras aveva risolto la questione, introducendo la possibilità di unirsi civilmente per le coppie omosessuali, ma senza che queste potessero avere gli stessi diritti delle coppie sposate. La nuova legge fornisce invece le stesse garanzie anche alle persone omosessuali e dà ad entrambi i membri della coppia i diritti genitoriali, in caso di adozione.
La legge è stata salutata con favore da numerose associazioni locali e anche dalla stampa europea, che ha sottolineato come un politico di centrodestra sia riuscito a far compiere alla Grecia un passo avanti fondamentale sui diritti, cosa non riuscita ai governi di sinistra precedenti.
Alcuni analisti hanno però sottolineato come la scelta di Mitsotakis vada letta piuttosto come una mossa politica. In primo luogo, il premier è riuscito a porsi come leader di tutto il centro liberale, discostandosi dai suoi alleati più conservatori e rosicchiando spazio politico al centrosinistra.
Inoltre, Mitsotakis avrebbe provato con questa riforma a migliorare la propria immagine e quella del proprio governo, spostando l’attenzione dai problemi interni. Da quando è andato al potere, il leader greco è stato infatti ripetutamente accusato di aver limitato la libertà di stampa, attraverso lo spionaggio di giornalisti e l’uso massiccio delle querele temerarie. E, ormai da settimane, gli studenti stanno protestando contro un discusso piano di riforma del sistema universitario, basato sulla sua liberalizzazione.
Schieramenti e coalizioni in vista delle elezioni europee
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C’è fermento all’interno del gruppo dei Conservatori e Riformisti europei (ECR), in vista delle elezioni previste per giugno che porteranno al rinnovo di Parlamento e Commissione Ue. La scorsa settimana Nicolas Bay, l’unico eurodeputato del partito francese Reconquête!, è passato dal gruppo dei “non membri” all’ECR. E, così facendo, ha segnato l’ingresso della sua formazione all’interno della coalizione europea di destra, guidata da Giorgia Meloni e di cui fa parte Fratelli d’Italia.
Reconquête! è un partito che in Italia è conosciuto soprattutto per le figure da cui è guidato. La candidata di spicco al voto di giugno sarà infatti Marion Maréchal, nota per essere la nipote di Marine Le Pen. Mentre alle ultime elezioni presidenziali francesi il leader della formazione è stato Éric Zemmour, distintosi per le sue posizioni estremiste, xenofobe e maschiliste.
Il partito punta ad incrementare la propria delegazione a Bruxelles e sembra aver trovato in ECR lo schieramento ideale per inseguire i propri obiettivi. “Il gruppo dei Conservatori e Riformisti è la nostra famiglia naturale, per lottare contro l’immigrazione clandestina, per difendere l’identità dell’Europa, per difendere l’equilibrio tra ecologia e bisogni economici e la sovranità nazionale, ma anche per lottare contro la propaganda Lgbt e woke” ha affermato Maréchal.
Probabilmente, poi, l’espansione dello schieramento di estrema destra non si limiterà all’inclusione di Reconquête!. Da settimane, si parla infatti del possibile ingresso del primo ministro ungherese Viktor Orban e del suo partito Fidesz all’interno dei Conservatori e riformisti europei. La cosa più probabile è che il passaggio venga formalizzato in seguito al voto, ma intanto Orban sembra avere già ottenuto il via libera dei leader di ECR.
Giorgia Meloni ha con lui un rapporto ormai consolidato e vedrebbe di buon occhio un allargamento a destra dello schieramento. E anche il partito polacco Diritto e giustizia (PiS), che rappresenta l’altra grande forza all’interno di ECR, non si è opposto ad un’alleanza con il leader ungherese.
L’ingresso di Orban determinerebbe un allargamento significativo del gruppo dei Conservatori e riformisti ed andrebbe ad aumentare notevolmente il suo peso politico. Tuttavia, il primo ministro ungherese è una figura controversa nel panorama europeo ed anche all’interno della stessa destra, ed il suo arrivo potrebbe rivelarsi controproducente per ECR.
Il rischio di un effetto boomerang è risultato evidente negli ultimi giorni, quando le notizie relative alle nuove alleanze sono state seguite dalle minacce di alcune delegazioni di uscire dalla coalizione conservatrice. Il leader dei Democratici Svedesi, Charlie Weimers, ha annunciato che il suo partito potrebbe essere “obbligato a valutare altre opzioni” rispetto alla permanenza nel gruppo ECR, nel caso Orban dovesse entrare a farne parte.
La formazione svedese condivide con la coalizione lo schieramento a destra, ma è fortemente atlantista e critica verso Putin: difficile, quindi, che possa accettare un’alleanza con il leader ungherese, che anche dopo l’invasione dell’Ucraina ha mantenuto saldi rapporti con Mosca. Oltre alle posizioni filo Putin, di Orban sono criticate anche le mire territoriali e l’idea di una grande Ungheria. “Gli ungheresi hanno rivendicazioni territoriali che ci rendono impossibile essere nella stessa alleanza” ha dichiarato Marius Lulea, vicepresidente del partito di estrema destra rumeno AUR. Il partito rumeno, che è nato nel 2019 ed è ora secondo nei sondaggi nazionali, sembrava destinato ad unirsi ad ECR. Con gli ultimi sviluppi, però, tutto è tornato in discussione.
L’alleanza tra Meloni e Orban potrebbe avere conseguenze anche su quello che è il peso che la prima ministra italiana avrà a livello europeo. Negli ultimi mesi si è parlato di una possibile alleanza tra i Popolari e il gruppo dei Conservatori e riformisti, un’ipotesi confermata anche dal sostegno espresso da Meloni verso la ricandidatura di Ursula Von der Leyen.
Uno spostamento a destra significativo di ECR, e soprattutto l’inclusione di Orban, potrebbero però cambiare le carte in tavola, portando i Popolari a preferire una nuova coalizione con i Socialisti.
Elezioni strumentalizzate e repressione nel democratico Senegal
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In Senegal, le elezioni inizialmente previste per il 25 febbraio sono state posticipate. Lo ha annunciato a sorpresa il presidente del Paese Macky Sall, sabato scorso, spiegando che la decisione è dovuta alla necessità di “evitare un’instabilità istituzionale e gravi disordini politici”. Nella notte tra il 5 e il 6 febbraio, il rinvio è stato approvato dal Parlamento, che ha fissato il nuovo voto per il 15 dicembre 2024.
Gli ultimi eventi politici non rappresentano un fulmine a ciel sereno, per lo stato dell’Africa occidentale. Negli ultimi anni, e soprattutto nel corso del 2023, la presidenza di Macky Sall è stata macchiata da numerose violazioni dello stato di diritto e da varie forzature del sistema democratico. Da un lato, Sall ha cercato a lungo di tenersi aperte delle possibilità di candidarsi per le elezioni presidenziali di quest’anno, nonostante avesse già raggiunto il limite dei due mandati previsto dalla costituzione. Dall’altro, il governo è stato accusato di usare la giustizia come arma contro l’opposizione: il principale rivale di Sall, Ousmane Sonko, è stato infatti accusato prima di violenza sessuale e poi di incitamento alla rivolta, e si trova ora in carcere. Le mosse del governo hanno portato l’opposizione ad organizzare forti proteste, duramente represse da parte delle autorità. E hanno fatto crescere la preoccupazione all’interno della comunità internazionale, che considera il Senegal un bastione della democrazia in Africa.
La situazione è sembrata migliorare a luglio, quando Sall ha finalmente annunciato che non si sarebbe ricandidato. Ora, però, gli ultimi sviluppi rischiano di far alzare nuovamente la tensione nel Paese. Lo spostamento delle elezioni non è un fatto di poco conto, anzi: dal 1963, in Senegal non era mai successo che il voto venisse rinviato, e quello deciso da Sall rappresenta un precedente pericoloso. Inoltre, il mandato del Presidente scadrebbe ufficialmente ad aprile: le nuove elezioni si terranno però soltanto a dicembre e fino a quel momento Macky Sall resterà comunque in carica, a dispetto della legge.
Il rinvio del voto di fine febbraio riflette le dinamiche politiche interne al Paese. Senza il presidente uscente, il partito democratico senegalese (PDS) che ora è al governo rischiava fortemente di uscire sconfitto dalle urne. Il suo candidato ufficiale, l’attuale primo ministro Amadou Ba, è infatti debole ed è contestato da una parte della sua stessa formazione. Al contrario, le ultime analisi davano come probabile una vittoria di Bassirou Diomaye Faye, il leader anti sistema e anti francese che ha sostituito Sonko come capo dell’opposizione, dopo che quest’ultimo è stato condannato e dunque dichiarato ineleggibile.
L’annullamento delle elezioni del 25 febbraio serve quindi al governo per prendere tempo e capire come muoversi. Ed è utile in particolare per ridefinire le alleanze e la lista dei candidati. Diversi osservatori hanno letto la decisione di Sall come un tentativo di avvicinarsi a Karim Wade, un altro esponente dell’opposizione e figlio di Abdoulaye Wade, alla guida del Paese fino al 2012.
Karim Wade era stato di recente escluso dalla lista dei candidati da parte del Consiglio costituzionale: il politico ha infatti anche la cittadinanza francese, quando la legge elettorale prevede che chi si candida alla presidenza non possa avere nessuna cittadinanza se non quella senegalese. In seguito alla sua estromissione Wade ha accusato i giudici di parzialità, chiedendo quindi la revisione del suo caso, ed è proprio a questo appello che si è appoggiato Sall per decidere di rinviare il voto. Ora, dunque, il Presidente potrebbe spingere per riabilitare Wade e per favorire una sua elezione, piuttosto che quella di Faye, visto come un rivale ben più distante e pericoloso.
Nel frattempo, però, il Paese rischia di precipitare nel caos. Per il momento, le proteste non hanno raggiunto i livelli dei mesi scorsi, anche perché la repressione ha fatto sì che ora molti di coloro che guidavano le manifestazioni si trovino in carcere. In ogni caso, però, il governo ha sospeso internet nelle ore successive alla decisione, per evitare che l’opposizione si potesse organizzare, ed è stata anche ritirata la licenza al canale televisivo privato Walf TV, accusato di incitamento alla violenza.
Europa: il settore agricolo si sente minacciato
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Tutto è cominciato dalla Germania. Poi è arrivato il turno di Paesi Bassi, Romania, Polonia, Irlanda, Spagna e Serbia. Ora, invece, al centro della scena c’è la Francia. Nelle ultime settimane, ognuno di questi Paesi è stato caratterizzato da ampie dimostrazioni da parte degli agricoltori, che hanno protestato occupando piazze e bloccando le strade con trattori e altri mezzi agricoli.
Ognuna delle proteste è avvenuta per ragioni specifiche, spesso legate a politiche nazionali, e ha visto i contadini opporsi ai rispettivi governi. Ma ovunque, e in maniera sempre maggiore man mano che le dimostrazioni sono andate avanti, i manifestanti si sono schierati con forza contro Bruxelles e le sue politiche verdi, chiedendo importanti cambiamenti e diversi passi indietro nelle politiche europee contro il cambiamento climatico.
Ad accendere la miccia è stato appunto il governo tedesco, che a dicembre ha preso la decisione di togliere un sussidio che riduceva fino a quel momento il prezzo del gasolio. La scelta della coalizione guidata da Olaf Scholz – che comprende Socialdemocratici, Verdi e Liberali – è stata dettata dalla necessità di far quadrare i conti pubblici, dopo che una sentenza della Corte costituzionale aveva di fatto tagliato le risorse disponibili e aveva quindi imposto a Berlino di indebitarsi oppure di ridurre le spese.
Ma il taglio del sussidio non è stato accolto favorevolmente dagli agricoltori, anzi: il gasolio è infatti fondamentale per il funzionamento dei trattori e di altri macchinari, e la categoria ha quindi sostenuto che una crescita del suo prezzo avrebbe portato ad un aumento importante dei costi da sostenere. Gli agricoltori si sono perciò riversati a migliaia nelle strade tedesche e anche in alcuni luoghi simbolici, come davanti alla porta di Brandeburgo a Berlino, ed a nulla sono serviti gli inviti al dialogo da parte dell’esecutivo e la decisione che il sussidio verrà progressivamente ridotto e non eliminato come si pensava all’inizio.
Le rivendicazioni degli agricoltori, che inizialmente chiedevano semplicemente al governo di tornare sui propri passi, si sono subito allargate. Non è successo soltanto in Germania, ma anche nel resto del continente. In alcuni stati, il pretesto per scendere in piazza è stato dato da alcune misure approvate di recente, simili a quella tedesca o volte a diminuire le emissioni carboniche generate dall’agricoltura. In altri Paesi, come la Francia, i contadini hanno semplicemente seguito l’esempio dato dai colleghi tedeschi e hanno colto l’occasione per dimostrare contro politiche che sono avversate da anni.
Ovunque, le proteste si sono presto rivolte soprattutto contro l’Unione Europea e le sue politiche ambientali. I contadini hanno lamentato la necessità di aderire a regole sempre più dettagliate per quanto riguarda la produzione. E hanno protestato contro le misure volute da Bruxelles per diminuire le emissioni e l’uso dei pesticidi o per preservare la biodiversità, ma che, a detta dei contadini, finiscono per aumentare i costi e obbligano sempre più i piccoli agricoltori ad abbandonare la loro attività.
In generale, i contadini europei sostengono di essere trascurati da un’Europa più interessata alla creazione di un mercato globale che non a proteggere il proprio settore agricolo, in un momento in cui questo si sente minacciato. Negli ultimi due anni, infatti, questo è stato fortemente colpito dalla crisi ucraina e dal conseguente aumento del costo dell’energia, non compensato dalla crescita dei prezzi dei prodotti alimentari.
Il conflitto ha portato anche alla decisione europea di togliere i dazi dal grano e da altri prodotti ucraini, in modo da supportare Kiev: una decisione criticata dagli agricoltori comunitari, che temono la concorrenza di prodotti meno costosi e coltivati senza la necessità di rispettare le stringenti regole europee. Infine, ad essere avversato è anche il possibile accordo tra Ue e Mercosur, che potrebbe portare ad un maggiore afflusso in Europa anche di beni alimentari prodotti in America Latina.
A livello nazionale, le proteste degli agricoltori stanno già facendo sentire i loro effetti: in Germania il governo sta toccando nuovi picchi di impopolarità, mentre in Francia il nuovo primo ministro Gabriel Attal ha dovuto promettere che Macron spingerà sui suoi alleati perché alcune delle normative europee vengano riviste. Presto, però, gli effetti delle dimostrazioni potrebbero diventare evidenti anche a Bruxelles: in vista delle elezioni europee, è subito iniziata la corsa per accaparrarsi il consenso di chi manifesta, con l’estrema destra in prima linea nel criticare la transizione ecologica e nel cercare un’alleanza con gli agricoltori.
Alternative für Deutschland e l’idea di “remigrazione”
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È stato un fine settimana di dimostrazioni in Germania, dove nel giro di tre giorni si sono riversate in strada circa un milione e mezzo di persone, per dare un segnale contro la crescita dell’estrema destra nel Paese e per mostrare che la maggioranza della popolazione è contraria ad AfD e a quello che il partito propone.
A fare da apri fila è stata Amburgo, dove venerdì si sono riunite circa 100mila persone. Sabato è toccato poi ad altre 300mila persone, secondo gli organizzatori, che hanno manifestato tra gli altri posti a Francoforte, Hannover, Dortmund e Halle. Infine, domenica si sono tenuti quasi ovunque dei cortei, che hanno portato in piazza centinaia di migliaia di tedeschi. A Monaco l’evento è stato annullato per motivi di sicurezza, dato che nelle strade si contavano 250mila partecipanti, molti di più rispetto alle previsioni.
L’ondata di manifestazioni è stata causata dalla notizia, uscita alcuni giorni fa, di un incontro segreto in una villa di Berlino a cui hanno partecipato vari membri del partito nazionalista Alternative fur Deutschland (AfD), alcuni importanti esponenti neonazisti europei e anche dei membri della Werte Union, la corrente di destra del partito cristiano-conservatore CDU. Il sito di giornalismo investigativo Correctiv, che ha dato la notizia, ha spiegato che nel corso dell’evento si è parlato di come reagire all’immigrazione verso la Germania e si è discusso in particolare di “remigrazione”.
La “remigrazione” è un concetto che negli ultimi anni è diventato sempre più centrale nei discorsi della destra europea. Si tratta dell’idea secondo la quale una parte della popolazione straniera presente sul territorio dovrebbe essere portata fuori dai confini nazionali, se necessario anche usando la forza. In pratica, quindi, ciò che viene proposto è una vera e propria deportazione, verso gli stati di origine o verso un Paese terzo. E non riguarda soltanto coloro che risiedono nel Paese in maniera irregolare: all’incontro avvenuto in Germania si è parlato di deportare anche gli stranieri di seconda generazione e pure i tedeschi che simpatizzano con loro.
Il piano ha ricordato, in maniera nemmeno così velata, i progetti nazisti per la “purificazione” della popolazione. E proprio in quest’ottica è stato condannato con forza dalle autorità tedesche. Il cancelliere Olaf Scholz ha descritto il piano come “un attacco alla democrazia e quindi a tutti noi”, mentre la capogruppo dei Verdi Britta Haßelmann ha detto che i membri di AfD “sono eletti democraticamente ma non sono democratici, sono fascisti”.
In generale, oltre che dal centrosinistra, l’incontro è stato criticato da tutti gli schieramenti politici. Tranne che da AfD, che ha scelto di mantenere un atteggiamento ambiguo: da un lato i suoi vertici hanno minimizzato quanto successo e hanno preso le distanze dagli organizzatori, dall’altro numerosi esponenti hanno sottolineato che la “remigrazione” fa effettivamente parte dei loro obiettivi.
Le notizie su AfD e l’incontro segreto hanno provocato una reazione significativa da parte della popolazione, ma hanno anche sollevato diversi interrogativi nella classe politica. Da giorni, infatti, questa è tornata a domandarsi se una soluzione al pericolo posto da AfD e dalle sue proposte possa consistere nella messa al bando del partito.
Non si tratta di un dibattito nuovo: la possibilità di emanare un divieto verso formazioni neonaziste esiste in Germania ed è stata già applicata in passato, e l’idea di adottare questa misura contro AfD era stata presa in considerazione già negli scorsi mesi, quando l’associazione giovanile legata al partito nazionalista è stata messa sotto sorveglianza in Germania per il rischio di estremismo.
Lo spettro politico, tuttavia, è estremamente diviso su questa ipotesi, che sarebbe in ogni caso molto difficile da applicare. Il centrosinistra in questi giorni ha insistito sulla necessità di prenderla in considerazione, per vietare formalmente quella che è considerata una vera e propria minaccia alla democrazia tedesca.
Il centrodestra si è mostrato invece molto più cauto. Il leader dell’opposizione Merz si è schierato contro un divieto, dicendo che darebbe ad AfD un ruolo di martire agli occhi dei suoi sostenitori. Più in generale, la CDU e i Liberali sostengono che una messa al bando formale non porti a nulla, ed anzi rischi di rafforzare il partito. Infine, l’opposizione ha colto l’occasione per criticare il governo: per combattere l’estrema destra servirebbe fare una buona politica, ha sottolineato, al contrario di quello che sta facendo l’esecutivo guidato da Scholz.
Polonia: sale la tensione tra il nuovo governo e l’opposizione
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In Polonia, il nuovo governo guidato da Donald Tusk è in carica da appena un mese. Ma poche settimane sono bastate per far salire alle stelle la tensione tra l’esecutivo liberale e Diritto e Giustizia (PiS), il partito populista che si è ritrovato all’opposizione. A fine dicembre sono arrivate le prime mosse di Tusk per cercare di liberare l’informazione pubblica dal controllo del PiS. Poi, negli ultimi giorni, il governo ha fatto arrestare due membri del governo precedente, scatenando la rabbia dell’opposizione e le dure proteste dei suoi sostenitori.
In questi anni, la Polonia aveva attirato in più occasioni l’attenzione del resto d’Europa per la svolta illiberale che stava prendendo piede sotto Mateusz Morawiecki, con il tentativo dello schieramento populista di prendere il controllo del sistema giudiziario e della tv pubblica. Una volta che il PiS ha perso le elezioni di metà ottobre, sconfitto dalla coalizione guidata da Piattaforma Civica di Tusk, era quindi chiaro che la transizione di potere sarebbe stata turbolenta e dominata dal tentativo del nuovo governo di smantellare il più possibile di quanto fatto da quello uscente.
Così è stato. Appena insediatasi, la coalizione di governo ha preso in mano lo spinoso argomento dei media pubblici, cercando di liberarli dall’influenza del PiS. La dirigenza dei media di stato è stata immediatamente cambiata, motivando la decisione con il tentativo di riportare equilibrio nei canali televisivi, dopo che questi erano stati usati in questi anni da Diritto e Giustizia come strumento di propaganda. Inoltre, il governo ha agito con forza contro TVP Info, un canale di news particolarmente attivo contro Tusk e i suoi alleati: questo ha smesso di trasmettere per qualche giorno, per poi riaprire totalmente rinnovato.
Le mosse dell’esecutivo sono state fortemente criticate dal PiS e hanno spinto addirittura il presidente polacco Andrzej Duda, indipendente ma molto vicino alla formazione populista, a mettere l’argomento al centro del suo discorso di fine anno. “Per la prima volta nella Polonia libera dal 1989, si è assistito a un tentativo di acquisizione dei media pubblici con la forza – ha detto Duda alla nazione – Non accetterò mai la violazione della costituzione. Ma, sfortunatamente, stiamo avendo a che fare con una situazione di questo tipo”.
Diritto e Giustizia ha anche organizzato una manifestazione contro le decisioni del governo, chiamando a raccolta i propri elettori. Ma, prima che questa si tenesse, la tensione tra le parti politiche è salita ulteriormente: l’esecutivo ha infatti fatto arrestare l’ex ministro dell’Interno Mariusz Kaminski e il suo braccio destro, sotto processo per abuso di potere. Le accuse risalgono in realtà al 2015, ma Duda aveva deciso di concedere loro la grazia e i due erano quindi tornati in politica. L’anno scorso, però, la Corte suprema ha annullato la decisione presidenziale, giudicandola incostituzionale per i tempi con cui era avvenuta. I due membri del PiS sono stati quindi arrestati, tra l’altro mentre si trovavano nel palazzo presidenziale, invitati da Duda per essere protetti dall’applicazione della legge. E lo stesso Duda ha subito fatto sapere di aver avviato una nuova procedura per la grazia.
La protesta contro il governo è quindi diventata soprattutto centrata su questo caso e nelle strade di Varsavia si sono riversate migliaia di persone: 100mila secondo gli organizzatori, 35mila secondo le autorità. I dimostranti hanno accusato Tusk e la sua squadra di effettuare arresti politici e minare l’indipendenza della Polonia, servendo invece gli interessi di Berlino e Bruxelles. Alla folla si è rivolto tra gli altri anche il leader del PiS, Jaroslaw Kaczynski: “Dobbiamo vincere questa grande battaglia per una Polonia sovrana e indipendente” ha detto.
L’Etiopia e il controverso sbocco sul Mar Rosso
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Quando a fine ottobre Abiy Ahmed aveva annunciato l’intenzione dell’Etiopia di ottenere uno sbocco sul mare, non escludendo l’uso della forza per raggiungere questo obiettivo, la reazione dei Paesi vicini era stata veemente, ma in pochi avevano pensato che le parole del primo ministro etiope avrebbero portato ad un rapido sviluppo della situazione. Invece è successo: a inizio anno l’Etiopia e l’autoproclamata repubblica del Somaliland hanno firmato un patto che assicura ad Addis Abeba di avere accesso al mar Rosso. Con una mossa che ha fatto alzare in maniera significativa la tensione tra gli attori della regione.
Da decenni, la questione dello sbocco sul mare è fondamentale per Addis Abeba. Dopo aver perso il controllo del territorio eritreo in seguito alla sua indipendenza, nel 1991, l’Etiopia è restata infatti chiusa all’interno del continente, diventando lo stato più popoloso al mondo a non poter contare su un tratto di costa. Per anni, il Paese si è appoggiato sul porto di Gibuti, ma non ha mai smesso di chiedere una soluzione più a lungo termine. Le rivendicazioni si sono fatte più pressanti negli ultimi mesi, quando Abiy Ahmed si è più volte lasciato andare a dichiarazioni bellicose, per poi smentire successivamente quanto dichiarato.
Con il 2024, è però arrivata una svolta inaspettata, almeno per quanto riguarda le tempistiche. Lunedì 1 gennaio il leader etiope e il presidente del Somaliland Muse Bihi Abdi hanno siglato un Memorandum of Understanding ad Addis Abeba, trovando un accordo potenzialmente vantaggioso per entrambe le parti. Il Somaliland ha infatti stabilito di dare in concessione per cinquant’anni un tratto di 20 chilometri della propria costa, garantendo all’Etiopia la possibilità di avere il tanto desiderato accesso al mar Rosso e una propria base navale. In cambio, l’Etiopia ha offerto delle quote della compagnia aerea di stato, Ethiopian Airlines, e soprattutto il riconoscimento formale del Somaliland come stato sovrano.
L’accordo ha colto di sorpresa gli altri Paesi del Corno d’Africa e ha provocato l’ira della Somalia, che considera il Somaliland parte del proprio territorio e si oppone ad ogni suo tentativo di indipendenza. Il presidente somalo Hassan Sheikh Mohamud, conosciuto come Farmajo, ha annunciato di aver firmato una legge che annulla il valore del Memorandum, definendolo un atto di aggressione e dichiarando che “nessuno ha il potere di dare via un pezzo di Somalia”.
La situazione del Somaliland risale al 1993, quando, in seguito alla caduta del regime di Siad Barre e nel mezzo della guerra civile, la regione del nord della Somalia ha dichiarato unilateralmente la secessione dallo stato centrale. La creazione del nuovo stato non è stata però accettata, né da Mogadiscio né dalla comunità internazionale: l’Unione Africana si oppone da sempre alla modifica dei confini post coloniali, mentre Europa e Stati Uniti temono che il riconoscimento del Somaliland possa portare ad un disgregamento della Somalia e finisca per dare troppo potere all’Etiopia nella regione.
Negli anni la situazione non è cambiata: le autorità secessioniste hanno continuato a controllare il territorio e il Somaliland è considerato da molti osservatori come un’entità stabile e democratica, ma continua a rimanere sotto la sovranità di Mogadiscio e ad essere ignorato dal resto del mondo. Per questo, il riconoscimento da parte dell’Etiopia sarebbe un passo importante.
L’accordo tra Etiopia e Somaliland arriva in un momento particolare: nei giorni scorsi, Mogadiscio e la repubblica secessionista hanno accettato di prendere parte a una mediazione guidata da Gibuti, per cercare di risolvere la loro disputa dopo anni di stallo. La firma del Memorandum cambia le carte in tavola: potrebbe far saltare tutto, ma potrebbe anche rafforzare la posizione del Somaliland, ora appoggiato dall’Etiopia.
Bulgaria e Romania: via libera per entrare nell’area Schengen
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Dopo anni di attesa, Romania e Bulgaria hanno ricevuto il via libera per entrare nell’area Schengen. Lo ha annunciato il Consiglio Europeo, dopo aver preso questa decisione all’unanimità il 30 dicembre.
La misura diventerà effettiva a partire dalla fine di marzo: da quel momento, verranno eliminati i controlli alle frontiere aeree e marine tra Romania, Bulgaria e gli altri Paesi che fanno parte dell’area di libera circolazione. Quelli effettuati ai confini terrestri rimangono invece ancora in vigore. “Il Consiglio dovrebbe prendere un’ulteriore decisione per stabilire una data per l’eliminazione dei controlli alle frontiere interne terrestri” ha spiegato l’istituzione europea, e tutto lascia pensare che un’adesione piena dei due stati all’area Schengen dovrebbe avvenire entro l’anno.
La presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen ha parlato di “momento storico per Bulgaria e Romania” e di un “grande passo avanti sia per gli stati che per l’intera area Schengen”. Anche i due Paesi hanno salutato la decisione come un successo, nonostante le limitazioni che rimangono. “Dopo anni di fallimenti e umiliazioni, il mio governo ha dato vita ad un processo che oggi è irreversibile”, ha sottolineato il premier romeno Marcel Ciolacu, dicendosi fiducioso di una rapida eliminazione dei controlli terrestri. “Non esiste un compromesso di successo in cui entrambe le parti non restino almeno parzialmente insoddisfatte”, ha dichiarato la vice premier bulgara Maria Gabriel.
I due stati sono entrati nell’Unione Europea nel 2007 e per anni hanno cercato di entrare nell’area Schengen. Senza successo, però, nonostante secondo la Commissione, Romania e Bulgaria rispettassero i requisiti tecnici necessari sin dal 2011. A frenare l’entrata dei due Paesi è stata però l’opposizione di alcuni membri dell’area, in particolare Austria e Paesi Bassi.
Vienna si è schierata per anni, con forza, contro l’adesione di Bucarest e Sofia. Principalmente, a preoccupare l’Austria era il controllo delle frontiere esterne dell’UE da parte dei due stati ed i possibili effetti negativi sull’immigrazione irregolare e sugli arrivi di migranti nel proprio territorio. “Schengen deve diventare migliore e non più grande. Non vedo ancora molti progressi, quindi non riesco a immaginare alcun cambiamento”, aveva dichiarato ancora a inizio dicembre Gerhard Karner, ministro dell’Interno austriaco, dopo aver bocciato per l’ennesima volta un’inclusione dei due stati.
Diversa invece la posizione dei Paesi Bassi, che a lungo hanno motivato le proprie resistenze con gli alti livelli di corruzione presenti sia in Bulgaria che in Romania. Questi erano giudicati incompatibili sia con l’apertura delle frontiere, sia con il conseguente scambio di informazioni sensibili.
Che la situazione si potesse finalmente sbloccare è risultato chiaro nel corso dell’ultima settimana di dicembre, quando il parlamento olandese ha rimosso il veto all’entrata in Schengen di Bucarest e Sofia. Per convincere l’Austria sono servite invece delle rassicurazioni maggiori, spiega l’Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa: Vienna ha imposto una massiccia presenza di Frontex alle frontiere che Romania e Bulgaria condividono con Serbia e Turchia, e ha anche chiesto ai due Paesi di farsi effettivamente carico dei richiedenti asilo che entrano nell’Unione attraverso il loro territorio.
Le condizioni imposte a Bulgaria e Romania per l’ingresso nell’area Schengen rischiano tuttavia, paradossalmente, di appesantire ancora di più la frontiera che li divide, almeno fino a quando anche i controlli via terra non saranno eliminati. Già adesso il confine è sottoposto ad una grande pressione, per il passaggio di tir e mezzi pesanti.
A Panama, la decima COP10 sulle politiche di controllo del tabacco
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Non esistono solo le COP relative al cambiamento climatico e alle strategie per combatterlo. Tra il 5 e il 10 febbraio 2024 si terrà a Panama la decima Conferenza delle Parti dedicata alle politiche di controllo del tabacco. Un evento che in realtà avrebbe dovuto aver luogo già a novembre, ma è poi stato rinviato a causa di ragioni di sicurezza. Il Paese centroamericano è stato infatti attraversato in queste settimane da proteste e disordini, legati alla decisione del governo di prolungare le concessioni per l’estrazione di rame dalla più grande miniera a cielo aperto della regione, nonostante i rischi ambientali.
La Conferenza delle Parti rappresenta l’organo di governo della Convenzione Quadro per il Controllo del Tabacco (Framework Convention on Tobacco Control o FCTC). Questa convenzione è stata adottata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2003, per poi essere ratificata due anni dopo. Il suo scopo è sviluppare una normativa internazionale per contrastare il fenomeno del tabagismo, riducendone la diffusione a livello globale. Per farlo, il testo della FCTC prevede “tutta una serie di strategie di riduzione dell’offerta, della domanda e degli effetti nocivi tendenti a migliorare la salute di una popolazione”.
Ad oggi, sono 182 le Parti, e cioè i Paesi che hanno ratificato la convenzione: tra questi c’è l’Italia, che l’ha fatto nel 2008. Ogni due anni, questi si riuniscono nella COP per modificare la convenzione e adottare linee guida o protocolli. Le prime servono a indirizzare l’azione degli stati ma non sono vincolanti; i protocolli impongono al contrario degli obblighi, ma fino ad oggi ne è stato adottato soltanto uno, relativo al contrasto del mercato illecito di sigarette. Oltre alle Parti, alla COP partecipano in qualità di osservatori anche quei Paesi che hanno firmato la convenzione senza poi ratificarla, come Stati Uniti, Svizzera e Argentina. Sono ammesse anche alcune ONG, a condizione che non abbiano legami con l’industria del tabacco.
Nonostante la partecipazione di attori della società civile, la COP10 si distingue da quelle relative all’ambiente per il suo livello di chiusura. Negli anni, il pubblico e la stampa sono stati esclusi dalle discussioni: questo ha contribuito al fatto che le conferenze sul tabacco ricevano poco spazio nei media, a differenza di quanto accaduto ad esempio per la COP28 a dicembre. Anche la partecipazione di ONG, pur prevista, è decisamente limitata: a febbraio ce ne saranno soltanto alcune decine, contro le oltre 3000 che hanno partecipato alla conferenza di Dubai.
A poco più di un mese dall’inizio dei lavori, e a dispetto della scarsa attenzione ricevuta, la COP10 sembra poter portare a risultati particolarmente significativi. Spinta dall’OMS, che ne definisce in parte l’agenda e ne guida l’azione, la conferenza potrebbe infatti andare a regolamentare il settore dei prodotti senza combustione alternativi alle sigarette, come le sigarette elettroniche (e-cig) e i prodotti a tabacco riscaldato (HTP).
Negli ultimi anni, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha sposato una linea particolarmente restrittiva verso questi prodotti, motivata dal fatto che non eliminano i rischi per la salute. E-cig e HTP permettono ai consumatori di assumere nicotina senza essere esposti alla combustione di tabacco, ma continuano comunque a presentare al loro interno sostanze dannose. Inoltre, evidenzia l’OMS, hanno l’effetto di avvicinare alla dipendenza da nicotina molti giovani, più che aiutare a smettere chi già fuma. Per queste ragioni, l’Organizzazione ritiene che tali prodotti non possano essere ritenuti degli strumenti validi nella lotta al tabagismo e la loro diffusione andrebbe perciò contrastata, per andare verso l’obiettivo di un mondo senza fumo.
Se anche le Parti della COP10 dovessero condividere la lettura dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, la conferenza potrebbe decidere di equiparare la regolamentazione dei prodotti senza combustione a quella delle sigarette. In pratica, la tassazione di sigarette elettroniche e prodotti a tabacco riscaldato verrebbe alzata in maniera significativa, la loro pubblicità sarebbe vietata e anche per questi diventerebbe obbligatorio l’utilizzo di grafiche che ricordano i rischi per la salute dei consumatori.
Le posizioni dell’OMS hanno creato un forte dibattito ed in molti si sono mostrati fortemente critici verso l’organizzazione e verso i risultati che ha ottenuto con le politiche anti tabagismo. Queste non hanno dato i frutti sperati, sostengono alcuni studiosi e organizzazioni, considerando che il numero di fumatori è rimasto pressoché stabile nel corso degli ultimi vent’anni. Di conseguenza, l’OMS dovrebbe puntare con più forza sulle strategie per la riduzione del danno – previste tra l’altro anche dalla convenzione alla base della COP10 – e quindi sui prodotti senza combustione. I detrattori dell’organizzazione la accusano infine di non tenere conto dell’evidenza scientifica: pur non essendo a rischio zero, è l’argomentazione portata, e-cig e HTP sarebbero meno dannosi di quelli tradizionali e avrebbero una certa efficacia – anche se parziale – nell’aiutare a smettere di fumare.
Repubblica democratica del Congo: oggi si elegge il nuovo Presidente
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La rivista The Continent le ha presentate come le elezioni nello Stato più importante del mondo. E anche se la definizione può risultare più o meno condivisibile, a seconda dei punti di vista, di certo non è solo una provocazione. Oggi, mercoledì 20 dicembre la Repubblica Democratica del Congo si reca alle urne e ci sono svariate ragioni per osservare con attenzione quanto succederà, nel giorno del voto e nei mesi successivi.
L’importanza delle elezioni riflette prima di tutto la rilevanza del Congo. Non potrebbe essere altrimenti, per posizione e dimensioni: il Paese è situato al centro del continente africano ed ha una superficie di 2,3 milioni di chilometri quadrati, circa quattro volte la Francia. Al suo interno abitano circa 100 milioni di persone: giovanissime, se si considera che sono appena 44 milioni i congolesi che oggi andranno a votare. Infine, lo stato si distingue per le sue risorse naturali. Nel suo sottosuolo giace il 70% delle riserve mondiali di coltan. E tra i confini del Paese si estende la seconda foresta pluviale più vasta al mondo, dopo l’Amazzonia.
Basterebbero questi elementi a fare della Repubblica Democratica del Congo uno stato centrale nel panorama internazionale e del voto uno degli appuntamenti più importanti del 2023. Purtroppo, però, c’è molto altro. Innanzitutto, il Paese si trova in una situazione di sicurezza drammatica, con una serie di conflitti interni che vanno avanti dal momento dell’indipendenza, nel 1960. Oggi, in particolare, l’area orientale del Congo è attraversata da forti scontri: la regione del Nord Kivu è parzialmente in mano all’M23, una milizia ribelle sostenuta dal vicino Rwanda, mentre al confine con l’Uganda è attivo il gruppo ADF, legato all’Isis.
In generale, si può dire che il Congo rappresenti il più classico degli esempi di Paesi vittime della maledizione delle risorse. Oltre che di coltan, il sottosuolo congolese è ricchissimo anche di cobalto, oro, rame, uranio e diamanti. Ma questo ha fatto sì che la stabilità dello stato venisse messa in continuazione a dura prova dalla competizione per l’accaparramento delle risorse, che avviene sia all’interno del Paese, che da parte di compagnie e stati esteri. Inoltre, la ricchezza potenziale del Paese non ha portato in realtà nessun vantaggio ai suoi cittadini, anzi: il Pil del Congo è appena un quarto di quello della Nigeria, i due terzi della popolazione vivono al di sotto della soglia di povertà, la disoccupazione giovanile è stimata all’80% e nello stato ci sono 7 milioni di sfollati interni.
In questo contesto, sottolineano gli esperti, le elezioni sono cruciali perché garantiscono l’accesso alle posizioni di potere e quindi alle risorse. In questo modo si spiega l’altissimo numero di candidati: per il voto legislativo nazionale, provinciale e municipale si presenteranno in totale centomila persone. Ad essere candidati per la Presidenza, che viene assegnata in un unico turno a chi ottiene il maggior numero di voti, sono addirittura 19.
Tra questi, spicca il Presidente uscente, Felix Tshisekedi. Eletto in maniera estremamente discussa nel 2018, Tshisekedi corre per quello che sarebbe il suo secondo e ultimo turno ed è il grande favorito della vigilia. Nel corso dei suoi cinque anni alla guida del Paese, ha ottenuto risultati contrastanti. Non si è di certo battuto per combattere la corruzione, come aveva promesso, né tantomeno è riuscito nell’intento di fermare le violenze nelle regioni orientali. Nel Kivu, anzi, la situazione è peggiorata, e numerose organizzazioni per i diritti umani denunciano che il Presidente avrebbe sfruttato il caos per dare ampi poteri all’esercito e favorire una repressione dell’opposizione.
Allo stesso tempo, però, Tshisekedi ha ottenuto anche successi significativi. A livello internazionale è riuscito a ottenere il supporto della Banca Mondiale per un progetto educativo di 800 milioni di dollari, attraverso il quale si vuole offrire un’istruzione primaria gratuita ai bambini congolesi. Il Presidente ha ricevuto anche un aumento di fondi da parte del Fondo Monetario Internazionale, per alleviare gli effetti della pandemia. Infine, Tshisekedi è riuscito a costruirsi un’immagine positiva grazie agli attacchi al presidente Rwandese Paul Kagame, accusato di stare dietro alla destabilizzazione del Paese, e ai tentativi di rinegoziare alcuni accordi minerari con la Cina.
Se però Tshisekedi è il principale favorito per il voto in Congo, questo è dovuto anche ad altri fattori, in primis il fatto che l’opposizione non sia riuscita a trovare un accordo. Gli sfidanti principali sono Moïse Katumbi, un tempo strettissimo alleato del Presidente, e Martin Fayulu, colui che reclama di essere il legittimo vincitore delle ultime elezioni. Ci sarebbe poi il premio Nobel per la Pace Denis Mukwebe, ma la sua candidatura sembra aver attirato più attenzione all’estero che non in Congo.
Ad aiutare Tshisekedi c’è anche il fatto che Unione Europea e Stati Uniti non sembrano intenzionati a condannare con forza eventuali brogli, in nome della stabilità, come fatto del resto nel 2019. A loro, denuncia The Continent, basta che il Congo continui a produrre coltan, e che la sua foresta pluviale continui a crescere.
Israele recluta forza lavoro in Africa
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Da inizio ottobre, Israele è impegnato in una guerra che vede il Paese opposto ad Hamas. Ma oltre ad avere un impatto tragico dal punto di vista umanitario, il conflitto sta avendo conseguenze significative anche per l’intero settore agricolo dello stato. Al momento mancano infatti decine di migliaia di lavoratori: il ministro dell’Agricoltura ha detto alla CNN che sarebbero necessarie tra le 30 e le 40mila persone.
La scarsità di forza lavoro è dovuta ad una serie di ragioni, tutte legate alla guerra. In primo luogo, lo scoppio delle ostilità ha portato al richiamo di centinaia di migliaia di riservisti, una parte dei quali lavorano normalmente come agricoltori. Inoltre, l’escalation della violenza anche al di fuori della Striscia di Gaza ha spinto una quota significativa dei lavoratori stranieri a fuggire da Israele.
Ad andarsene sono stati soprattutto i migranti provenienti dalla Thailandia, dopo che 32 loro connazionali sono stati presi in ostaggio da Hamas il 7 ottobre, nel corso del primo attacco. Infine, a mancare sono anche i manovali palestinesi che lavorano in Israele ma vivono nella Striscia o in Cisgiordania: da due mesi, questi non sono più autorizzati ad attraversare il confine.
Il governo israeliano ha quindi deciso di agire cercando di attirare migranti economici dall’estero, che vadano a ricoprire almeno temporaneamente il buco lasciato dagli altri lavoratori. Verso la fine del mese scorso è stato quindi annunciato un accordo con il Malawi, che dovrebbe portare nei prossimi mesi 5mila cittadini africani in Israele e che ha già visto 221 di loro arrivare nel Paese.
Ora è invece il turno del Kenya: per adesso da questo secondo stato non è ancora partito nessuno, ma il governo guidato da William Ruto ha salutato con favore la firma di un accordo con Netanyahu.
E le mosse israeliane non sembrano fermarsi qui. L’esecutivo ha sottolineato l’intenzione di puntare sull’Africa orientale ed è al lavoro per trovare un ampio accordo con la Tanzania, mentre l’Uganda potrebbe rappresentare il candidato successivo.
Sia in Malawi che in Kenya, l’accordo con Israele è stato criticato duramente dall’opposizione. Nel primo Paese, il governo è stato accusato soprattutto di non tenere in considerazione la sicurezza dei propri cittadini, inviandoli in una zona di guerra e quindi accettando di mettere in pericolo la loro vita.
In Kenya, invece, il leader dell’opposizione Raila Odinga ha evidenziato come il piano sia svilente per lo stato africano e mostri i fallimenti dell’esecutivo nella gestione dell’economia. “Una volta, i keniani erano così fieri del loro Paese e così fiduciosi in esso che rifiutavano di cercare lavoro all’estero, anche alle Nazioni Unite. Oggi cercano in ogni modo di lasciare lo stato”.
Se i lavoratori africani si recano in Israele, infatti, questo succede unicamente per ragioni economiche. Sia in Kenya che in Malawi gli stipendi nell’agricoltura sono bassi, a fronte di un costo della vita crescente. Alcuni anni di lavoro in Israele, per quanto rischiosi, rappresentano un’opportunità a cui è difficile rinunciare e un vero e proprio investimento. Secondo gli accordi, ogni agricoltore dovrebbe infatti guadagnare circa 1500 dollari al mese per tre anni, avendo perciò la possibilità di racimolare una somma di denaro enorme rispetto agli standard dei due stati africani.
Per questo motivo, i governi locali non sembrano essere toccati dalle critiche ed anzi guardano ai benefici che il piano avrà sul lungo periodo, anche per quanto riguarda i rapporti diplomatici con Israele. Infine, sottolineano, gli accordi sembrano essere approvati dalla popolazione: i cittadini interessati sarebbero molti di più di quelli che potranno effettivamente emigrare.
A Berlino, visita di stato del Presidente Lula
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Era il 2015, l’ultima volta che i governi di Germania e Brasile si sono incontrati per dei colloqui ufficiali, per rafforzare la propria relazione e stipulare nuovi accordi economici e commerciali.
Lunedì 4 dicembre il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva è arrivato a Berlino in visita di stato per delle consultazioni intergovernative, ed il fatto che questo sia accaduto ad 8 anni di distanza dal meeting precedente basterebbe a far comprendere la portata dell’incontro.
L’arrivo di Lula sul suolo tedesco vuole infatti dare un nuovo slancio alle relazioni tra Brasilia e Berlino, in un momento in cui il ruolo del Brasile è cruciale. Il Paese ha appena assunto la guida del G20 e la manterrà per tutto il prossimo anno. Inoltre, i conflitti in Ucraina e in Medio Oriente sembrano aver dato un nuovo ruolo centrale al BRICS, il gruppo di stati di cui il Brasile fa parte e che sulle due crisi ha posizioni parecchio distanti da quelle occidentali. Infine, i colloqui tra Lula e Scholz potrebbero risultare decisivi per sbloccare l’accordo di libero scambio tra Unione Europea e Mercosur, dopo anni di difficoltà e rinvii.
In primo luogo, tuttavia, la visita di Lula a Berlino è significativa in quanto segna un nuovo inizio per le relazioni tedesco-brasiliane. Per la Germania, organizzare dei colloqui intergovernativi è una pratica piuttosto comune, con quei Paesi che hanno un peso importante nello scenario internazionale o con cui si hanno rapporti approfonditi. Il fatto che l’ultimo di questi incontri con i rappresentanti del governo brasiliano sia avvenuto ben otto anni fa, mostra come i rapporti tra i due Paesi siano stati tutt’altro che semplici negli ultimi anni. A Berlino, l’ex presidente Bolsonaro non è mai piaciuto né è sembrato una figura affidabile, con cui costruire un rapporto.
Con Lula, la situazione è diversa. A inizio anno, il politologo esperto di Brasile Oliver Steunkel aveva definito il presidente brasiliano un “partner difficile”, sottolineando la distanza tra lui e la Germania su alcune questioni fondamentali. Oggi Lula resta un politico con idee a volte diverse da quelle di Berlino, e la definizione resta calzante. Ma, spiega Steunkel alla Deutsche Welle, “l’enfasi è sul termine partner piuttosto che sull’aggettivo difficile”.
Con Lula si può e si deve collaborare, quindi. Nonostante il leader brasiliano si sia più volte mostrato equidistante da Mosca e Kiev e spinga da tempo per delle trattative di pace, si rifiuti di categorizzare Hamas come un’organizzazione terroristica e sia a favore di un cessate il fuoco generale a Gaza.
Come detto, infatti, Lula avrà un ruolo di primo piano nel prossimo periodo, che non è possibile ignorare per un Paese come la Germania. A questo si è aggiunta, nei giorni scorsi, l’elezione alla presidenza di Javier Milei in Argentina. Il successo del politico di estrema destra è stato salutato con sorpresa su entrambe le sponde dell’Atlantico. Il rischio ora è che il suo arrivo possa portare ad una destabilizzazione dell’area: la Germania ha quindi bisogno di partner affidabili in America latina, mentre il Brasile deve rafforzare i propri legami con l’esterno.
Nei tre giorni a Berlino, il presidente brasiliano e il suo omologo tedesco firmeranno una serie di accordi: oltre a quelli economici, ne verranno siglati altri relativi alla digitalizzazione, ma anche alla protezione della biodiversità e alla riforestazione dell’Amazzonia.
Il punto cruciale, tuttavia, riguarda la formazione di un’area di libero scambio tra Unione europea e Mercosur, l’organizzazione che comprende Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay. Il tema è sul tavolo da circa vent’anni e dovrebbe portare alla creazione di un mercato comprendente oltre 700 milioni di persone. Nel 2019 era stato raggiunto un accordo, poi non finalizzato per le preoccupazioni europee relative allo sfruttamento della foresta pluviale.
La Germania e la sua economia avrebbero tutto l’interesse di arrivare ad una conclusione positiva. Ma a mettere i bastoni tra le ruote al governo tedesco ci ha pensato il congresso dei Verdi. Come riportato dal Süddeutsche Zeitung, la base del partito di governo ha infatti chiesto all’esecutivo di cambiare la propria posizione, così da porre fine alla “estrazione intensiva di materie prime nel Sud globale per il consumo nel Nord globale”.
Polonia: incarico di governo al partito sconfitto alle elezioni
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La Polonia ha un nuovo governo. Ma non è l’esecutivo del cambiamento che ci si aspettava legittimamente dopo il voto di metà ottobre, che aveva segnato la fermata d’arresto dei nazionalisti al governo e la vittoria della coalizione europeista. Al contrario: ad avere l’incarico di primo ministro è proprio Mateusz Morawiecki, il premier uscente e colui che è uscito sconfitto dalle urne.
Dopo alcune settimane di riflessioni e consultazioni, il Presidente polacco Andrzej Duda ha infatti deciso di affidare l’incarico di formare un governo al suo stesso partito, la formazione conservatrice, identitaria e anti-euro Diritto e Giustizia (PiS). Morawiecki ha quindi scelto i propri ministri ed ha poi giurato come primo ministro lunedì.
La nuova squadra di governo presenta una serie di novità rispetto a quelle precedenti. In primo luogo, mancano quasi totalmente le figure di spicco del PiS: alla Difesa è restato Mariusz Błaszczak, uno dei politici più noti del partito, ma gran parte degli altri ministeri è guidata da tecnici. Oltre a questo, spicca il fatto che il nuovo esecutivo sia a maggioranza femminile: un fatto curioso per un partito che – per usare un’eufemia – non si è mai distinto per le politiche a favore delle donne. “La mia idea è di proporre facce nuove. Vogliamo dimostrare che si può governare in altro modo”, ha dichiarato Jaroslaw Kaczynski, presidente di Diritto e Giustizia e vero leader del partito.
Ma si tratta di aspetti secondari: con ogni probabilità, il nuovo governo è destinato a non durare più di due settimane. Dopo il giuramento, Morawiecki e la sua squadra devono infatti redigere un programma politico per la legislatura. Ed entro 14 giorni dalla nomina devono presentarlo in Parlamento, chiedendo la fiducia. Al momento, però, nulla lascia pensare che il PiS abbia la possibilità di ottenere il voto della maggioranza dei parlamentari. Dopo aver condotto una serie di colloqui infruttuosi con tutti gli altri soggetti politici, esclusa la principale forza di opposizione Coalizione Civica (KO), Diritto e Giustizia ha formato l’esecutivo autonomamente. Ma il partito ultraconservatore dispone soltanto di 191 seggi, quando gliene servirebbero almeno 40 in più per governare.
Tutto lascia perciò presagire che, al momento della fiducia, l’esecutivo di Morawiecki sarà bocciato dal Parlamento e costretto a farsi da parte. A quel punto, l’opposizione avrà la possibilità di proporre un proprio candidato e di formare un nuovo governo. In teoria, tutto dovrebbe filare liscio: la coalizione che ha vinto le elezioni ha in totale 248 seggi. Una volta formata la squadra di governo e sistemati gli equilibri tra Coalizione Civica e i suoi alleati – Lewica e Terza Via – Donald Tusk avrà con ogni probabilità l’opportunità di tornare primo ministro, carica che ha occupato fino al 2014.
Nonostante il governo di Morawiecki sia destinato a farsi da parte a breve, la decisione di Duda di affidare l’incarico al candidato di Diritto e Giustizia non può essere considerata priva di risvolti politici ed ha perciò fatto sorgere una serie di polemiche e di tentativi di capire le ragioni dietro alla scelta.
La prima ipotesi, riportata dal Post, è che con la nomina di Morawiecki Duda abbia cercato di posticipare il momento in cui i partiti filo-europeisti prenderanno il potere. Non si tratta soltanto di rimandare l’inevitabile: nei pochi giorni a propria disposizione, il nuovo governo potrebbe effettuare una serie di nomine importanti in ruoli extra governativi, scegliendo figure vicine al PiS e mettendo i bastoni tra le ruote all’azione futura della coalizione di Tusk.
Un’ulteriore possibilità, avanzata dal giornalista esperto di Polonia Fabio Turco, è che la mossa di Duda vada letta in primis come una questione interna al PiS. Nominando Morawiecki, il presidente lo starebbe mandando incontro a una morte certa, che potrebbe lasciare segni sul futuro politico del primo ministro. Possibile che Duda lo faccia per aprirsi la strada, nella speranza di diventare prima o poi il leader di Diritto e Giustizia.
Germania: la nuova legge per facilitare l’immigrazione
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In Germania mancano lavoratori. Ma, da adesso, trasferirsi nel Paese per lavoro sarà più facile. A Berlino è infatti entrata in vigore in questi giorni la nuova legge sull’immigrazione di forza lavoro qualificata proveniente da Paesi extracomunitari. Una svolta che si preannuncia significativa e che, secondo i piani del governo, dovrebbe aiutare la Germania a trovare almeno una parte dei lavoratori di cui necessita.
I nuovi regolamenti sono stati approvati in estate dal governo guidato da Olaf Scholz e saranno effettivi nella loro totalità dalla prossima estate. Nel frattempo, però, verranno operati dei cambiamenti parziali: alcune delle norme approvate dal governo sono entrate in vigore in questi giorni, altre saranno applicate a partire da marzo.
Il problema della mancanza di lavoratori rappresenta da anni uno dei principali temi politici. Per anni, la questione è stata parzialmente tamponata dall’arrivo di lavoratori dal resto dell’UE: ora però alla Germania vengono preferiti Belgio e Lussemburgo, come spiegava Il Fendinebbia, un progetto e newsletter specializzato su questioni tedesche. La carenza di professionisti qualificati ha infatti numeri tali che è impossibile ignorarla: l’Istituto di Norimberga per la ricerca sul mercato del lavoro ha contato che alla fine del 2022 i posti lasciati liberi fossero poco meno di due milioni.
Il problema è trasversale, si calcola che il 60% delle aziende che operano sul territorio tedesco si trovi a corto di personale. Tuttavia, ci sono alcuni settori che risultano più colpiti rispetto ad altri: sono l’istruzione, la cura, l’informatica e il sociale, ma anche l’artigianato e la ristorazione.
Ciò che preoccupa, ancora più della situazione attuale, è che le problematiche sono destinate ad ingrandirsi a breve. I prossimi anni saranno quelli che vedranno andare in pensione la gran parte dei baby boomers, le persone nate nel corso del boom economico, che rappresentano una categoria estremamente numerosa ed ancora molto presente all’interno del mondo del lavoro. In questo modo, da qui al 2035, la Germania potrebbe trovarsi a dover sostituire altri sette milioni di lavoratori.
Per risolvere davvero la questione, la Germania avrebbe bisogno dell’immissione di almeno 400mila lavoratori qualificati ogni anno. Troppi da immaginare anche per il governo, che con la riforma si è posto l’obiettivo di attirare 75mila nuovi lavoratori ogni anno, rispetto ai flussi attuali. Per farlo, l’esecutivo composto da socialdemocratici, verdi e liberali ha dovuto eliminare una serie di paletti che limitavano finora l’entrata di forza lavoro dai Paesi extracomunitari.
Per prima cosa, sarà possibile arrivare in Germania anche senza che il proprio titolo di studi sia stato precedentemente valutato dalle autorità tedesche. Fino a questo momento, i candidati dovevano affrontare un lungo processo di riconoscimento del titolo prima di potersi spostare: ma questo poteva durare anche anni e finiva per spingere le persone a scegliere altre destinazioni. Ora, per i lavoratori qualificati sarà sufficiente presentare una qualifica riconosciuta dal Paese d’origine e dimostrare di avere almeno due anni di esperienza nel proprio settore.
La Germania introdurrà inoltre una Chancenkarte, con un sistema a punti simile a quello presente in Canada e Australia, due esempi di successo per quanto riguarda la capacità di attrarre lavoratori. I candidati accumuleranno punti in base alla loro qualifica, all’esperienza professionale e alla conoscenza del tedesco. E, se in possesso di questa Carta delle opportunità e in grado di dimostrare la propria autosufficienza finanziaria, potranno restare in Germania per un anno anche senza un impiego, così da poterne cercare uno.
Significativo è anche il cambiamento riguardante i requisiti linguistici. Messa alle strette dalla mancanza di lavoratori, Berlino si è vista costretta a rinunciare almeno in parte all’obbligo per i candidati di parlare tedesco: con il sistema a punti, i candidati avranno la possibilità di compensare la scarsa conoscenza della lingua con altre qualifiche. D’altronde, la necessità di conoscere il tedesco ha rappresentato finora uno dei maggiori ostacoli all’arrivo di forza lavoro in Germania, spingendo molti candidati ad optare piuttosto per un lavoro in Paesi in cui si parla inglese.
Il Sudan e la cultura dell’impunità
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Mentre a Gedda si parla di pace, in Darfur i civili continuano a morire e riemergono le violenze etniche. Sono queste le notizie che arrivano in questi giorni dal Sudan e che alimentano il pessimismo riguardo alle possibilità di arrivare ad una fine della guerra civile nel Paese.
Come era facilmente prevedibile, i colloqui diplomatici che stanno avvenendo in Arabia Saudita non hanno portato fino a questo momento a nessuna soluzione. Era successo lo stesso a maggio, quando nella città saudita era stato fatto un primo tentativo di arrivare ad un cessate il fuoco. Ed anche il secondo round di incontri sembra destinato a lasciare il panorama invariato, nonostante il coinvolgimento come mediatori di Riad, degli Stati Uniti e dell’Autorità intergovernativa per lo sviluppo (Igad), l’organizzazione regionale che riunisce gli stati del Corno d’Africa.
Il fatto che la fine delle ostilità non sia vicina sembra poi essere dimostrato anche da quanto accade sul campo, dove da sette mesi si assiste allo scontro tra le Forze armate sudanesi (SAF) guidate dal presidente del Consiglio sovrano di transizione Abdel Fattah al-Burhan e le Forze di supporto rapido (RSF), una milizia con a capo l’ex vicepresidente Mohamad Hamdan Dagalo.
Ora il fulcro dei combattimenti si è spostato dalla capitale Khartoum alla sua città gemella, Omdurman, situata sull’altra riva del Nilo: qui, secondo quanto riportato da Agenzia Nova nei giorni scorsi, l’esercito regolare sta portando avanti una violenta offensiva contro le RSF, cercando di riconquistare le aree finora controllate dal gruppo paramilitare. Ma il fatto che gli attacchi siano portati avanti in quartieri cittadini e densamente abitati ha conseguenze importanti soprattutto per la popolazione civile, che si vede esposta a bombardamenti e a combattimenti urbani.
Per quanto la situazione sia critica in ogni parte del Paese, è in Darfur che le violenze tra SAF e RSF potrebbero portare agli esiti più drammatici.
Situata nella parte occidentale del Sudan, al confine con il Ciad, la regione è infatti già stata teatro di violenze nel corso degli ultimi vent’anni. Nel 2003, in Darfur ebbe inizio un’insurrezione guidata da una serie di gruppi, che chiedevano la fine dell’oppressione delle popolazioni non arabe da parte del regime di Al Bashir. A questa ribellione il governo centrale rispose con inaudita violenza, attuando un vero e proprio piano di pulizia etnica verso tutti gli abitanti del Darfur di etnia diversa da quella araba.
Negli anni la repressione è diventata meno intensa, ma di fatto non si è mai conclusa. Ancora prima dell’inizio del nuovo conflitto civile, dunque, l’area era attraversata da forti tensioni etniche e sociali, dovute alla devastazione della guerra, alle condizioni climatiche sfavorevoli e alla presenza di oltre 2 milioni di sfollati interni.
Ad aggravare la situazione c’è la presenza di Mohamad Hamdan Dagalo, detto Hemeti, e delle sue RSF. Dagalo non è infatti una figura qualsiasi: durante la guerra in Darfur aveva fatto parte dei Janjaweed, le milizie arabe utilizzate da Al Bashir per il genocidio nei confronti delle etnie africane nella regione. Una volta conclusa la parte centrale del conflitto, Hemeti aveva creato le Forze di supporto rapido, riunendo al loro interno una serie di combattenti che si erano distinti nelle violenze in Darfur e riuscendo in breve tempo ad acquistare un forte peso politico, prima sotto al Bashir e poi come vicepresidente.
Ora che anche il Darfur è diventato una delle aree in cui si concentra il conflitto tra l’esercito regolare e le milizie di Dagalo, il rischio è che la regione veda riemergere prepotentemente le violenze etniche che negli ultimi anni erano rimaste sotto traccia, con i miliziani intenzionati a portare avanti le violenze cominciate nel 2003.
È quello che appare anche dalle ultime notizie, che parlano di mille morti nel giro di pochi giorni e di numerosi abusi e violazioni dei diritti umani compiute dalle RSF. Particolarmente gravi le accuse riportate dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, che parlano di almeno venti donne tenute in condizioni di schiavitù da parte delle milizie.
Le violenze delle RSF hanno attirato anche l’attenzione dell’Unione europea, che si è esposta attraverso le parole dell’Alto rappresentante per la politica estera Josep Borrell. “L’Ue sta collaborando con la Corte penale internazionale e altri partner internazionali per monitorare e documentare le violazioni dei diritti umani, al fine di appurare le responsabilità e contribuire a porre fine alla cultura dell’impunità in Sudan. La comunità internazionale non può chiudere gli occhi su quanto sta accadendo in Darfur e permettere che si verifichi un altro genocidio in questa regione”.
L’Etiopia e il sogno di uno sbocco sul mare
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Da settimane, ormai, il primo ministro etiope Abiy Ahmed cerca di rassicurare i propri vicini. “Il nostro esercito non ha mai preso l’iniziativa di invadere un altro stato nella sua storia, non inizieremo a farlo adesso” ha detto ad Addis Abeba, durante le celebrazioni per l’anniversario della fondazione dell’esercito federale. “Vorrei chiarire che non cerchiamo di ottenere nulla usando la forza o un’invasione”.
Le parole di Abiy Ahmed stanno però avendo un effetto molto relativo e non riescono ad abbassare la tensione che si è alzata nel corso dell’ultimo mese tra l’Etiopia e gli altri stati del Corno d’Africa. A partire dall’estate, infatti, il leader etiope ha accennato più volte alla necessità del Paese di garantirsi uno sbocco sul mare. Fino ad arrivare alle parole, chiare, pronunciate ad un incontro con investitori e rappresentanti del mondo economico: “Vogliamo ottenere un porto con mezzi pacifici, ma se questi non funzionano useremo la forza”. In seguito, gli stessi concetti sono stati ripetuti in un discorso rivolto al Parlamento, seppur in maniera meno forte. “Per i leader di Somalia, Gibuti, Eritrea ed Etiopia è cruciale iniziare delle discussioni – ha ribadito – non soltanto per il presente, ma per assicurare una pace duratura”.
In seguito, l’ipotesi di un intervento militare è stata smentita più volte. Ma chiaramente questo non è bastato ad evitare un’alzata di scudi da parte degli altri attori dell’area. Il regime eritreo si è detto “perplesso” per le dichiarazioni di Ahmed, mentre Gibuti ha reagito con parole nette. “Si dovrebbe sapere che Gibuti è uno stato sovrano, e che perciò la nostra integrità territoriale non è in discussione, né oggi né in futuro” ha sottolineato il presidente Ismaïl Omar.
Il problema dell’accesso al mare rappresenta una delle principali questioni politiche per l’Etiopia. Con i suoi 126 milioni di abitanti, questa rappresenta il più popoloso tra gli stati che non hanno sovranità su un pezzo di costa. In questo modo, tutte le merci che entrano ed escono dall’Etiopia e vengono trasportate via mare devono per forza di cose passare attraverso un porto straniero. In particolare, dal porto di Gibuti, da cui si calcola transiti il 95% dell’import-export etiope.
Le difficoltà legate alla mancanza di uno sbocco sul mare sono certamente significative, tanto più se si considera l’imponente crescita economica: nell’ultimo decennio, il Paese ha mantenuto un tasso di crescita tra il 5 e il 10%. Nel 2023 le stime parlano di un picco del 13,5, dovuto però anche al rallentamento dell’economia etiope negli scorsi anni a causa della guerra nel Tigray.
Ancora più delle questioni logistiche, a pesare sono però le dinamiche storiche e politiche. L’Etiopia, infatti, è priva di una sua costa dal 1991, anno in cui l’Eritrea è diventata indipendente. Tra il 1952 e l’inizio degli anni Novanta, Addis Abeba controllava invece il territorio eritreo e aveva potuto beneficiare di conseguenza di una lunga costa sul mar Rosso e dell’utilizzo del porto di Assab. Con l’indipendenza di Asmara, non si sono tuttavia fermate le mire di controllo etiopi sull’intera regione e il sogno di ricreare una Grande Etiopia. Ed ancora oggi la perdita dell’Eritrea è vista come un evento grave, ancor più per il fatto che ha chiuso l’Etiopia all’interno del continente, privandola di una proiezione esterna.
L’ambizione etiope di garantirsi uno sbocco sul mare non nasce perciò in questi mesi. Ma il fatto che sia riemersa prepotentemente ora non è casuale e riflette le forti difficoltà che Addis Abeba sta vivendo nel garantire una stabilità del proprio territorio. Il potere centrale è uscito da poco da un duro scontro, durato due anni, che l’ha visto opposto alle forze tigrine nel nord del Paese. Ora sembra essere già arrivato il momento di un nuovo conflitto interno, questa volta con i gruppi Amhara.
L’insoddisfazione interna agli Amhara, uno dei gruppi etnici principali in Etiopia, è cresciuta gradualmente dopo la fine del conflitto in Tigray. Fino a scoppiare quando Abiy Ahmed ha tentato di accentrare il proprio potere, mettendo fuorilegge le milizie locali e le forze armate regionali, di cui si era servito fino a poco prima contro i tigrini. In estate, alcuni gruppi armati hanno reagito prendendo il controllo di parte della regione Amhara e scatenando la reazione delle forze federali. E proprio in questi giorni sono in corso degli scontri a Lalibela, città santa e tra i centri principali dell’area.
La questione dello sbocco sul mar Rosso potrebbe quindi essere un diversivo, per distrarre l’attenzione globale dagli scontri interni all’Etiopia e dalla fragilità del Paese. Anche perché, proprio le vicende militari degli ultimi anni fanno dubitare che Addis Abeba possa permettersi di usare la forza contro uno dei propri vicini. “Siamo appena usciti da una guerra che ha visto Etiopia ed Eritrea alleate contro la sola regione del Tigray, senza che fossero in grado di sconfiggerla – ha evidenziato Martin Plaut, studioso del Corno d’Africa dell’Università di Londra, intervistato da Al Jazeera – Sembra quindi abbastanza improbabile che l’Etiopia possa agire con la forza e sconfiggere uno tra Eritrea, Gibuti, Kenya, Somalia e Sudan”.
Etiopia: Facebook e la guerra civile
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Facebook avrebbe avuto un ruolo cruciale nella diffusione delle violenze in Etiopia, durante la guerra civile tra il potere centrale e i gruppi tigrini. Lo evidenzia Amnesty International, con un rapporto pubblicato il 31 ottobre. Nel documento, l’organizzazione non governativa spiega il coinvolgimento di Meta – la compagnia che possiede Facebook – nelle violenze avvenute nel Paese dell’Africa orientale.
Per due anni, fino al novembre del 2022, l’Etiopia è stata attraversata da un violento conflitto interno tra il Fronte popolare di liberazione del Tigray (TPLF) e il governo federale di Addis Abeba, guidato dal primo ministro Abiy Ahmed. Il TPLF, che è allo stesso tempo una formazione politica e un gruppo paramilitare, era stato gradualmente emarginato dal potere centrale a partire dall’insediamento del nuovo premier, cinque anni fa. A novembre 2020, i dissidi politici erano degenerati in una vera e propria guerra, che era cominciata con un’offensiva del gruppo tigrino ed era poi proseguita con una forte repressione governativa. Esattamente un anno fa, i due schieramenti avevano infine trovato un accordo per il cessate il fuoco, a cui aveva fatto seguito una parziale normalizzazione dei rapporti e della situazione politica.
Il conflitto si era distinto per un forte grado di violenza, che aveva attirato l’attenzione del resto del mondo e che era spesso stata incanalata in schemi etnici. I tigrini, che corrispondono a circa il 6% della popolazione etiope e risiedono soprattutto nel nord del Paese, erano stati considerati almeno in parte colpevoli per la sollevazione del TPLF contro Addis Abeba. Ed erano stati quindi presi di mira negli anni di guerra nelle regioni centrali e meridionali, dove altri gruppi sono maggioritari.
Secondo Amnesty International, Facebook avrebbe contribuito alle violazioni dei diritti umani avvenute in Etiopia. E lo avrebbe fatto in particolare non intervenendo in maniera sufficiente o adeguata per fermare gli individui e i post che contribuivano alla creazione di un clima d’odio.
La piattaforma è infatti estremamente popolare nello stato africano, dove rappresenta il social media più utilizzato. Ha un ruolo importante anche nella diffusione delle notizie, venendo utilizzata come fonte di informazioni da una parte della popolazione. Durante la guerra, tuttavia, questo ha fatto sì che Facebook costituisse un mezzo privilegiato per la propaganda, da entrambe le parti.
Significativo è il caso di Meareg Amare. Professore etiope di etnia tigrina, Amare era stato preso di mira su Facebook da numerosi post che sottolineavano le sue origini e lo accusavano di essere un sostenitore del TPLF. Tra l’altro, i post mostravano una foto dell’uomo, fornendo informazioni relative al suo posto di lavoro e al suo domicilio. Il 1 novembre 2021, Amare è stato ucciso da alcuni uomini armati, che lo avevano seguito nel tragitto dal lavoro a casa.
“Meta poteva e doveva eliminare il contenuto una volta che questo era stato segnalato – ha detto alla BBC Alia Al Ghussain, ricercatrice di Amnesty e tra le autrici del rapporto -. Sappiamo che il gruppo era a conoscenza dell’esistenza di questi post e non ha agito abbastanza in fretta per limitarli. Questo ha avuto conseguenze estremamente serie, tragiche”.
Le accuse rivolte a Meta, categoricamente respinte dal gruppo guidato da Mark Zuckerberg, sono ancora più degne di nota se si considera che non è la prima volta che il gruppo è criticato per la gestione dei suoi social nelle situazioni di conflitto. Lo scorso anno, la stessa Amnesty aveva accusato Facebook di aver contribuito alla diffusione della campagna d’odio contro i rohingya, portando ad una pulizia etnica e a migliaia di omicidi, torture e stupri.
Ad essere messo sotto la lente di ingrandimento è in particolar modo il modello di business seguito da Meta e l’algoritmo che viene utilizzato. L’azienda basa infatti i propri guadagni sull’engagement, anche quando questo è portato da contenuti apertamente violenti. “Ma questo è estremamente dannoso per i diritti umani – spiega Al Ghussain – lo abbiamo visto in Myanmar, lo stiamo vedendo di nuovo in Etiopia e non dobbiamo vederlo in un terzo stato prima che vengano prese delle azioni serie”.
Germania, Francia e la questione palestinese
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A Berlino e a Parigi, manifestare per la causa palestinese è estremamente complicato, a volte addirittura vietato. E non importa se chi scende in strada supporta Hamas, chiede la fine delle ostilità o domanda semplicemente che vengano rispettati i diritti del popolo arabo. Nella capitale tedesca sono state proibite tutte le proteste che riguardano la Palestina e anche in Francia era stato fatto lo stesso, prima che il Consiglio di stato rivedesse parzialmente la decisione del governo.
Sin dall’inizio delle ostilità, gli stati europei si sono posizionati in maniera quasi unanime al fianco di Israele, con la sola Spagna che ha criticato apertamente l’oppressione portata avanti dallo stato ebraico verso il popolo palestinese e le violazioni del diritto internazionale. Ma la risposta tedesca è stata ancora più convinta rispetto a quella degli altri Paesi dell’Unione. Il Cancelliere Olaf Scholz ha reagito agli attacchi di Hamas e ai bombardamenti israeliani su Gaza dichiarando che l’unica posizione possibile per la Germania è “al fianco di Israele”, esprimendo una linea condivisa da tutti i partiti politici. Ha poi aggiunto che “la sicurezza di Israele rappresenta una ragione di stato per la Germania”, riprendendo un’espressione usata da Angela Merkel nel 2008, in occasione di una visita alla Knesset.
L’intera reazione tedesca a quanto sta succedendo in Medio Oriente può essere interpretata soltanto partendo da questa considerazione, dal fatto che Berlino si senta in qualche modo un garante dell’esistenza dello stato ebraico. Il fatto è facilmente spiegabile, se si guarda alla storia: Israele è stato creato nel 1948, appena tre anni dopo la fine del regime hitleriano. E, come sottolinea la testata tedesca Deutsche Welle, “nonostante il movimento sionista sia nato prima del nazismo, l’olocausto ha rappresentato l’evidenza più sconvolgente a supporto della pretesa che solo la sovranità ebraica, nella forma di uno stato, potesse proteggere gli ebrei”.
Dalla fine del secondo conflitto mondiale ad oggi, la Germania ha visto quindi nella protezione di Israele il modo per mostrare al mondo di essere memore dei propri errori. Ma lo ha fatto spesso a scapito della causa palestinese. A differenza di quanto accaduto in Italia e in altri Paesi europei, ad esempio, il centro-sinistra tedesco non si è mai schierato con forza a favore del riconoscimento della Palestina. I media, poi, sono stati riluttanti nell’attaccare Israele per le occupazioni contrarie al diritto internazionale e per gli abusi ai danni della popolazione araba: basta un semplice sguardo alla stampa tedesca in questi giorni di tensioni per vedere quanto rari siano gli articoli che addossano su Israele parte delle colpe per quanto sta accadendo.
Infine, scottata dal nazismo, la Germania ha usato in maniera massiccia le accuse di antisemitismo: non di rado l’opposizione allo stato ebraico è stata confusa con una generica ostilità verso la religione, come denunciava alcuni mesi fa su Al Jazeera l’attivista Majed Abusalama, e le posizioni filo-palestinesi sono state descritte come “contrarie ai valori tedeschi”. I divieti di manifestare di questi giorni non rappresentano quindi una novità e sono in linea con l’approccio di Berlino alla questione israelo-palestinese.
Totalmente diversa è invece la situazione in Francia. Qui, a differenza che in Germania, le forze politiche hanno reagito in maniera tutt’altro che coesa. Fuori dal coro si è alzata la voce di Jean-Luc Mélenchon, che non ha voluto bollare gli attacchi di Hamas come terroristi: il leader del partito di sinistra si è limitato a dichiarare come “la violenza scatenata contro Israele e Gaza dimostra solo una cosa: la violenza genera altra violenza”.
Nonostante le divisioni politiche, e anzi forse proprio a causa di queste, Parigi ha deciso di procedere con il pugno di ferro verso le manifestazioni filo-palestinesi: giovedì 12 ottobre il ministro dell’Interno Gérald Darmanin ha deciso di vietarle, in quanto possibili cause di disturbo all’ordine pubblico.
I motivi che hanno portato a questa scelta sono vari. Politici, innanzitutto: la mossa del governo isola l’estrema sinistra e rischia di rompere l’alleanza tra Mélenchon, i Verdi e i Socialisti. L’esecutivo ha poi spiegato la scelta con la necessità di proteggere la comunità ebraica, molto numerosa in Francia, sottolineando come nei primi giorni successivi agli attacchi di Hamas si siano registrate oltre cento azioni antisemite nel Paese.
Soprattutto, però, Parigi teme l’esplosione delle proprie periferie e della comunità araba che ci vive, la più numerosa in Europa. Ad essere guardata con timore è la possibilità che il riemergere della conflittualità in Medio Oriente rappresenti una scintilla capace di accendere le comunità arabe che vivono in Francia e le porti a sollevarsi con violenza, come già accaduto nei mesi estivi dopo l’uccisione di un adolescente da parte della polizia. Inoltre, come spiegato su Limes, i servizi di intelligence francesi sono in stato di massima allerta e temono che il Paese possa essere attraversato da attacchi islamisti.
Germania: elezioni in Baviera, un test importante per la politica nazionale
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Tra i sedici Länder che compongono la Germania, la Baviera non ha un ruolo qualsiasi. Si tratta dello stato più esteso, innanzitutto, occupando una metà abbondante della Germania meridionale e condividendo i suoi confini con Svizzera, Austria e Repubblica Ceca. Con 13,2 milioni di abitanti è anche il secondo più popoloso, dopo il Nordrhein-Westfalen. Ed è pure straordinariamente ricco, piazzandosi anche in questo caso al secondo posto tra i Länder tedeschi e potendo vantare un Pil pro capite maggiore di un terzo rispetto alla media europea.
L’8 ottobre, in Baviera si terranno le elezioni per rinnovare il Parlamento statale e per scegliere il nuovo primo ministro, o per confermare l’uscente Markus Söder. E i dati elencati sopra fanno intuire quanto il voto sarà significativo: qualsiasi risultato esca dalle urne, questo avrà un impatto anche sulla politica nazionale. Ma la Baviera è tanto influente quanto particolare: provare a interpretare gli esiti è quindi impossibile, senza prima cercare di comprendere le dinamiche locali.
Da sempre, infatti, lo stato che ha Monaco come capoluogo è in qualche modo fuori posto, all’interno della Federazione tedesca. Ha una sua lingua, il bavarese, che viene parlata nella vita di tutti i giorni da gran parte della popolazione, al posto del tedesco. Si sente anni luce distante da Berlino, per storia e caratteristiche culturali. E sembra vivere in un contesto politico totalmente differente. Basti pensare che un bavarese non è mai stato cancelliere. E che quello che storicamente è il maggior partito tedesco – la CDU che è stata di Angela Merkel – qui non esiste ed è sostituito da una formazione gemella, la bavarese CSU.
La prima cosa che serve tenere in considerazione è che, in gran parte, si sa già come le elezioni andranno a finire: lo dicono i sondaggi, ma soprattutto una serie di dinamiche politiche che qui sono consolidate. Vinceranno come sempre i cristiano-democratici della CSU, con un risultato ampiamente al di sopra del 30% e forse anche verso il 40. Ben più staccati e in competizione per la seconda piazza i Verdi, l’estrema destra dell’AfD e il partito conservatore Freie Wähler, traducibile con “liberi elettori” e destinato ad allearsi con la CSU. Infine, in difficoltà, i due partiti che governano a Berlino insieme agli ambientalisti: i socialdemocratici, con l’obiettivo di arrivare in doppia cifra, e i liberali, in lotta con la soglia di sbarramento del 5% .
Con i risultati già ampiamente previsti, a determinare un successo o un fallimento saranno degli scarti minimi nelle percentuali. Per la CSU, ad esempio, arrivare sotto il 35% sarebbe un disastro. Il partito governa a Monaco in maniera quasi ininterrotta dal secondo dopoguerra, abituato a vincere le elezioni con maggioranze assolute e a governare poi in maniera autonoma, fatto più unico che raro nel panorama tedesco. Negli ultimi anni le percentuali si sono abbassate e la CSU è stata costretta a stringere alleanze sia nel 2008, con i liberali, che nel 2018, con i Freie Wähler. Perdere ancora consenso, però, significherebbe mettere in discussione la propria supremazia. Ed indebolirebbe in maniera automatica la posizione di Söder, destinato ad essere riconfermato alla guida della Baviera ma con malcelate ambizioni a livello nazionale, in vista delle elezioni del 2025.
Tra i partiti che guardano con maggiore attenzione alla performance dei conservatori ci sono per l’appunto i Freie Wähler. Lanciati verso una seconda alleanza con la CSU e del tutto affini politicamente al partito di Söder, i liberi elettori sono al tempo stesso estremamente consapevoli che i 5 anni passati al governo abbiano cambiato i rapporti di forza. Abituato ad essere marginale, ora il partito populista che difende a spada tratta le tradizioni e la lingua bavarese è proiettato verso un risultato importante, intorno al 15% . Se dovesse superare questa quota e se la CSU dovesse calare notevolmente, i Freie Wähler sanno di avere l’occasione per avanzare sempre maggiori pretese e per provare – sul lungo periodo – a far vacillare il dominio cristiano democratico.
In un contesto in cui il centrosinistra ha sempre faticato ad imporsi, la salute del governo federale sarà misurata dal risultato dei Verdi. Questi faticano da sempre nelle aree rurali e non hanno perciò mai sfondato in Baviera, dove gli agricoltori costituiscono una parte rilevante dell’elettorato. A questo si sono aggiunte le difficoltà del governo Scholz e anche l’aggressività delle altre formazioni: per lunghi tratti, la campagna di CSU e Freie Wähler si è basata proprio sugli attacchi ai Verdi e alle loro politiche. Nonostante tutto, però, il partito ambientalista è sembrato reggere ed è in corsa per il secondo posto. Un risultato positivo darebbe una certa stabilità al governo e aumenterebbe il peso dei Verdi al suo interno. Un esito sotto le attese, invece, rischierebbe di allungare le ombre che già si proiettano sull’esecutivo tedesco, reduce da mesi a dir poco complicati.
Sahel: nasce l’alleanza militare tra Mali, Niger e Burkina Faso
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Fino ad adesso si erano limitati ad assicurarsi un supporto reciproco attraverso dichiarazioni di circostanza. Ora Mali, Niger e Burkina Faso hanno deciso di andare oltre e creare una vera e propria “coalizione”. Lo hanno fatto in maniera ufficiale sabato, quando le delegazioni dei tre Paesi – riunite nella capitale maliana Bamako – hanno annunciato la nascita dell’Alleanza degli Stati del Sahel.
L’accordo prevede che si tratti di un patto difensivo, che in caso di minacce esterne leghi quindi il destino dei tre stati e stabilisca degli obblighi di mutuo aiuto. “Ogni attacco alla sovranità e all’integrità nazionale di una o più delle parti contraenti sarà considerato un’aggressione contro le altre parti” recita il documento firmato dai Paesi saheliani, la cosiddetta Carta di Liptako-Gourma.
In particolare, evidenziano i governi coinvolti, l’Alleanza nascerebbe in risposta al terrorismo, per assicurare un intervento più efficace e coordinato contro la minaccia ribelle e jihadista. Un aspetto sottolineato anche dal nome della carta fondativa: Liptako-Gourma non è altro che una regione situata al confine tra Mali, Niger e Burkina Faso, nonché l’area più colpita dal terrorismo negli ultimi anni.
Il focus sul terrorismo non deve sorprendere. I gruppi ribelli separatisti e quelli legati al jihadismo rappresentano da oltre un decennio la piaga maggiore per i Paesi che occupano la regione a sud del Sahara, tanto da spiegare quasi tutti i principali avvenimenti politici degli ultimi anni. È stata ad esempio una diretta conseguenza del terrorismo la decisione francese di intervenire in Mali a capo di una forza multinazionale, nel 2013, con l’obiettivo di fermare l’avanzata dei tuareg e degli estremisti islamici. Ma la persistenza della minaccia terroristica, unita all’incapacità di contrastarla da parte dei governi democraticamente eletti, è stata anche alla radice dell’ondata di colpi di stato che ha attraversato il Sahel negli ultimi tre anni e che, non a caso, ha colpito tutti e tre i Paesi parte della nuova alleanza.
Nonostante i proclami, però, l’arrivo delle giunte militari non ha finora portato risultati soddisfacenti nella lotta al terrorismo. E così, ecco la necessità per i golpisti di aumentare il proprio impegno nel contrastare i gruppi ribelli, anche per rafforzare la propria posizione: fintanto che non verrà garantita una maggiore stabilità politica, i soldati sono infatti consapevoli di poter essere a loro volta sostituiti. Del resto, questo è già accaduto in Mali e Burkina Faso, dove i primi golpisti sono stati rovesciati da un secondo colpo di stato.
Per quanto il terrorismo giochi un ruolo cruciale, tuttavia, è facile comprendere come l’Alleanza degli Stati del Sahel abbia un significato più ampio. In primis, per il fatto che al comando di ognuno dei tre Paesi firmatari ci sia una giunta militare, cosa che ha fatto parlare numerosi giornali di una nuova “coalizione di golpisti”. Si tratta di un’etichetta in parte semplicistica, che mette in secondo piano tutti gli aspetti che accomunano Mali, Niger e Burkina Faso oltre alla loro situazione politica. Ma che allo stesso tempo sottolinea un aspetto importante: la creazione di un’alleanza è anche un modo per i tre Paesi per riunire le forze ed opporsi ai tentativi degli stati circostanti di riportare in vigore la democrazia.
La contrapposizione tra questi due schieramenti era emersa con forza in seguito al colpo di stato in Niger, a fine luglio. In quell’occasione, l’ECOWAS – organizzazione che riunisce gli stati dell’Africa occidentale – aveva chiesto ai militari di fare un passo indietro e di ripristinare l’ordine costituzionale. A differenza di quanto accaduto in occasione dei golpe precedenti lo aveva fatto in maniera decisa, guidata dalla Nigeria anche per ragioni di politica interna, ed era arrivata addirittura a minacciare un intervento armato se i militari avessero insistito nella propria azione.
Già allora, Mali e Burkina Faso avevano risposto agli avvertimenti dell’organizzazione, dichiarando che ogni azione contro la giunta al potere in Niger avrebbe scatenato una loro reazione. Ora, con l’Alleanza del Sahel, questi propositi sono messi nero su bianco: un intervento armato in uno di questi tre stati, per quanto volto a ripristinare la democrazia, sarebbe considerato una violazione di sovranità e farebbe scattare la clausola difensiva del patto.
Difficile, al momento, pensare che quanto previsto dall’accordo possa trasformarsi in realtà. Le iniziali minacce di intervento nigeriane erano infatti ben presto cadute nel vuoto ed è difficile che la situazione possa cambiare dopo la firma del patto, con un rischio ancora maggiore di escalation. In ogni caso, però, la creazione dell’Alleanza mostra una profonda divisione tra i Paesi dell’Africa occidentale. E pone domande importanti sul ruolo e sul futuro di organizzazioni come l’ECOWAS e l’Unione Africana.
Africa: primo summit sul clima
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Non esiste forse altro continente in cui il cambiamento climatico abbia prodotto, continui a produrre e determinerà soprattutto in futuro conseguenze tanto drastiche quanto in Africa. Per questa ragione, il primo summit africano sul clima era tanto atteso. Il meeting si è tenuto da lunedì 4 a mercoledì 6 settembre a Nairobi, in Kenya, ed ha visto la partecipazione dei 54 Paesi africani.
Il summit è soltanto il primo di una serie di incontri intergovernativi che avranno luogo nei prossimi due mesi, in preparazione alla COP28, la conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici prevista per la fine di novembre a Dubai. L’incontro di Nairobi doveva quindi servire per un confronto tra gli stati africani, in modo da portare alcune posizioni comuni all’evento conclusivo.
Considerando quelli che erano gli obiettivi iniziali, quindi, il meeting africano può essere visto come un successo, almeno parziale. Al termine della conferenza, infatti, i 54 Paesi si sono trovati d’accordo nell’adottare un documento comune, la Dichiarazione di Nairobi, che dovrebbe dettare la linea del continente alla COP28.
Tra i vari temi toccati dalla Dichiarazione, una posizione centrale è senza dubbio riservata alla necessità per l’Africa di puntare con forza sulle energie rinnovabili. Il documento, in particolare, pone l’obiettivo di “aumentare la capacità africana di generazione di energia rinnovabile dai 56 GigaWatt del 2022 a almeno 300 GigaWatt nel 2030”. Oltre ad andare nella direzione di una decarbonizzazione, l’investimento sulle fonti green permetterebbe anche di affrontare il problema della povertà energetica, rendendo possibile ad un numero sempre più elevato di persone l’accesso ad energia a basso costo. Si tratta di una questione cruciale per il continente, che come evidenzia il documento conta oggi 600 milioni di persone senza accesso all’elettricità e quasi un miliardo a cui manca la possibilità di cucinare in maniera adeguata e pulita.
Per rendere possibile la transizione ecologica, gli stati africani chiedono anche che al continente vengano riservati più fondi provenienti dal resto del mondo per la produzione di energia pulita. Secondo un rapporto pubblicato in questi giorni dall’Agenzia internazionale dell’energia e ripreso da Le Monde, infatti, in Africa arriva al momento solo una quota minima degli investimenti mondiali nel settore, pari al 3% del totale. Inoltre, la Dichiarazione chiede agli stati ad alto reddito di rendere possibile per gli stati africani “l’accesso e il trasferimento di tecnologie rispettose dell’ambiente”, così da facilitare un progresso nella produzione di energia pulita.
Infine, il documento adottato a Nairobi chiede l’introduzione a livello globale di una carbon tax “sul commercio di combustibili fossili, sui trasporti marittimi e sull’aviazione, a cui potrebbe essere aggiunta una tassa globale sulle transazioni finanziarie”. Questi nuovi strumenti, secondo gli stati africani, permetterebbero di trovare le risorse necessarie per agire a livello sovranazionale nel contrasto al cambiamento climatico.
La conferenza di Nairobi e le sue conclusioni erano fondamentali, secondo alcuni analisti, per garantire un successo della prossima COP. Se il continente africano si fosse mostrato infatti poco ambizioso, i successivi meeting si sarebbero a loro volta dimostrati più probabilmente restii ad agire in maniera decisa nell’ottica di una transizione ecologica. La Dichiarazione finale, dunque, rappresenta un passo importante, che potrebbe spingere anche altri Paesi a mostrarsi propositivi.
Nonostante l’ottimismo, restano però alcune importanti criticità. Come sottolineato a gran voce in questi giorni nelle numerose manifestazioni che hanno accompagnato il meeting nella capitale del Kenya, le COP si sono dimostrate fin qui uno strumento poco efficace. Secondo gli attivisti che hanno protestato per le strade di Nairobi, queste continuano a privilegiare gli interessi dei Paesi più ricchi, mentre fanno ben poco per decolonizzare il sistema energetico, che vede ancora un forte sfruttamento del continente africano e delle sue risorse da parte delle maggiori potenze. Uno sfruttamento che, se non affrontato, continuerebbe con ogni probabilità anche con il passaggio da gas e petrolio alle fonti verdi.
Gabon: colpo di stato pochi giorni dopo le elezioni
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“Nel nome del popolo gabonese, abbiamo deciso di difendere la pace mettendo fine al regime attuale. Per questa ragione, le elezioni generali di agosto sono cancellate e, fino a nuovo avviso, tutte le istituzioni della repubblica sono sciolte”.
Con queste parole, mercoledì 30 agosto un gruppo di ufficiali ha rivendicato di aver effettuato un colpo di stato in Gabon. I militari sono apparsi sul canale televisivo statale Gabon24 e hanno letto le loro dichiarazioni, affermando di aver portato a termine con successo la deposizione dell’ormai ex presidente Ali Bongo. Il loro obiettivo principale, secondo quanto dichiarato, sarebbe quello di difendere il Paese da una situazione di crescente tensione e conflitto, a causa della “governance irresponsabile e imprevedibile” dell’attuale élite. E la loro mossa vorrebbe quindi rappresentare un primo passo verso una transizione: tempi, dettagli e protagonisti verranno decisi e comunicati nei prossimi giorni.
Il colpo di stato pone fine al lungo dominio della famiglia Bongo sulla politica gabonese: Omar Bongo, padre di Ali, aveva infatti preso il potere nel 1967 per poi tenerlo fino al momento della sua morte, nel 2009, quando gli era succeduto il figlio. Capace di garantire una stabilità al Paese, Ali Bongo non è invece riuscito in questi anni a migliorarne le condizioni economiche: un terzo della popolazione vive in stato di povertà e i tassi di disoccupazione sono molto elevati.
In un contesto già teso, un ruolo cruciale per il golpe lo ha avuto il voto generale del 26 agosto scorso. Ali Bongo ha dichiarato una netta vittoria, che gli avrebbe garantito un terzo mandato alla presidenza, ma l’opposizione ha denunciato la massiccia presenza di brogli e violenze. Secondo quanto dichiarato dai golpisti, al rovesciamento di potere avrebbero partecipato tutte le maggiori forze di sicurezza del Gabon: l’esercito regolare avrebbe quindi agito con il supporto della polizia e della Guardia Repubblicana. Sempre secondo le parole dei militari, Ali Bongo si troverebbe ora agli arresti domiciliari.
Le reazioni allo sconvolgimento politico sono state varie, accomunate però da un senso di sorpresa: in pochi si aspettavano infatti che un evento di questo tipo potesse avere luogo. Nel Paese, il presidente deposto ha invitato i propri sostenitori a “scendere per le strade e fare rumore”, apparentemente senza successo: ben più evidenti, finora, sono state le manifestazioni di gioia tra chi ha esultato per il golpe. “La famiglia Bongo è stata al potere per troppo tempo – ha dichiarato alla BBC Nicolas Nguema, capo del partito d’opposizione Pour Le Changement, sottolineando come un colpo di mano fosse l’unico modo per arrivare ad un cambiamento – Sono deliziato per la situazione e il giubilo popolare che abbiamo sentito nelle strade mostra che sono dalla parte della storia”.
Diverse le reazioni internazionali, per lo più caute. La Francia, ex potenza coloniale nel Paese, ha subito condannato l’azione militare e ha chiesto che il risultato elettorale venga rispettato. Profonda preoccupazione è stata invece espressa da Russia e Cina: Pechino negli ultimi anni ha cercato di occupare lo spazio politico lasciato sempre più libero in Gabon da Parigi e la sua reazione potrebbe essere dettata dalla necessità di non sbilanciarsi, in attesa di ulteriori sviluppi.
Quello avvenuto in Gabon rappresenta l’ennesimo colpo di stato avvenuto nel continente africano nell’ultimo periodo. Appena un mese fa i militari hanno deposto in Niger il Presidente Mohamed Bazoum, eletto democraticamente. Più in generale, dal 2020 ad oggi sono stati ben otto i colpi di mano in Africa subsahariana: oltre a Niger e Gabon, questi hanno avuto luogo in Mali e Burkina Faso (due volte in ciascun Paese), in Guinea e Ciad.
Non a caso, tutti gli stati interessati sono ex colonie francesi. Negli ultimi decenni, infatti, in questi territori i regimi autoritari si sono mostrati più resistenti al processo di democratizzazione che ha attraversato il continente a partire dagli anni Novanta. Inoltre, nell’Africa francofona i legami con Parigi sono restati spesso ben più evidenti di quelli che le colonie inglesi hanno mantenuto con Londra. La dipendenza dalla Francia è stata oggetto di crescenti proteste da parte delle popolazioni locali, che hanno chiesto a più riprese un taglio delle relazioni e un avvicinamento ad altri attori, in primis la Russia.
Per molti versi, tuttavia, il Gabon rappresenta un caso totalmente diverso da quello degli altri stati attraversati da golpe militari. Per la sua storia politica, innanzitutto: mentre i Paesi del Sahel sono stati storicamente instabili e soggetti a numerosi colpi di stato, lo stato dell’Africa centrale è stato governato per oltre mezzo secolo da un’unica famiglia.
Ma anche il contesto attuale è diverso: i colpi di stato di Mali, Niger e Burkina Faso sono stati spesso giustificati con l’incapacità delle strutture statali e dei governi democratici di rispondere in maniera adeguata alla minaccia rappresentata dai gruppi jihadisti, e con la necessità di instaurare governi forti e militari. Necessità che non esiste in un Paese come il Gabon, dove tali gruppi non sono presenti e dove l’islam è fortemente minoritario.
Sudafrica: class action contro le compagnie che estraggono carbone
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“È compito della Chiesa fornire assistenza, laddove è possibile, in modo che i minatori possano accedere al risarcimento che è loro legalmente dovuto”. Sono queste le parole con cui l’arcivescovo di Città del Capo, Stephen Brislin, ha spiegato che la Chiesa Cattolica sta portando avanti una class action in tribunale contro le compagnie minerarie in Sudafrica.
L’iniziativa dell’istituzione ecclesiastica è partita all’inizio di questa settimana ed è stata resa pubblica dalla Conferenza dei vescovi dell’Africa meridionale mercoledì. La Chiesa ha spiegato di stare agendo a favore di tutti i minatori che hanno lavorato nel settore dell’estrazione di carbone dal 1965 ad oggi e che hanno in questo modo contratto malattie polmonari, a causa dell’inalazione di polveri nocive.
La causa riguarda la multinazionale BHP, considerata la maggiore società mineraria al mondo, la sua spin-off South32 e la compagnia sudafricana Seriti. La class action sarebbe motivata dal fatto che le tre aziende, a lungo attive sul territorio sudafricano, non avrebbero tutelato a sufficienza i propri dipendenti, fornendo formazione e attrezzature inadeguate e non garantendo perciò un ambiente di lavoro sano.
La Chiesa sudafricana ha spiegato di aver deciso di agire dopo che un gruppo di minatori le si era rivolto per chiedere di fornire loro assistenza. In particolare, l’azione legale è stata intentata per conto di 17 minatori, ancora attivi o in pensione. “Molto spesso gli ex lavoratori delle miniere non sono più iscritti ai sindacati e non hanno quindi i mezzi e le capacità per rivalersi sulle grandi aziende responsabili delle loro malattie polmonari” ha sottolineato l’arcivescovo Brislin.
La causa contro le compagnie minerarie è significativa, perché getta luce su un settore che è cruciale per l’economia sudafricana. Si stima infatti che l’estrazione di carbone impieghi 100mila persone nel Paese e che il fossile sia utilizzato per la produzione di ben l’80% dell’elettricità in Sudafrica.
Storicamente, poi, la presenza di carbone e altri minerali ha avuto un impatto cruciale sugli sviluppi politici del Sudafrica. La ricchezza di materie prime è stata infatti il principale motivo che ha spinto le potenze europee ad interessarsi a questo territorio, negli ultimi decenni del XIX secolo, portando alla colonizzazione inglese e alla creazione dello stato sudafricano. In seguito, l’abbondanza di oro, diamanti e carbone ha fatto sì che questo territorio fosse controllato in maniera molto più stretta rispetto ad altri domini coloniali e ha allo stesso tempo facilitato l’insediamento di una folta popolazione bianca, così come un fenomeno di urbanizzazione precoce rispetto al resto del continente.
Insieme all’interesse per le materie prime, sono da subito emersi lo sfruttamento dei lavoratori africani e lo sviluppo di misure segregazioniste. Mentre i coloni bianchi avevano la proprietà e il controllo delle miniere, le popolazioni locali erano utilizzate per l’estrazione dei minerali, in condizioni estremamente pericolose. Non è perciò un caso che nel corso del ventesimo secolo molte delle proteste sociali e politiche siano partite proprio dai lavoratori di questo settore, che chiedevano più diritti e maggiore sicurezza.
Con la fine dell’apartheid, nel 1996 il parlamento ha approvato il Mine Health and Safety Act (Mhsa), che garantisce una serie di diritti ai minatori per quanto riguarda condizioni di salute e sicurezza. Nonostante questo, tuttavia, le condizioni dei lavoratori sono restate critiche e il settore non ha smesso di essere pericoloso.
La class action è poi fondamentale perché arriva in un momento in cui il carbone sudafricano si trova al centro di varie dinamiche politiche internazionali. Da un lato, negli ultimi anni è infatti aumentata la spinta verso il Sudafrica perché la produzione di carbone diminuisse fino a fermarsi, così da sostituire questo fossile con altre fonti di energia meno inquinanti.
Dall’altro lato, tuttavia, in seguito all’invasione russa dell’Ucraina il carbone sudafricano ha conosciuto un nuovo picco. Gli stati europei hanno dovuto rinunciare in fretta a tutte le fonti di energia provenienti da Mosca, e si sono almeno in parte rivolti a Pretoria. In alcuni casi le importazioni dal Sudafrica sono quindi aumentate, mentre altri Paesi hanno addirittura iniziato a comprare carbone quando negli anni precedenti non lo avevano fatto.
Etiopia frammentata e instabile
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Sembrano non avere fine le tensioni e i conflitti interni all’Etiopia. E i passi avanti fatti nella pacificazione di una parte del Paese e con una specifica componente etnica non sembrano portare a un miglioramento della situazione generale, anzi: questi provocano piuttosto uno spostamento delle tensioni verso una nuova area, con il coinvolgimento di nuovi attori.
Si tratta di una dinamica che era già emersa negli ultimi mesi, dopo che il 2 novembre 2022 il governo di Addis Abeba e i rappresentanti del Tigray avevano firmato l’accordo di Pretoria, mettendo fine al conflitto che aveva devastato la regione settentrionale del Paese nei due anni precedenti. Il trattato era stato salutato a livello internazionale come un passo cruciale verso la pace in Tigray e, più in generale, verso la stabilizzazione dell’Etiopia. Ben presto, però, erano emerse importanti difficoltà. All’esterno, innanzitutto, con le reticenze dell’Eritrea ad abbandonare il territorio tigrino. Ma anche all’interno dell’Etiopia stessa, con la crescita dell’insofferenza e degli scontri nelle regioni abitate dalle componenti Amhara e Oromo.
Fino a quando, nel corso delle ultime due settimane, la situazione politica è esplosa nella regione Amhara. In pochi giorni alcune milizie armate locali, conosciute come Fano, hanno paralizzato la regione e preso il controllo di alcune delle maggiori città dell’area, tra cui Gondar e Lalibela. Inizialmente colto alla sprovvista, il governo di Addis Abeba ha dichiarato lo stato di emergenza venerdì scorso ed è poi passato al contrattacco, utilizzando l’esercito e le forze speciali per reprimere l’azione dei gruppi ribelli. Al momento, le autorità centrali sembrano aver ripreso il controllo di gran parte della regione, ma le notizie che filtrano dall’area in conflitto sono scarse e parziali.
Gli scontri nella regione Amhara sono estremamente significativi e mostrano come l’Etiopia sia ancora molto lontana dal raggiungimento di una stabilità, ma anche quanto gli equilibri politici stiano cambiando all’interno del Paese.
Le ragioni storiche e politiche
Per capire l’evoluzione degli eventi è necessario guardare alla composizione etnica etiope e al ruolo dei vari gruppi nella storia recente del Paese. Nonostante oltre metà dei cittadini etiopi siano Oromo o Amhara, queste due popolazioni sono state a lungo escluse dalla vita politica. Dopo il rovesciamento del regime di Menghistu nel 1991, infatti, il potere è stato saldamente nelle mani del partito unico EPRDF guidato dalla componente Tigrina, causando profonde tensioni tra questa e il resto della popolazione.
La situazione politica è cambiata radicalmente nel 2018, quando Abiy Ahmed è salito alla carica di primo ministro. Di etnia Oromo, Ahmed ha ben presto sostituito il vecchio partito dominante con il nuovo Prosperity Party, guidato dalle componenti Oromo e Amhara, mentre il gruppo Tigrino si è trovato di colpo emarginato dai ruoli di potere. Lo scontro politico tra Ahmed e la vecchia élite è sfociato, in seguito, nel conflitto del Tigray, che ha contribuito anche a un rafforzamento dell’alleanza tra le istituzioni centrali e i due gruppi etnici più popolosi: durante la guerra civile, infatti, l’esercito è stato affiancato nella repressione dei ribelli dalle forze speciali Oromo e Amhara e da milizie irregolari di queste due regioni.
Con la fine delle ostilità, tuttavia, gli equilibri sono mutati ancora una volta. L’accordo di pace del 2022 ha portato a un riavvicinamento tra il governo e l’élite tigrina, visto con sospetto dalle altre componenti etniche. Con il superamento della fase emergenziale, inoltre, Abiy Ahmed si è potuto concentrare sull’ambizioso progetto nazionalista di rendere l’Etiopia un Paese meno frammentato e meno legato alle istituzioni federali. Il leader etiope ha cercato in primo luogo di assorbire le forze speciali regionali all’interno dell’esercito e di smantellare le milizie locali. Queste però – soprattutto nell’area Amhara, ma in misura minore anche nel resto del Paese – hanno visto la decisione governativa come un affronto, tanto più a pochi mesi dalla fine di una guerra in cui il loro ruolo era stato decisivo.
Le scelte di Abiy Ahmed
Il governo etiope si trova ora a dover fare una serie di scelte. La prima riguarda il destino dei gruppi armati indipendenti: gli scontri degli ultimi giorni hanno reso evidente come il processo di assorbimento delle milizie nell’esercito sarà lungo e difficilmente pacifico. Al tempo stesso, però, tornare indietro ora sarebbe deleterio per la leadership di Abiy Ahmed, in quanto esporrebbe la debolezza del governo.
La seconda questione riguarda le alleanze. Dopo l’insurrezione e la conseguente repressione violenta di queste settimane, la distanza tra Ahmed e la componente Amhara è ormai difficile da colmare. Il primo ministro potrebbe decidere di basarsi principalmente sul supporto Oromo, dovendo però intervenire per placare il malcontento che si sta diffondendo anche all’interno di questo gruppo. Oppure, potrebbe scegliere di spingere su una rinnovata e sorprendente alleanza con i Tigrini, con conseguenze però imprevedibili sugli equilibri interni all’Etiopia.
Niger: l’ECOWAS condanna il colpo di stato e minaccia un intervento militare per il ripristino dell’ordine costituzionale
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Tra mercoledì 26 e giovedì 27 luglio, in Niger ha avuto luogo un colpo di stato militare. La Guardia Presidenziale, una potente unità di élite dell’esercito nigerino, ha infatti deposto il capo di stato Mohamed Bazoum, eletto in maniera democratica nel 2021. Il golpe è stato giustificato dall’esercito come un intervento contro la crisi economica, l’insicurezza e la corruzione crescenti nel Paese. Ed ha visto Abdourahmane Tchiani, generale e capo della Guardia presidenziale, prendere la guida del Paese.
Ad appena una settimana di distanza, la vicenda nigerina ha assunto una dimensione internazionale. Il colpo di stato ha infatti causato una profonda preoccupazione tra i Paesi occidentali, in particolar modo la Francia. Il Niger è stato a lungo visto come un bastione di stabilità all’interno di un’area sempre più turbolenta, quella del Sahel. Soprattutto in seguito all’ultimo colpo di stato in Mali e al deterioramento dei rapporti tra Bamako e Parigi, questo è stato giudicato l’unico partner affidabile della regione, con cui costruire una nuova strategia anti-jihadista dopo il fallimento dell’operazione Barkhane. Infine, il Paese africano è particolarmente ricco di uranio: un suo allontanamento dalla sfera occidentale potrebbe avere un impatto importante sulla disponibilità di questa materia prima, essenziale per il funzionamento delle centrali nucleari.
Gli eventi politici nigerini non hanno però avuto un impatto soltanto in Europa, ma anche all’interno dello stesso continente africano e soprattutto, com’è logico, sugli stati vicini. Quello avvenuto a fine luglio rappresenta infatti l’ennesimo colpo di stato avvenuto negli ultimi tre anni nel Sahel: prima del Niger era toccato al Mali, nel 2020 e nel 2021, alla Guinea nel 2021 e al Burkina Faso nel 2022, mentre non è ancora chiaro se in queste ore ci sia stato un tentativo di golpe – sventato – in Sierra Leone. In ogni caso, la tendenza non può che essere preoccupante per gli stati dell’Africa occidentale in cui, dopo decenni di calma, gli interventi militari sembrano essere ritornati la norma.
In questo contesto si inserisce la dura reazione dell’ECOWAS, la comunità economica dell’Africa occidentale, che ha subito condannato quanto successo in Niger. L’organizzazione regionale ha dato ai militari sette giorni di tempo per ritornare sui propri passi e ripristinare l’ordine costituzionale nel Paese, minacciando altrimenti di intervenire anche con l’uso della forza. Nel frattempo, ha anche adottato alcune sanzioni economiche contro il Niger, ad esempio bloccando le esportazioni di elettricità da parte della Nigeria.
Le forze armate nigerine hanno però trovato l’immediato sostegno di Mali e Burkina Faso. Questi, a loro volta guidati dall’esercito, hanno sottolineato in una nota congiunta come un intervento militare dell’ECOWAS in Niger verrebbe considerato una dichiarazione di guerra anche nei loro confronti, invitando quindi l’organizzazione a tornare sui propri passi e quanto meno ad abbandonare la linea dura. Inoltre, i governi dei due stati del Sahel hanno fatto sapere che un’azione dell’ECOWAS sarebbe seguita da una loro uscita dalla comunità che riunisce gli stati dell’Africa occidentale: al momento, in realtà, Mali e Burkina Faso sono già sospesi dall’organizzazione, proprio a causa dei golpe militari avvenuti al loro interno. In seguito, anche la Guinea ha dichiarato di appoggiare la posizione del Niger e della Guardia Presidenziale.
Tra gli attori che si sono esposti per condannare il colpo di stato e per chiedere un’azione di forza, particolarmente ferma è stata la Nigeria. “Non è più tempo di inviare segnali d’allarme. È il tempo dell’azione” ha affermato Bola Tinubu, che da qualche mese è Presidente del Paese. Intervistato sulla possibilità che un contingente di soldati nigeriani fosse chiamato ad intervenire in Niger sotto la guida dell’ECOWAS, anche il capo delle forze armate del Paese si è detto convinto dell’opportunità che questo avvenisse: “Noi difendiamo la democrazia e dobbiamo continuare a farlo”.
Parte della preoccupazione della Nigeria è senza dubbio legata allo stato di salute della democrazia nella regione. “Se i golpisti la fanno franca, altri Paesi vivranno sotto la minaccia di colpi di stato” ha evidenziato l’esperto di sicurezza nigeriano Confidence MacHarry, intervistato da Le Monde. Ma i timori del governo vanno oltre: Bola Tinubu è infatti consapevole che una situazione di caos nel vicino Niger potrebbe facilmente ripercuotersi all’interno dei confini nigeriani, tanto più che già ora il Paese vive una situazione di crisi economica profonda ed è attraversato da ondate di scioperi.
Abuja teme anche che il Niger, fino a questo momento suo fedele alleato, possa trasformarsi in una base per vari gruppi ribelli e jihadisti. Questi, già attivi nelle regioni settentrionali della Nigeria, potrebbero beneficiare di un’eventuale situazione di caos nel Paese vicino e potrebbero così rafforzarsi, aggravando di conseguenza la già precaria situazione di sicurezza del gigante africano. Ad un aumento dell’attività dei gruppi ribelli potrebbe sommarsi l’arrivo di un’ondata di rifugiati, scappati dal Niger a causa delle mutate condizioni politiche.
Una volta innescati questi processi, la Nigeria non sarebbe più in grado di intervenire: con il Niger condivide una frontiera di circa 1500 chilometri, impossibile da controllare, tanto più con le scarse risorse a disposizione. Ecco quindi che il presidente Tinubu è costretto a giocare d’anticipo, sperando che la minaccia di intervento possa indurre i militari a più miti consigli. E consapevole che un successo nella gestione della crisi lo rafforzerebbe notevolmente, sia sul piano interno che su quello internazionale.
Mali: il francese non è più lingua ufficiale
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In Mali, il francese non sarà più considerato lingua ufficiale del Paese, ma soltanto “lingua di lavoro”. Lo stabilisce la nuova costituzione, approvata a giugno e promulgata sabato. L’articolo 31 afferma infatti che “le lingue nazionali sono le lingue ufficiali del Mali” e quindi che lo status riservato finora al francese verrà ora dato a 13 lingue, quelle più parlate tra le oltre settanta presenti nel Paese. Ma indica anche come il loro utilizzo verrà regolato in maniera più specifica da una legge apposita, che dovrà essere approvata nel prossimo periodo.
La modifica della lingua ufficiale arriva in un più ampio contesto di cambiamento all’interno del Paese. Tra il 2020 e il 2021, il Mali ha infatti vissuto due colpi di stato, che hanno infine portato al potere una giunta militare guidata dal colonnello Assimi Goita. Sin da subito, questa ha insistito sull’esigenza di porre le basi per una rinascita e per una svolta radicale, all’interno dello stato subsahariano.
Questo cambiamento sarebbe dovuto partire dall’approvazione di una nuova costituzione, secondo i piani del governo, e dalla successiva organizzazione di nuove elezioni. Non tutto però è andato al meglio. Le elezioni, originariamente previste per il 2022, sono state posticipate al 2024. E la nuova costituzione è stata effettivamente approvata il 18 giugno, ma al referendum la partecipazione è stata limitata: secondo il governo ha votato il 39% degli aventi diritto, ma la società civile sostiene che in realtà l’affluenza si sia fermata al 28%. Inoltre, non sono mancate le polemiche: in particolare, è stato criticato da più fronti l’inserimento nella nuova costituzione del principio di laicità dello stato.
Con la promulgazione del nuovo testo fondamentale, in Mali non cambia soltanto la lingua ufficiale, ma viene in parte modificato l’assetto politico-istituzionale. Da questo momento, l’Assemblea Nazionale viene affiancata da un Senato, andando a formare un parlamento bicamerale. E la politica della Nazione non sarà più determinata dal governo, ma dal Presidente della Repubblica. Importante anche quello che manca all’interno della costituzione, non soltanto quello che c’è scritto: non si trova infatti nessun riferimento all’accordo di pace stipulato con i gruppi ribelli del Nord nel 2015.
Tra le modifiche rese effettive dalla nuova costituzione maliana, il declassamento del francese a lingua di lavoro rappresenta forse quella con la maggiore portata a livello geopolitico. Dal punto di vista pratico i cambiamenti saranno probabilmente pochi ed interesseranno le dinamiche interne maliane. Ma la decisione ha un forte peso simbolico e mostra la volontà del Paese di allontanarsi dalla sfera di influenza francese.
Negli anni che hanno seguito la decolonizzazione, infatti, la lingua francese è stata una delle maggiori armi utilizzate da Parigi per mantenere un’influenza su cui prima esercitava un controllo. L’Organizzazione Internazionale per la Francophonie (OIF), creata in realtà da stati africani e asiatici nel 1970, è stata più tardi sfruttata dalla Francia per mantenere saldi legami con gli ex territori coloniali, da una posizione privilegiata. Negli anni, infatti, Parigi ha sempre mantenuto una posizione dominante nell’organizzazione, senza mostrare alcun interesse ad una relazione più orizzontale con gli altri Paesi francofoni.
La lingua è stata ripetutamente vista come un mezzo per assicurarsi un ruolo primario nel continente africano: come spiega l’autrice Rosemary Salomone nel suo libro The rise of English, in Africa vive quasi il 60% dei francofoni e il francese è in competizione con l’inglese, ma anche con russo e cinese. L’interesse di Parigi è mostrato dalle svariate iniziative del governo francese a riguardo. Nel 2011, in collaborazione con l’OIF, questo ha lanciato il programma ELAN – Scuole e lingue nazionali in Africa – mirato a creare percorsi educativi che unissero insegnamenti in francese e in altre lingue africane. E negli anni i migliori istituti francesi hanno aperto proprie sedi in Africa, cercando così di attirare l’élite del continente.
La scelta di togliere il francese dalle lingue ufficiali mostra quindi come il Mali consideri la lingua un’arma geopolitica che, nelle mani di Parigi, è utilizzata con fini neocolonialisti. E conferma la volontà di Bamako di allontanarsi dall’ex potenza coloniale, come già era stato reso evidente in questi mesi con le proteste popolari anti-francesi e con la fine della collaborazione militare tra il Mali e la Francia.
BRICS: allargamento e il caso Putin
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“Di comune accordo, il Presidente Vladimir Putin non parteciperà al summit BRICS”. Lo ha annunciato il Presidente sudafricano Cyril Ramaphosa, spiegando che il capo di stato russo sarà assente a Johannesburg, tra il 22 e il 24 agosto, in occasione del prossimo incontro del gruppo di Paesi che comprende, oltre a Russia e Sudafrica, anche India, Cina e Brasile.
Ramaphosa mette così un punto ad una questione che rischiava di avere importanti conseguenze politiche. Su Putin pende infatti un mandato d’arresto internazionale, emesso dalla Corte Penale Internazionale (CPI) a marzo: questa l’ha infatti giudicato colpevole di crimini di guerra nel contesto della guerra in Ucraina, e nello specifico del trasferimento forzato di una parte della popolazione ucraina – in particolare bambini – verso la Russia. Ma il Sudafrica risulta tra i Paesi che hanno firmato lo Statuto di Roma e che sono tenuti a rispettare le direttive della Corte. Nel caso il Presidente russo si fosse recato al meeting, quindi, le autorità di Pretoria sarebbero state di fatto obbligate ad arrestarlo oppure a non rispettare i propri impegni internazionali.
La possibilità che il Sudafrica si trovasse di fronte a questo dilemma aveva portato in questi mesi ad una forte preoccupazione da parte del governo di Pretoria. In primo luogo, per le conseguenze che un eventuale arresto di Putin avrebbe sui rapporti che lo stato africano intrattiene con Mosca, ora buoni. Dal momento dell’invasione dell’Ucraina, il Sudafrica si è infatti sempre rifiutato di assumere una posizione di condanna verso l’atteggiamento russo. Secondo alcuni, inoltre, Pretoria non si sarebbe limitata alla neutralità: in questi mesi il governo sudafricano è stato infatti accusato dagli Stati Uniti di aver fornito armi a Mosca.
Ma i timori sudafricani andavano oltre una possibile rottura dei rapporti commerciali e diplomatici. In questi giorni, Ramaphosa aveva detto che l’arresto di Putin sarebbe stato interpretato da Mosca come una dichiarazione di guerra, ed aveva perciò chiesto alla CPI di poter non eseguire la condanna così da evitare un conflitto. La posizione sudafricana era però complicata anche da tensioni del passato: già nel 2015 il Paese non aveva applicato una condanna della Corte, non arrestando l’allora dittatore sudanese Omar al Bashir.
Alla fine, Vladimir Putin presenzierà al vertice BRICS in via telematica, senza recarsi a Johannesburg e senza dunque mettere le autorità sudafricane di fronte ad una scelta complicata. Al suo posto, in presenza ci sarà il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov.
Archiviato il caso Putin, il BRICS può concentrarsi su altre questioni. In primis, quella del proprio allargamento. Dopo anni in cui sembrava aver perso centralità, l’invasione russa dell’Ucraina sembra aver infatti dato un nuovo peso geopolitico a questa alleanza. Non solo la Cina, ma anche Sudafrica, Brasile e India si sono infatti mostrati in questi mesi restii a condannare le azioni di Mosca, e in questi mesi il BRICS si è presentato così sempre più come l’interprete di una seconda via, alternativa a quella occidentale. Questo ha rinnovato l’interesse attorno al gruppo, portando numerosi stati a chiedere di entrarvi: Arabia Saudita e Iran sembrano i più vicini a diventare nuovi membri, ma anche Emirati Arabi Uniti, Egitto, Indonesia e Argentina si sono candidati.
Tra chi vorrebbe aderire c’è anche l’Algeria, storicamente vicina a Mosca. E che ora ha ricevuto il via libera dalla Cina per unirsi al BRICS. Il Presidente algerino Abdelmadjid Tebboune si è infatti recato a Pechino in questi giorni per approfondire il legame, economico e di amicizia, tra il suo Paese e la superpotenza asiatica. Tra le altre cose, Tebboune e Xi Jinping hanno parlato anche di BRICS, con il Presidente cinese che si è detto favorevole all’ingresso algerino.
La ferrovia di Benguela torna a funzionare
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La storica ferrovia di Benguela, che attraversa l’intera Angola ed arriva fino alla Repubblica Democratica del Congo, verrà rimessa in funzione. Lo hanno annunciato i due governi, presentando un progetto che nel corso dei prossimi anni potrebbe avere un impatto non indifferente sui traffici commerciali dell’intera Africa meridionale.
La scorsa settimana i due Paesi hanno annunciato di aver dato in concessione la ferrovia ad una joint venture – che comprende tra gli altri la multinazionale Trafigura, impegnata nel commercio di materie prime, e la compagnia portoghese di costruzioni Mota-Engil – per una durata di trent’anni. Ma questo non è che il punto di partenza.
In questi giorni, infatti, è stato reso noto come la riabilitazione della ferrovia sarà accompagnata da un importante piano di investimenti, dal valore di 555 milioni di dollari. Una somma di denaro cospicua, che secondo i piani di Luanda e Kinshasa dovrebbe permettere di bonificare i 1700 chilometri di linee ferroviarie– ora estremamente danneggiate, soprattutto sul territorio congolese – ma anche di acquistare circa 1500 nuovi vagoni e locomotive.
Il progetto dei due stati africani è ambizioso, soprattutto per l’obiettivo che si prefissa. Rinnovando la ferrovia di Benguela, infatti, questi vorrebbero far sì che gran parte del traffico di merci si sposti gradualmente su questa tratta e su rotaia.
Si tratta di un’esigenza sentita da entrambi gli stati. Il Congo è un Paese ricchissimo di materie prime, il primo al mondo per la produzione di cobalto e il leader continentale per quella di rame. Questi sono sempre più richiesti a livello internazionale, in quanto cruciali per la transizione ecologica, e vengono estratti in particolare nella regione del Katanga, al confine con il territorio angolano. Tuttavia, ben di rado queste materie prime attraversano l’Angola, per essere imbarcate sulla costa atlantica: tendenzialmente vengono invece caricate su camion, che le trasportano verso Tanzania o Sudafrica, luoghi da cui vengono poi trasportate verso i Paesi occidentali.
Da un lato, quindi, l’utilizzo della ferrovia servirebbe al Congo per diminuire i costi di trasporto e garantirsi di conseguenza un introito maggiore con la vendita delle proprie risorse naturali. Il trasporto su gomma verso i porti sudafricani è infatti estremamente costoso, ma anche molto lungo rispetto a quello che potrebbe permettere l’utilizzo della ferrovia. Da parte sua, l’Angola sarebbe ovviamente beneficiata dall’implementazione del nuovo corridoio commerciale e trarrebbe vantaggio sia dal passaggio delle merci sul suo territorio, sia dalla nuova centralità dei propri porti.
Ma il progetto non si limita a coinvolgere Luanda e Kinshasa. Secondo i piani, la ferrovia dovrebbe raggiungere anche lo Zambia ed in particolare l’area del Copperbelt, tra le principali regioni minerarie africane e conosciuta soprattutto per l’estrazione di rame. Zambia, Angola e Repubblica Democratica del Congo avevano annunciato l’intenzione di collaborare maggiormente lo scorso febbraio, come riferito da The North Africa Post, proprio con l’intenzione di migliorare gli aspetti logistici legati al commercio di materie prime.
In caso venga completata, la ristrutturazione della ferrovia di Benguela promette di modificare in maniera significativa gli equilibri geopolitici dell’area. Ma a prescindere dal suo successo, il piano di investimenti annunciato in questi giorni ha anche implicazioni a livello internazionale. Come detto, infatti, parte dei fondi verranno stanziati dagli Stati Uniti. Un tassello importante, nella rivalità tra Pechino e Washington e nella loro corsa ad assicurarsi alleati nel continente africano.
Storicamente, infatti, l’Angola si era sempre mostrata vicina alla Cina, tanto che la stessa ferrovia era stata ricostruita da Pechino tra il 2006 e il 2014, dopo che era stata distrutta nella precedente guerra civile. Il finanziamento americano segna quindi l’apertura di una nuova era in cui Luanda, pur lontana dall’allinearsi a Washington, mostra di essere aperta agli aiuti occidentali.
Senegal: Macky Sall rinuncia al terzo mandato
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Il Presidente senegalese Macky Sall non si presenterà alle elezioni presidenziali del 2024. Lo ha annunciato a sorpresa, in un discorso alla nazione tenuto in televisione il 3 luglio, parlando di una “decisione lunga e ponderata”. In questo modo, Sall rinuncia di fatto alle ambizioni di conquistare un discusso terzo mandato e mette così la parola fine ad una questione che in questi mesi è stata profondamente destabilizzante per il Senegal.
In vista delle elezioni dell’anno prossimo, infatti, ci si era chiesti se il presidente uscente si sarebbe presentato per la terza volta, dopo aver vinto le elezioni del 2012 e del 2019. Macky Sall si era mantenuto ambiguo sulle sue intenzioni, senza escludere la possibilità di correre per un nuovo mandato, che sarebbe stato a dir poco problematico. La costituzione senegalese ne permetterebbe un massimo di due, ma la tesi del Presidente è che il calcolo dei mandati andasse azzerato a partire dalla modifica costituzionale del 2016, e che quindi gli restasse ancora uno slot a disposizione.
Di fronte alla scarsa chiarezza, l’opposizione aveva denunciato la volontà di Sall di restare al potere nonostante i limiti imposti dalla legge. Una prospettiva che aveva scatenato la rabbia di una parte della popolazione, scesa ripetutamente in piazza a protestare. Le manifestazioni di queste settimane si erano però risolte in duri scontri con la polizia, causando 16 morti, centinaia di feriti e numerosi arresti. E facendo crescere in maniera sensibile la tensione sociale all’interno del Paese.
L’annuncio di Macky Sall è perciò sicuramente positivo, in quanto potrebbe essere determinante nel riportare la calma e nel riavvicinare almeno in parte maggioranza e opposizione, allontanando lo spettro di un’escalation degli scontri. Come riconosciuto da numerosi osservatori, la scelta di ritirarsi dalla corsa presidenziale può essere letta come la prova del funzionamento della democrazia senegalese, nonostante le sue numerose criticità. Ma anche come il riconoscimento che il sistema politico sia più importante e più forte di una singola persona, come sottolineato dallo stesso Presidente: “Il Senegal è più grande di me ed è pieno di leader capaci di guidare il Paese verso lo sviluppo”.
Per queste ragioni, alla decisione di Macky Sall sono seguite immediatamente reazioni di sollievo e soddisfazione, soprattutto a livello internazionale. “La dichiarazione del Presidente Sall è un esempio per la regione, in contrasto con coloro che cercano di erodere i principi democratici, inclusi i limiti di mandato” ha dichiarato attraverso un comunicato stampa Antony Blinken, Segretario di stato americano. Il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha parlato invece di “profonda stima” per il capo di stato senegalese, mentre Emmanuel Macron ha evidenziato come lo stato africano abbia dimostrato ancora una volta “la solidità della propria tradizione democratica”.
Diverse le reazioni interne al Senegal. Invece di guardare alle virtù del presidente in carica e alla bontà della sua scelta, l’opposizione preferisce infatti leggere la decisione di Sall di ritirarsi dalla corsa elettorale come un successo del popolo e di chi è sceso in strada a protestare. Inoltre, si sottolinea come la soddisfazione per una vittoria insperata non possa far dimenticare i lati oscuri dell’annuncio presidenziale e le criticità che rimangono a livello politico e che non sono state certo risolte dal discorso di Sall.
In particolare, l’opposizione fa notare come il Presidente non abbia riconosciuto le proprie colpe nello scatenare la violenza di piazza, né abbia ammesso l’illegalità di un eventuale terzo mandato. Al contrario, Sall ha detto di non volersi candidare “anche se la Costituzione me ne dà diritto” e ha così lasciato uno spiraglio aperto ad un cambio di scenario, che non sarebbe né clamoroso né tantomeno senza precedenti. Nel 2020, nella vicina Costa d’Avorio, il presidente Alassane Ouattara aveva infatti deciso di candidarsi dopo aver dichiarato l’opposto, parlando di “caso di forza maggiore” dopo il decesso di colui che era stato designato come suo successore, Amadou Gon Coulibaly.
Lo schieramento che si oppone a Macky Sall ha insistito inoltre sulla necessità di evitare ora che il presidente uscente controlli da vicino l’intero processo elettorale, ad esempio attraverso l’uso della giustizia per impedire ai candidati dell’opposizione di presentarsi alle urne. “Invito il popolo senegalese a mobilitarsi per non lasciare che Macky Sall decida chi deve o non deve partecipare alle elezioni presidenziali” ha dichiarato l’ex prima ministra Aminata Touré, chiedendo al popolo senegalese di non smettere ora di scendere per strada a manifestare.
La vittoria dell’estrema destra in Turingia preoccupa la Germania
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Il partito di estrema destra Alternative für Deutschland (AfD) governerà in Germania. Non a livello federale, dove la coalizione guidata dal cancelliere socialdemocratico Olaf Scholz è attesa da altri due anni abbondanti di governo. Ma a livello locale: domenica il candidato di AfD Robert Sesselmann ha vinto un ballottaggio a Sonneberg, cittadina del Land orientale della Turingia, aggiudicandosi la posizione di presidente del distretto rurale.
La vittoria arriva in un distretto piccolo, che conta appena 57mila abitanti. Ma non per questo si tratta di un risultato politico meno significativo: per la prima volta, la formazione guidata a livello nazionale da Tino Chrupalla e Alice Weidel può vantare un successo politico. E per la prima volta un suo membro ricoprirà una carica di rilievo. Fino a questo momento, infatti, AfD non ha mai governato nemmeno in coalizione, come conseguenza della scelta di tutte le altre formazioni politiche di isolare un partito con posizioni xenofobe, nazionaliste e identitarie.
Il risultato delle elezioni di Sonneberg ha rappresentato uno shock, se non per i cittadini tedeschi, almeno per i partiti politici della Germania. Ma si tratta di un evento che era destinato ad accadere. Da anni, infatti, AfD è stata tenuta lontana da ruoli di governo con una strategia di isolamento che ha vacillato ripetutamente e la cui efficacia è stata spesso messa in discussione, soprattutto dal centrodestra. Dal 2015 in poi, inoltre, il partito di estrema destra ha vissuto numerosi periodi in cui i sondaggi gli attribuivano percentuali importanti, con picchi nelle aree orientali del Paese. Era logico pensare quindi che, prima o poi, AfD avrebbe vinto un’elezione.
Questo è successo nel momento di maggior forza del partito, da quando è nato. La formazione era stata a lungo in difficoltà, ottenendo il 10% dei voti alle elezioni federali del 2021 e non muovendosi mai da quelle percentuali anche nel periodo successivo. Oggi la situazione è totalmente diversa: da mesi AfD è in ripresa e le ultime rilevazioni indicano come il partito di estrema destra sarebbe votato da poco meno del 20% degli elettori. Una quota mai raggiunta prima e che posiziona AfD nei sondaggi come il secondo maggior partito, dietro alla sola CDU e addirittura davanti ai socialdemocratici al governo.
Il successo del partito di destra è legato in buona parte alle difficoltà dell’esecutivo attuale, che registra un indice di gradimento bassissimo e fatica negli ultimi mesi a convincere la popolazione del proprio operato. Ma è frutto anche di una nuova strategia di AfD, che accanto alla lotta alla migrazione ha messo tra i propri cavalli di battaglia anche il contrasto alle politiche climatiche.
“La narrativa fondamentale di AfD è sempre stata che esista una minaccia alla cultura tedesca – ha osservato l’analista politico Johannes Hilje, intervistato dal giornale di sinistra taz – A lungo, questa minaccia arrivava da fuori, attraverso i migranti. Ora la narrativa è che questa stia arrivando anche dall’interno, attraverso la trasformazione della società verso la neutralità climatica, un obiettivo centrale del governo”.
Per molti, infatti, gran parte della percentuale attribuita al partito deriva da un’insoddisfazione verso il governo e verso la sua azione ambientalista. Che, paradossalmente, è stata fin qui poco incisiva. Insediatosi con alte aspettative, anche per la presenza di un forte partito Verde, il governo Scholz ha fin qui deluso le aspettative: in questi mesi la Germania ha ripreso ad aumentare la propria dipendenza dal carbone, ha puntato sul GNL e ha messo in secondo piano le rinnovabili, anche per l’esigenza di affrontare con urgenza la crisi ucraina. Soprattutto, però, l’esecutivo non sembra essere stato capace di rassicurare la popolazione sugli effetti della transizione ecologica e si è inoltre mostrato litigioso al proprio interno. In questo contesto, non è casuale che in molti si siano rivolti all’estrema destra, che da sempre critica l’attenzione riposta verso il clima e sostiene che non sia necessario cambiare le abitudini, per quanto riguarda i consumi, la produzione di energia, l’utilizzo dell’auto.
Mentre l’opposizione condivide questa lettura, dando al governo le colpe della crescita della destra, i partiti al potere criticano invece l’atteggiamento, le scelte e i discorsi della CDU, il partito cristiano-democratico. Questo ha infatti cercato tendenzialmente di sminuire il problema, anche negli ultimi giorni, quando il leader dell’opposizione Friedrich Merz ha detto di non voler dare un peso eccessivo al risultato elettorale di Sonneberg. Inoltre, la CDU ha cercato di arginare AfD facendo suoi alcuni dei suoi discorsi, ad esempio spostandosi decisamente a destra in tema di immigrazione. Ma si tratta di una strategia che non paga nei sondaggi, secondo i commentatori, ed anzi ha l’effetto opposto, contribuendo a normalizzare le posizioni estremiste di AfD.
La vittoria di Alternative für Deutschland apre necessariamente una nuova stagione politica per Berlino, soprattutto in considerazione di quelli che potrebbero essere i prossimi sviluppi. La Germania è infatti attesa tra poco più di un anno dalle elezioni regionali in Turingia, Sassonia e Brandeburgo. Tre Länder della Germania orientale, dove la destra nazionalista è estremamente forte, spesso arrivando ad essere il primo partito nei sondaggi.
I prossimi mesi saranno quindi cruciali. Se il governo dovesse continuare ad essere in difficoltà, il malcontento potrebbe portare AfD a crescere ancora o quanto meno a cementificare il proprio consenso, arrivando in una posizione di forza alle elezioni. Ma a prescindere dai sondaggi, molto dipenderà dall’atteggiamento delle altre forze politiche. La vittoria a Sonneberg potrebbe infatti portare gli altri partiti a rafforzare il cordone sanitario contro l’estrema destra. Ma, al contrario, potrebbe anche spingere la CDU a pensare ad una collaborazione, e quindi ad una normalizzazione dell’estrema destra e ad una sua inclusione nei meccanismi politici democratici tedeschi.
Germania/Cina: buone relazioni ma controverse
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Se qualcuno per caso avesse nutrito dei dubbi, questi possono dirsi completamente dissipati: la Germania non ha intenzione di interrompere i propri rapporti con la Cina, né ora né nel prossimo futuro.
Lo ha mostrato la visita a Berlino del nuovo Primo Ministro cinese Li Qiang, che ha incontrato il Presidente della Repubblica Frank-Walter Steinmeier lunedì e il Cancelliere Olaf Scholz il giorno successivo. E che ha dato un’immagine più che positiva dei rapporti tra i due Paesi. Da un punto di vista simbolico, innanzitutto: il Primo Ministro cinese si è recato in Germania per il primo viaggio istituzionale da quando è in carica ed è stato accompagnato da ben dieci ministri, sottolineando in questo modo una certa attenzione per la relazione con Berlino. Interesse totalmente ricambiato, del resto, come dimostra il fatto che al meeting si è presentata infatti buona parte del governo tedesco. Ma anche i risultati degli incontri sono stati significativi: Cina e Germania hanno concluso accordi di cooperazione scientifica e commerciale, hanno programmato una collaborazione nella lotta al cambiamento climatico e si sono ripromessi di cooperare nello sviluppo di nuove tecnologie.
Ma è stato lo stesso Scholz a voler rassicurare: la Germania non ha alcun interesse a sganciarsi dalla Cina dal punto di vista economico, ha affermato. “Ridurre i rischi non significa abbandonare la globalizzazione e il commercio – ha detto nel suo discorso – Si tratta della concorrenza leale”.
Sebbene siano abilmente mascherate, però, le tensioni rimangono. D’altronde “non è più il 2018”, come fa notare il giornale progressista Die Zeit in un editoriale, facendo riferimento alla data in cui si era tenuto l’ultimo incontro simile tra i due governi, e “il mondo in questi cinque anni è diventato un altro”. Angela Merkel non è più la cancelliera, prima di tutto. La competizione tra Stati Uniti e Cina è aumentata notevolmente e Pechino è diventata in questi anni sempre più nazionalista, sotto la guida fortemente autoritaria di Xi Jinping. Ed infine è scoppiato il conflitto in Ucraina, con la Cina che ha deciso di non isolare né condannare nettamente la Russia, distanziandosi così dall’atteggiamento occidentale.
Che il mondo sia cambiato è evidente guardando all’insistenza con cui Scholz fa riferimento alla necessità di contenere i rischi, nei rapporti con Pechino: un aspetto che mostra come la relazione con la Cina sia innegabilmente problematica. Dopo anni in cui Berlino ha dato spazio soltanto ai propri interessi economici e commerciali, cercando e fingendo di non vedere le implicazioni geopolitiche delle proprie azioni, questo non è più possibile. L’invasione dell’Ucraina da parte di Mosca ha obbligato la Germania a un brusco risveglio e a riflettere più a fondo sull’opportunità di legarsi a doppio filo con regimi che di liberale hanno ben poco.
Oltre ad essere stato forzato dal contesto internazionale, il cambio di approccio di Berlino è stato dovuto anche dalle dinamiche interne allo stesso governo tedesco. Uscita di scena la Merkel, al governo ci sono ancora i socialdemocratici che, nonostante tutto, restano affezionati alla realpolitik e all’idea di mettere gli interessi economici al centro anche dei rapporti più controversi. Ma il partito di centrosinistra è affiancato al governo da Verdi e Liberali, che hanno idee molto diverse. La formazione ambientalista insiste da sempre sull’esigenza di guardare ai diritti e al rispetto della democrazia nelle relazioni internazionali e, ora che la verde Annalena Baerbock è ministra degli Esteri, questa linea sembra essere quella dominante all’interno dell’esecutivo. I Liberali sono a loro volta restii a legittimare azioni e idee autoritarie di altri regimi: lo hanno mostrato nelle ultime settimane, quando una delegazione del partito si è recata a Taiwan, causando non poca irritazione da parte di Pechino.
Le incomprensioni interne al governo si sono mostrate nell’ultimo periodo in particolar modo per quanto riguarda proprio il dossier cinese, nello specifico con l’acquisizione di una quota del porto di Amburgo da parte della compagnia di stato cinese Cosco. Il cancelliere socialdemocratico ha dato il via libera, considerando l’affare una semplice questione commerciale. Ma la sua scelta è stata duramente criticata dai partner di governo, che hanno sottolineato quanto sia poco opportuno far entrare Pechino in infrastrutture strategiche.
Nei rapporti con la Cina, la Germania resta quindi a metà strada, senza volere né probabilmente potere scegliere con decisione da che parte andare. La prima economia europea resta troppo legata a Pechino per rompere i rapporti, soprattutto per l’importanza della Repubblica popolare come sbocco dei prodotti tedeschi e per il ruolo cruciale giocato dalla Cina nella produzione di varie tecnologie che sono fondamentali per la produzione di energia pulita e per la transizione ecologica.
Berlino prova perciò a limitare i danni, esponendosi meno di quanto fatto verso Mosca negli anni passati e cercando di mettere dei paletti alla propria dipendenza da Pechino. Ma oltre agli aspetti retorici, continua a non avere un vero piano per staccarsi dalla Cina, nel caso scoppino forti tensioni tra il Paese e il campo occidentale nel medio periodo.
Nigeria: stop ai sussidi per la benzina
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Non si può dire che sia stato un inizio che è passato sottotraccia quello del neo Presidente della Nigeria Bola Tinubu. Non era infatti ancora terminata la cerimonia di insediamento, per il vincitore delle elezioni tenutesi a febbraio, quando Tinubu ha annunciato che una delle prime mosse del suo governo sarebbe stata l’abolizione dei sussidi sulla benzina. Da allora, il tema è diventato centrale, causando proteste da parte dei cittadini e preoccupazione a livello internazionale, per quelli che potrebbero essere gli effetti della mossa presidenziale.
La decisione non è stata presa a sorpresa, se non per le tempistiche: prima del voto, anzi, tutti i candidati si erano detti favorevoli a porre fine ai sussidi, in vigore dal 1977. Questi erano stati introdotti in seguito alla crisi petrolifera, per far fronte al rapido aumento del costo del petrolio e per aiutare i cittadini nigeriani a soddisfare le necessità quotidiane. Nei decenni seguenti, tuttavia, il sistema non è stato di fatto modificato, nonostante sia diventato sempre meno sostenibile. Il governo ha continuato ad intervenire per mantenere artificialmente basso il prezzo della benzina per i consumatori, ma per farlo ha utilizzato sempre più risorse e ha finito per indebitarsi con i grandi gruppi petroliferi.
Oggi si calcola che Abuja spenda circa 10 miliardi di euro all’anno in sussidi, una spesa maggiore di quella riservata per la salute o per l’educazione. Gli effetti della misura sono visibili ad occhio nudo: nonostante siano frequenti la scarsità di carburante e le code ai distributori, le automobili sono utilizzate in Nigeria ben più che negli stati vicini. Soprattutto per una questione di prezzi: prima dell’annuncio di Tinubu la benzina nigeriana costava all’incirca 30 centesimi, mentre in Costa d’Avorio, Burkina Faso e nel resto della regione si avvicinava o superava l’euro al litro.
Dopo che il Presidente nigeriano ha annunciato la fine dei sussidi, il prezzo del carburante nel Paese è rapidamente salito, con aumenti anche del 200%. Per di più, la decisione è stata comunicata senza spiegare quando sarebbe stata entrata in vigore: questo ha portato la popolazione a correre a rifornirsi di benzina, causando carenze di carburante ovunque e lasciando in molti casi a secco i bus privati che sono utilizzati da gran parte della popolazione per spostarsi. La situazione caotica ha portato il governo a specificare che i sussidi non sarebbero stati tolti da subito, ma a partire da luglio.
La decisione governativa ha avuto una certa eco anche a livello internazionale. Ad esporsi è stato addirittura Amnesty International, con una nota in cui ha chiesto di porre attenzione all’impatto che la fine dei sussidi può avere sulle fasce più povere della popolazione. “Tutti gli stati sono tenuti ad eliminare i sussidi ai combustibili fossili per adempiere ai loro obblighi in materia di diritti umani nel contesto del cambiamento climatico, – ha affermato l’organizzazione – ma non dovrebbero farlo in un modo che comprometta la capacità delle persone a basso reddito di garantire il loro diritto a uno standard di vita adeguato”.
Anche la possibilità di una destabilizzazione del Paese ha causato preoccupazioni non indifferenti. Il governo aveva infatti già tentato di eliminare le agevolazioni sul carburante, nel 2012: l’allora presidente Goodluck Jonathan era stato tuttavia costretto a tornare sui propri passi, dato che la sua scelta aveva portato a manifestazioni violente, con morti e feriti. Questa volta il rischio sembra scongiurato, almeno per il momento, in quanto i sindacati hanno sospeso gli scioperi dopo un incontro con il governo.
La fine dei sussidi sul carburante si inserisce all’interno di un contesto problematico. L’economia nigeriana è infatti in difficoltà, ormai da alcuni anni e senza che il precedente esecutivo di Buhari sia riuscito in alcun modo a migliorare la situazione. L’aumento del prezzo della benzina si somma ad un’inflazione intorno al 20%, che negli ultimi mesi ha reso complicato arrivare a fine mese per molti cittadini nigeriani. E in questi giorni è stato registrato un importante sconvolgimento a livello finanziario, con il direttore della Banca centrale nigeriana Godwin Emefiele che è stato prima sospeso dal suo ruolo e poi arrestato.
La mossa del governo rischia tuttavia di avere un forte impatto simbolico, ancora più che concreto. Nonostante siano estremamente controversi e comportino un uso eccessivo di risorse, i sussidi sono apprezzati dalla popolazione e sono spesso e volentieri visti come delle compensazioni rispetto al fatto che il petrolio venga estratto in territorio nigeriano, ma porti in realtà pochi vantaggi alla popolazione.
Senegal diviso e arrabbiato
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Sono settimane complicate, per il Senegal. Quella che per lunghi anni è stata considerata tra le democrazie più funzionanti del continente è ora al centro di tensioni politiche e scontri. Che non si limitano a mettere in discussione il sistema democratico, ma fanno temere addirittura lo scoppio di un conflitto civile.
L’ultima ondata di proteste e violenze è una diretta conseguenza del risultato di un processo a cui è stato sottoposto Ousmane Sonko, colui che si proponeva come maggior oppositore del presidente Macky Sall per le elezioni previste per il prossimo febbraio. Sonko era arrivato davanti alla corte per rispondere all’accusa di stupro: assolto da questo reato, si è visto condannato a due anni di carcere per “corruzione dei giovani”, accusa che non gli era stata mossa in precedenza.
Il dubbio svolgimento del processo ha portato lo schieramento d’opposizione a puntare il dito contro il Presidente ed il governo, accusati di aver orchestrato l’intero procedimento per rendere più difficile a Sonko il cammino verso il voto del 2024, rendendolo ineleggibile attraverso una condanna. Una tesi che sembra essere stata avvalorata dall’ulteriore condanna del leader dell’opposizione per diffamazione, vicenda di cui vi avevamo parlato in un precedente articolo. Ma anche dal fatto che Sonko non sarebbe il primo rivale di Macky Sall a dover abbandonare la competizione elettorale a causa del risultato di un processo: negli scorsi anni era successo anche a Karim Wade, figlio dell’ex presidente, ma anche all’attuale sindaco di Dakar e al suo predecessore, Barthelemy Dias e Khalifa Sall.
Gli appelli dell’opposizione e la rabbia verso il governo hanno spinto migliaia di persone a riversarsi nelle strade di Dakar e non solo, dopo che la sentenza è stata emessa giovedì 1 giugno. Da subito, però, le proteste si sono trasformate in una sorta di guerriglia tra la polizia e i manifestanti: tra questi, si contano almeno 16 morti, 350 feriti e 500 arrestati. Inoltre, in gran parte del Paese è stato bloccato l’accesso ad internet e ai social network, con la motivazione che questi fossero stati cruciali nell’aumentare le violenze. Gli scontri hanno poi avuto un riflesso anche al di fuori dei confini nazionali: a Milano e in diverse altre città, le sedi diplomatiche senegalesi sono state attaccate dai manifestanti ostili al governo.
Le proteste e le violenze di questi giorni non fanno altro che confermare quanto il Senegal sia diviso al suo interno. Da un lato c’è l’attuale presidente, Macky Sall: a capo del Paese dal 2012, sta concludendo il suo secondo mandato e sarebbe per questo impossibilitato a presentarsi alle prossime elezioni. Pur senza aver chiarito le sue intenzioni, Sall si appella però al fatto che il suo primo mandato sia stato di 7 anni, in quanto precedente alla riforma costituzionale del 2016, e non vada perciò incluso nel conto dei due mandati quinquennali indicati come limite.
Sall è una figura estremamente conosciuta a livello internazionale: fino a febbraio ha ricoperto la carica di presidente dell’Unione Africana, nei primi mesi del conflitto ucraino ha portato avanti un dialogo con Mosca e Kiev e anche ora è coinvolto nel tentativo di mediazione guidato dal Sudafrica. Sono buoni anche i rapporti con i Paesi occidentali e in particolare con la Francia di Macron, nonostante nell’ultimo periodo Parigi stia tentando di recuperare una posizione di neutralità, per essere pronta anche ad un’eventuale vittoria dell’opposizione nel voto dell’anno prossimo.
A livello interno, il Presidente gode ancora di una certa popolarità, soprattutto tra gli strati più benestanti della popolazione. Tuttavia, il ripetuto tentativo di escludere Ousmane Sonko dalla corsa alla presidenza mostra come Sall non sia certo di avere dalla sua parte la maggioranza dei senegalesi, anzi.
Negli ultimi anni si è infatti allargato sempre di più lo schieramento che guarda con favore a Sonko: se le élite restano al fianco di Sall, a supportare l’opposizione sono soprattutto giovani con difficoltà economiche e che vivono spesso in aree periferiche. Ci sono poi molti cittadini delusi dall’azione dell’attuale presidente: alcuni di questi lo considerano vecchio e inefficace, soprattutto nel combattere gli effetti della pandemia, altri guardano con timore all’erosione delle libertà democratiche nel Paese. E non manca nello schieramento che si oppone a Sall un certo grado di risentimento verso l’Occidente, sempre più diffuso in Africa occidentale: da quando ha fatto il suo ingresso nella scena politica, Sonko non ha infatti mai nascosto di voler allentare i rapporti con la Francia, ad esempio mettendo fine all’utilizzo del franco CFA.
Somalia: verso elezioni democratiche dopo 50 anni
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Dopo oltre cinquant’anni, la Somalia potrebbe tornare a tenere elezioni democratiche. Lo ha annunciato il governo federale del Paese, spiegando che le elezioni del 2024 dovrebbero essere le prime a tenersi secondo le nuove regole, e quindi a suffragio universale diretto. “L’elezione della Repubblica federale somala deve dare ai cittadini l’opportunità di esprimere il proprio voto in maniera democratica, seguendo il principio di una persona, un voto” ha dichiarato il governo, nel giustificare il prossimo cambiamento.
La decisione è arrivata la scorsa settimana, dopo giorni di discussioni tra i principali rappresentanti politici somali. Il cambiamento è infatti frutto di un accordo tra il Presidente federale Hassan Sheikh Mohamud, il Primo Ministro Hamza Abdi Barre, il Sindaco di Mogadiscio e quattro leader degli stati federati. Tra questi, mancava tuttavia il Presidente del Puntland, regione che è governata in maniera pressoché autonoma dal potere centrale dal 1998.
Il condizionale resta tuttavia d’obbligo. In primis, perché nulla è ancora ufficiale: il coinvolgimento di tutti i leader politici lascia pensare che la decisione sia condivisa e non sia destinata ad incontrare grosse resistenze, ma prima di diventare definitiva questa dovrà essere approvata dal Parlamento somalo. Inoltre, non sarebbe la prima volta che il Paese ritorna sui propri passi. Già nel 2020 c’era stato un tentativo di riformare il sistema elettorale e di introdurre cambiamenti simili a quelli riproposti in questi giorni. Alla riforma era seguito però un lungo periodo di scontri e di crisi istituzionale, che aveva obbligato Mogadiscio a rinunciare almeno momentaneamente alle modifiche previste.
Se questa volta il suffragio universale diretto dovesse entrare in vigore, la Somalia supererebbe il proprio sistema elettorale clanico, un’eccezione a livello globale. Al momento, infatti, il parlamento è eletto dai clan presenti nel Paese: in ognuno di questi gruppi sociali, gli anziani scelgono alcuni rappresentanti, che poi votano a loro volta per stabilire la composizione del parlamento nazionale. Il presidente è in seguito eletto dal parlamento, in maniera indiretta. I clan sono determinanti anche per l’ottenimento delle diverse cariche politiche – presidente, primo ministro, speaker del parlamento – ognuna delle quali spetta ad un diverso gruppo.
La riforma in programma sconvolgerebbe il sistema, con riforme cruciali. Si introdurrebbe il suffragio per tutti i cittadini somali e non soltanto per pochi rappresentanti di clan. Si andrebbe ad eliminare la figura del primo ministro. E si andrebbe a regolare il sistema multipartitico, rendendo possibile la presenza di due sole formazioni e non di un numero illimitato di queste come adesso, nel tentativo di dare una stabilità.
La Somalia aveva già tenuto elezioni democratiche, dall’indipendenza fino al 1969. Nonostante le alte aspettative riposte dalla comunità internazionale nello stato e nelle sue possibilità di sviluppo, grazie alla sua forte omogeneità etnica, la breve esperienza democratica era stata caratterizzata da forti scontri a livello clanico. Questo aveva portato numerosi analisti a pensare che la società somala fosse intrinsecamente divisa e che non fosse possibile la creazione di un vero stato unitario.
In seguito, le elezioni erano state abolite sotto la dittatura di Siad Barre. Ma anche dopo la fine del regime e della successiva guerra civile, si era deciso di non ripristinare un sistema basato sul suffragio universale. Il conflitto somalo aveva infatti aggravato la frammentazione dello stato, portando ad una sua dissoluzione, e aveva rafforzato l’idea che la Somalia non potesse funzionare se non basandosi sul potere dei clan.
Negli anni, tuttavia, questa visione è stata contrastata da alcuni politologi, che hanno affermato come in passato i clan abbiano svolto un ruolo senza dubbio centrale per la popolazione somala, ma più che altro dal punto di vista sociale. “La maggioranza della popolazione somala conduce una vita nomade. L’appartenenza al clan è quindi come una carta d’identità, un modo per farsi riconoscere” spiegava ancora negli anni Novanta Axmed Ashkir Bootan, ex ministro dell’educazione somalo in seguito rifugiato in Italia. Diverso invece il discorso dal punto di vista politico. Bootan sottolineava come la politicizzazione dei clan fosse in realtà nient’altro che una conseguenza di precise scelte coloniali, volte a dividere la popolazione per rendere più complessa una lotta di liberazione somala.
Ancora oggi, l’importanza dei clan nella politica non sarebbe una conseguenza della divisione della società somala in gruppi in contrasto tra loro. Al contrario, la frammentazione della società sarebbe invece il frutto di giochi politici e lo strumento dei clan verrebbe usato come arma dalle diverse fazioni politiche, per mantenere il potere e escludere i gruppi rivali.
La riforma del sistema elettorale somalo rappresenta quindi un passo avanti fondamentale. Se dovesse avere successo, potrebbe portare infatti non tanto ad una reale unificazione della Somalia – una prospettiva lontana e che non rappresenta necessariamente la direzione verso cui lo stato deve andare – ma piuttosto ad una diminuzione della tensione tra i vari gruppi che compongono la popolazione.
L’Eritrea dopo trent’anni di indipendenza
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Sono passati trent’anni da quando, il 24 maggio del 1993, un referendum supportato dalle Nazioni Unite sanciva ufficialmente l’indipendenza dell’Eritrea dall’Etiopia. Da allora, poco è cambiato nel Paese che si affaccia sul mar Rosso e di quello che accade al suo interno si hanno sempre meno notizie.
L’Eritrea è infatti uno degli stati più chiusi e isolati al mondo, oltre che uno di quelli maggiormente autoritari. Dal momento dell’indipendenza, il governo è posto nelle mani di Isaias Afwerki, prima a capo del movimento di liberazione nazionale. Teoricamente, nel 1993 il potere gli era stato affidato in maniera soltanto transitoria, in attesa di elezioni: queste però non si sono mai tenute e negli anni Afwerki ha tenuto saldamente le redini del Paese, privando di fatto i cittadini eritrei di ogni diritto politico.
Oltre al voto, infatti, in Eritrea non sono previsti nemmeno i partiti di opposizione né alcuna forza che contrasti chi è al potere, mancano un’assemblea legislativa e dei limiti effettivi al potere presidenziale e dal 2001 è vietata la presenza di giornalisti internazionali. Non può quindi sorprendere che il Paese si classifichi al 174° posto su 180 nella classifica sulla libertà di stampa di Reporter senza frontiere e al 176° per quanto riguarda lo sviluppo umano, secondo l’indice redatto dall’ONU.
A comandare, ad Asmara, sono l’esecutivo e l’esercito: il secondo è infatti al centro della vita politica e fa dell’Eritrea un Paese estremamente militarizzato. A dimostrazione di questo, c’è il fatto che per la popolazione sia obbligatorio un servizio militare che è a tutti gli effetti permanente, con lo stato che decide quanto dura e se richiamare i riservisti. La leva obbligatoria è strettamente legata al lavoro forzato: le reclute sono impiegate per un tempo indefinito, senza diritti, spesso andando a fornire forza lavoro gratuita ad imprese che sono nelle mani degli uomini al potere. A causa di questo l’Eritrea è stata definita in questi giorni, insieme alla Corea del Nord, uno degli stati in cui si riscontrano maggiormente forme di schiavismo moderno. E, di conseguenza, lo stato conta tra quelli con la più alta percentuale di emigranti, il 12% della popolazione: sono 600mila i cittadini eritrei che vivono all’estero, dove hanno trovato rifugio dalla coscrizione obbligatoria e dalla repressione politica.
Buona parte della storia moderna eritrea può essere letta guardando al rapporto con l’Etiopia, il grande e ingombrante vicino. Di certo, questo vale per tutto il percorso che ha portato all’indipendenza. Dopo essere stata a lungo colonia italiana e aver vissuto un periodo sotto l’amministrazione inglese, l’Eritrea è diventata parte dell’Etiopia nel 1952 per decisione dell’ONU, con lo status di regione autonoma. L’assetto federale è durato però appena un decennio e nel 1962 le spinte imperiali etiopi hanno portato ad una completa annessione dell’Eritrea da parte di Addis Abeba. Da quel momento, ha preso vita nel Paese un forte movimento di liberazione: per lungo tempo questo si è opposto al potere centrale e nel 1991 è riuscito infine a conquistare il potere, in alleanza con il Fronte di liberazione popolare del Tigray, portando al referendum e all’indipendenza.
La relazione con l’Etiopia spiega anche la chiusura su sé stesso del Paese. Dopo il 1993, l’Eritrea è giunta rapidamente allo scontro con il governo tigrino dell’Etiopia, culminato con una guerra per questioni di confini tra il 1998 e il 2000. Con il Paese isolato a livello regionale e ancora alla ricerca di una stabilità, a pochi anni dall’indipendenza, Afwerki ha optato per una chiusura pressoché totale verso l’esterno e per una forte repressione all’interno, impedendo ogni progresso.
Qualcosa sembrava destinato a cambiare dopo il 2018, con l’avvento al potere di Abiy Ahmed ad Addis Abeba e con la conseguente normalizzazione dei rapporti tra i due stati, valsa al presidente etiope il premio Nobel. Ben presto, tuttavia, nella regione si è inserito un nuovo elemento di instabilità, ossia il conflitto tra il potere centrale etiope e la regione del Tigray, confinante con l’Eritrea. Invece che spingere Asmara ad una graduale apertura, quindi, la nuova alleanza con l’Etiopia ha facilitato il suo ingresso nella guerra, tanto più con la possibilità di rivalersi delle stesse forze tigrine con cui l’Eritrea si era scontrata negli scorsi decenni. In questi anni le truppe di Asmara sono perciò intervenute nel nord dell’Etiopia, rendendosi spesso protagoniste di violenze contro la popolazione e contro l’alto numero di rifugiati eritrei presenti nell’area.
Oggi più che mai, il destino del Paese è appeso agli eventi etiopi e a quello che accadrà in Tigray. In questi mesi il governo di Addis Abeba e i gruppi ribelli sembrano aver trovato un accordo di pace funzionante, che ha portato alla fine del conflitto. Tra i punti problematici c’è però proprio la presenza delle forze eritree, accusate dai tigrini e da numerosi osservatori internazionali di essersi ritirate soltanto parzialmente. I prossimi mesi saranno decisivi. In caso di una nuova e reale stabilità etiope, Asmara potrebbe decidere di accodarsi e di aprirsi gradualmente al mondo. Oppure, vista la riconciliazione di Addis Abeba con il Tigray, potrebbe anche optare per una nuova rottura dei rapporti con l’Etiopia, continuando il proprio isolamento.
Elezioni turche: il voto dei Turchi in Europa
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Visti i numeri significativi, il voto degli emigrati è sempre stato importante, da quando è stato introdotto nel 2012. In questa tornata, tuttavia, era naturale che la diaspora assumesse un ruolo cruciale, dato che era chiaro che le elezioni turche si sarebbero decise sulla base di dettagli. I sondaggi indicavano infatti una lotta serrata tra l’AKP di Recep Tayyip Erdoğan e la coalizione di opposizione guidata da Kemal Kiriçdaroğlu. Ed il Presidente uscente sperava che fossero proprio i turchi all’estero a regalargli la riconferma.
Non si trattava di speranze campate per aria, anzi. Alla fine Erdoğan non è riuscito ad ottenere una vittoria, per lo meno non al primo turno, ma di certo non può dare la colpa ai turchi che vivono nel resto d’Europa. In Germania, Paese in cui si concentrano 1,4 milioni di emigrati turchi con diritto di voto, Erdoğan ha ottenuto ben due terzi dei voti, un risultato nettamente migliore rispetto al 49% registrato in patria. In Francia, dove vive la seconda comunità turca per dimensioni, ha ottenuto percentuali di poco inferiori a quelle tedesche. E in Austria si è spinto fino al 72%.
Sarebbe sbagliato, va detto, parlare di una tendenza univoca. In altri stati a dominare è stata invece l’opposizione, che ha ottenuto percentuali schiaccianti nel Regno Unito, in Polonia e nei Paesi Baltici e che ha registrato buoni risultati anche in Svezia e nei Balcani. Ma si tratta di aree in cui la presenza turca è estremamente limitata, ed i cui risultati hanno quindi un’incidenza minima sul bilancio finale.
Se i risultati hanno certamente fatto notizia, non si può dire che abbiano colto di sorpresa gli analisti, né che si siano discostati da quelli del passato. In Germania, anzi, Erdoğan gode di un consenso stabile, a prescindere dal tipo di elezione, dai temi e da chi tenta di sfidarlo: aveva ottenuto percentuali molto vicine a quella di quest’anno anche in occasione del referendum costituzionale del 2017 e delle elezioni presidenziali dell’anno successivo.
Le ragioni del suo supporto sono infatti strutturali, non tanto legate ai temi e alle singole campagne elettorali, e derivano in primis dalle caratteristiche della diaspora negli stati come Germania, Austria e Francia, in cui la loro presenza è storica. Arrivati nel corso del boom economico europeo come forza lavoro, i turchi che vivono in questi stati sono emigrati dall’Anatolia profonda, un’area caratterizzata da un forte conservatorismo religioso e sociale. Nel corso dei decenni, questi gruppi hanno conosciuto un’integrazione e un’europeizzazione solo parziali: spesso, anzi, la marginalizzazione che hanno subito ha fatto sì che si sviluppassero come comunità chiuse. Ancora oggi, quindi, gli emigrati e i loro discendenti appoggiano l’idea di una Turchia religiosa, proposta da Erdoğan, molto più di quanto non siano attratti dalla visione maggiormente laica dell’opposizione.
Erdoğan non è però appoggiato soltanto per le caratteristiche culturali della diaspora, ma anche per quello che ha realizzato nei vent’anni in cui è stato al potere: nonostante la crisi attuale, infatti, da molti il Presidente uscente è visto come il fautore del miracolo economico turco. Anche in questo caso, l’appoggio è maggiore da parte degli emigrati arrivati in Europa nei tardi anni Sessanta, che venivano dalle aree più povere del Paese e hanno potuto osservare un netto miglioramento delle condizioni di vita di chi vive in Turchia.
Anche il nazionalismo gioca un ruolo di primo piano, nel garantire un appoggio a Erdoğan. L’immagine di una grande Turchia promossa dal Presidente ha molti sostenitori tra gli emigrati e tra le seconde generazioni: questi, che vivono in un contesto spesso sfavorevole e discriminatorio, sono infatti rassicurati ed in qualche modo vendicati da una patria forte e spesso in opposizione con l’Occidente.
La diaspora turca non è però immobile e negli ultimi anni sta conoscendo importanti trasformazioni. A partire dal fallito colpo di stato del 2016 e dalla conseguente repressione politica, dalla Turchia ha infatti iniziato ad uscire un numero sempre maggiore di oppositori e membri delle minoranze. Arrivati spesso come richiedenti asilo, questi si sono diretti verso gli stati con una maggiore presenza turca, ma anche e soprattutto verso il Nord Europa, andando a creare nuove comunità turche con caratteristiche totalmente diverse rispetto a quelle dei gruppi storici.
In Gran Bretagna, Svezia e Paesi Baltici, quindi, la diaspora turca è per lo più composta da persone con un’educazione di alto livello, politici di sinistra o ambientalisti, ma anche curdi e ciprioti del Nord. E questo si riflette anche sul voto, in cui i nazionalisti di Erdogan finiscono in minoranza.
Senegal: forte tensione politica in vista delle elezioni di febbraio 2024
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Il politico senegalese Ousmane Sonko, leader del partito Pastef e tra le figure di spicco dell’opposizione, è stato condannato per diffamazione e dovrà scontare sei mesi di libertà vigilata, oltre a pagare una multa di 200 milioni di franchi CFA, corrispondenti a circa 300mila euro. La sentenza è arrivata in appello: Sonko era stato condannato a due mesi in primo grado e a fare ricorso era stata la vittima della diffamazione, il ministro del Turismo Mame Mbaye Niang, insoddisfatto della pena troppo lieve. Come spiega Nigrizia, la vertenza era nata quando Sonko aveva accusato Niang di avere intascato una tangente di 45 milioni di euro, sulla base di un report che le autorità senegalesi hanno sempre considerato inaffidabile.
Se l’inasprimento della pena o l’entità della multa non sono di per sé particolarmente significativi, ciò che conta è che la condanna rischia di rendere Sonko non eleggibile per le prossime elezioni, che si terranno nel febbraio 2024. Il leader dell’opposizione deve ora aspettare che a pronunciarsi sia la Cassazione: se la sentenza dovesse essere confermata, nei prossimi mesi, Sonko decadrebbe dalle liste elettorali.
Il processo arriva in un momento politico non facile per il Senegal, in cui già esiste una forte tensione tra il governo di Macky Sall e le forze che gli si oppongono. Alla base di tutto c’è la presunta volontà dell’attuale presidente, in carica dal 2012, di ripresentarsi al voto del prossimo anno. Per Sall sarebbe il terzo mandato, in contrasto con il massimo di due stabilito dalla costituzione del Paese. Pur non esprimendo mai in maniera chiara la volontà di candidarsi, il presidente ha tuttavia insistito più volte sul fatto che le modifiche costituzionali del 2016 gli permetterebbero di contare i mandati in maniera differente e farsi quindi eleggere nuovamente.
Le forze di opposizione, che da circa un mese si sono unite nella piattaforma F24, rifiutano l’interpretazione di Sall e spingono con forza perché il capo di Stato non si presenti al voto. Inoltre, denunciano il deterioramento dei diritti politici avvenuto sotto la sua presidenza ed in particolare l’uso della giustizia per impedire la partecipazione alle elezioni di numerosi oppositori: tra questi Karim Wade, figlio dell’ex presidente, ma anche l’attuale sindaco di Dakar e il suo predecessore, Barthelemy Dias e Khalifa Sall.
In questo contesto, il processo non fa altro che esasperare le tensioni ed aumentare la distanza tra il governo e le altre forze politiche, ma anche tra quella parte di popolazione che sostiene Sall e quella che gli si oppone. I riflessi dello scontro politico sono evidenti anche su tutto l’assetto democratico senegalese: già prima che la sentenza venisse pronunciata, Ousmane Sonko aveva infatti dichiarato che non avrebbe collaborato con la giustizia e non avrebbe accettato la decisione, considerando il processo manovrato politicamente e atto ad impedirgli di sfidare Macky Sall.
La posizione di Sonko è stata duramente criticata dal governo, che lo ha accusato di volersi sottrarre alla giustizia. Ma è stata allo stesso tempo sostenuta dal suo schieramento: gli altri leader dell’opposizione hanno infatti chiamato la popolazione ad una mobilitazione generale, per protestare contro la sentenza e la possibile ineleggibilità di Sonko. Non sarebbe la prima volta che i cittadini critici verso l’attuale presidenza rispondono presente a questi appelli: in occasione delle fasi preliminari di un processo per stupro, che vede lo stesso Sonko imputato, c’erano state forti proteste e scontri con la polizia, che avevano portato anche a 12 morti. Tra l’altro, la prossima settimana è previsto l’inizio di questo processo, che potrebbe portare a una nuova condanna. E a nuovi scontri.
Nigeria: legge/escamotage per trattenere la fuga dei cervelli
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Da sempre, la Nigeria conta tra i Paesi più colpiti dal brain drain, la fuga di cervelli. Sin dall’indipendenza, soprattutto i giovani con un alto livello di istruzione hanno infatti lasciato lo stato per cercare migliori opportunità altrove, facilitati anche dal fatto di parlare una lingua franca come l’inglese. Negli ultimi anni, l’emigrazione di massa ha colpito in maniera particolare il settore medico, sia perché si tratta di un ambito in cui il personale formato è altamente richiesto, sia a causa delle condizioni disastrose del sistema sanitario nigeriano.
Ora, però, in Nigeria la politica ha deciso di affrontare con forza la questione, cercando di cambiare rotta e di rendere estremamente più difficile l’emigrazione per i giovani laureati. É di questi giorni infatti la notizia, riportata da Deutsche Welle e da numerosi giornali locali, per cui il Parlamento di Abuja starebbe valutando di introdurre un divieto per i dottori di lasciare il Paese per cinque anni, dopo aver concluso gli studi universitari.
In realtà, per fare sì che la legge sia efficace il Parlamento avrebbe pensato ad un escamotage: lo stesso titolo di laurea sarebbe posticipato e, invece che al termine degli studi, verrebbe dato soltanto al termine di un periodo di pratica di cinque anni, da effettuare all’interno dei confini nigeriani. In questo modo, il governo obbligherebbe di fatto i medici ad iniziare la propria carriera professionale in Nigeria. E, in mancanza di un diploma da esibire, gli impedirebbe di cercare lavoro altrove.
La proposta di legge interviene in un settore in cui esistono effettivamente delle problematiche. Secondo il Ministero della Salute nel 2019 in Nigeria c’era circa un medico ogni 5000 abitanti, quando la raccomandazione dell’Organizzazione mondiale della sanità sarebbe di averne almeno uno ogni 600, e negli ultimi anni il fenomeno è andato aggravandosi. Significativo è anche il fatto che oltre la metà dei medici registrati in Nigeria lavori all’estero. E che, tra quelli ancora nel Paese, circa sei su dieci affermino di considerare con forza l’opzione di una migrazione verso stati che garantiscono condizioni migliori.
Negli ultimi anni, l’esodo verso Stati Uniti, Regno Unito, Sudafrica, Arabia Saudita e Paesi del Golfo è diventato sempre più istituzionalizzato. Questi Paesi sono arrivati al punto di creare dei veri e propri centri di reclutamento in Nigeria, rendendo quindi minimo lo sforzo che i medici devono sostenere per poter poi emigrare. Oggi, nella capitale Abuja, esistono interi hotel dedicati allo svolgimento di test di medicina o di lingua, per selezionare le risorse migliori, a cui fornire un permesso di lavoro.
La classe politica nigeriana ha quindi descritto la misura come necessaria per motivi di interesse nazionale e ha parlato di un obbligo morale dei medici di rimanere in Nigeria. “Non vedo alcuna ragione per cui un dottore, dopo la laurea in Nigeria, dovrebbe andare in altri Paesi – ha detto il senatore Danjuma Laah – Dovrebbe invece rimanere nello stato a salvare le sue persone, a prescindere dalla situazione”.
Proprio la situazione della sanità nigeriana rappresenta tuttavia il maggior motivo che spinge i medici ad emigrare, sostengono questi, profondamente critici verso la misura del governo. A essere messa sotto accusa è la spesa minima che la Nigeria sostiene per il proprio sistema sanitario: appena il quattro% del PIL, corrispondente a sei dollari per persona. Un importo insufficiente, che si riflette sulla scarsa qualità delle strutture e su basse paghe, per i medici così come per gli altri operatori.
Ma è il principio stesso della proposta di legge che non piace ai medici: andando a limitare la mobilità, questa violerebbe infatti i loro diritti umani. Inoltre, la norma interverrebbe sugli effetti del fenomeno e non sulla radice: per risolvere il problema sarebbe necessario ripensare l’intera sanità nigeriana e migliorarne radicalmente il livello. Obbligando il personale medico a rimanere in Nigeria, infine, la norma creerebbe un ulteriore squilibrio tra i dottori e la classe politica: che, consapevole a propria volta delle carenze del sistema sanitario, continua invece a curarsi all’estero. “Perché? – si chiedono i medici – Non sono anche loro funzionari pubblici?”.
Etiopia: colloqui di pace tra Governo e Esercito di liberazione Oromo
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Il governo etiope e l’Esercito di liberazione Oromo, un gruppo ribelle meglio conosciuto con la sigla OLA, hanno iniziato dei colloqui di pace sull’isola di Zanzibar, in Tanzania. La notizia è stata annunciata da un portavoce della milizia ed è stata in seguito riportata da numerosi media internazionali, tra cui Reuters, Africanews e France24.
Il dialogo è mediato da Kenya e Norvegia e arriva in un momento favorevole per il governo di Addis Abeba, con il conflitto nella regione settentrionale del Tigray che sembra essere temporaneamente risolto, dopo due anni di scontri. I colloqui puntano perciò a risolvere un altro annoso problema per le istituzioni centrali, quello dell’insurrezione Oromo, e hanno lo scopo di trovare un compromesso tra i ribelli e l’esecutivo guidato da Abiy Ahmed Ali, così da far terminare le violenze.
Gli Oromo costituiscono il maggiore tra i numerosi gruppi etnici che compongono l’Etiopia: questo conta infatti circa 45 milioni di persone, oltre un terzo del totale. Da decenni però, nonostante la sua rilevanza in termini numerici, questa popolazione è discriminata e in gran parte esclusa dai ruoli di potere.
Si tratta di una tendenza che si è affermata in particolare in seguito al rovesciamento del regime di Mengistu e alla presa del potere da parte di una coalizione di forze ribelli, l’EPRDF. Si trattava infatti di un’alleanza in cui era molto forte il ruolo dei Tigrini, un gruppo etnico del Nord del Paese, mentre altri gruppi, tra cui gli Oromo, erano di fatto esclusi dai giochi politici.
La marginalizzazione di questa etnia si era mostrata con l’inclusione tra i gruppi terroristici dell’OLF, la milizia Oromo che aveva contribuito alla deposizione di Mengistu. Di conseguenza, nei vent’anni in cui l’Etiopia era stata guidata dal tigrino Meles Zenawi, l’OLF non aveva mai cessato di impegnarsi in una ribellione a bassa intensità e in una serie di atti di violenza.
Una svolta era sembrata arrivare con la nomina a primo ministro di Abiy Ahmed, nel 2018. Il nuovo leader si era presentato come riformatore e intenzionato a segnare uno stacco con il passato: nei suoi primi mesi di governo, le mosse di apertura e l’accordo di pace con l’Eritrea gli erano valsi addirittura l’assegnazione del premio Nobel per la pace.
Abiy Ahmed aveva suscitato grandi aspettative anche nella popolazione Oromo, per il fatto di fare parte del gruppo etnico e anche perché, appena giunto al potere, aveva rimosso l’OLF dalla lista delle milizie terroristiche e aveva dato il via a nuovi colloqui di pace. Questi si erano di fatto conclusi con un accordo nel 2018, che era stato però rifiutato da alcune fazioni più radicali: dall’OLF si era così staccato l’OLA, deciso a portare avanti la guerriglia.
Per un primo periodo, le azioni dell’Esercito di liberazione Oromo erano state circoscritte a poche aree, a causa della forza limitata del gruppo. In seguito, però, l’abbandono della spinta riformista da parte del primo ministro e il controverso omicidio del cantante pop Oromo Hachalu Hundessa, critico verso il governo, avevano portato a una nuova crescita del malcontento all’interno del gruppo etnico e quindi a un nuovo spazio di azione per l’OLA. A questo si era aggiunto un contesto favorevole: il conflitto in Tigray, sorto nel 2020, aveva portato a un vuoto di potere e aveva aiutato la milizia a godere di maggiore libertà di azione.
Ora, però, il contesto politico etiope è profondamente cambiato. Lo scorso novembre, il governo di Addis Abeba e il Fronte popolare di liberazione del Tigray (TPLF) hanno firmato un accordo di cessazione permanente delle ostilità, che sembra aver posto fine alla guerra che per due anni ha devastato il Paese. Da quel momento, sono infatti cessate le azioni di violenza ed è iniziata una normalizzazione dei rapporti tra la capitale e la regione settentrionale: nei giorni scorsi è stato ripristinato il collegamento stradale, mentre da alcuni mesi la compagnia aerea etiope ha ripreso a volare tra Addis Abeba e il Tigray.
L’Etiopia sembra perciò avviata verso una nuova fase di stabilità, per quanto questa sia precaria. E, risolta la questione tigrina, il governo ha ora forza a sufficienza per dedicarsi alle altre problematiche, tra cui appunto la violenza portata avanti dall’OLA. In questa situazione, era perciò soltanto questione di tempo prima che l’esecutivo avviasse nuovi colloqui di pace con la milizia: il loro successo, o il contrario, determinerà la stabilità del Paese nel prossimo futuro e il ruolo che l’Etiopia e Abiy Ahmed potranno ricoprire sullo scacchiere internazionale.
Il nucleare, vecchio e nuovo
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In Germania, è terminata l’era del nucleare. Dopo sessant’anni in cui il Paese ha prodotto una parte consistente della propria energia attraverso la fusione dell’atomo, sabato 15 aprile sono state spente le ultime tre centrali che ancora erano attive.
Si è così completato un percorso di rinuncia al nucleare durato oltre dieci anni e deciso dall’allora cancelliera Angela Merkel nel 2011, sull’onda dell’incidente di Fukushima. Da allora, Berlino ha proceduto ad un graduale spegnimento delle proprie centrali, rallentato soltanto dalla crisi in Ucraina. Il definitivo addio al nucleare era infatti fissato per la fine del 2022: le preoccupazioni per una possibile carenza di energia, legata alla guerra in Ucraina e alla rinuncia al gas russo, hanno però spinto il governo di Olaf Scholz a contare sugli ultimi reattori per tutto l’inverno.
Se il processo di uscita dal nucleare può dirsi ufficialmente terminato, lo stesso non si può invece dire delle polemiche politiche legate a questa decisione. Il centrodestra tedesco infatti, che pure era al governo quando Berlino ha deciso di chiudere le proprie centrali, negli ultimi anni non si è mai mostrato convinto della scelta. Questo ha causato non pochi problemi anche al governo attuale, che per mesi ha dovuto fare i conti con la riluttanza del partito liberale a completare un percorso di spegnimento che, tuttavia, era già irreversibile.
In questi giorni, invece, sono stati soprattutto i cristiano-democratici a criticare aspramente la rinuncia al nucleare. “Non ha nulla a che fare con la razionalità, è solo ideologia” ha dichiarato il leader della CDU, Friedrich Merz, parlando delle centrali tedesche come le più sicure al mondo. Il presidente della Baviera Markus Söder ha invece insistito sulla volontà di mantenere acceso il reattore presente nel suo stato, con delle parole subito bollate dal governo come irrealistiche promesse elettorali.
Quanto è accaduto in Germania in questi giorni ha inoltre dato l’occasione per riaccendere il dibattito sul nucleare a livello globale. Non sono pochi, infatti, i Paesi che stanno intraprendendo una strada opposta rispetto a quella imboccata dalla Germania: mentre gli ultimi reattori tedeschi si spegnevano, in Finlandia è stata inaugurata la più grande centrale d’Europa e in Giappone si cerca di rilanciare il settore nucleare, con difficoltà più logistiche che ideologiche. In generale, da più parti si insiste sull’idea che l’energia prodotta dall’atomo sia fondamentale per garantire una transizione ecologica e rappresenti un’opzione molto meno impattante rispetto all’uso del gas o del carbone. In più occasioni, però, il governo tedesco ha ribadito di essere convinto della propria scelta, sottolineando in particolare l’alto costo della produzione di energia nucleare e il fatto che le centrali attive nel Paese fossero ormai obsolete.
Finita l’attività delle centrali tedesche, inizia ora la lunga fase di smantellamento: si prevede che durerà circa trent’anni, a causa delle delicate operazioni di rimozione delle componenti radioattive. La prospettiva di una produzione di grandi quantità di rifiuti atomici riapre così la controversa questione di dove immagazzinare questi materiali.
Per i rifiuti prodotti dalle centrali nucleari, infatti, è necessario avere dei depositi geologici, luoghi pensati apposta per lo stoccaggio in sicurezza delle scorie. Si tratta di siti posti in profondità, preferibilmente circondati da strati di granito o di salgemma: devono infatti impedire ogni infiltrazione di acqua, per far sì che la radioattività non si diffonda nell’ambiente circostante. Inoltre, i depositi devono essere situati in aree estremamente stabili dal punto di vista geologico, in quanto sono destinati a contenere i rifiuti nucleari in condizioni di sicurezza per decine di migliaia di anni, fino a quando la radioattività non sarà decaduta.
In realtà però questi siti di stoccaggio al momento non esistono. La Finlandia è la sola ad averne quasi terminato uno, mentre Svezia e Francia hanno individuato il luogo in cui costruirlo. Gli altri Paesi continuano invece la loro ricerca: secondo die Zeit, in Germania la sola scelta del luogo richiederà almeno dieci anni, mentre per la costruzione si dovrà attendere almeno mezzo secolo. Nel frattempo, le scorie rimangono immagazzinate in luoghi provvisori, di solito presso le vecchie centrali.
Nuova tragedia mediterranea
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Non si fermano le morti in mare. Anzi, secondo le Nazioni Unite il periodo tra gennaio e marzo di quest’anno ha rappresentato il trimestre più mortale dal 2017, per i migranti che attraversano il Mediterraneo nel tentativo di raggiungere le coste europee. In soli tre mesi hanno perso la vita 441 persone, numeri decisamente più alti rispetto a quelli degli scorsi anni ed in linea con il biennio 2015-2016, gli anni della cosiddetta crisi migratoria. La cifra è inferiore soltanto al 2017, appunto, quando nel primo trimestre avevano perso la vita più di 700 persone.
I numeri non bastano ovviamente per raccontare la tragedia, ma ne fanno intuire le dimensioni. Il progetto Missing Migrants dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (IOM) riporta che dal 2014 siano stati 26mila i morti in mare. La gran parte di questi è deceduta a seguito di naufragi al largo delle coste tunisine e libiche. Molti però, mostra la cartina curata dal progetto, hanno perso la vita a poche miglia da Grecia, Spagna, Algeria e Marocco. L’Italia, poi, non è certo esclusa: il naufragio più letale e significativo di quest’anno è stato quello di Cutro, avvenuto nei pressi della costa calabra, in cui sono morti almeno 93 migranti.
L’aumento dei decessi in mare è almeno in parte dovuto alle mancanze nei soccorsi da parte degli stati. L’IOM riporta come la gran parte delle morti sia infatti da attribuire ai ritardi nelle operazioni di salvataggio o addirittura all’assenza di un intervento da parte dei singoli Paesi. “Gli stati hanno l’obbligo legale di salvare le vite in mare – osserva il direttore generale dell’IOM, Antonio Vitorino – Abbiamo bisogno di un coordinamento proattivo e guidato dagli stati, negli sforzi di ricerca e di salvataggio. Invitiamo gli stati a collaborare per ridurre le perdite di vite umane lungo le rotte migratorie, guidati dallo spirito di condivisione delle responsabilità e di solidarietà”. Vitorino si dice timoroso che i decessi in mare siano stati ormai normalizzati. E per far sì che questi diminuiscano, invita gli stati a cooperare con le organizzazioni non governative e a cessare la criminalizzazione e l’ostruzionismo verso quegli attori impegnati nel salvataggio dei migranti. “È intollerabile che nel Mediterraneo centrale persista una crisi umanitaria”.
I governi nazionali hanno certamente una responsabilità nel picco dei decessi, ma i numeri record sono infatti dovuti anche all’aumento esponenziale dei tentativi di attraversare il Mediterraneo, registrato nei primi mesi di quest’anno. Tra gennaio e marzo sarebbero state circa 28 mila le persone partite dal Nord Africa e dirette verso l’Europa, secondo le stime di Frontex: una cifra tre volte superiore rispetto a quella registrata lo scorso anno nello stesso periodo.
La crescita del fenomeno migratorio può essere almeno in parte spiegata dalla situazione interna tunisina. Negli ultimi mesi, sotto la presidenza di Kais Saied, il Paese nordafricano ha vissuto una veloce regressione autoritaria ed è stato fortemente colpito da una crisi economica. In questo contesto, sono peggiorate le già precarie condizioni di vita delle migliaia di persone subsahariane che vivono qui. Il culmine è stato toccato a fine febbraio, con le dichiarazioni razziste di Saied che ha invocato misure urgenti contro i migranti presenti nel Paese. Ma “aggressioni, abusi ed episodi razzisti risalgono a ben prima del discorso xenofobo del Presidente della Repubblica”, spiega il giornalista ed esperto della politica tunisina Matteo Garavoglia.
Le situazione sempre più tesa e il peggioramento delle proprie condizioni di vita hanno spinto molti dei migranti subsahariani presenti in Tunisia a lasciare il Paese. Alcuni di loro si sono diretti verso sud, cercando di tornare ai propri territori di origine. Molti altri, invece, hanno deciso di tentare la rotta mediterranea, come testimoniano i numeri degli arrivi, ma anche le dichiarazioni delle autorità tunisine: la Guarda nazionale ha infatti sottolineato di aver fermato circa 14 mila persone che volevano imbarcarsi verso le coste europee, nei primi mesi del 2023.
Tunisia: si comincia a razionare l’acqua
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Durante le ore notturne, in Tunisia non sarà più garantito l’accesso all’acqua potabile per uso domestico. Lo ha annunciato venerdì scorso la compagnia statale SONEDE, che si occupa della distribuzione delle risorse idriche, chiarendo che il taglio ha effetto immediato ed avverrà ogni notte dalle 21 alle 4. Il direttore del gruppo, Mosbah Helali, ha spiegato che la misura consiste in una risposta alla crisi idrica che il Paese sta vivendo, a causa di una forte siccità arrivata ormai al suo quarto anno consecutivo. Nel motivare la scelta, ha detto inoltre che gli effetti che la Tunisia sta subendo sono senza precedenti e legati al cambiamento climatico, ed ha quindi chiesto alla popolazione di comprendere la situazione.
Il razionamento idrico arriva dopo che il governo di Tunisi aveva già preso alcune misure, per provare a rispondere alla siccità. Il Ministero dell’Agricoltura aveva infatti dichiarato che non sarebbe stato più permesso l’uso dell’acqua per lavare le automobili, pulire le strade e irrigare gli spazi verdi, almeno fino alla fine dell’estate. Sembra inoltre che lo stesso governo avesse iniziato a razionare l’acqua durante la notte, senza però dichiararlo: molti cittadini hanno infatti lamentato l’assenza di acqua nelle scorse settimane, in alcuni quartieri della capitale.
La gravità della crisi tunisina è resa evidente dallo stato delle riserve idriche nel Paese: il livello di riempimento delle dighe si attesta in media al 30% e mancano quindi un miliardo di metri cubi di acqua, ha annunciato l’alto funzionario del Ministero dell’agricoltura Hamadi Habib. Particolarmente problematica la situazione presso la diga di Sidi Salem, la più grande della Tunisia, dove il livello di riempimento arriva appena al 17%. Come se non bastasse, la situazione è aggravata dal cattivo stato del sistema idrico: si stima infatti una perdita di circa un terzo dell’acqua trasportata.
La decisione di interrompere il rifornimento idrico durante la notte potrebbe aumentare il malcontento, già importante tra i cittadini tunisini. In primo luogo, per il momento in cui questa arriva: la maggior parte della popolazione è infatti musulmana e sta vivendo in queste settimane il digiuno legato al mese di Ramadan, che vieta il consumo di acqua e alimenti dall’alba al tramonto. In questo contesto, il razionamento coincide con le ore in cui l’acqua tende ad essere più usata. A Tunisi, infatti, l’ultimo pasto prima della giornata deve terminare poco dopo le 4 del mattino, orario fino al quale dura il blocco del rifornimento idrico. Inoltre, durante il Ramadan in molti effettuano un pasto durante la notte, che ora diventa però estremamente complicato a causa della mancanza d’acqua per bere e cucinare.
La misura del governo si inserisce inoltre in un clima già teso, a causa della lunga crisi economica, politica e sociale che la Tunisia sta attraversando. Le interruzioni del rifornimento d’acqua, per quanto basate su una siccità che nessuno nega, potrebbero causare quindi un nuovo picco del malcontento e portare a nuove ondate di proteste, in un Paese già in enorme difficoltà.
Come se non bastasse, le autorità hanno lanciato l’allarme per la situazione dell’agricoltura, a sua volta fortemente colpita dalla crisi idrica. La siccità, unita ai nuovi divieti di irrigazione, ha fatto infatti crollare le aspettative di produzione del Paese per il 2023: il governo si aspetta un raccolto di grano tra le 200 e le 250 mila tonnellate, meno di un terzo rispetto alle 750 mila dell’anno passato. Tunisi potrebbe essere quindi costretta a ricorrere in maniera ancora maggiore alle importazioni, portando ad un ulteriore aumento dei prezzi e ad un aggravarsi della crisi alimentare.
Quella che viene presentata come una logica conseguenza del cambiamento climatico e della siccità deriva però anche da precise scelte politiche. Se la Tunisia è costretta ad importare cereali, questo è dovuto in primo luogo alla scelta di insistere sulle monocolture, spiegava un anno fa su Valigia Blu Arianna Poletti, giornalista basata nel Paese. “Olio d’oliva, pomodori, arance, datteri e quella frutta e verdura che compriamo fuori stagione lasciano regolarmente i porti tunisini per raggiungere quelli europei” sottolineava Poletti, spiegando come la minima parte di questi prodotti siano destinati al mercato interno. Mentre la coltivazione di grano per il consumo tunisino viene lasciato ai piccoli agricoltori locali, il cui numero sta calando inesorabilmente.
Ghana, Zambia, Tanzania: il tour africano di Kamala Harris
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Ghana, Tanzania e Zambia. Sono queste le tappe del tour africano di Kamala Harris, impegnata in questi giorni in una visita settimanale per rafforzare le relazioni tra gli Stati Uniti e il continente. La vice-presidente americana è arrivata domenica 26 marzo in Ghana, fermandosi nel Paese alcuni giorni e incontrando il Presidente Nana Akufo-Addo. Ora è in Tanzania, mentre la visita si concluderà in Zambia: in entrambi gli stati sono in programma incontri con i rispettivi presidenti, Samia Suluhu Hassan e Hakainde Hichilema, ma anche con giovani leader, imprese locali e rappresentanti della società civile.
Gli scopi del viaggio sono molteplici: tra tutti, però, spicca la volontà di Washington di ritagliarsi nuovamente un ruolo di primo piano in Africa. Negli ultimi anni, infatti, la presidenza Trump aveva mostrato un sostanziale disinteresse per quest’area, rappresentato anche dal fatto che mai, nel corso del suo mandato, il tycoon si era recato in visita di stato nel continente africano. Le politiche seguite da Donald Trump hanno reso gli Stati Uniti un partner meno affidabile per gli stati africani, dal punto di vista della cooperazione allo sviluppo, e hanno anche portato ad una contrazione dei loro scambi commerciali.
Mentre gli Stati Uniti si ritiravano dall’Africa, però, il resto del mondo non è certo rimasto a guardare. In particolare, nell’ultimo decennio c’è stata una crescita esponenziale della presenza di Cina e Russia nel continente. Da un lato, Pechino ha moltiplicato i propri investimenti in Africa, nel quadro della Belt and Road Initiative: nel 2018 questi hanno toccato un picco di 5,4 miliardi di dollari, per poi contrarsi parzialmente con la pandemia, ma rimanendo sempre a livelli più che significativi. Dall’altro, Mosca è diventata una forza cruciale, soprattutto a livello militare. Oltre ad essere tra i principali fornitori di armamenti per numerosi stati, la Russia è sempre più impegnata in missioni militari sul suolo africano: in Mali e in Repubblica Centrafricana, soprattutto, l’insofferenza verso la Francia e le altre potenze occidentali ha infatti portato questi Paesi ad appoggiarsi ai mercenari del gruppo Wagner.
In questo contesto, la visita di Kamala Harris non è certo una mossa isolata e fa parte di una strategia più strutturata del governo americano: il segretario di stato Antony Blinken si era recato in Niger e Etiopia in questo mese, mentre la first lady Jill Biden aveva visitato Namibia e Kenya a febbraio. Anche la scelta dei Paesi non è casuale: sia il Ghana che lo Zambia sono infatti colpiti da una profonda crisi economica ed è nell’interesse statunitense che la affrontino chiedendo aiuto a Washington, piuttosto che rafforzando i legami con Pechino.
Dopo anni di assenza, però, non è scontato che alcune visite siano sufficienti a plasmare le scelte politiche degli stati africani, anzi. “Le nazioni africane non sono naive e gli Stati Uniti hanno una lunga storia di intromissione negli affari del continente – fa notare Shihab Rattansi, corrispondente per Al Jazeera da Washington – Gli Stati Uniti stanno dicendo: fa parte del passato, ora siamo partner e possiamo avere successo. Ma quello che si sente da parte africana è: non vogliamo scegliere tra voi, la Cina e la Russia, vogliamo fare quello che sentiamo sia nel nostro miglior interesse”.
La visita di Harris non si limita però a cercare un miglioramento delle relazioni soltanto a livello governativo. Come spiega Nigrizia, tra gli scopi della vice-presidente c’è anche quello di rafforzare i legami tra la diaspora africana e il continente d’origine. Negli Stati Uniti, infatti, sono 47 milioni le persone afroamericane: un numero enorme, dovuto alla tratta schiavista. Durante la sua permanenza in Ghana, Harris ha voluto visitare il Castello degli Schiavi di Cape Coast, luogo dove le vittime della tratta venivano tenute prima della traversata dell’Atlantico. Un gesto dall’alto valore simbolico, ma anche politico: Harris, così come Biden, è infatti consapevole che una maggiore connessione tra l’Africa e la comunità afroamericana possa rappresentare un punto di partenza importante, per ridare un ruolo a Washington nel continente.
Il Rapporto globale UNODC sulla cocaina 2023
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La pandemia sembrava destinata ad avere un impatto importante sul mercato delle sostanze stupefacenti, ed in particolare su quello della cocaina. Da un lato, infatti, le restrizioni applicate dai governi con l’obiettivo di limitare gli effetti del virus avevano portato a maggiori controlli alle frontiere e a volte ad una vera e propria chiusura dei confini, rendendo più difficoltoso il traffico illecito di sostanze. Dall’altro, anche l’offerta era stata colpita: molti stati avevano chiuso bar e discoteche, luoghi spesso identificati con il consumo di stupefacenti.
In realtà, nemmeno il Covid-19 è riuscito a lasciare un segno nel lungo periodo in questo settore e ad interrompere la crescita impetuosa che la cocaina ha conosciuto negli ultimi decenni. Lo afferma il Rapporto globale sulla cocaina 2023, pubblicato in questi giorni dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (UNODC). Nel documento, si osserva come nel 2020 la produzione globale di cocaina abbia toccato le duemila tonnellate, più del doppio delle quantità registrate un decennio fa.
L’UNODC sottolinea come l’aumento della produzione osservato negli ultimi anni possa essere almeno in parte riconducibile al cambiamento delle condizioni politiche in Colombia, uno degli stati al centro dei traffici illeciti. Qui, fino al 2016, la coltivazione e il commercio di coca erano controllati da pochi potenti attori. In seguito, però, la situazione è cambiata radicalmente dopo che il governo di Bogotà e il gruppo armato delle FARC hanno siglato la fine delle ostilità. Il compromesso ha infatti portato ad una frammentazione dei cartelli che avevano il controllo dei traffici e al successivo coinvolgimento di attori esterni, in particolare gruppi criminali provenienti dal Messico e dai Balcani.
Allo stesso tempo, negli ultimi anni si è assistito ad un cambiamento significativo delle rotte su cui la cocaina si muove. Se la Colombia continua a ricoprire una posizione dominante per quanto riguarda le partite di sostanza stupefacente dirette verso gli Stati Uniti, così non è per quelle che sono invece destinate al mercato europeo. In questo caso, la sostanza prodotta in Bolivia e Perù tende sempre più a passare attraverso il Paraguay e lungo il fiume Paranà, per poi arrivare in Brasile e da lì essere imbarcata per attraversare l’Oceano Atlantico. Anche i punti di arrivo non sono rimasti gli stessi: la Spagna, considerato l’approdo principale fino a poco tempo fa, è stata sostituita dai grandi porti di Belgio e Olanda.
L’ufficio delle Nazioni Unite indica anche un coinvolgimento sempre maggiore del continente africano, ed in particolare dell’Africa occidentale e centrale, che si sono affermate come aree di transito per la cocaina diretta verso l’Europa. Il rapporto spiega infine come anche la guerra in Ucraina abbia avuto un impatto non trascurabile. L’invasione russa del Paese avrebbe reso infatti più complicato un passaggio degli stupefacenti dai porti ucraini sul Mar Nero e attraverso il territorio del Paese, per poi entrare nell’Unione Europea. I traffici si sarebbero quindi spostati a Bulgaria e Romania, che a loro volta hanno uno sbocco sul mare.
A modificarsi non sono state però soltanto le rotte, ma anche le modalità. Le sostanze stupefacenti, tra cui la cocaina, non vengono ormai quasi più trasportate su voli passeggeri, dai cosiddetti corrieri della droga. I gruppi criminali preferiscono invece l’uso dei servizi postali, con l’invio di quantità di sostanza relativamente limitate. La tendenza viene in realtà osservata già da tempo: la pandemia, con le conseguenti restrizioni sui voli turistici, non ha fatto altro che accelerare un processo già in corso.
Malawi: devastazione dopo il passaggio di Freddy, tempesta senza precedenti
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Mentre le precipitazioni sono terminate e sembrano aver lasciato spazio al bel tempo, il Presidente del Malawi Lazarus Chakwera ha lanciato una richiesta d’aiuto internazionale per i danni subiti dal Paese a causa del ciclone Freddy, che ha colpito in queste settimane l’Africa sud-orientale. “Il Malawi è in uno stato disastroso. Quello che il ciclone ha fatto, è stato metterci in ginocchio mentre stavamo cercando di ricostruire, a causa di tragedie passate”.
L’evento meteorologico aveva infatti già colpito il Paese nelle scorse settimane. Dopo essersi formato a Nord dell’Australia, il ciclone aveva attraversato l’Oceano Indiano, per poi colpire Madagascar, Mozambico e appunto il Malawi a fine febbraio. Invece di esaurirsi, si era poi spostato sopra l’Oceano, caricandosi di nuove energie, e negli scorsi giorni è tornato a devastare il Paese, con forza ancora maggiore. Al momento, nel solo Malawi si contano 225 morti, oltre a centinaia di feriti e decine di migliaia di persone costrette ad abbandonare le proprie case. Ma anche gli stati vicini devono fare i conti con le conseguenze dell’evento: in Mozambico, circa 800 persone hanno estremo bisogno di cibo, dopo che la tempesta ha tagliato tutte le vie di comunicazione e le ha isolate completamente dalle aree circostanti.
La Ministra della salute, Khumbize Kandodo Chiponda, ha affermato ai microfoni della BBC che questa è stata la peggior catastrofe naturale vissuta dal Paese in tempi recenti. “Il ciclone Freddy ci ha colpiti dove non ci aspettavamo. Come stato, siamo storicamente abituati ad essere interessati da cicloni tropicali, ma questo è stato completamente diverso”. La politica ha anche spiegato quanto i soccorsi siano difficili, per il fatto che l’acqua ha distrutto strade e ponti e che alcune aree, dove si sa che ci sono persone che hanno bisogno di aiuto, al momento non sono raggiungibili.
Il disastro naturale si inserisce poi in un contesto estremamente fragile. Il Malawi è uno stato piccolo ed estremamente povero, che si posiziona al 169° posto su 191 stati per indice di sviluppo umano. Da un anno, inoltre, il Paese è colpito dalla peggiore epidemia di colera mai registrata, con oltre 40mila casi e 1300 morti a causa della malattia. Il colera si diffonde a causa delle scarse condizioni igieniche e del consumo di acqua contaminata. Esiste perciò il timore che il ciclone porti ad un ulteriore peggioramento della situazione sanitaria.
Così come la Ministra, gli esperti sembrano concordi nell’affermare che il ciclone Freddy è stato un evento meteorologico senza precedenti. La NASA ha infatti dichiarato che si è trattato della tempesta con la più alta quantità di energia mai registrata. E anche la durata rappresenta un record: prima di essere declassificato a tempesta tropicale moderata domenica 12 marzo, il ciclone si era protratto per 35 giorni, durante i quali aveva percorso oltre 10mila chilometri. Addirittura, Le Monde sottolinea come non sia da escludere che questo possa tornare una terza volta sul continente africano, sebbene l’ipotesi sia considerata improbabile.
Sempre sulla testata francese, il direttore di Météo France per l’Oceano Indiano Emmanuel Cloppet spiega come quanto accaduto potrebbe essere l’anticipazione di quanto succederà di qui a breve, a causa del cambiamento climatico. “Non sappiamo se ci saranno più cicloni in futuro, ma c’è un forte consenso sul fatto che saranno più intensi, se non molto intensi, a causa degli effetti combinati dell’aumento delle temperature dell’acqua e dell’aria e dell’espansione delle zone climatiche tropicali”.
Europa Orientale: mafie, disboscamento e taglio illegale di legname
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Quando si parla di disboscamento e di taglio illegale di legname, il discorso tende a concentrarsi su aree molto distanti da noi. L’Amazzonia, in primis, da sempre colpita da questo fenomeno, ma anche il Myanmar, che ha visto un peggioramento dei traffici illeciti di legno pregiato negli ultimi anni. In pochi però nominano l’Europa orientale, dove queste dinamiche, seppur in maniera diversa, sono estremamente diffuse.
Lo ha fatto un’inchiesta condotta da 40 media provenienti da 27 stati diversi: tra loro le testate italiane IRPI Media e L’Espresso, le tedesche Der Spiegel e Süddeutsche Zeitung, le francesi Le Monde e Radio France, guidate dall’International Consortium of Investigative Journalists (ICIJ), una rete globale che comprende 280 giornalisti investigativi. Il loro lavoro verrà pubblicato in maniera completa nel prossimo periodo. Una parte di questo, tuttavia, è già stata anticipata sui giornali tedeschi: si concentra sulla Romania, uno stato fortemente colpito dal commercio illegale di legname.
In Romania si trovano gran parte delle foreste vergini europee, fondamentali per immagazzinare ingenti quantità di anidride carbonica e ricoprire quindi un ruolo cruciale nella lotta al cambiamento climatico. Insieme alle foreste, però, nello stato si trovano anche numerosi gruppi mafiosi, che sfruttano proprio il legname per ottenere enormi guadagni.
L’inchiesta stima infatti che in Romania “spariscano” ogni anno 20 milioni di metri cubi di legname: per la maggior parte sono alberi che vengono tagliati illegalmente, senza che esistano i permessi. Per comprendere quanto i numeri siano significativi, è sufficiente pensare che si tratta della stessa quantità di legno che viene prodotta nel Paese in maniera legale e che la Germania, caratterizzata da una superficie molto maggiore e dalla presenza di ampie aree boschive, ricava mediamente 60 milioni di metri cubi di legname all’anno.
Gli alberi tagliati in Romania senza permesso vengono poi ceduti ad altre imprese, per lo più europee, che si occupano della loro lavorazione. Il commercio garantisce un guadagno per i gruppi locali, non a caso l’estrazione illegale di legname rappresenta una delle attività maggiormente redditizie per le mafie a livello globale, accanto al traffico di droga e di armi. Anche le aziende estere sono però avvantaggiate: in cambio della collaborazione con i gruppi criminali, queste mantengono infatti un importante canale di approvvigionamento di materie prime, presumibilmente comprate a prezzi più bassi rispetto a quelli del legame certificato.
Der Spiegel segnala il coinvolgimento in particolare di due imprese austriache, Egger e HS Timber, leader nella lavorazione del legno. Ma sarebbe errato pensare che l’Italia non sia coinvolta: il nostro Paese è tra i maggiori importatori di legname, anche a causa di uno scarso sfruttamento delle risorse presenti sul territorio. Ogni anno ne compra circa dieci milioni di metri cubi, in gran parte dalla Romania e da altri Paesi dove la produzione è poco trasparente, come Albania, Bosnia e Myanmar.
Il problema dello sfruttamento illegale di legname tocca anche le politiche energetiche dell’Unione Europea. Nella Direttiva sulle energie rinnovabili, che mira a ridurre le emissioni e la dipendenza da gas e petrolio, l’Ue ha infatti inserito la combustione di biomasse tra le fonti green. Tra le altre cose, le biomasse comprendono anche i pellet, prodotti dagli scarti di legname e, sempre più spesso, con l’utilizzo del legname vero e proprio.
L’inserimento di questa materia prima tra le fonti rinnovabili era già controversa, in quanto la sua combustione genera elevate quantità di anidride carbonica. Le inchieste sullo sfruttamento illegale di legname da parte della criminalità organizzata pongono ora un ulteriore problema: l’alta richiesta di pellet e legno per la produzione di energia può portare alla distruzione di fragili ecosistemi, con gravi conseguenze ambientali ma anche sociali, come sta accadendo in Romania. Qui si può già notare un aumento delle valanghe di fango, come osservato di recente dal fotografo Antonio Faccilongo a RaiCultura. “Eliminando intere parti di foresta e essendo la maggior parte dei villaggi nelle valli, queste vengono costantemente inondate di fango, con danni ingentissimi agli insediamenti umani, al bestiame e alle coltivazioni. E, soprattutto, con diverse vittime”.
Tunisia: l’autoritarismo xenofobo di Saied
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Si sta facendo sempre più complicata la vita in Tunisia, per le persone di pelle nera e di origine subsahariana presenti nel Paese. Le condizioni di queste fasce della popolazione si erano già aggravate, nel corso delle ultime settimane. Ma martedì 21 febbraio, un discorso apertamente razzista del Presidente tunisino Kais Saied ha fatto sì che la situazione degenerasse e che si venisse a creare un vero e proprio clima di paura. Ora i migranti denunciano una caccia all’uomo e in molti cercano di trovare rifugio fuori dal Paese.
Nell’ultimo periodo, la retorica anti migranti era diventata più forte in Tunisia con l’affermazione del Partito Nazionalista Tunisino, una piccola formazione apertamente xenofoba. Anche le istituzioni stesse, però, hanno contribuito a far aumentare il senso di insicurezza all’interno della comunità nera che vive nel Paese. Nelle scorse settimane sono stati infatti arrestati circa 400 migranti, la maggior parte dei quali sono stati in seguito rilasciati.
Come detto, il punto di svolta è tuttavia arrivato con un discorso del Presidente, diffuso via comunicato. In questo, Saied ha affermato come i migranti subsahariani si siano resi colpevoli di violenze, crimini e atti inaccettabili, e facciano parte di un disegno più ampio. “Esiste un piano criminale per cambiare la composizione demografica della Tunisia” ha dichiarato, spiegando come esista “una volontà di fare della Tunisia solamente un Paese africano e non un membro del mondo arabo e islamico”. Saied ha infine insistito sulla necessità di mettere fine a questa immigrazione.
Le parole del Presidente tunisino sono state osservate con preoccupazione nel continente. L’Unione africana ha reagito con durezza, condannando il discorso e invitando le autorità del Paese ad “astenersi da discorsi d’odio e razziali, che potrebbero portare un danno alle persone, dando invece priorità alla loro sicurezza e ai diritti umani”. Diverse, invece, le risposte che sono arrivate dall’Europa. Il ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani ha assicurato che “il Governo italiano è in prima linea nel sostenere la Tunisia nelle attività di controllo delle frontiere, nella lotta al traffico di esseri umani”. L’ex candidato di estrema destra alla Presidenza francese, il sostenitore della tesi della “grande sostituzione” Éric Zemmour, si è subito allineato alle parole di Saied.
Nonostante le voci di questi giorni si siano spinte ad affermare che i migranti subsahariani in Tunisia siano addirittura 2 milioni, la associazioni locali concordano nel dire che il numero sia estremamente più basso, stimabile tra le 30 e le 50 mila persone. La Tunisia è senza dubbio un Paese di transito, ma non solo: molte persone provenienti dal resto del continente africano vi vivono da anni, come studenti o avendo un impiego. Per quanto riguarda i lavoratori, questi sono spesso esposti allo sfruttamento, a causa della loro situazione precaria.
Ora, le dichiarazioni del Presidente e il clima di violenza che ne è seguito sembrano pensati per spingere le persone di origine subsahariana a lasciare lo stato. In particolare, le ondate di arresti mostrerebbero la volontà di non tollerare più la presenza di migranti senza documenti regolari. Tuttavia, alle autorità mancano i mezzi per rendere effettive queste scelte, ha spiegato la giornalista Arianna Poletti a Radio3 Mondo: “Non ci sono accordi bilaterali tra la Tunisia e i Paesi di provenienza, per organizzare delle eventuali espulsioni”.
Dopo la controversa presa di posizione del Presidente, però, molti dei migranti subsahariani presenti in Tunisia hanno deciso di muoversi autonomamente e di provare ad abbandonare il Paese. “La possibilità di richiedere il ritorno volontario dalla Tunisia esiste già, si passa attraverso l’Organizzazione internazionale per le migrazioni” spiega Arianna Poletti. Ma in queste settimane, l’ente fatica a gestire tutte le richieste: fuori dalla sua sede si è perciò formata una tendopoli per chi è in attesa di una risposta, e anche le ambasciate sono prese d’assalto da chi vuole tornare nel proprio luogo d’origine.
La Nigeria al voto per eleggere il nuovo Presidente
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Domenica 26 febbraio si vota in Nigeria, per eleggere il nuovo presidente e per rinnovare i due rami dell’Assemblea nazionale. Si tratta di un appuntamento storico per il Paese, osservato con attenzione dal resto del mondo. Con i suoi 218 milioni di abitanti, infatti, la Nigeria rappresenta un gigante geopolitico e l’attore principale dell’Africa occidentale. Ma è anche la maggiore democrazia del continente, nonché una delle più grandi a livello globale. Le elezioni saranno quindi fondamentali, per testare lo stato di salute del sistema democratico nel Paese.
Il voto segnerà anche la fine della presidenza di Muhammadu Buhari, percepita dalla gran parte degli osservatori in questi anni come debole. Originario dello stato di Katsina, nel nordovest del Paese, Buhari era entrato in carica nel 2015, promettendo di risollevare le sorti economiche della Nigeria e di sconfiggere l’organizzazione jihadista Boko Haram, attiva nelle aree settentrionali. Non è riuscito però in nulla di tutto ciò. I movimenti islamisti continuano ad essere presenti e a contribuire alla crescita dell’insicurezza nel Paese, causata anche dai frequenti conflitti tra pastori e agricoltori per l’utilizzo delle terre e dalla presenza di gruppi dediti alla razzia di bestiame, come vi avevamo descritto nelle scorse settimane.
Per quanto riguarda l’economia, invece, durante gli anni di presidenza Buhari la Nigeria ha conosciuto una crescita quasi nulla, anche a causa dei minori introiti garantiti dall’esportazione di petrolio — prima perché i prezzi erano bassi, poi perché il Paese ha tagliato la produzione di idrocarburi. Nel frattempo, è aumentata la disoccupazione — che oggi colpisce circa un cittadino nigeriano su tre — e si è di conseguenza diffusa ulteriormente la povertà. A nulla, poi, sono servite le manovre del governo, che ha svalutato la moneta locale tentando di risolvere la crisi, ma ha invece reso la situazione ancora più drammatica.
Tra i pochi aspetti positivi, c’è il fatto che il presidente uscente non ha mai tentato di indebolire o contrastare il funzionamento democratico del Paese. In particolare, a differenza di altri leader africani, Buhari ha accettato il limite dei due mandati imposto dalla costituzione nigeriana e non si presenterà a quella che è la settima elezione presidenziale, da quando lo stato è tornato alla democrazia nel 1999.
Per succedergli, si presenteranno domenica ben 18 candidati alla presidenza. Due di questi sono alla guida dei partiti tradizionali, che in questi vent’anni si sono alternati tra governo e opposizione. L’All Progressives Congress (APC), formazione di cui fa parte anche Buhari, verrà rappresentato da Bola Tinobu: musulmano di etnia yoruba, proveniente dalla Nigeria sud-occidentale e governatore dello stato di Lagos negli anni 2000, questi rappresenta la continuità con il presidente uscente. A lui si oppone Atiku Abubakar, leader del Peoples Democratic Party (PDP) e uscito sconfitto dalle urne nel 2019. Anche lui musulmano, Abubakar viene però dal nord del Paese ed ha già ricoperto la carica di vicepresidente, tra il 1999 e il 2007.
La corsa non si limita però soltanto a questi due candidati: per la prima volta, infatti, il leader di un terzo partito sembra avere consistenti probabilità di vittoria. Si tratta di Peter Gregor Obi del Labour Party (LP), che in questi mesi ha saputo conquistare l’appoggio di milioni di nigeriani. Obi è sostenuto in particolare da molti cristiani, che vedono in lui il solo candidato di riferimento, ma anche da una larga fetta dei giovani, attratti dal suo modo di fare sobrio, lontano da quello di gran parte dei politici che dominano la scena politica nel continente. La CNN riporta come Obi voli in classe economy, si porti da solo i propri bagagli e si sia rifiutato di circondarsi di un enorme squadra di collaboratori.
Per vincere, un candidato deve ottenere la maggioranza relativa ed almeno il 25% dei consensi in 24 dei 36 stati in cui la Nigeria si divide. Finora questo è sempre successo: questa volta, però, la presenza di un terzo candidato credibile potrebbe obbligare a ricorrere al secondo turno, con un ballottaggio. Il risultato è incerto: molto dipenderà dall’affluenza e dalla capacità dei singoli candidati di ottenere consensi anche all’esterno delle loro roccaforti elettorali.
L’esito delle elezioni potrebbe infine portare a superare il principio della zonizzazione. In un articolo per Ispi, Giovanni Carbone spiega come questo implichi “l’alternanza di presidenti provenienti dal nord a maggioranza musulmana e presidenti del sud a maggioranza cristiana”. Si tratta di una regola non scritta, che fino ad ora è stata tendenzialmente rispettata. Ma, a meno che non sia Obi a risultare vincitore nel voto di domenica, il principio è destinato questa volta ad essere violato: pur venendo dal sud, infatti, Tinobu è musulmano come Buhari, mentre Abubakar condivide sia la religione che la provenienza con il presidente uscente. Nel caso questa eventualità si realizzasse, sarebbe facile prevedere una crescita del risentimento tra i cristiani e tra le popolazioni che abitano le regioni meridionali. Esiste un precedente non positivo, sottolinea Carbone: “L’interruzione imprevista di questa regola non scritta, tra il 2010 e il 2011, contribuì a un’esplosione della violenza politica”.
A Berlino tornano i conservatori
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Domenica 12 febbraio si è votato, a Berlino, per ripetere le elezioni che si erano tenute nel settembre del 2021, in concomitanza con quelle nazionali, ed erano state caratterizzate da irregolarità. Si è trattato a tutti gli effetti di un voto regionale, volto ad eleggere un parlamento ed un sindaco, nonché governatore: Berlino è infatti una città-stato ed è quindi classificata a tutti gli effetti come un Land, allo stesso modo tra gli altri di Baviera e Sassonia.
La prima notizia è che è andato tutto bene, a differenza di due anni fa: allora, molte persone non erano riuscite a votare a causa della mancanza di schede e cabine elettorali, fatto che aveva portato la Corte costituzionale locale ad imporre una ripetizione del voto. Ma non si tratta dell’unico risultato degno di nota di questa tornata elettorale, anzi. Per la prima volta dal 1999, infatti, i conservatori della CDU hanno ottenuto il primo piazzamento nella capitale tedesca. L’hanno fatto, tra l’altro, arrivando al 28% dei consensi, una quota inaspettata per lo stesso partito, alla vigilia del voto. Molto più indietro le altre forze politiche: socialdemocratici e verdi si sono fermati al 18%, quasi appaiati. La sinistra di die Linke, che a Berlino governa in coalizione con SPD e ambientalisti, ha ottenuto il 12%, mentre la destra di AfD si è fermata poco sotto la doppia cifra. Infine, non ha superato la soglia di sbarramento la FDP, la formazione liberale.
Il risultato non lascia spazio ad interpretazioni: per la CDU si tratta di una vittoria netta, mentre il voto segna per i tre partiti che formano la coalizione semaforo a livello federale —SPD, verdi e liberali — una decisa sconfitta, pur con gradi diversi. Meno chiaro è invece quello che succederà adesso. Pur avendo percentuali importanti, i conservatori non sono infatti in grado di governare da soli: dovrebbero quindi trovare un accordo con i socialdemocratici o con i Verdi, oppure lasciare che l’alleanza di sinistra tra SPD, ambientalisti e Linke continui ad amministrare Berlino. Due opzioni possibili, ma che presentano delle problematiche, come ha spiegato il giornalista Lorenzo Monfregola in un’intervista per l’emittente tedesca WDR. “Per i partiti che amministrano Berlino questa è comunque una sconfitta: governare lo stesso potrebbe essere un rischio per i socialdemocratici e per i verdi, con una così forte opposizione” spiega Monfregola, che osserva però come per la CDU sarà difficile coalizzarsi con una delle altre forze politiche. “I verdi di Berlino sono molto più a sinistra dei verdi di altri stati tedeschi e c’è stata una grossa lotta tra i due partiti in campagna elettorale. E anche la SPD è più a sinistra nella capitale di quanto non lo sia altrove”.
Il voto ha dei riflessi anche sulla scena politica nazionale, in primis rilanciando la posizione della CDU. L’ex partito di Angela Merkel, guidato ora da Friedrich Merz, ha vinto nella capitale soprattutto grazie alle posizioni che ha preso a livello locale. Per il successo è stata determinante in particolare l’attenzione dedicata al tema della sicurezza, che ha dominato il dibattito a Berlino dopo le violenze che hanno preso di mira forze dell’ordine e vigili del fuoco nella sera di Capodanno. Anche le questioni ambientali sono state cruciali e la CDU ha ottenuto i voti dei cittadini più anziani e benestanti, contrari alla pedonalizzazione di parte del centro. Ma se i temi sono specifici della capitale e non portano consenso a livello nazionale, i conservatori possono invece pensare di riproporre l’atteggiamento di questa campagna elettorale: la CDU, infatti, ha vinto seguendo una linea di destra e accusando apertamente la popolazione straniera di Berlino di aver causato i disordini di Capodanno. Visti i risultati ottenuti, non è da escludere che anche a livello federale il partito provi quindi a spostarsi ulteriormente dal centro.
Le elezioni portano delle conseguenze anche per il governo di Olaf Scholz, a causa della cocente sconfitta subita dai Liberali. Nel suo podcast Was Jetzt, il giornale tedesco die Zeit ha analizzato come la FDP sia restata senza rappresentanza in Parlamento per la terza volta nelle ultime cinque elezioni di Land: una traiettoria che mostra come il contributo del partito nel governo nazionale non sia apprezzato dai suoi elettori. É facile dunque prevedere che, per recuperare consensi, i liberali diventeranno più intransigenti nelle dinamiche di governo, cercando di far prevalere la propria linea su quella degli alleati.
Germania: il partito di ultra destra Alternative für Deutschland (AfD) compie 10 anni
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Era il 6 febbraio 2013 quando, a pochi chilometri da Francoforte, un gruppo formato in gran parte da professori, economisti ed esponenti con un passato nella CDU di Angela Merkel lanciava il nuovo partito Alternative für Deutschland, Alternativa per la Germania. Da quel momento sono passati dieci anni, durante i quali la formazione — solitamente abbreviata come AfD — ha senza ombra di dubbio segnato la politica tedesca.
Se si pensa ad AfD, è immediata l’associazione con l’ultra destra: d’altronde, tra i suoi membri abbondano le posizioni razziste, omofobe e addirittura nostalgiche del nazismo, ed una parte del partito è stata addirittura messa sotto osservazione dai servizi segreti, in quanto accusata di estremismo di destra. Non è sempre stato così, però. Al momento della sua formazione, AfD si caratterizzava piuttosto per le sue idee euroscettiche e per l’insofferenza verso gli aiuti forniti ai Paesi europei più deboli e, in quegli anni, in odore di fallimento, come Grecia e Italia. Lo spostamento verso posizioni nazionaliste e identitarie è però iniziato subito ed è stato inarrestabile. Come scrive il collettivo giornalistico Kater, che si occupa di Germania, la radicalizzazione si è vista con il progressivo cambio di guida nella formazione: uno dopo l’altro, i leader iniziali hanno cercato senza successo di contenere l’avanzata dell’ala più estrema del partito, finendo poi per essere sconfitti ed abbandonare AfD.
La crisi migratoria del 2015 e la decisione della Germania di accogliere oltre un milione di richiedenti asilo hanno rappresentato poi un deciso punto di svolta, per lo spostamento a destra del partito ma anche per le sue ambizioni. AfD ha infatti da subito sfruttato la paura e la rabbia di una parte della popolazione che, soprattutto nell’Est del Paese, si era schierata contro l’arrivo dei profughi. Posizionandosi apertamente contro l’immigrazione e mostrandosi vicino a movimenti razzisti come Pegida, il partito ha fatto un balzo nei sondaggi: in breve tempo, è passato dall’essere stabilmente sotto la soglia di sbarramento del 5% a superare la doppia cifra, arrivando ad essere uno dei primi partiti nei Länder orientali.
Da quel momento, Alternative für Deutschland si è caratterizzata per essere un partito delle crisi. In ogni momento di stabilità, il suo gradimento ha infatti subito una flessione, tanto da far pensare alla possibilità che il partito perdesse rilevanza. Ma ogni calo è stato seguito da una crisi, che ha riportato la formazione a riacquistare i punti persi in precedenza: è successo con la pandemia, durante la quale AfD ha intercettato i voti della popolazione negazionista, e con l’invasione russa dell’Ucraina, che ha avvicinato al partito gli elettori meno convinti del sostegno a Kiev. In questi anni, infatti, l’estrema destra ha mostrato più volte la propria vicinanza a Mosca, tanto che negli ultimi giorni sembra che uno dei suoi parlamentari si sia recato segretamente in visita in Bielorussia, come denunciato dal media tedesco CORRECTIV.
A partire da quando AfD è entrata a far parte del Bundestag tedesco, tutti gli altri partiti si sono trovati d’accordo nel rifiutare ogni tipo di collaborazione con la formazione: impossibile avere obiettivi comuni o addirittura creare coalizioni con l’ultra destra. Attorno ad AfD si è quindi creato una sorta di cordone sanitario, non solo a livello federale ma anche nei singoli Länder, che ha impedito al partito di governare. L’accordo ha retto fino ad ora, nonostante non siano mancati i dubbi e le polemiche sull’opportunità di questa scelta, soprattutto da parte del partito di centrodestra della CDU. L’episodio più controverso risale al 2020, quando il conservatore Thomas Kemmerich è stato eletto ministro presidente in Turingia, con l’appoggio decisivo dell’estrema destra: dopo alcune ore di crisi, il partito ha scelto di fare un passo indietro e rinunciare all’alleanza, ma questo non è bastato per evitare le dimissioni della sua leader Annegret Kramp-Karrenbauer.
Molti osservatori, tuttavia, si chiedono ora quanto questa emarginazione potrà ancora durare. AfD ha infatti dimostrato di essere destinato a durare nella scena politica tedesca. Inoltre, con la coalizione tra Socialdemocratici, Verdi e Liberali al governo, la CDU si ritrova ad essere isolata all’opposizione, e quindi naturalmente portata a valutare la possibilità di un’apertura verso la destra. Infine, tra un anno si terranno le elezioni in Turingia, Land in cui AfD potrebbe affermarsi come primo partito: a quel punto, un cambio radicale dello scenario politico non sarebbe improbabile.
Zimbabwe: primo viaggio del Presidente bielorusso Lukashenko nel Paese africano
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Capita raramente ad Alexandr Lukashenko, presidente bielorusso, di essere accolto con tutti gli onori quando si reca all’estero. Gli è successo lunedì 30 gennaio all’aeroporto di Harare, capitale dello Zimbabwe, dove è stato ricevuto con abbracci, balli e corone di fiori. L’uomo forte bielorusso è arrivato nel Paese dell’Africa meridionale per una visita di stato di tre giorni, che vuole promuovere il legame tra i due Paesi e dare vita ad una sempre più solida alleanza.
Il viaggio di Lukashenko arriva quattro anni dopo quello di Emmerson Mnangagwa, presidente dello Zimbabwe, che nel 2019 si era recato a Minsk. Soprattutto, la visita si svolge nel mezzo del conflitto ucraino, ed ha come protagonista uno dei più stretti alleati di Vladimir Putin: il Presidente bielorusso, per l’appunto, che come il suo omologo russo è in questi mesi colpito dalle sanzioni e dal taglio dei rapporti diplomatici, decisi dai Paesi occidentali. Andare in Zimbabwe serve quindi a Lukashenko proprio per reagire a questa situazione e per cercare di evitare un totale isolamento.
L’incontro non è però utile soltanto ai fini del presidente bielorusso, anzi: anche lo stesso Zimbabwe ha un estremo bisogno di alleati. A più riprese, infatti, il Paese è stato colpito dalle sanzioni occidentali. Nel 2001 e nel 2018 queste sono state imposte dagli Stati Uniti, che considerano il Paese una minaccia per la loro politica estera. A partire dal 2002, delle misure sono state prese anche dall’Unione Europea, a causa delle violazioni dei diritti umani e delle violenze da parte del regime prima di Robert Mugabe e ora di Emmerson Mnangagwa.
Le sanzioni hanno spinto lo Zimbabwe a guardare a Est. Nel corso degli ultimi anni il Paese ha rafforzato il suo legame con Mosca, andando a rinsaldare un rapporto che ha origini negli anni Settanta: durante la lotta di liberazione coloniale, conclusasi nel 1980, l’Unione Sovietica rappresentava infatti la maggiore forza a supporto dei movimenti che cercavano la decolonizzazione. Tra questi, il maggiore era lo Zanu-PF guidato da Mugabe, che dopo l’indipendenza del Paese si è imposto come partito unico e che ancora oggi detiene il potere nelle proprie mani. L’amicizia con Mosca ha portato di recente ad un legame anche con la vicina Bielorussia, come dimostra l’incontro di questi giorni.
L’allineamento tra lo Zimbabwe e gli interessi russi è risultato evidente anche a livello di politica internazionale, in particolare nelle votazioni alle Nazioni Unite. Nel 2014 il Paese africano è stato tra i pochi a schierarsi contro la condanna della Russia per l’annessione della Crimea e si è astenuto ultimamente dal voto che condannava l’invasione dell’Ucraina.
Oltre ad avere un significato geopolitico e strategico, la visita si inserisce all’interno di un tentativo di migliorare la cooperazione tra Zimbabwe e Bielorussia nel campo dell’agricoltura. Minsk ha promesso infatti investimenti per circa 66 milioni di dollari, che dovrebbero portare nel paese africano nuovi trattori, mietitrebbia e camion, come riportato da Reuters.
In generale, in entrambi gli stati l’agricoltura svolge un ruolo cruciale. La Bielorussia rappresenta uno dei maggiori produttori mondiali di fertilizzanti, tanto più ora che la Russia — che anche è ai primi posti in questa classifica — è impegnata in ben altre attività. Lo Zimbabwe è stato considerato a lungo il granaio dell’Africa meridionale, prima che iniziasse una forte crisi di produzione che l’ha costretto per anni ad importare parte del proprio fabbisogno dai Paesi vicini e dall’Europa orientale. Il periodo di difficoltà, tuttavia, potrebbe essere alle spalle: la testata The African Report riporta come nel 2022 il Paese abbia fatto registrare un raccolto di quasi 400mila tonnellate di grano, superando le quantità necessarie ad uso interno e potendo perciò esportare il cereale, beneficiando degli alti prezzi presenti a livello mondiale.
Europa: i 60 anni del Trattato dell’Eliseo rilanciano l’alleanza franco-tedesca
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Sono passati sessant’anni dalla firma del Trattato dell’Eliseo, tra la Francia e la Repubblica Federale Tedesca. E l’anniversario non potrebbe cadere in un momento più significativo: da mesi, infatti, le relazioni tra i due stati sono complicate. Alla base delle tensioni ci sono la scarsa alchimia tra Emmanuel Macron e Olaf Scholz, ma anche numerose divergenze. Parigi, in particolare, ha mal sopportato le scelte prese in autonomia dalla Germania riguardanti il costo del gas, ma anche la decisione del cancelliere tedesco di andare a Pechino in visita di stato. La ricorrenza, però, ricorda come l’Europa si regga da sempre sulla forte alleanza tra Berlino e Parigi, e spinge le due parti a venirsi incontro e trovare dei compromessi.
Era il 22 gennaio 1963, quando il cancelliere tedesco Konrad Adenauer e il presidente francese Charles de Gaulle si incontrarono all’Eliseo, per firmare l’omonimo trattato. A meno di vent’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, il patto siglava l’inizio di un’amicizia franco-tedesca. Da un lato, aveva quindi un valore simbolico: i due Paesi promettevano di dare inizio a dei programmi di scambio tra giovani francesi e tedeschi, veniva rafforzata la cooperazione culturale, nascevano gemellaggi tra città. Dall’altro lato, però, il trattato aveva anche un forte valore politico. La Germania lo firmava sapendo di legarsi in questo modo al campo occidentale ed allontanando così ogni dubbio sul proprio collocamento. La Francia, invece, creava un’alleanza forte in Europa, utile per evitare di rimanere isolata: Parigi stava infatti cercando di affermarsi come una forza autonoma ed aveva perciò rapporti tesi con il Regno Unito e gli Stati Uniti.
Da quel momento, Francia e Germania non hanno mai cessato di avere una relazione speciale, pur segnata da numerosi bassi. Quello attuale è uno di questi: in particolare, le incomprensioni tra i due stati sono culminate e si sono mostrate in maniera plateale ad ottobre, quando per la prima volta è stato cancellato il tradizionale incontro annuale tra i governi. Nei mesi successivi, gli attriti tra Berlino e Parigi non sono stati risolti, ma in qualche modo l’incidente diplomatico è servito a sbloccare la situazione. “I membri del governo tedesco sono stati sorpresi dalla pressione pubblica seguita allo ‘slittamento’ dell’incontro – ha spiegato a Deutsche Welle il vicedirettore dell’istituto franco-tedesco, Stefan Seidendorf – Pensavano che la relazione tra i due stati sarebbe continuata automaticamente in maniera positiva, ma non era così”.
Alle celebrazioni per i 60 anni del Trattato, Scholz e Macron sono arrivati perciò più propensi a risolvere le proprie incomprensioni, a partire dal sostegno all’Ucraina. Dall’invasione russa in avanti, infatti, la Germania si è trovata ripetutamente al centro delle critiche per il proprio atteggiamento attendista. In queste settimane, la situazione si è ripetuta: Berlino ha titubato a lungo prima di dare il via libera all’invio a Kiev di carri armati Leopard ed è stata per questo attaccata anche dalla Francia, che si è detta invece pronta a mandare le proprie armi pesanti. Nel suo discorso, però, Macron ha evitato di attaccare Berlino in maniera decisa – come fatto invece dalla Polonia in questi giorni – ed ha preferito invece parlare della Germania come un partner fondamentale “per il rilancio dell’Europa”.
Un tentativo di riconciliazione si è visto anche per quanto riguarda il tema dell’energia. Nell’ultimo periodo si erano infatti approfondite le divergenze tra Germania e Francia, con Parigi che insisteva per una transizione guidata dal nucleare e dall’idrogeno prodotto anche grazie all’atomo, mentre Berlino chiedeva di puntare con forza sulle fonti rinnovabili. Macron, inoltre, aveva spinto per accantonare il progetto del gasdotto MidCat, sostenuto invece dalla Germania. Al suo posto, la Francia si era accordata con Spagna e Portogallo per la creazione di H2 Med, un’infrastruttura in grado di trasportare idrogeno. Nei giorni precedenti all’anniversario, è stato annunciato che il nuovo progetto verrà esteso anche alla Germania, e che Berlino e Parigi collaboreranno anche in altri settori, come la realizzazione di infrastrutture per la ricarica di batterie.
Nigeria: rapimenti e contrabbando di bestiame provocano la diffusione di armi
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In Nigeria, sono sempre più diffuse le razzie di bestiame. Lo riporta in un proprio rapporto, pubblicato a gennaio, la Global initiative against transnational organized crime, un’organizzazione non governativa che si occupa dello studio e del contrasto del crimine internazionale. L’ente sottolinea come il fenomeno sia portato avanti da numerosi gruppi armati e sia diventato negli ultimi anni sempre più intenso e preoccupante, per la stabilità del Paese e dell’intera area del Sahel. Inoltre, lo studio mostra come le razzie siano strettamente collegate alla forte presenza di armi e al rapimento di persone.
I furti di bestiame sono presenti da sempre in Nigeria e, fino ad una decina di anni fa, rappresentavano un fenomeno parzialmente accettato dalla società e con poche implicazioni in termini di stabilità e sicurezza. Le razzie venivano eseguite in situazioni di necessità da persone di etnia Fulani, dedite tradizionalmente alla pastorizia: i piccoli furti servivano ad aumentare la quantità di bestiame, nel caso in cui questa fosse diminuita drasticamente, per garantire la sussistenza degli allevatori.
A partire dal 2011, però, si è assistito ad un cambiamento di questa dinamica, in maniera sempre più marcata. Le razzie sono diventate di dimensioni maggiori, portando al furto di centinaia di animali in ogni occasione. Questo ha portato anche ad un crescente utilizzo della violenza su larga scala, alla distruzione sistematica e alla diffusione di armi sofisticate. Inizialmente, questi episodi sono restati per lo più confinati alle regioni settentrionali della Nigeria; a partire dal 2018, tuttavia, le razzie sono diventate frequenti anche nella parte meridionale del Paese.
Lo studio evidenzia come i grandi furti di bestiame stiano avendo un forte impatto sulla stabilità della Nigeria e sull’equilibrio tra i diversi gruppi che abitano all’interno dello stato. La crescita delle violenze ha infatti portato alla distruzione sistematica degli ambienti in cui vivono le popolazioni vittime delle razzie e delle risorse che queste utilizzano per la loro sussistenza. Con l’aumento di questi episodi, poi, sono cresciute anche le tensioni tra i diversi gruppi presenti nel Paese, in particolare tra quelli dediti all’agricoltura e quelli che invece vivono di pastorizia.
Le razzie di bestiame hanno inoltre degli effetti su tutta la regione circostante, e non soltanto sulla Nigeria. Questa e il Mali rappresentano i due Paesi dove l’allevamento è maggiormente diffuso, ma i gruppi armati che compiono le violenze sono attivi anche nel resto del Sahel e dell’Africa occidentale. Lo studio mostra quindi come i furti abbiano effetti anche sulla stabilità di Burkina Faso, Niger e Costa d’Avorio.
La Global Initiative sottolinea anche come i furti di bestiame siano direttamente connessi ad altri fenomeni legati alla criminalità, come la diffusione di armi e il rapimento di persone. Oltre ai gruppi che compiono le violenze, anche le popolazioni che le subiscono si stanno infatti dotando in maniera sempre maggiore di armi, per poter rispondere alle crescenti minacce. Inoltre, le stesse razzie servono ai gruppi criminali per poter sostenere le proprie attività: le armi, perciò, vengono spesso pagate con gli animali sottratti.
I rapimenti, invece, rappresentano a volte una vera e propria alternativa al contrabbando di bestiame, utilizzati per ottenere un guadagno. “Quando i gruppi criminali si sono accorti che le dimensioni delle mandrie stavano diminuendo rapidamente – spiega nel rapporto una persona residente nella regione di Zamfara, nella Nigeria settentrionale – hanno fatto ricorso ai rapimenti per poi chiedere il riscatto”.
Germania: Lützerath, simbolo della lotta al cambiamento climatico
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Sono iniziate questa settimana le operazioni di sgombero di Lützerath, un paese del Nordrhein-Westfalen, nella Germania occidentale. Nei prossimi mesi, infatti, il villaggio verrà demolito per lasciare posto all’espansione della miniera di lignite Garzweiler II, che oggi arriva fino al limite del centro abitato. Si tratta di una cava a cielo aperto, dove il carbone viene estratto da oltre un secolo: oggi occupa una superficie di 35 chilometri quadrati, ma la sua dimensione supera i 100 se si contano anche le aree utilizzate in passato.
Con l’espansione della miniera, Lützerath diventerebbe l’ennesimo centro abitato ad essere distrutto per lasciare spazio all’estrazione di lignite: negli anni sono stati circa venti i paesi che hanno subito la stessa sorte. La demolizione potrebbe perciò sembrare un fatto poco significativo, anche alla luce del fatto che Lützerath conta zero abitanti: quelli che vivevano qui se ne sono andati man mano che il destino del villaggio è diventato chiaro. Tuttavia, a loro si sono sostituiti alcune centinaia di attivisti ambientali, che hanno occupato il paese e si stanno opponendo all’espansione di Garzweiler II. La loro azione ha fatto sì che, negli ultimi mesi, la storia di Lützerath sia diventata centrale per la politica tedesca e per la lotta al cambiamento climatico da parte della Germania.
Per capire le ragioni di questo interesse, e dell’attenzione mediatica che si è concentrata attorno allo sgombero, bisogna tornare allo scorso autunno. All’inizio di ottobre, infatti, il governo guidato dal socialdemocratico Olaf Scholz ha concluso un accordo con RWE, la compagnia energetica che sfrutta il carbone estratto a Garzweiler II per produrre elettricità. In particolare, la società si è impegnata ad abbandonare l’uso del carbone nel 2030, otto anni prima rispetto a quanto voglia fare la Germania. In cambio, però, il gruppo ha ottenuto la possibilità di prolungare l’attività di due centrali a carbonecarbone − che dovevano chiudere a fine 2022 − e di utilizzare il carbone presente sotto le case di Lützerath, procedendo quindi con la demolizione.
Significativo in questo compromesso è stato il ruolo coperto da Robert Habeck, Ministro dell’economia e del clima, ma anche uno dei maggiori esponenti dei Verdi, il partito ambientalista tedesco. Habeck ha sponsorizzato l’accordo, sottolineando come questo permetterà una più rapida uscita dal carbone. Ma la sua linea non è stata condivisa da tutto il partito: se l’ala più governativa è restata al suo fianco, quella movimentista si è opposta alla decisione e si è immediatamente schierata con gli attivisti in difesa del Paese.
In breve, Lützerath è diventato il simbolo della lotta al cambiamento climatico in Germania. Secondo i movimenti ambientalisti del Paese, infatti, il villaggio rappresenterebbe la soglia da non oltrepassare: se lo si demolisce, questo segnerebbe una sorta di rinuncia tedesca a raggiungere i propri obiettivi per contenere il cambiamento climatico. La vicenda di questo villaggio si inserisce poi in una cornice più ampia. A dispetto di quanto sta accadendo nel resto del mondo, ma anche degli obiettivi che il governo si era posto, nell’ultimo anno la Germania ha aumentato la propria dipendenza dal carbone. Il settimanale tedesco Spiegel ha indicato come la produzione di elettricità prodotta da lignite e carbonfossile sia infatti aumentata del 13% nell’ultima estate, rispetto a quella precedente. Gran parte di questo cambiamento è dovuto alla guerra in Ucraina: Berlino, che aveva finora puntato sul gas russo per la produzione della propria energia, è dovuta correre ai ripari cercando altre fonti.
Tuttavia, le scelte del governo hanno causato non poco scetticismo. “Nonostante la mancanza di gas, per la Germania è possibile anche un rifornimento di energia sicuro e rispettoso del clima” ha sottolineato a Deutsche Welle Claudia Kemfert, dell’Istituto per la ricerca economica. E lo stesso accordo tra l’esecutivo e il gruppo RWE è stato messo in discussione: si sarebbe lasciata mano libera alla compagnia energetica, senza che questo portasse alcun vero vantaggio. “Dopotutto, non è chiaro se dopo il 2030 RWE avrebbe continuato ad utilizzare il carbone a piena capacità − si chiedeva ancora lo Spiegel, a ottobre − o se questo tipo di energia sarebbe stata in ogni caso espulsa, per ragioni economiche”.
Zambia e Zimbabwe: grave crisi energetica a causa della siccità
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Una forte ondata di siccità sta colpendo in questi mesi l’Africa meridionale, con importanti conseguenze per l’accesso all’acqua potabile e per la sicurezza alimentare della popolazione. Forse ancora più devastante è però l’impatto per quanto riguarda la produzione di energia elettrica nella regione. Qui, infatti, Zambia e Zimbabwe si basano da decenni sull’elettricità che viene prodotta grazie ai sistemi di dighe presenti nei due Paesi.
In particolare, è fondamentale l’apporto della Diga di Kariba, che delimita l’omonimo lago artificiale e si trova lungo il corso del fiume Zambesi, al confine tra i due stati. La siccità di questo periodo ha tuttavia portato ad un notevole abbassamento del livello del lago Kariba, rispetto alle medie stagionali. Ed ha così causato una forte diminuzione dell’energia idroelettrica generata: al momento, sia lo Zambia che lo Zimbabwe possono contare su una produzione minore ai 400 megawatt, meno della metà degli oltre mille che l’impianto potrebbe garantire.
La produzione di energia idroelettrica è talmente scarsa che non basta a “soddisfare il carico del sistema e la domanda di energia della popolazione, soprattutto nei periodi di picco mattutino e serale”, ha affermato la compagnia elettrica statale zambiana ZESCO. Questa considerazione ha portato nel Paese alla necessità di introdurre dei lockdown di sei ore nella seconda metà di dicembre e di prolungare le interruzioni di elettricità fino a dodici ore al giorno a partire da gennaio. Ancora più grave la situazione in Zimbabwe, dove i lockdown durano fino a 18 ore.
Come riporta il Washington Post, le misure hanno causato una forte preoccupazione tra i cittadini, che temono di dover limitare le proprie attività domestiche e lavorative. Inoltre, i lunghi lockdown potrebbero rendere impossibile la conservazione del cibo, sia nelle case che nei supermercati, dato che il clima di gennaio nella regione è caratterizzato da temperature ben superiori ai 20 gradi. I problemi riguardano anche le attività economiche, che si vedono costrette a rifornirsi da energia prodotta da altre fonti o ad interrompere le proprie attività. E le conseguenze potrebbero essere significative anche dal punto di vista ambientale: come sottolinea l’IAEA, la mancanza di elettricità potrebbe spingere gli strati più poveri della popolazione al taglio illegale di legname, per cucinare e per riscaldarsi.
La diga di Kariba è stata in gran parte costruita tra il 1955 e il 1959, quando Zambia e Zimbabwe erano ancora colonie britanniche ed erano conosciute come Rhodesia settentrionale e meridionale. Il progetto era voluto e finanziato dalla Banca Mondiale ed era simile a molti altri implementati in Africa e in Asia in quegli anni. L’istituzione internazionale, nel periodo del dopoguerra, era infatti convinta che la costruzione di enormi infrastrutture − per la produzione di elettricità, ma anche per altri scopi − fosse cruciale per lo sviluppo nelle aree più povere del pianeta. In particolare, lo scopo della Banca Mondiale era l’emulazione della Tennessee Valley Authority, un progetto che negli anni Trenta aveva portato negli Stati Uniti alla creazione di un’enorme sistema di produzione di energia elettrica e aveva stimolato la crescita economica di vaste aree del Paese.
Per decenni, le dighe hanno effettivamente portato alla produzione di grandi quantità di energia a basso costo: nel 2014, in Zambia, i sistemi idroelettrici di Kariba e Kafue erano responsabili per l’81% dell’elettricità generata. A partire dall’anno successivo, però, le ondate di siccità hanno iniziato a colpire l’Africa australe con una frequenza sempre maggiore, portando ad una scarsità d’acqua e quindi ad un funzionamento solo parziale dei sistemi idroelettrici. La situazione più grave è stata registrata tra il 2015 e il 2016, ma anche negli anni successivi il lago Kariba non è mai tornato ai livelli di riempimento precedenti alla crisi e nuovi episodi di siccità sono stati registrati nel 2019 e, appunto, tra il 2022 e l’inizio di quest’anno.
L’eccessiva dipendenza dall’energia idroelettrica ha portato lo Zambia alla necessità di diversificare le proprie fonti. Paradossalmente, seguendo il percorso contrario a quello per cui si sta spingendo a livello globale, per diminuire le emissioni e contrastare il cambiamento climatico. Nel 2016 infatti il governo ha deciso di costruire una centrale a carbone a Maamba, in grado di produrre 300 megawatt. Negli ultimi anni, lo Zambia ha anche mostrato la volontà di aumentarne la capacità: l’ampliamento è stato però finora bloccato dalle difficoltà economiche del Paese.
Silicon Valley sbarca in Germania
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investimenti plurimiliardari delle multinazionali high-tech americane e cinesi, avvicinando i centri di produzione al mercato di maggior consumo
A Intel stendiamo un tappeto rosso, e va bene così”. Usa queste parole Falko Grube, il sindaco della città della Germania nord-orientale Magdeburg, per commentare l’arrivo della multinazionale statunitense specializzata nella produzione di semiconduttori. Come annunciato nella primavera di quest’anno, la società investirà circa 17 miliardi di euro per la creazione di due enormi fabbriche di microchip nello stato della Sassonia Anhalt. Secondo le intenzioni di Intel, le operazioni potrebbero cominciare già l’anno prossimo e dovrebbero portare alla creazione di oltre 10mila posti di lavoro.
Quello di Intel non è un caso isolato, nella zona: tra l’area di Magdeburg e il vicino Brandeburgo abbondano i progetti di grandi stabilimenti legati a multinazionali. Il più noto è senza dubbio quello della Gigafactory Tesla, una enorme fabbrica voluta da Elon Musk a Grünheide, alle porte di Berlino. Qui, l’azienda americana leader nel settore della mobilità elettrica ha deciso di creare la sua prima industria su suolo europeo. Un progetto che ha attirato una forte attenzione, a causa della sua grandezza: a pieno regime, la Gigafactory dovrebbe produrre 500mila auto elettriche ogni anno, oltre a milioni di batterie, occupando 12mila lavoratori. Numeri rilevanti, che spiegano l’interesse mostrato dalle istituzioni: all’inaugurazione della fabbrica, avvenuta a fine marzo, erano presenti il Cancelliere Olaf Scholz e il Ministro dell’Economia e Clima Robert Habeck.
Nella vicina Turingia, la società cinese CATL sta ultimando uno stabilimento per la fabbricazione di batterie. Batterie che potrebbero essere riciclate in Brandeburgo, secondo i piani della compagnia tedesca BASF. Sempre in questa regione, al confine con la Polonia, sorgerà la maggiore raffineria di litio a livello europeo, gestita dal gruppo tedesco-canadese Rock Tech. “Il nostro arrivo chiude un buco – spiega il CEO della multinazionale, Markus Brügmann -. Qui hai tutto, dalla produzione di auto elettriche fino a quella di accumulatori, ma mancava la produzione di litio. Strategicamente, quindi, siamo nel posto giusto, circondati da potenziali clienti”.
Gli investimenti hi-tech nell’Est della Germania
L’arrivo di grandi multinazionali e di investimenti plurimiliardari può essere visto come un fenomeno sorprendente, per la natura delle aree interessate. Tesla, Intel e le altre compagnie hanno infatti scelto di utilizzare le proprie risorse per creare stabilimenti di cruciale importanza nelle regioni della Germania orientale, fino al 1990 appartenenti alla DDR. Andando a invertire una tendenza. Questo territorio è stato colpito da una forte deindustrializzazione a partire dalla riunificazione tedesca: molte delle ex industrie di stato sono fallite, non riuscendo a competere nel libero mercato, altre sono state rilevate da gruppi della Germania occidentale o hanno spostato la propria produzione in regioni più ricche e moderne. Le difficoltà dell’industria sono proseguite anche negli anni successivi a causa del persistente divario tra Est e Ovest, nonostante i tentativi di rendere le regioni orientali più economicamente attrattive.
A trent’anni dalla riunificazione, questi territori si sono invece scoperti ideali per l’arrivo delle grandi industrie. In particolare, l’area ha attirato l’attenzione del settore high tech e di quello automobilistico, tanto da far parlare politici ed economisti locali di “Nuova Silicon Valley” o “Auto Valley” per riferirsi al Brandeburgo.
L’arrivo di numerosi investimenti nell’Est della Germania non rappresenta un fenomeno casuale, a partire dal momento storico in cui questo è cominciato. In un’epoca segnata da un alto grado di globalizzazione e dalla presenza di filiere di produzione sempre più lunghe, le grandi aziende sono state sorprese e colpite dalla pandemia di Covid-19. Le restrizioni dovute alla necessità di controllare il virus hanno portato a un rallentamento del commercio globale e alcune regioni hanno addirittura fermato le attività economiche per un certo periodo, portando a un congestionamento e a un ritardo nel rifornimento di materie prime o componenti. Le multinazionali hanno così avvertito la necessità di accorciare le filiere di produzione e, quindi, di tornare a produrre in aree dove hanno una forte fetta di mercato – l’Europa su tutte – nonostante questo comporti costi maggiori. La guerra in Ucraina, quest’anno, non ha fatto altro che rafforzare questa tendenza.
Perché proprio in Germania?
Se gli investimenti si sono concentrati nelle regioni della Germania orientale è perché questo territorio presenta una serie di vantaggi. A partire dalla presenza di spazi: per creare enormi stabilimenti le aziende hanno bisogno di vaste aree libere, più facili da trovare in queste regioni rurali e scarsamente abitate, che non nel resto del Paese. Il territorio, poi, è dotato di una rete moderna ed efficiente di infrastrutture, sia energetiche che legate ai trasporti. Alcune aree, ora vuote, ospitavano centri industriali prima della caduta del Muro e sono quindi attrezzate. Altre hanno beneficiato del Verkehrsprojekte Deutsche Einheit, un programma attraverso cui il governo federale ha investito 38 miliardi di euro, dal 1990 ad oggi, per lo sviluppo di strade e ferrovie nella ex DDR.
In un’area in cui le industrie sono poche, le multinazionali sono anche attratte dalla possibilità di poter attingere tra i migliori talenti dell’Est, per i ruoli di rilievo. Ora queste persone sono spesso costrette a migrare a Ovest, per trovare occupazioni degne della propria formazione. Le multinazionali si pongono come l’alternativa più valida e si trovano quindi anche nella posizione di poter influenzare scuole e università, perché formino i lavoratori di cui loro necessitano e investano nella ricerca in questi campi. Non a caso, l’arrivo di Intel e Tesla è stato accompagnato da accordi con gli enti di istruzione circostanti. Infine, fondamentale per la scelta di investire qui è la volontà politica di attrarre grandi investimenti, perché trainino l’economia della zona: questo si traduce in incentivi pubblici e in un alleggerimento della burocrazia per chi arriva.
Quanto è sostenibile?
Pur festeggiati come successi a tutto tondo, gli investimenti delle multinazionali nella Germania orientale presentano più di un lato oscuro. Per quanto riguarda l’attenzione verso l’ambiente, soprattutto. Un caso emblematico è quello di Tesla: presentatasi come un modello virtuoso di sostenibilità, in quanto impegnata nella produzione di auto elettriche, l’azienda ha in realtà attirato le critiche delle associazioni ambientaliste per quanto fatto nei pressi di Berlino. Per costruire la Gigafactory sono stati rasi al suolo 300 ettari di bosco, senza aspettare le autorizzazioni necessarie; ora Tesla vuole ampliare la propria superficie, chiedendo però il permesso di utilizzare un’area protetta. Anche i progetti di Intel comportano un consumo di suolo non indifferente: la fabbrica di semiconduttori sorgerà in un’area ora coperta da campi coltivati, tra l’altro in una delle zone più fertili della Germania.
Esistono problematiche serie anche per quanto riguarda lo sfruttamento delle risorse idriche. La sola Gigafactory Tesla ha bisogno di 1,4 milioni di metri cubi d’acqua ogni anno, per il funzionamento delle presse, la verniciatura e la produzione di batterie. Si tratta di una quantità enorme, pari al fabbisogno di una città di 40mila abitanti, che contrasta necessariamente con la realtà circostante. La regione in cui la fabbrica sorge è infatti una delle più aride della Germania e i problemi di siccità sono diventati più severi negli ultimi anni, a causa del cambiamento climatico. Da più parti è stato perciò lanciato l’allarme: esiste il rischio che l’acqua scarseggi e che questo porti a un razionamento, obbligando a scegliere tra restrizioni per i cittadini o per il settore industriale. Di certo, già ora, le risorse idriche non bastano per chiunque voglia investire sul territorio. A pochi chilometri da Berlino doveva nascere un data center di Google, progetto che si è interrotto con l’arrivo di Tesla: la disponibilità d’acqua non era sufficiente per entrambi.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
Afghanistan, cosa comporta il divieto della produzione di oppio
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È passato ormai un anno da quando, il 15 agosto 2021, i Talebani sono tornati al potere in Afghanistan. La rapida avanzata nel Paese, seguita al ritiro americano, si era conclusa con la riconquista di Kabul e il reinsediamento nella capitale, vent’anni dopo la prima volta. Da allora, il regime islamico ha fatto parlare di sé soprattutto per le questioni legate ai diritti umani e ai divieti imposti alle donne, da quello di guidare fino a quello di frequentare la scuola. Ma anche il dibattito legato alla produzione di oppio ha tenuto banco. Da quando sono tornati al potere, infatti, i Talebani hanno espresso la propria volontà di fermare la coltivazione dei papaveri da cui si ricava la sostanza stupefacente, riproponendo un divieto già applicato nel 2001. Ad aprile, alle loro parole è seguito un atto concreto: “La coltivazione di papaveri da oppio è stata severamente proibita – recita il decreto introdotto – e chi violerà la legge sarà punito secondo la Shari’a”.
L’attenzione che il mondo rivolge verso la produzione e il commercio di droga in Afghanistan non è per nulla sorprendente, se si guarda alle dimensione del fenomeno. Nel 2021 la coltivazione di papaveri, la raffinazione di oppiacei e il loro commercio hanno formato nel loro complesso un giro d’affari stimato tra 1,8 e 2,7 miliardi di dollari, spiega un rapporto delle Nazioni Unite. Numeri enormi, che rendono il settore degli oppiacei responsabile per circa il 10% del Pil del Paese. Sulla scena internazionale, l’Afghanistan non ha rivali nella produzione di questi stupefacenti: la quantità di oppio ricavata lo scorso anno rappresenta l’85% di quella prodotta a livello globale ed è sufficiente per ottenere 300 tonnellate di eroina pura.
La legge voluta dai Talebani, che proibisce la coltivazione di papaveri, sembra voler cambiare radicalmente la situazione, e l’inflessibilità che caratterizza il gruppo islamico agli occhi dell’Occidente lascia pochi dubbi sul fatto che questo effettivamente succederà. La storia, però, mostra come il rapporto tra i Talebani e l’oppio sia stato tutt’altro che lineare.
La coltivazione di papaveri in Afghanistan
Quando emersero nella regione meridionale del Kandahar, a metà degli anni Novanta, i Talebani si distinguevano per la loro aderenza ai principi islamici ed erano quindi intenzionati a proibire produzione, uso e commercio di oppio. Ben presto, però, la convinzione lasciò spazio a considerazioni più pratiche: contrastare la coltivazione di papaveri era un problema, non tanto per il guadagno garantito dal traffico di stupefacenti – il movimento era finanziato da Pakistan e Arabia Saudita, più che dall’oppio – quanto per l’importanza che l’economia illegale ricopriva per i cittadini afghani. La coltivazione di papaveri, infatti, era e rimane tutt’ora una delle poche possibilità per una parte consistente della popolazione rurale, povera e situata in zone aride, dove le altre colture crescono con più difficoltà e rendono meno. Vista la necessità di mantenere il supporto degli afghani, i talebani sostituirono il divieto con uno stretto controllo sull’economia dell’oppio.
Solo nel 2001, quando erano al potere, i Talebani decisero di imporre uno stop alla produzione dello stupefacente. La scelta era probabilmente motivata dalla volontà di ottenere un supporto internazionale: il Paese era additato come uno dei maggiori responsabili per il traffico di droga a livello globale e i Talebani erano convinti che un cambio di rotta avrebbe portato a un riconoscimento politico. La campagna fu un successo, dal punto di vista della lotta ai narcotici: in un solo anno, la disponibilità di eroina nel mondo calò di tre quarti. Ma dal punto di vista umanitario, gli effetti nel Paese furono disastrosi: private della loro unica fonte di guadagno, le popolazioni di intere regioni entrarono in una profonda crisi. Il sostegno al regime svanì rapidamente e gli effetti sui talebani furono limitati soltanto perché, alla fine del 2001, l’intervento americano li privò del potere.
La reintroduzione del divieto
Oggi, a vent’anni di distanza, la reintroduzione del divieto è motivata ancora una volta dalla necessità di trovare degli alleati. La motivazione religiosa che in molti richiamano è infatti puramente strumentale, come hanno mostrato le politiche degli anni Novanta. I Talebani sperano che un successo nel contrasto all’oppio possa portare i Governi occidentali a chiudere un occhio sulla mancanza dei diritti, soprattutto per le donne. La misura aiuterebbe anche a rompere l’isolamento regionale. I Paesi che confinano con l’Afghanistan – su tutti Iran, Uzbekistan e Tajikistan – sono infatti fortemente colpiti dal commercio di eroina sul proprio territorio e vedono di buon occhio una sua interruzione.
Allo stesso tempo, il regime avrebbe ogni interesse a non rendere effettivo il divieto, lasciandolo soltanto sulla carta. La distruzione delle coltivazioni, se replicata in maniera sistematica, avrebbe effetti maggiori che nel 2001. L’economia del Paese è in condizioni peggiori, colpita dalla guerra, dalla pandemia e dalla siccità, e già ora nove afghani su dieci vivono sotto la soglia di povertà. I Talebani, poi, trovano buona parte del loro sostegno proprio tra chi produce oppio: sono stati loro spesso a offrire protezione ai contadini e a garantire un proseguimento dei traffici, durante gli anni di presenza statunitense.
Mentre si attende per capire cosa accadrà nel prossimo periodo, sembra certo che il primo raccolto post decreto – previsto per questi mesi – non sarà impedito: l’hanno fatto intendere i Talebani, visto che il divieto è arrivato dopo la semina.
Un futuro (in)sostenibile per la Germania
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Con il nuovo Governo semaforo, la Germania sembrava aver definito il proprio percorso verso un futuro più sostenibile, dal punto di vista energetico. Spinto dalla sua componente Verde, l’esecutivo aveva fissato delle scadenze precise, ancor più significative perché arrivate dopo anni di tentennamenti. L’uscita dal carbone era stata prevista per il 2030, la neutralità carbonica per il 2045, cinque anni prima rispetto a quanto previsto dalla Cop26 di Glasgow.
L’intero percorso verso la decarbonizzazione si sarebbe basato sullo sfruttamento del gas, e d’altronde non poteva essere altrimenti. La Germania ha infatti bisogno di sostituire carbon fossile e lignite, fonti estremamente inquinanti da cui continua a ricavare una quota cospicua della propria energia. Allo stesso tempo, alla fine di quest’anno Berlino completerà il lungo percorso di rinuncia al nucleare iniziato oltre dieci anni fa, all’indomani della catastrofe di Fukushima. Dei cambiamenti troppo significativi per poter essere affrontati contando unicamente sulle fonti rinnovabili.
Sul gas, poi, la Germania stava puntando già da anni. Su quello russo, in particolare, come avevano mostrato le scelte dei Governi Schröder e Merkel. Prima c’era stata la costruzione del gasdotto Nord Stream, nel 2011, per portare il gas in Germania attraverso il mar Baltico ed evitare il passaggio attraverso gli stati dell’Europa orientale. In seguito era stato costruito il Nord Stream 2, nonostante le crescenti preoccupazioni sull’eccessiva dipendenza tedesca dalla Russia, a cui la Germania aveva replicato parlando di una partnership puramente commerciale.
La dipendenza dal gas russo
La scelta di affidarsi alle importazioni russe era ormai chiara ed era stata sottolineata anche all’inizio di quest’anno, con l’inserimento del gas tra le fonti potenzialmente green, nella tassonomia europea. La decisione, presa dalle istituzioni comunitarie, non faceva altro che avallare le richieste e gli interessi di Berlino.
La strada sembrava tracciata, quindi. Poi però è scoppiata la guerra in Ucraina e ogni certezza sulla politica energetica tedesca è svanita. Berlino si è svegliata con la chiusura di Nord Stream 2, le riserve di gas vuote e la possibilità che le sanzioni la obblighino a rinunciare alle importazioni di idrocarburi da Mosca. E ha dovuto rimettere in discussione il proprio futuro.
Più di ogni altra cosa, Berlino ha temuto di dover rinunciare sin da subito al gas russo, a causa di un embargo deciso a livello europeo o di una rottura voluta da Mosca. La Germania produce il 15% della propria energia attraverso il gas, basandosi quasi totalmente sulle importazioni. E la gran parte di questo viene dalla Russia: il 55% secondo le stime di AG Energiebilanzen, un’associazione che monitora la politica energetica tedesca, mentre altri enti parlano di percentuali ancora più elevate.
Per ora, quella dell’embargo è soltanto un’ipotesi, peraltro smentita più volte dal Governo Scholz. A Berlino però la stanno prendendo sul serio, consci di quanto la dipendenza dalla Russia sia stata sottovalutata fino a oggi e abbia portato alla situazione attuale. Dal momento stesso dell’invasione è cominciata quindi la pubblicazione di studi e analisi, con lo scopo di capire come il Paese potrebbe reagire ad uno stop delle importazioni. Ed ha preso piede uno scontro, tra chi è ottimista e crede che l’embargo non avrebbe conseguenze poi così drammatiche, come il Governo, e chi invece sostiene che l’economia tedesca entrerebbe in una fase di prolungata recessione.
Ad analizzare la situazione immediatamente successiva all’inizio della guerra ci ha pensato uno studio del gruppo di ricerca Leopoldina, uno dei più completi. L’indipendenza dal gas russo, sostiene, sarebbe possibile: l’economia tedesca sarebbe in grado di sopportare un embargo e di reagire. Ad alcune condizioni, però. L’emergenza renderebbe necessario risparmiare più gas possibile e obbligherebbe ad utilizzare altre fonti, in primis il carbone. La Germania dovrebbe poi muoversi in prima persona per assicurarsi la fornitura di nuovo gas e per regolamentare in maniera più stringente il mercato, ora estremamente liberalizzato. Infine, il prossimo inverno non dovrebbe essere eccessivamente freddo, o Berlino dovrebbe optare per il razionamento della poca energia disponibile.
L’energia green non basterà
Per quanto mostri un certo ottimismo, lo studio è chiaro su un punto: la transizione verso l’indipendenza dal gas russo sarà dannosa per l’ambiente. L’obiettivo di un futuro green non può essere abbandonato dal Governo tedesco – tantomeno dai Verdi che sono una parte rilevante della maggioranza – e resta il traguardo da raggiungere sul lungo periodo. Lo testimonia l’impegno preso dall’esecutivo di utilizzare soltanto fonti rinnovabili per la produzione di energia dal 2035. Al momento, tuttavia, c’è la consapevolezza che l’energia verde non possa bastare.
Il gruppo di ricerca sostiene che Berlino dovrà quindi affidarsi al carbone per la produzione di elettricità. Per mancanza di alternative, innanzitutto: le rinnovabili sono insufficienti e la disponibilità di gas è al momento limitata, a livello globale. La Germania sta inoltre rinunciando al nucleare e, per quanto l’opzione sia stata ripetutamente messa sul tavolo, ritardare il processo non è possibile: le procedure di spegnimento delle centrali sono già iniziate e si concluderanno in ogni caso alla fine dell’anno, i reattori potrebbero tornare a produrre energia non prima del 2024. Il carbone è invece presente sul territorio tedesco, il Paese potrebbe quindi sfruttarlo senza il bisogno di nuovi accordi a livello internazionale. Ora, tuttavia, anche questo viene in buona parte importato, la metà viene dalla Russia: aumentare la produzione interna significherebbe accettarne le conseguenze ambientali.
Accanto al carbone, la Germania punterà in maniera decisa sul gas naturale liquefatto, il cosiddetto Gnl, importandolo da Qatar e Stati Uniti. Il Governo si sta già muovendo per la costruzione dei gasdotti necessari, mentre per lo sbarco e la rigassificazione si affiderà in un primo periodo ai Floating Storage, delle strutture galleggianti e provvisorie. Anche nel caso del Gnl, la scelta non è priva di conseguenze per il clima: il gas liquefatto ha emissioni di CO2 due volte e mezzo superiori rispetto a quello russo, deve essere trasportato via nave attraverso lunghe distanze e l’intero processo provoca fuoriuscite considerevoli di metano.
Come sottolineato dallo studio della Leopoldina, il Governo tedesco non si può limitare a cercare fonti alternative di energia e deve invece cambiare il proprio ruolo, ritrovando una centralità e una posizione di controllo. Tale necessità è stata resa evidente a fine febbraio, quando la Germania si è ritrovata a dover affrontare la crisi con i depositi di gas pressoché vuoti, e quindi senza margine d’azione. Fino ad ora, infatti, erano le compagnie private a poter decidere il livello di riempimento delle riserve nazionali: un terzo di queste sono però gestite da Astora, una controllata di Gazprom, accusata di aver mantenuto volutamente i depositi vuoti per alzare il prezzo del gas e per mettere pressione politica sulla Germania.
Il Governo di Scholz si è mosso con decisione, anche se a tempo scaduto. Ha fatto approvare una nuova legge che fissa il livello minimo delle riserve di gas: a inizio inverno queste devono essere piene almeno al 90%, in modo da garantire la sicurezza energetica del Paese. L’esecutivo ha anche preso il controllo di Gazprom Germania, con una mossa distante dall’abituale prudenza tedesca. La società, legata al colosso energetico russo, è stata messa sotto l’amministrazione fiduciaria della Bundesnetzagentur, l’agenzia federale che si occupa di energia, per assicurare un corretto approvvigionamento di energia al Paese, come ha spiegato il Ministro dell’Economia Robert Habeck.
Sono mosse necessarie, quelle della Germania, ma non è detto che siano sufficienti. E così, nel frattempo, Berlino si sta preparando anche all’eventualità peggiore, quella che il prossimo inverno l’energia non basti. Nel caso, sarebbe l’industria ad essere sacrificata, con possibili chiusure di alcuni settori o con la concentrazione della produzione in pochi giorni della settimana. Uno scenario che tutti, governo e imprese, vogliono evitare.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
Svezia, approvata la costruzione di un deposito definitivo per i rifiuti nucleari
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Dopo anni di discussioni, giovedì 27 gennaio la Svezia ha approvato il progetto per la costruzione di un deposito definitivo per i rifiuti nucleari. Lo ha annunciato la Ministra dell’Ambiente Annika Strandhäll, senza nascondere la propria soddisfazione per la risoluzione di “una delle questioni che il Governo ha analizzato con più attenzione” nella storia svedese.
Le scorie radioattive verranno immagazzinate nei pressi di Forsmark, luogo in cui è attiva una delle tre centrali nucleari del Paese scandinavo. Saranno disposte in gallerie, a 500 metri di profondità, all’interno di contenitori di rame. L’intero progetto è pensato per fare sì che i rifiuti possano stare in sicurezza per almeno 100mila anni, tempo in cui la loro radioattività decadrebbe, fino ad arrivare a livelli talmente bassi da non essere più pericolosi. La contaminazione dell’ambiente circostante sarà impedita a vari livelli. Il rame è uno dei metalli più resistenti della terra e non dovrebbe incappare in una rapida corrosione. Le gallerie, poi, saranno situate sotto uno strato di roccia, che dovrebbe a sua volta isolare le sostanze nucleari, e verranno infine riempite di argilla, materiale che dovrebbe al tempo stesso attutire i movimenti del sottosuolo e impedire che l’acqua possa arrivare a contatto con i contenitori.
Entro il 2025 la Svezia potrà quindi contare sul proprio deposito geologico, come è chiamato questo tipo di struttura. E sarà uno dei pochi stati a poterlo fare: fino ad ora, l’unico sito di stoccaggio in funzione si trova negli Stati Uniti, mentre è stato approvato e sta venendo ultimato quello finlandese. Avere un deposito geologico è estremamente importante, per tutti gli stati che contano sull’energia nucleare o hanno avuto centrali in funzione. Si tratta infatti dell’unico luogo in cui è possibile lasciare in sicurezza le scorie altamente radioattive, prodotte con l’energia atomica ma anche con la ricerca e con la medicina.
I rifiuti nucleari
Al momento, quasi ovunque nel mondo, queste sono immagazzinate nei pressi delle centrali, ma si tratta di una condizione che non è sicura a lungo termine. Al tempo stesso, però, il processo che va seguito per costruire un deposito geologico è lungo e costoso: sono necessari anni di ricerca, per riuscire ad individuare un luogo che possa garantire una stabilità geologica per un tempo che oggi sembra interminabile, considerando tutti i possibili scenari futuri. Il luogo prescelto deve essere lontano dalle zone sismiche e deve soprattutto presentare un rischio minimo di contaminazione delle falde acquifere: per questo ad essere privilegiati sono i siti isolati da uno strato di argilla, granito o salgemma, materiali pressoché impermeabili.
La scelta, poi, è complessa dal punto di vista politico. La pericolosità dei rifiuti nucleari è nota alla popolazione e questo fa sì che nessuno sia disposto ad accettare la presenza di un deposito nei dintorni del luogo in cui vive. In alcuni casi, le proteste della popolazione sono state talmente forti che – anche grazie ad una serie di argomenti a loro favore – sono riuscite a mettere in discussione decisioni già prese. Emblematico è il caso di Gorleben, in Germania. Nel 1977 l’ex miniera di sale che si trovava in questo paesino è stata individuata come il luogo adatto a uno stoccaggio definitivo delle scorie.
Da subito, però, la decisione è stata contestata dai cittadini e dai gruppi ambientalisti. Si accusava il Governo dell’allora Germania ovest di aver fatto un scelta puramente politica: Gorleben si trovava in un’area scarsamente popolata ed economicamente depressa, per di più al confine con la DDR, ed era dunque facile mettere i suoi interessi in secondo piano. Oltre a questo, gli attivisti sostenevano che gli standard di sicurezza non fossero sufficientemente elevati. Nel 2020, è stata data loro ragione: il Governo è tornato sui propri passi ed ha pubblicato una nuova lista dei luoghi possibili, senza includere Gorleben. Qualcosa di simile è successo anche negli Stati Uniti, dove l’amministrazione Obama ha revocato la decisione di costruire un deposito a Yucca Mountain, nel Nevada: il cambiamento climatico rendeva infatti il sito non sufficientemente sicuro.
A che punto è l’Unione europea?
In questo panorama, l’Unione europea non si contraddistingue per una posizione all’avanguardia: finora si è limitata ad affrontare la questione con una direttiva del 2011, che ha imposto ai singoli Paesi di gestire autonomamente e sul proprio territorio i rifiuti prodotti. Gli Stati membri dal canto loro, tolti Svezia e Finlandia, sono per lo più in una fase di stallo. Germania, Francia e altri stanno portando avanti le ricerche, ma sono ancora lontani dall’approvazione definitiva di un sito; anche se questo accadesse rapidamente, poi, la costruzione richiederebbe ancora oltre dieci anni. Molti stati invece non stanno proprio agendo: sono quelli di piccole dimensioni o con una ridotta attività nucleare, consapevoli che la costruzione di un proprio deposito geologico comporterebbe dei costi troppo elevati, rispetto alla minima quantità di rifiuti che vi verrebbe immagazzinata.
Del secondo gruppo fa parte anche l’Italia. Circa un anno fa sono state rese note le possibili località dove verrà costruito il deposito nazionale: questo sarà però superficiale e adatto ai rifiuti a bassa e media radioattività, per ora sparsi in una ventina di depositi provvisori. Resterebbero quindi escluse le scorie altamente radioattive, quelle maggiormente pericolose e con il tempo di decadimento più lungo, per le quali non esiste un vero progetto. Per smaltire questi rifiuti, che misurano 15mila metri cubi, è probabile che l’Italia cerchi di arrivare alla creazione di un deposito geologico comunitario, insieme ad altri Stati europei con quantità ridotte di scorie. La possibilità esiste ed è prevista dalla stessa direttiva del 2011, come eccezione alla regola: in ogni caso, sarebbe necessario trovare un accordo e convincere un Paese a farsi carico anche dei rifiuti altrui.